“non sono razzista ma … ” a proposito di migranti, un problema divisivo che ci fa riscoprire razzisti

Italiani brava gente. «Non sono razzista, ma...»

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«non sono razzista, ma…»

 da: Adista Segni Nuovi n° 4 del 01/02/2019

Oggi porre il tema dell’immigrazione risulta essere divisivo. È paradossale come l’immagine di persone che lasciano il loro Paese e attraversano una condizione disperata e situazioni terrificanti, invece di suscitare unità e canalizzare energie e risorse in spirito di umanità, riesca a creare divisioni, fazioni contrapposte, ideologie che usano proprio quella situazione di fragilità per osteggiarsi se non addirittura combattersi, facendo emergere beceri razzismi o giudizi taglienti.

Se è vero che da un lato sembra continuare una sorta di comune denominatore che è un certo sentimento di insofferenza e razzismo, dall’altro tutto il resto è in continuo mutamento: punti di arrivo, circolari ministeriali, discussioni pubbliche, vissuti dei migranti. Pertanto ogni tentativo di semplificazione risulta essere fuorviante e ingiusto. Da una parte c’è una negazione netta e radicale all’arrivo dei migranti. Esagerazioni di numeri, di messaggi mediatici, la categorizzazione in stupratori o terroristi, la divisione in migranti economici e politici, fanno da contraltare invece all’uso dei migranti nella prostituzione e nel caporalato.

L’immigrazione oggi è sempre più un fenomeno complesso e come tutti i fenomeni complessi richiede analisi, percorsi, interpretazioni strutturate. Come il liquido di contrasto nelle analisi cliniche, il fenomeno migratorio riesce, con lucidità, a mettere in evidenza alcune criticità della nostra società. Ad esempio ha svelato spesso con brutale forza che l’argomento razzismo non può certo dirsi risolto pur a decenni di distanza dalle leggi razziali o dopo le esperienze di Martin Luther King o Nelson Mandela. Ci riscopriamo essere un popolo razzista. Certo cerchiamo sempre e subito di giustificare dicendo “Non sono razzista, ma..”. Basta andare davanti a un ufficio postale, davanti a un supermercato e osservare. Lì in un angolo appoggiato al muro un immigrato che chiede uno spicciolo, magari in cambio di un aiuto per portare la spesa e quella presenza genera commenti, giudizi, appellativi e nomignoli che hanno tutto il sapore del becero razzismo di piazza. Credo che la questione razzistica non sia affatto risolta, e l’afflusso, oggettivamente consistente, di persone provenienti da culture, lingue e religioni diverse abbia accentuato l’atteggiamento di chiusura, inacerbendo le menti, anziché promuovere un’occasione per sviluppare un multiculturalismo già presente da decenni nelle grandi metropoli europee. Così, credo, quest’aria di intolleranza del “diverso” in fondo renda noi “diversi”: incapaci di accogliere, incapaci di interagire con culture differenti, con l’atavica e infantile paura “dell’uomo nero”. Questo rivela che abbiamo ancora molta, moltissima strada da fare.

Altra criticità che emerge con virulenza è certamente la discrepanza all’interno del mondo cristiano, dove incontriamo sempre più frequentemente persone che si identificano con il messaggio cristiano e contemporaneamente aderiscono a forme politiche o di comune sentire che vanno in direzione diametralmente opposta. Così non è raro vedere persone che in chiesa pregano per i profughi e fuori firmano al banchetto di raccolta firme contro l’arrivo degli stessi in quartiere. Questa che chiamo schizofrenia religiosa è presente più di quanto pensiamo e rischia di scindere il nostro essere religiosi e credenti: «La grande tentazione è quella di diventare praticanti di pratiche religiose. Accendere candele e sostare un paio di minuti a mani giunte, per poi uscire di chiesa lasciando lì dentro le cose di Dio… È una sorta di dissociazione dell’anima, in cui con abilità sappiamo vestire mille facce tutte belle e tutte pronte all’occorrenza. Apriamo l’armadio e indossiamo l’abito più opportuno» (Luca Favarin, Animali da circo. I migranti obbedienti che vorremmo, ed. San Paolo, 2018 p. 112).

Infine, una terza criticità che mi sembra emergere chiaramente è che si continua a gestire, ma ancora prima a concepire e leggere, il fenomeno migratorio come un fatto emergenziale. È fallimentare considerare emergenziale ciò che è epocale. La gente si sposta perché dove si trova non sta ben. Lo fa perché è nella natura umana cercare soluzioni migliori per sé e per la propria famiglia. La migrazione trova giustificazione nell’animo umano. E in fondo è la stessa identica motivazione che spinge un giovane europeo a fare le valigie e tentare la fortuna in una grande metropoli occidentale.

In quest’ottica è fuorviante e, ridicolo, continuare ostinatamente a dividere i migranti in politici ed economici, come se dicessimo “Tu che scappi dalla guerra e dalle bombe vieni, ti accolgo, sei il benvenuto” e invece “Per te che scappi dalla miseria, dalla fame, dalla desertificazione e dalla deforestazione non c’è posto”. È una distinzione illusoria che non porta a nulla. Come vane restano le promesse e gli annunci che garantiscono rimpatri. A parte due o tre messe in scena il rimpatrio richiede una gestione che tra accordi bilaterali con ogni Paese, gestione dei transiti e personale necessario risulta essere fisicamente irrealizzabile.

C’è poi l’accoglienza che chiede di essere declinata: non è semplice gestione di strutture e servizi, significa avere a che fare con persone, con la loro storia, è chiamata a declinare una progettualità. E questo significa fare i conti con sogni, a volte sogni infranti o feriti, aspettative e desideri.

Ecco perché è più corretto parlare di “gestione” dell’accoglienza più che di “fare” accoglienza. Questa gestione dell’accoglienza richiede una professionalità di saperi, di pratiche, di metodologie. L’approccio che in questi anni stiamo sperimentando è un approccio olistico. Operatori con competenze e laurea diverse ci permettono di leggere in maniera più completa un fenomeno complesso. La storia del migrante e, soprattutto, il suo accompagnamento richiedono una molteplicità di conoscenze. Il lavoro di una buona équipe è essenziale. Il prendersi cura di colui che arriva dal Mediterraneo richiede grande umanità e professionalità. Un operatore in questo campo deve essere posto anche in continua formazione.

Sull’accoglienza, in Italia, si è fatto molto. Troppo, a mio avviso, guidati da una logica emergenziale. Le sbavature pesanti in termini di eticità dell’accoglienza che abbiamo visto a livello nazionale in più occasioni hanno rischiato di inficiare il lavoro di tutti. Come spesso avviene dove non si approfondisce, bastano gli errori di pochi per compromettere il buon lavoro dei molti. Certo è che la narrazione pesante, offensiva e volgare, distruttiva e maligna che viene fatta sulle ONG o sulle organizzazioni umanitarie non ha precedenti nella storia del nostro Paese. E offende tutti coloro che rimboccandosi le maniche ogni giorno e ogni notte si occupano di anziani, disabili, poveri, emarginati, immigrati, persone senza dimora e molto altro. Ogni organizzazione di servizio o di volontariato si occupa di un “piccolo pezzo di umanità”: lo fa con cura, con amore.

Lo Stato è chiamato a occuparsi del tutto. Sarebbe bello che le istituzioni ai massimi livelli invece di offendere, denigrare, screditare le organizzazioni, semplicemente le ringraziassero perché, liberamente e per amore, si occupano di umanità. Quella che a volte, sembra, abbiamo smarrito e che fatichiamo a ritrovare.

* Luca Favarin è prete di Padova, ha realizzato numerosi progetti in diversi Paesi africani, nonché con vittime di tratta, persone senza dimora e carcerati. Ha fondato ed è presidente di Percorso Vita onlus, organizzazione che si occupa di migranti, minori e forme estreme di povertà

* Parte superiore del libro di Luca Favarin, Animali da circo. I migranti obbedienti che vorremmo

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