«Macché integrato, io sono lucchese»
si racconta, Miguel, in questo dialogo con la giornalista del Tirreno, racconta la sua origine a Lucca, la bellezza e la difficoltà di dovere da sempre alternare una vita in appartamento a una vita al campo dei sinti in momenti di grande povertànon sembra molto convinto nel rispondere, a precisa domanda, sulla sua ‘integrazione’: sembra suonargli un po’ equivoca questa parola e deludendo l’intervistatrice che vorrebbe fargli riconoscere come positiva e apprezzabile questa condizione, fa un deciso passo indietro con un sonoro ‘macchéè contento , però, della casa dove si trova ora, ma è contento soprattutto del percorso di ‘attivista’ che sta facendo e vorrebbe in seguito coinvolgersi in un impegno attivo di superamento delle difficoltà che sta vivendo il suo popolo a Lucca:
La storia di Miguel, storia di un’integrazione riuscita. Anche se, in realtà, alla parola “integrazione”, Miguel cambia sguardo e precisa. «Ma integrazione di che? Io sono italiano, sono lucchese. Tifo Juve, tifo l’Italia ai Mondiali, mi emoziono a sentire l’inno di Mameli, lavoro, ho amici, ho una mia vita». Fiorello Miguel Labbiati, all’anagrafe Fiorello, al campo, tra i parenti e tra gli amici conosciuti fuori la scuola, Miguel, che era il nome preferito dalla mamma, proprio come Miguel Bosè. Per gli amici stretti, invece, solo Vè. Trentun’anni, una figlia di dieci, fidanzato con una ragazza “gagi”. Cioè non nomade, il modo con cui i sinti identificano coloro che non sono rom e che non sono sinti. Miguel è nato a Fucecchio, da madre di Empoli e papà di Castelnuovo. Annovera dentro e prima di sé ben quattro discendenze sinte (tedesca, lombarda, piemontese e francese) e una rom, da parte di nonno. È cresciuto tra il campo di Nave, quello di Sant’Anna in via delle Tagliate e la casa della nonna, a San Vito. Da un po’ vive in una casa sua e da quattro mesi convive con Martina. «La vita in casa mi piace molto – racconta – non ho avvertito il distacco dal campo, perché fin da piccolo sono stato in un appartamento; a periodi vivevo con mia nonna che abitava a San Vito nelle case popolari. La mia casa è il mio mondo e non la cambierei con qualcos’altro, anche se a volte ripenso alla campina (la roulotte). Non ho ricordi negativi della vita con mia mamma al campo, anche quando non c’era la luce e si stava con le candele per giorni. La casa è un’altra cosa: ho il giardino, un pezzo di terra dove posso fare l’orto, ho i miei spazi per dipingere e realizzare sculture. «Da piccolo mi sono spostato tante volte – continua – Questo perché cambiavamo città o più semplicemente quartiere. No, le superiori non le ho fatte, ma a settembre vorrei iscrivermi al serale per prendere il diploma. Lavoro da quando ho 16 anni, facendo ogni tipo di attività: ho iniziato nel calzaturiero e guadagnavo 300mila lire al mese. Poi sono entrato nell’edilizia, all’inizio mi facevano fare le pulizie. Dopodiché ho cominciato a fare lo stucchino, nel frattempo sono diventato papà. Per un periodo ho fatto ogni tipo di lavoro, poi è arrivata la crisi, l’edilizia è morta e sono entrato anche io in crisi. «Preso dalla disperazione andai al Culto Evangelico a Pisa dove c’era un incontro per parlare della condizione dei rom e dei sinti. Un signore diceva come non ci fossero rom e sinti nelle giunte comunali e come i sinti non fossero interessati alla politica. Pensai: ma che dice questo? Ho fatto manifestazioni nella mia città, mi sono sempre interessato di politica, ma come italiano, non come rom. Ci parlai, poi mi richiamò dopo una settimana e mi propose la possibilità di partecipare a uno scambio culturale in Romania con altri ragazzi di diversi paesi europei sulla questione rom e sinti. E lì è cambiato tutto: in dieci giorni mi è montata una voglia incredibile di raccontare il mio popolo e di lavorare per i sinti e per i rom». Così a 29 anni ha preso parte all’Avs (anno di volontariato sociale) in Caritas, ha seguito diversi progetti, soprattutto con i bimbi disabili e fino a entrare in Caritas con un contratto. Ora segue il corso di formazione per attivisti rom e sinti, organizzato e promosso dall’Associazione 21 luglio che ha sede a Roma. «Vado nelle scuole, parlo dei rom e dei sinti. Per me è un orgoglio la mia appartenenza, lo dico sempre a tutti. Ho sempre lavorato e non mi sono mai guadagnato da vivere rubando. Quando parlo nelle scuole mi chiedono perché gli zingari rubano. Non mi dà fastidio, perché è vero che esiste l’illegalità. Anche nella mia famiglia. Ed è vero che ci sono persone in carcere o agli arresti domiciliari per furto o per spaccio. Per me non esiste il male o il bene di per sé, esistono le opportunità, le necessità, le condizioni di vita e le amicizie. Una persona non è che ruba in quanto rom. Io sono un sinto che ha voglia di fare e sono fortunato. Secondo me l’istruzione è tutto, con le scuole speciali per rom e sinti hanno alimentato l’emarginazione e creato generazioni di analfabeti e delinquenti». E per il futuro? «Finito il corso per attivista – conclude – vorrei occuparmi della situazione di Lucca. Mi sto accorgendo che le realtà fuori da Lucca sono tremende e molto peggiori. Qua la situazione è abbastanza positiva, ci sono tanti ragazzi che conducono una vita normale e che si sono inseriti nella città, anche se per alcune cose siamo indietro. «Questo, secondo me, è un momento maturo per creare una situazione definitiva per le famiglie che vivono al campo, partendo da un percorso condiviso e partecipato con le famiglie stesse. È importante farli sentire importanti. Mi piacerebbe che la mia città diventasse un’avanguardia e un esempio per tutta Italia, ne ha le carte. Basta che creda nei suoi giovani sinti e rom».
Nadia Davini – il Tirreno