“Non si uccide in nome di Dio”
di Pierangelo Sapegno
in “La Stampa” del 1° agosto 2016
Nella foto di gruppo in un interno che ci ha lasciato questa domenica di Sant’Ignazio da Loyola c’erano 23 mila musulmani dentro le Chiese d’Italia a pregare assieme ai cristiani. Ma fuori probabilmente ce n’erano molti di più che non erano troppo convinti, ad ascoltare almeno i silenzi e le accuse ai «francesi che bombardano i bambini in Siria», raccolti nelle vie e negli angoli di Porta Palazzo a Torino, o registrando anche solo il rifiuto di partecipare a questo abbraccio simbolico espresso da Aia Eldin al Ghobasny, l’imam della Grande Moschea di Roma, secondo cui si trattava di «una manifestazione spettacolare più adatta alla stampa» che alla fratellanza.
Eppure c’è qualcosa di storico in questa foto di gruppo che ha messo insieme ieri, fra le navate delle Chiese, i sacerdoti e gli imam con i loro abiti tradizionali e le barbe nere seduti accanto ai fedeli cristiani, come nel ritratto un po’ agiografico di un presepe, dentro a quei riti svuotati dal tempo. L’immagine che si ricava alla fine è abbastanza contraddittoria. Se anche a Lecce gli imam hanno disertato l’invito, a Ventimiglia sono entrati tutti alla Messa delle 10 e 30 a San Nicola da Tolentino, in preghiera di fronte a padre Francesco Marcoaldi, che il 29 maggio aveva aperto le porte della sua Chiesa agli immigrati in fuga. E alla fine della funzione hanno preso la parola per condannare il terrorismo, fra gli applausi e gli abbracci dei fedeli.
Mahatma Gandhi sosteneva che «Dio non ha una religione», ma nella domenica del Signore Islam e cattolicesimo hanno cercato almeno di capirsi, in onore a Papa Francesco che a Natale aveva invocato «il dialogo come contributo di pace». Se ci siano riusciti, è un altro discorso. All’uscita di Santa Maria in Trastevere, a Roma, i fedeli intervistati da Sky, rivelavano le stesse sensazioni opposte che ha lasciato questa domenica. Una signora diceva che «abbiamo usato lo stesso linguaggio, le stesse parole. È stato importante vederli in Chiesa assieme a noi. Siamo chiamati alla condivisione, all’amicizia». Un altro fedele annotava invece che «può essere un primo passo. Ma adesso questa comprensione non c’è». E un terzo signore rimarcava la sua diffidenza: «Per forza che c’è. I diritti dell’uomo sono oscurati nei loro Paesi e qui da noi la Grande Moschea ha detto di no a questo invito». Lo scrittore Camillo Langone è stato ancora più duro e sulla sua pagina Facebook ha postato con altre 45 persone che «per la prima volta ho dei dubbi sull’andare a Messa.
Andrò verso sera, in una Chiesa defilata per correre meno rischi, ma se ci saranno maomettani o se il sacerdote dal pulpito tradirà Cristo onorando Maometto dovrò uscire». Cosa avrebbe fatto a Bari, dove musulmani e cattolici nella cattedrale di San Sabino hanno letto insieme la Bibbia e il Corano, prima in italiano e poi in arabo?
A Firenze, Izzedin Elzir, il presidente dell’Ucoii, l’organizzazione sospettata in passato di essere troppo tenera con gli estremisti, è arrivato al Duomo di Santa Maria del Fiore con tutta la sua famiglia. E Ahmed El Balazi, imam di Vorbano, alla messa di Brescia ha avuto parole durissime definendo i terroristi dei «criminali e dei falliti. Questa gente sporca la nostra religione». Abn al Gaffour, presidente del Coreis per l’Italia, ha detto che «quell’Allah u Akbar che pronunciano sempre, mi ricorda tanto il Gott Mit Uns dei nazisti.
Ma non si uccide in nome di Dio». L’impressione però è che questa giornata della pace abbia avuto l’adesione dei vertici, ma non siamo così sicuri che la base fosse tutta così d’accordo. A Porta Palazzo, a Torino, la maggior parte si rifiutava di commentare e quelli che lo facevano ripetevano con ossessione che anche noi uccidiamo donne e bambini musulmani, «ma non vi ho mai sentito chiedere scusa». A Roma, un signore marocchino di 40 anni con la barba nera che dice di fare il macellaio, sostiene che «la maggior parte di noi non ci è andata. Voi dite che sono tanti 15mila? A me non sembra. Siamo molti di più». Dall’altra parte, don Michele Babuin, parroco nella Barriera di Milano del capoluogo piemontese, aveva dichiarato che lui «gli imam in Chiesa» non li vuole, «Chi mi garantisce che non siano dei terroristi?», affermando anche che «abbiamo un Dio diverso, checché se ne dica». Un altro prete ha scritto a Rete4 dicendo che non bisogna fidarsi, «se io fossi andato in una Moschea non mi avrebbero fatto entrare».
E Magdi Allam afferma che «è inconcepibile questa partecipazione degli imam alle nostre messe, recitando versetti del Corano all’interno delle Chiese». La verità forse è che come diceva Jonathan Swift «abbiamo religioni per farci odiare, ma non per farci amare l’un l’altro». Eppure, non possiamo nascondere che questa domenica abbia finito per regalarci anche una speranza, negli abbracci commoventi a Ventimiglia fra musulmani e cristiani, nelle promesse di Abdullah Cozzolino recitate dentro la Cappella del Tesoro di San Gennaro a Napoli, quando ha garantito che «adesso il nostro dialogo proseguirà in modo più intenso», in tutti i segni di pace scambiati nelle tante chiese, fino alle parole di Sami Salem che hanno chiuso la Messa a Trastevere: «Che la pace sia su di voi, come diciamo noi. Perché il nostro saluto è un patto di pace».
Poi è sceso dal pulpito e i fedeli sono andati ad abbracciarlo. Perché ieri le nostre religioni avevano bisogno di credere questo, che possiamo vivere in pace. È difficile vivere una religione. Forse aveva ragione Abramo Lincoln: «Ho imparato che quando faccio il bene, mi sento bene. E quando faccio il male, mi sento male. È questa la mia religione».