L’APPELLO ALLA SOCIETÀ CIVILE E PACIFICA DI RANIERO LA VALLE
(PACE, TERRA E DIGNITA’)
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AL BALCONE DEL FUTURO
il commento di E. Ronchi al Vangelo della domenica di Pentecoste
Gv 15,26-27; 16,12-15
Lo Spirito Santo altro non è che il Dio nomade e libero, che inventa, spalanca porte, soffia sulle vele, fa cose che non t’aspetti. Che dà a Maria un figlio fuorilegge, a Elisabetta un figlio profeta e agli apostoli il coraggio di uscire all’aperto dal luogo chiuso, dalla vita bloccata. Un Dio che non sopporta statistiche né schemi, non recinti di parole, neppure sacre: Dio in libertà.
Parola nuova che si offre al navigante come nostalgia di casa, e all’uomo chiuso in casa come nostalgia del mare aperto.
Le letture bibliche della festa raccontano lo Spirito di Dio attraverso quattro registri musicali che vanno dal mosso vivace della prima lettura al grave e profondo della seconda, ma sono semplici feritoie sul mistero.
La prima porta che lo Spirito abbatte è quella di una casa, il Cenacolo, dove l’aria è chiusa, dove manca luce. Il Libro degli Atti ci racconta di quel cinquantesimo giorno dopo Pasqua, quando gli Apostoli parlavano come “ebbri”, fuori di sé, storditi da qualcosa che li aveva presi come un capogiro, una vertigine violenta e felice.
E’ la prima chiesa, fino ad allora arroccata sulla difensiva, terrorizzata, che viene lanciata fuori, nella Gerusalemme ostile. E la nostra chiesa oggi, anch’essa amata e infedele, proprio perché al bivio di grandi cambiamenti, ancora custodisce in molti suoi figli questo slancio originario.
La seconda porta la apre il salmo, come una melodia che naviga e aleggia sul mondo: del tuo Spirito, Signore, è piena la terra (Sal 103).-
Il Vento di Dio riempie la terra della sua santità, avvolge le cose con la sua luce: e scopro la santità delle stelle e del filo d’erba, del bambino che nasce, del giovane che ama, dell’anziano che pensa. L’umile santità del bosco e della pietra.
La terza porta dello Spirito immette su altre cento: la lettera di Paolo introduce un’orchestra dove ciascuno canta la sua nota, ciascuno porta in dono l’unicità della sua vita, incalzato da uno Spirito che vuole discepoli geniali, non ripetitori di stanche melodie.
Tempo di semine, il nostro. Tempo della pazienza del seme nella terra.
Quando verrà lo Spirito, vi guiderà alla verità. Appare l’umiltà di Gesù che non pretende di avere l’ultima parola, ma parla della nostra storia con Dio, soltanto con verbi al futuro: lo Spirito verrà, annuncerà, guiderà, parlerà.
Pregare lo Spirito è come affacciarsi al balcone del futuro, che è la terra fertile e incolta della nostra speranza.
Abbiamo bisogno che ciascuno creda al proprio dono, alle proprie originalità, unicità e bellezza, che sono i bellissimi doni dello Spirito. Lui, il Vento santo che non mancherà mai al mio veliero. O alla mia piccola vela, che Dio ha fatto sorgere sul vuoto del mare:
La bibbia è un libro pieno di olivi, di fichi e di viti. Pieno di uomini di cui Dio si prende cura e dai quali riceve un vino di gioia. Con le parole di oggi Gesù ci comunica Dio, cose da capogiro, attraverso lo specchio delle creature più semplici.
Ci porta a scuola in un vigneto, a lezione dalla sapienza della vite e da un Dio contadino, profumato di sole e di terra.
All’inizio della primavera mio padre mi portava nella vigna dietro casa. Sui tralci potati affiorava, in punta, una goccia di linfa che tremava e luccicava al vento di marzo. E mi diceva: guarda, è la vite che va in amore!
C’è un amore che muove il sole e le altre stelle, che ascende lungo i ceppi di tutte le viti del mondo, e l’ho visto aprire esistenze che sembravano finite, far ripartire famiglie che sembravano distrutte. E perfino le mie spine ha fatto rifiorire.
Dobbiamo salvare la linfa di Dio, il cromosoma divino in noi.
Che Dio sia descritto come creatore non ci sorprende, l’abbiamo sentito. Ma Gesù afferma oggi una cosa mai udita prima: io sono la vite, voi i tralci. Io e voi la stessa cosa! Stesso tronco, stessa vita, unica radice, una sola linfa.
E mentre nei profeti antichi Dio appariva piantatore, coltivatore, vendemmiatore, ma sempre altro rispetto alle viti, oggi ascoltiamo una parola inaudita: Dio e io siamo la stessa vite; lui tronco, io tralcio; lui mare, io onda; lui fuoco, io fiamma. Il creatore si è fatto creatura. Dio è in me, non come padrone, ma come linfa vitale. E’ in me, per meglio prendersi cura di me.
Rimanete in me e io in voi. Non è da conquistare l’unione con Dio, è cosa di cui prendere consapevolezza: siamo già in Dio, ci avvolge con il suo affetto, lo respiri, lo urti! E Dio è in noi, è qui, è dentro, scorre nelle vene della vita. Dio che vivi in me, nonostante tutte le distrazioni e i miei inverni, e tutte le forze che ci trascinano via. Ma via da lui non c’è niente.
Questa comunione precede ogni liturgia, è energia che sale, cromosoma divino che scorre in noi.
Ed ogni tralcio che porta frutto, egli lo pota perché porti più frutto.
Il grande e coraggioso dono della potatura! Potare non è sinonimo di amputare ma di dare vita, ogni contadino lo sa. Togliere il superfluo equivale a fare molto frutto.
Il filo d’oro che cuce il brano e illumina ogni dettaglio è “frutto”. Sei volte viene ribadito ribadisce, perché sia ben chiaro: il vangelo sogna mani di vendemmia e non mani perfette, magari pulite ma vuote, che non si sono volute mischiare con la materia incandescente e macchiante della vita.
Per il vangelo la santità non risiede nella perfezione ma nella fecondità. Dov’è mai questa perfezione nei discepoli di Gesù, pronti alla fuga e alla bugia, duri a capire…
La morale evangelica ha la colonna sonora delle canzoni della vendemmia, di una festa sull’aia; sogna fecondità e non osservanze. Più generosità, più pace, più coraggio.
E mi piace tanto il Dio di Gesù, che si affatica attorno a me perché io porti frutto, che non impugna lo scettro ma la zappa, non siede sul trono ma sul muretto della vigna. A contemplarmi, con occhi belli di speranza.
la nave delle Ong
giustizia per chi soccorre i migranti: salvare vite non è reato
di Diego Motta
Una sentenza non può cambiare il corso della storia, ma può aiutare a riscriverla. Un fatto di sette anni fa, l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina con relativo sequestro di una nave impegnata nei soccorsi, si è trasformato ieri, dopo la decisione dei giudici di Trapani, in un clamoroso proscioglimento di massa: tutti assolti, il fatto non sussiste. Perché salvare vite non è un reato.
Non è vero, però, che nel frattempo non sia successo nulla. Il caso della Iuventa, dal nome dell’imbarcazione della Ong tedesca rimasta ferma dal 2017 a oggi nel porto di Napoli, svela molto in realtà di quello che siamo diventati in questi anni: eravamo un popolo di santi, navigatori e poeti, ora di quell’anima profonda cosa è rimasto?
Basta andare a rileggersi le copertine dei principali giornali dell’epoca per ritrovare i titoli sui “taxi del mare” e sull’alleanza “tra Ong e scafisti”. Questo giornale, voce abbastanza isolata nel panorama di allora, parlò invece di “reato umanitario”. Iniziava una stagione nuova, con nuove parole d’ordine: basta con la solidarietà a buon mercato, via all’offensiva mediatica contro il Terzo settore e la società civile impegnata. All’eccesso di buonismo, che c’era, così come c’erano storture che andavano combattute (più in terra che in mare, basti pensare al caso “Mafia capitale”) si sostituiva silenziosamente il sentimento del cinismo, pronto a speculare sulle paure crescenti dell’opinione pubblica. In un contesto del genere, non potevano mancare, in perfetto stile italico, le “manine” degli 007, i veleni dei servizi e più in generale quella robusta dose di complottismo richiesta dallo spirito del tempo, emersa a tal punto nell’inchiesta da portare la Procura stessa a chiedere due mesi fa di archiviare il caso.
Cosa ha portato tutto questo? A un incattivimento complessivo del Paese, alla stigmatizzazione del povero in quanto tale, al ribaltamento dei ruoli con la criminalizzazione della solidarietà. Non c’è alcun assolto, in questo caso. Non è un dettaglio che quella fase, apertasi in Italia con il giro di vite anti-organizzazioni non governative voluto dal governo di Paolo Gentiloni, con Marco Minniti ministro dell’Interno, abbia raggiunto l’apice due anni dopo con la guida di Matteo Salvini al Viminale (e Giuseppe Conte premier) e continui ancora oggi, con provvedimenti di sequestro per le navi “colpevoli” di aver prestato soccorsi ripetuti (o non concordati) in mare, con viaggi della speranza che durano settimane avendo per destinazione i porti del nord Italia, con accordi fragilissimi stretti con i Paesi di frontiera. La disumanità, spiace dirlo, sembra essere divenuta la regola e non l’eccezione, mentre assistiamo a un governo dell’immigrazione affidato più a militari e forze dell’ordine che a sindaci e volontari.
C’è come la sensazione che qualcosa si sia rotto, in questo periodo, e che il tempo della ricucitura e del rammendo, davvero cruciale, non sia ancora arrivato: troppo profonda è la frattura che si è creata nel Paese, troppo pochi sono coloro che si stanno impegnando per far prevalere legalità, sicurezza e integrazione. Certamente, la sentenza Iuventa può essere un’occasione per ripensare a un sistema più a misura d’uomo, quando si parla di migranti. Questo non vuol dire non essere rigorosi con chi tenta di entrare illegalmente nel nostro Paese, né abbassare la guardia (ci mancherebbe) nei confronti degli spregiudicati trafficanti di uomini.
Basterebbe ripartire dall’osservazione del fenomeno, riconoscendo che avere più occhi in mare per salvare vite – negli ultimi dieci anni più di sei persone al giorno sono morte o disperse nel Mediterraneo – fa gioco anche alle autorità pubbliche preposte al controllo, mentre le intese con i discussi guardacoste nordafricani non stanno dando risultati. Lasciare in panchina la solidarietà per altro tempo, adesso, sarebbe un controsenso.
la storia segreta dei partigiani rom e sinti
di Giulia Boero in “la Repubblica” del 22 aprile 2024
C’è una storia poco nota. Di giovani rom e sinti, partigiani della Resistenza. Dimenticati, non riconosciuti. Tenuti ai margini, anche dopo la Liberazione e nella democrazia restaurata. Di loro restano i ricordi narrati dagli eredi. Di loro, ne sopravvive soltanto una. Erasma Pevarello è l’ultima staffetta sinta rimasta. Novantasei anni, conosciuta con il nome di Vincenzina, oggi vive nella camera da letto della sua roulotte a pochi chilometri da Castelfranco Veneto, in un piccolo campo fatto di qualche casa mobile, verande di legno e molta tranquillità. Aveva 17 anni quando nel 1944, incinta del suo primo marito – Renato Zulin Mastini, anche lui partigiano sinto – scappò dai soldati fascisti, mentre lui veniva catturato. «Mi buttai in un fosso ricoprendomi di foglie secche. Prima di scappare, un fascista che chiamavano gamba di legno mi colpì nel fianco con il calcio del fucile. Sento ancora quel dolore, non è mai passato del tutto». Mirka è l’unica figlia di quell’unione. Nata in carovana al chiaro di candela, mentre fuori igagi (i non-rom) mitragliavano la kumpania delle famiglie sinte itineranti. Oggi ha ottant’anni. Apre la porta della roulotte, attraversata a metà pomeriggio da fitti raggi di luce invernale. Fa segno di entrare con la mano, Erasma aspetta seduta sul letto. È la sola rimasta tra quindici fratelli: «La radice della stirpe dei Pevarello» dice di sé sorridendo. Famiglia dedita allo “spettacolo viaggiante”, di artisti e saltimbanchi, suonatori di violino e partigiani. Racconta, fa un salto indietro nel tempo. Erasma cercherà invano il marito per giorni. A piedi, un comando di polizia alla volta. Da Vicenza a Padova e ritorno. Verrà fermata da un uomo coperto in volto: «Mi mise qualcosa in mano e mi chiese di andare a San Giorgio. Lì, all’altezza del campanile, avrei trovato qualcuno a cui consegnare ciò che mi aveva dato. E lo feci». Una storia che si ripeterà più volte. «Avevo paura, fare la staffetta era pericoloso. Se i fascisti mi avessero trovato, sarei stata la prima a essere uccisa. Ancora oggi non so dire perché l’abbia fatto. Sentivo solo che era la cosagiusta, che dovevo». Renato Mastini verrà fatto prigioniero nel carcere di Camposampiero, vicino a Padova. Fucilato l’11 novembre di quell’anno durante “l’eccidio del Ponte dei marmi”.
Sinto tra i “dieci martiri di Vicenza”, come sinti erano Walter Catternato, Lino Festini e Silvio Paina. Anche loro musicisti, circensi, giostrai. Un impegno partigiano comune a molte famiglie rom e sinte italiane che i discendenti tengono a rivendicare. Il contributo delle comunità romanès alla resistenza al nazifascismo assunse diverse forme. Staffette e combattenti attivi, scappati soprattutto dai campi di concentramento italiani dopo l’armistizio dell’ 8 settembre 1943. Uniti aiciriklè ( i passeri, i partigiani), dopo aver trovato rifugio nelle campagne e sulle montagne. Costretti alla macchia nei boschi contro i fascisti, ikashtengere , quelli con il manganello. Per molti era un modo per non essere catturati di nuovo e deportati in Germania. Altri speravano di liberare i propri familiari ancora prigionieri. Per alcuni era il modo di contribuire alla liberazione d’Italia e partecipare alla costruzione di uno stato democratico. Tutti combattevano per imulé ,i propri morti. I partigiani erano gli unici a garantire loro protezione. Nessuno conosceva i luoghi meglio dei sinti. Nessuno meglio di loro sapeva orientarsi senza mappe, bussole o cartine. Spesso staffette, perché in grado di correre più velocemente di chiunque altro (come Osiride Tarzan Pevarello, fratello di Erasma, scelto da Tina Anselmi, partigiana con il nome di Gabriella). In questa storia sommersa, soltanto uno negli anni ’80 riceverà dal presidente Pertini, suo compagno d’armi, il Diploma d’Onore di Combattente per la Libertà d’Italia: Amilcare Taro Debar. Prima come vedetta, corriere e addetto all’approvvigionamento di armi nel cuneese. Poi, combattente attivo nelle Langhe con il nome di Corsaro, contribuendo alla liberazione di Torino nel ’45. C’erano i partigiani sinti e c’era l’intera comunità, le storie di chi durante la guerra venne considerato “inferiore” alla razza ariana, gli Untermenschen. Si stima che tra il ’40 e il ’43 furono deportati nei campi di sterminio più di mezzo milione tra rom e sinti europei. Accusati di «comportamenti antinazionali» e «implicazioni in gravi reati». Segnalati come «asociali» o «vagabondi» e quindi difficili oggi da individuare nelle liste dei deportati. «Eterni randagi privi di senso morale e socialmente pericolosi» verranno etichettati sulla rivista La difesa della razza . Dei 25 mila rom presenti in Italia tra gli anni ’20 e gli anni ’30, circa seimila vennero internati nei campi di reclusione italiani. Lo chiamano Samudaripen (tutti morti) o Porrajmos (grande divoramento). Un genocidio ancora oggi non riconosciuto, nemmeno nella legge del 2000 che istituì la Giornata della Memoria in ricordo delle vittime dell’Olocausto. La famiglia Lucchesi vive a due passi da Reggio Emilia. Giostrai, anche in tempo di guerra. Seduti attorno al tavolo della loro roulotte, i fratelli Massimo, Bruno (Cino) e Ivos (Popunino) raccontano tessere della vita del padre Fioravante. Partigiano a 16 anni, il più giovane d’Italia tra i sinti. «Era contento del contributo dato da combattente per la Resistenza. Ma tornato dalla guerra si svegliava di notte, impugnava la scopa o quello che trovava come se volesse sparare. Una volta ci buttò giù dal letto, in mezzo alla neve. Avevaancora paura». «La guerra che facevano all’epoca non ci apparteneva», spiega Manolo De Bar, sfogliando alcune foto di famiglia. «Oggi farei la stessa scelta di mio nonno Armando, a cui diedero del disertore. Non porterei quella divisa ». Manolo e suo fratello Johnny sono i figli di Giacomo Gnugo De Bar, sinto di professione saltimbanco come amava definirsi. Rinchiuso da bambino nel campo di Prignano sulla Secchia, nel modenese. Ma sono anche i discendenti dei Leoni di Breda Solini, battaglione sinto attivo al confine tra l’Emilia e la Lombardia. Considerati eroi, per il fatto di usare la violenza solo se necessario. Il disinteresse per la deportazione di rom e sinti, e per la loro presenza nella Resistenza, fu culturale e istituzionale. Durò decenni e le loro testimonianze (per la maggior parte orali) non vennero ascoltate. Quello che rimane è una «conoscenza “mutilata” di nomi e azioni di molti partigiani rom e sinti rimasti sconosciuti » scrive Angelo Arlati inRom e sinti nella resistenza europea (Upre). Una condizione che resta di esclusione. «La nostra cultura è parte del tessuto italiano ben prima che l’Italia esistesse come concetto» sottolinea Santino Spinelli, musicista, docente, autore di Le verità negate(Meltemi). «Siamo ancora condannati a nascondere la nostra differenza culturale. Dopo ottant’anni per i rom è cambiato poco o niente». Nemmeno per chi, come Virgilio De Bar (fratello di Armando) riuscirà a tornare dopo essere stato deportato ad Auschwitz, con la colpa di essere sinto. Lavoratore di giorno, saltimbanco per il divertimento dei nazisti la sera. Soprannominato “uomo- gomma”. Segnato per sempre dall’esperienza del campo di concentramento. A casa tornerà a fare il giostraio. A volte, ubriaco, si travestirà da Hitler. Per raccontare, finto nazista tra i luna park, la sua storia. Quella di un popolo tenuto in disparte, non solo ieri. In questa vicenda sommersa, solo uno negli anni ’80 riceverà dal presidente Pertini il Diploma d’Onore di Combattente
La sera di quel giorno mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Tommaso, uno dei Dodici, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo il segno dei chiodi io non credo». (…)
a proposito del sacro
in “www.ilblogdienzobianchi.it” del 21 marzo 2024
cercare e fissare il sacro in un oggetto, in uno spazio, è fare un passo verso l’idolatria. È cercare Dio dove non c’è!
Il sacro, il sacro tanto invocato oggi nella chiesa! Ma il sacro a cui si fa riferimento è ancora quello dell’Antico Testamento e delle religioni, è il sacro che sta nello spazio del tempio, del culto, dei sacrifici. Gesù invece ci ha rivelato che il sacro sta al cuore della vita degli uomini, sta nelle relazioni con gli altri. Il sacro non è più ciò che appartiene a un luogo sacro come il tempio, che è inviolabile, intangibile e suscita timore. Per Gesù il sacro, il luogo della presenza di Dio, non è più né il tempio né il sacrificio, né l’olocausto, né il sabato, ma è lo spazio delle nostre relazioni, là dove un volto incrocia un volto, una mano è tesa alla mano, una guancia si offre alla guancia. È l’incontro tra i corpi che sono anche anima e spirito. Per questo Gesù mostra con le sue parole e con i suoi gesti che ormai è lui la dimora di Dio e che attraverso le relazioni umane questo corpo di Cristo può accrescersi nella storia perché ogni cristiano diventa corpo di Cristo, diventa dimora di Dio, tempio dello Spirito santo. Cercare e fissare il sacro in un oggetto, in uno spazio, è fare un passo verso l’idolatria. È cercare Dio dove non c’è! È cercare la sua immagine dove lui non l’ha deposta perché l’ha fissata soltanto negli umani, nell’uomo e nella donna creati a sua immagine e a sua somiglianza. Certi spazi, come lo spazio della chiesa, certi oggetti richiedono rispetto, devono essere riconosciuti con un vero discernimento, ma non sono “sacro”.
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