facile dire accoglienza
di Ferruccio Sansa
in “il Fatto Quotidiano” del 10 settembre 2015
“Sono entusiasta, come quando sono diventato sacerdote. Non sarà tanto la Chiesa che salverà i rifugiati, ma loro che le ridaranno vita”.
Da una parte c’è padre Roberto, 56 anni e trenta di sacerdozio, che vive in una chiesa sperduta dell ’Appennino dove Abruzzo, Molise e Lazio si incontrano. Nella sua voce ritrovi uno slancio che non sentivi da anni. Dall’altra c’è un anziano parroco del palermitano che con diplomazia manifesta molti dubbi: “Scrive il mio nome? ”, esordisce. No, non lo scriviamo. “Allora vi dico: io accoglierei tutti i rifugiati del mondo. Ma sono a malapena autosufficiente, come può aiutarli un prete che non sta in piedi da solo? Tantissimi sacerdoti ormai più che assistere hanno bisogno di una badante. Scompariremo”. Dopo l’appello di papa Francesco le diocesi in tutta Italia cominciano a mobilitarsi. Molte, a dire la verità, erano già attive da prima che la politica si accorgesse dell’emergenza rifugiati. Ma adesso c’è l’invito del Papa e nella Chiesa –tra curie, parrocchie e Caritas – l’attività si è fatta quasi febbrile. Basta visitare gli uffici della Caritas sparsi per l’Italia per rendersene conto: un viavai continuo, il telefono che squilla, scatoloni che entrano ed escono. Ma a colpire è l’atmosfera di confusione. E spesso di entusiasmo. COME A MILANO, dove i profughi già accolti dalla Caritas sono oltre 781, cui presto se ne aggiungeranno altri 130. Siamo quasi a mille per 1.100 parrocchie. “Nulla deve essere lasciato all’improvvisazione, non è che un parroco vede due profughi e se li porta in canonica”, sorridono in Curia. E spiegano: “Il coordinamento è affidato alla Caritas che ha stipulato un accordo con la prefettura. Il cardinale Angelo Scola ha incontrato i sacerdoti della diocesi, ha chiesto a tutti di individuare immobili che possano ospitare persone”. È solo il primo passo: “Poi i rifugiati saranno accolti, ma non saranno soltanto i parroci a doversene prendere cura. La Caritas si occuperà dell’assistenza, del coordinamento”. Non bastano le buone intenzioni, bisogna prendersi cura di persone, spesso di bambini. Come racconta don Ettore Dubini di Erba, nei locali della sua parrocchia vive con una famiglia di nigeriani (i genitori e due bambini di sei mesi e tre anni): “L’arrivo è stato drammatico. Questa povera gente aveva fatto il viaggio con il barcone, poi è stata sballottata per tutta Italia. Quando sono arrivati la bambina di 6 mesi era senza nemmeno più i vestiti. Nuda”. Un cambiamento mica da poco nella vita di un parroco: “Non basta dare un tetto e un piatto caldo. Bisogna fornire assistenza sanitaria, bisogna imparare a comunicare e a vivere insieme”. MA GIÀ STA NASCENDO una rete in parrocchia: c’è un corso di italiano, ci sono gli incontri e quei due piccoli che fanno di tutto per entrare in contatto con i bambini della loro età. “E già diverse famiglie di parrocchiani si sono offerte per ospitare dei rifugiati”, racconta don Ettore. Non è il solo. A Genova, Nicolò Anselmi, uno dei pochissimi vescovi-parroci italiani, ha aperto la chiesa delle Vigne, in pieno centro storico. E poi c’è il seminario genovese, dove fino a pochi decenni fa studiavano decine di aspiranti sacerdoti. Oggi le nuove vocazioni si contano sulle dita di una mano, ma nelle stanze, nei corridoi degli antichi palazzi sono arrivati 50 rifugiati. Altrove è più difficile, la disperazione si aggiunge alla disperazione. Come a Potenza: “La nostra sede è in una baracca”, raccontano dalla Caritas, “Il vescovo si sta organizzando per accogliere l’invito del Papa. Ma è difficile: bisogna aiutare senza urtare i poveri che vivono qui. C’è gente che vive in case di lamiera dal terremoto del 1980”. Sarà dura, ma, come ripete padre Roberto, “la Chiesa si muove, come non succedeva da anni”. Conclude: “Io vivo da solo, ci sono sere che darei chissà cosa per poter parlare, per sentire un rumore nella mia casa. Ora finalmente potrò avere compagnia”. E ieri il Papa aveva ribadito che
“le chiese, le parrocchie, le istituzioni con le porte chiuse non si devono chiamare chiese, si devono chiamare musei”