macché ‘buonismo’! l’elogio dei buoni sentimenti
«Non dobbiamo aver timore di manifestare buoni sentimenti»: se lo dice un Papa, siamo nell’ordinario evangelico. Ma se lo dice un presidente della Repubblica, significa che i “buoni sentimenti” sono un argomento politico di rilevanza come minimo insolita. Perché di solidarietà, tolleranza, socialità si è spesso sentito dire, lungo i decenni, nei discorsi di fine anno dal Quirinale; ma esplicitamente di “bontà” come bene prezioso per la comunità, e non tassabile, mai si era sentito. Perché la “bontà” meriti una così solenne tutela da parte del primo cittadino del Paese, è cosa piuttosto nota. C’è una causa contingente, quasi fresca di cronaca. Nella manovra bruscamente approvata nei giorni scorsi alle Camere una manina governativa aveva introdotto aggravi fiscali a carico di Terzo Settore e non-profit. Insomma, del volontariato. Difficile determinare se quella manina fosse più gialla o più verde, ovvero se si sia trattato di uno dei tanti svarioni imputabili alla superficialità grillina o uno dei tanti sgarbi attribuibili al brutalismo salviniano. Svarione o sgarbo che fosse, la frase più breve ed esplicita di tutto il discorso di Mattarella (“vanno evitate tasse sulla bontà”) mette di fatto la parola fine alle furiose polemiche dei giorni scorsi. Un provvedimento del genere non può passare, e il governo se ne era reso conto già da prima che il presidente parlasse agli italiani — buoni e cattivi — prima del cenone di San Silvestro. Ma c’è una ragione non contingente, diciamo così “d’epoca”, a dare ancora più peso alle parole di Mattarella. “Bontà” è diventata, negli ultimi anni, una parola impronunciabile. Non che fosse, anche in passato, semplice da usare: in età adulta solo uno sciocco o un vanitoso potrebbe dire “io sono buono” senza imbarazzo. È la vita a insegnarci quanto complicata sia la nostra tessitura sentimentale e psichica. C’è una immodestia implicita, nel vantarsi virtuosi, e dunque si preferisce non farlo. Ma da un certo punto in poi (da quando, diciamo, il neologismo ” buonista”, carico di disprezzo, si è sovrapposto tout court a “buono”) la bontà ha rischiato di diventare qualcosa di molto peggio di una vanteria fuori luogo. È diventata un genere di lusso, come il caviale e i sigari cubani. Un vizio per chi non ha cose più urgenti a cui pensare, e dunque poteva ben crogiolarsi nel piacere di “sentirsi buono”. Questo pregiudizio infetto, e infettante, è lentamente dilagato. Fino allo scherno intollerabile nei confronti delle giovani volontarie in Africa “che si fanno rapire”; alle accuse di traffici speculativi, o di malapolitica, contro le Ong che soccorrono i migranti naufraghi; con una complessiva attribuzione del solidarismo a gruppi di perdigiorno e di ipocriti, di anime belle o di furbacchioni. Fino al supremo scandalo “buonista”, che sarebbe quello di accudire “gli stranieri”, per puro vezzo politico, piuttosto che prendersi cura “degli italiani”: come se Terzo Settore e non-profit non svolgessero prima di tutto (non anche; prima di tutto!) un potente, capillare servizio di assistenza e di soccorso ai poveri, ai diseredati e ai soli di casa nostra. Il presidente ci ricorda ciò che già sapevamo: che la bontà, per quanto accidentato sia il suo percorso, non solo esiste. Ma è uno dei cardini della “comunità di vita” alla quale tutti apparteniamo. La bontà “la rende migliore”, questa comunità. Così come — è implicito — la rendono peggiore “l’astio, l’insulto, l’intolleranza, che creano ostilità e timore”. E insicurezza, ha aggiunto il presidente. L’insicurezza come prodotto non del “buonismo”, così come predica la narrazione di destra al governo del Paese. Ma del suo preciso contrario: l’insicurezza come prodotto della mancanza di “buoni sentimenti”. È probabile che il presidente della Repubblica sappia che il suo è stato un discorso anticonformista: perché niente è più conformista, nell’Italia odierna, dell’astio. Mattarella è forte di una popolarità si spera non solamente istintiva, ovvero non legata solamente all’istituzione che incarna, la sola che in questo momento garantisce il bisogno di sentirsi comunità in una società profondamente divisa. Si spera, insomma, che le sue parole in difesa dei “buoni sentimenti” siano intese anche nel loro significato politico, che è profondo e che è preciso. Non come se sortissero da un film di Frank
Capra (si sa, durante le Feste…), ma dal Palazzo più importante, e meno vacillante, di questo Paese.
Il cardine della bontà
di Michele Serra
in “la Repubblica” del 2 gennaio 2019