contro il “si vis pacem para bellum”

“si vis pacem, para pacem”  l’intervento di Emiliano Manfredonia, presidente delle Acli

Si vis pacem, para pacem | L’intervento di Emiliano Manfredonia, presidente delle Acli
l’intervento del presidente nazionale Acli, Emiliano Manfredonia, in occasione delle festività pasquali: “Cominciamo a far sentire la nostra voce almeno sulle politiche di disarmo. Richiamiamo la politica al suo compito: le Europee sono l’occasione per far sentire la nostra voce”
Si vis pacem, para pacem. Perché il detto attribuito agli antichi romani, “si vis pacem, para bellum”, è un clamoroso fake. Il senso è più banale di quel che sembra: convincere il popolo che la guerra è il male minore, o che è l’unica alternativa, l’unica speranza. Ma sarebbe meglio dire: “Se vuoi la guerra, preparati ad andarci tu, in prima linea!”. Il conflitto armato è sempre voluto dai vecchi, che mandano a morire, però, i giovani. Viviamo un tempo segnato da conflitti, divisioni, sentimenti nazionalisti, contrapposizioni.Quando abbiamo pensato che la Guerra Fredda risolvesse, almeno, il problema del conflitto armato, non ci siamo accorti che questa, però, ci ha abituati alla paura. Ma la paura non è un sentimento in grado di cronicizzare: la paura è diventata la principale strategia per gestire i mercati economici, per indirizzare gli elettori alle urne, per imporre le proprie idee. Ma noi, verso la paura, vogliamo alzare bandiera bianca: pensiamo alla vita dei nostri giovani, sconvolta dapprima dal terrore del Covid, oggi da quella della guerra. Negli adolescenti la paura sta attivando due meccanismi opposti: il ritiro sociale e le fobie da un lato, il senso di sprezzo del pericolo dall’altro, per quelli che pensano di non aver più nulla da perdere, dato il clima di terrore a cui li abbiamo abituati.

Spesso diciamo di essere nati nel periodo di pace più lungo della storia, ma questo significa non vedere che la Guerra Fredda, in questi anni, non ha affatto evitato decine di sanguinosi conflitti in diverse parti del mondo. La pace che viviamo è una “pace negativa”, cioè una parentesi di apparente tranquillità che ci ha preparato al prossimo conflitto. La contaminazione dei germi di guerra, prima o poi, prenderà il sopravvento. Vogliamo dire, allora, che è giunto il momento di alzare bandiera bianca, per una pace vera. Sfortunatamente la pace è oggetto del “politically correct” per eccellenza. Affermare i valori pacifisti ci fa stare dalla parte giusta, certo, ma non ci fa fare nemmeno un passo verso l’effettiva conquista di una condizione di pace stabile e duratura.

Noi non siamo utopisti e quindi non vogliamo affidarci al buon cuore degli uomini. No, anche la pace, come la guerra, si può ottenere per via impositiva. Come? Solo chi ha il potere di governo sui popoli e le nazioni può imporre la pace e usare sistemi nuovi per regolare i conflitti sociali e tra Stati. Fare la pace richiede sforzi e sofferenza, forse quanto la guerra: perché, allora, preferire la seconda? Non possiamo restare in silenzio di fronte alla dichiarazione del Presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel: chi gli ha dato mandato di pronunciare quelle parole? Senz’altro non ci rappresenta, come Associazione e nemmeno come cittadini europei.

La logica del “prepararsi alla guerra per ottenere la pace” è pericolosa e fallace. Ricordiamo che le stesse parole furono usate dalla nostra Presidente del Consiglio Giorgia Meloni nel 2022, allora semplicemente Presidente di Fratelli D’Italia, al CPAC di Orlando, in Florida: “In politica estera, quando si tratta di difendere interessi strategici e valori fondamentali, una dimostrazione di debolezza non è un’opzione. Gli antichi romani dicevano: ‘Si vis pacem, para bellum, se vuoi la pace, prepara la guerra’”. Queste dichiarazioni ci preoccupano.

Cominciamo a far sentire la nostra voce almeno sulle politiche di disarmo. Difendiamo la Legge 185/90, che oggi rischia di essere svuotata. Richiamiamo la politica al suo compito: queste elezioni europee sono la nostra occasione per far sentire la nostra voce. Chiediamo direttamente ai candidati e alle candidate la loro posizione sulla guerra e votiamo di conseguenza. La matita dell’urna è l’unica “arma di pace” che abbiamo a nostra disposizione: usiamola.

Emiliano Manfredonia
Presidente nazionale ACLI

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il commento al vangelo della domenica

l’odore della Vita

il commento di E. Ronchi al vangelo della domenica di pasqua

 

Maria di Màgdala si recò al sepolcro quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!» (…). Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo giunse per primo al sepolcro. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario. Allora entrò anche l’altro discepolo, e vide e credette.

Giovanni 20,1-9

Se noi tutti formiamo il corpo di Cristo, allora come mi è contemporanea la croce, così lo è anche la Risurrezione. 

Chi vive in lui, è lui com-preso, cioè preso-dentro il suo risorgere.

Pasqua è il tema più arduo e bello di tutta la Bibbia. Arduo perché va contro ogni evidenza, bello perché rotola via i massi dall’imboccatura del cuore.

Pasqua non porta solo la salvezza che ci estrae dalle acque limacciose, ma la redenzione, che è molto di più, che trasforma la debolezza in forza, la maledizione in benedizione, il rinnegamento di Pietro in atto di fede, il mio difetto in energia nuova, la mia fuga in corsa intrepida.

Maria di Magdala esce di casa avvolta nel buio, del cielo e del cuore. Non ha niente tra le mani, non aromi come le altre donne, ma soltanto il suo amore impastato al dolore, che si ribella all’assenza di Gesù.

E vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro.

Nel fresco dell’alba il sepolcro è spalancato, vuoto e risplendente, affacciato sulla primavera. Un sepolcro aperto come il guscio di un seme, che prima di posarsi ha imparato a volare.

Maria corse da Simone e dall’altro discepolo, che Gesù amava… correvano insieme Pietro e Giovanni.

Perché tutti corrono in quel mattino di Pasqua?

Perché tutto ciò che riguarda Gesù non sopporta mezze misure, e si merita tutta la fretta dell’amore, che è sempre in ritardo sulla fame di abbracci. Corrono perché hanno ansia di luce che sia vita.

L’altro discepolo, quello che Gesù amava, corse più veloce. Giovanni arriva prima di Pietro a capire il senso della risurrezione, e a crederci. Il discepolo amato ha «intelletto d’amore» (Dante), l’intelligenza del cuore. Chi ama capisce di più, capisce prima, capisce più a fondo. Infatti i sapienti camminano, i giusti corrono ma gli innamorati volano.

Vide i teli posati là.

Giovanni entrò, vide e credette. Anche di Pietro è detto che vide, ma non che credette. Giovanni crede perché i segni sono eloquenti solo per il cuore che sa leggerli, e il suo brucia la distanza tra Gerusalemme e il giardino, tra i segni e il loro significato, tra i teli posati là e il corpo assente.

È pronto alla fede perché si sa amato: «ti vedrò nell’amore avuto e dato./ Ma se altro è il tuo cielo/ non ti vedrò Signore» (C. Cremonesi).

Il primo segno di Pasqua è il corpo assente. Nella storia umana manca un corpo, per pareggiare il conto degli uccisi. Ma Gesù non è semplicemente il Risorto, non è l’attore di un evento che si è consumato una volta per tutte nel giardino di fronte Gerusalemme. Pasqua non è conclusa. Se noi tutti formiamo il corpo di Cristo, allora come mi è contemporanea la croce, così lo è anche la Risurrezione. Chi vive in lui, è lui com-preso, cioè preso-dentro il suo risorgere.

Pasqua solleva allora questo nostro pianeta di tombe verso un mondo dove il male non vince, dove il carnefice non ha ragione della sua vittima in eterno, dove le piaghe della vita possono distillare luce.

Pasqua: “Il buon profumo di Cristo è odore di vita per la vita” (2 Cor 2,16).

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il commento al vangelo della domenica

L’ABBANDONATO S’ABBANDONA

il commento di E. Ronchi al brano del vangelo della domenica delle Palme:

 Mc 14,1-15,47

Ecco l’uomo! Appare al balcone dell’universo il volto di Gesù intriso di sangue.

Il dolore sotto cui vacilla è quello di tutti noi, lungo le strade contorte della vita, nei sentieri indifesi della storia dell’uomo.

Eccolo, il Figlio di Dio!

Ciò che vediamo non è lo splendore dell’onnipotente, ma il patire di un Dio appassionato. «Dio prima patì e poi si incarnò. Caritas est passio. L’amore è passione e patimento » (Origene). «E chi ama di più si prepari a patire di più» (sant’Agostino).

Un patire che vedo in Lui e nelle donne che osservano da lontano, primo nucleo di timida Chiesa nascente. Guardano Gesù con lo stesso sguardo appassionato con cui Dio guarda l’uomo. Solo fra le donne Gesù non ha avuto nemici.

La Chiesa nasce dalla contemplazione del Dio crocifisso. «A farci cristiani non sono i riti, ma il partecipare alla sofferenza di Dio» (Dietrich Bonhoeffer). L’ha capito, insieme con loro, un soldato esperto di morte: “costui era figlio di Dio”.

Cosa ha visto in quella morte di così diverso?

Non dei prodigi, non l’annuncio della risurrezione. L’esperto di morte, in quella morte diversa, ha visto Dio. Un Dio capovolto, che non sacrifica nessuno, sacrifica se stesso, non spezza nessuno, spezza se stesso.

Ha visto che il cuore della passione del Nazareno era una passione per Dio e per l’uomo.

Morire così è cosa solo da Dio, la sua rivelazione.

“Scendi dalla croce!” gridavano. Ma se scende, non è più il nostro Dio, torna a prevalere la solita logica umana che fa vincere il più forte.

E il soldato invece vede oltre; capisce che solo Dio non scende dal legno, che solo Lui si consegna alla Notte passando dall’abbandono di Dio («perché mi hai abbandonato?») all’abbandono a Dio («nelle tue mani…»), rappresentandoci tutti nei nostri dolori.

Vede il supremo potere che si disarma, dando vita e perdono a chi dà la morte, vede la violenza annullata perché presa su di sé.

Ha visto che questa nostra storia partorisce un’altra storia; che questo mondo porta un altro mondo nel grembo.

Io so che non capirò mai la croce, l’uomo non regge questo amore troppo limpido; ma Dio non è venuto perché lo capissimo, ma perché ci aggrappassimo a Lui, alla sua croce, lasciandoci sollevare in alto, nella risurrezione.

La fede è abbandonarsi all’abbandonato amore.

E noi qui, disorientati e stupiti come le donne, come il centurione, noi sentiamo che nella Croce c’è attrazione, c’è mistero, c’è seduzione e bellezza.

La suprema bellezza della storia è quella accaduta fuori Gerusalemme, su quella piccola collina, dove il Figlio del Dio infinito si lascia inchiodare a un pezzo di legno, grande appena quanto basta per morirvi.

Come è stato per le donne, anche la mia fede poggia salda sulle mura più forti del mondo: un atto d’amore perfetto.

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il commento al vangelo della domenica

FECONDA SOLITUDINE

il  commento fi E. Ronchi al brano del Vangelo di:

Gv 12, 20-33

“Vogliamo vedere Gesù”. Domanda forte di greci, di giudei, di uomini d’oggi, dell’uomo di sempre. Come rispondere?

Gesù stesso offre le parole e le immagini: chicco di grano, croce, strada. E, sempre, come tela di fondo, la nostra terra, che è il vero cielo di Dio, con i suoi poveri affamati di giustizia, e i figli in ansia di luce.

“Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore produce molto frutto”. Frase pericolosa come poche, se capita male, e vedo che l’accento dell’espressione non va a posarsi sul finire o sul morire, ma sul molto frutto… L’interesse del vangelo, l’obiettivo della creazione, è la fecondità. Il seme germoglia chiamato dalla spiga futura, muore alla sua forma ma rinasce in quella di germe, e poi tutto evolve verso più vita: la gemma in fiore, il fiore in frutto, il frutto in pane.

Nel ciclo vitale e in quello spirituale “la vita non è tolta ma trasformata”. Se sei generoso di te, se doni tempo, cuore e intelligenza, come un atleta, uno scienziato o un innamorato al tuo scopo, allora la vita non si ferma e non si perde, ma si moltiplica.

Ognuno di noi è chicco di grano nei solchi della storia, chiamato a fecondità. Grano seminato, lontano dal clamore e dal rumore, nella terra buona della mia famiglia e del mio lavoro, in quella amara delle lacrime senza risposta.

Mi porto dentro un seme di vita che contiene molte più energie di quanto non appaia. Ma le possiede quando le dona.

Allora il fragile chicco muore sì, anche di paura, ma la vita gli si trasforma in una forma più evoluta e potente. “Quello che il bruco chiama fine del mondo tutti gli altri chiamano farfalla” (Lao Tze), perché non striscia più ma vola; muore alla vita di prima per vivere in una forma più alta.

Gloria di Dio è solo la fioritura dell’essere (R. Guardini) e la sua fecondità, e quello che le innesca, il detonatore, è il dono di sé. La chiave di volta che regge il mondo, dal seme a Cristo: non la vittoria del più forte ma il dono. Fino in fondo, fino all’estremo, oltre il limite, come mostra la seconda immagine del dittico di Gesù: la croce.

Quando sarò innalzato attirerò tutti a me. Dalla croce sento erompere un’ attrazione universale, una forza di gravità celeste: lì è l’immagine più pura e più alta che Dio dà di se stesso.

Cosa mi attira del Crocifisso? Che cosa mi seduce? La bellezza dell’atto d’amore! Bello è chi ti ama, bellissimo chi ti ama fino all’estremo. Il crocifisso coperto di sangue e sputi non è bello, ma è la figura di una realtà bella: un amore fino a morirne. La realtà imbruttita di quel corpo straziato, è il riflesso più bello della cosa più bella di Dio, la sua follìa d’amore.

Suprema bellezza è quella accaduta fuori Gerusalemme, sulla collina, dove il Figlio del Dio infinito si è lasciato contenere nell’infinitamente piccolo, quel poco di legno e di terra che basta per morire.

«A un Dio umile non ci si abitua mai» (papa Francesco).

 Il Dio di Gesù, un Dio capovolto, scompiglia le nostre immagini ancestrali con un chicco e una croce, l’umile seme e l’estremo abbassamento.

Gesù è così, un chicco di grano che si consuma per nutrire; una croce che già respira di risurrezione.

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il commento al vangelo della domenica

LA MASCHERA DELL’ ANGELO

il vero ateo non è chi non crede, ma chi non ama

il commento di E. Ronchi al vangelo della quarta domenica di quaresima, Anno B

Si è appena spenta la scena irruente di Gesù che scaccia i mercanti dal tempio, e a Gerusalemme capi e gente comune ancora parlano di quel giovane rabbi.

Ora, da quella scena clamorosa e sovversiva, si passa a un vangelo intimo e raccolto.

p. Ermes Ronchi - Commento al Vangelo di domenica 10 Marzo 2024

Nicodemo ha grande stima di Gesù e vuole capire di più, ma non osa compromettersi, così si reca da lui di notte.

La luce è venuta nel mondo ma gli uomini hanno preferito le tenebre. Nicodemo non capisce.  Anch’io non capisco.

Da dove viene questo dramma del preferire le tenebre? Da dove il tremendo fascino del nulla?

So di poter dire, con l’eco che hanno le cose grandi: i tuoi figli, Signore, non sono cattivi, sono fragili, si ingannano facilmente. Preferiscono le tenebre perché l’angelo delle tenebre è menzogna, e si maschera da angelo della luce.

Promette felicità e libertà, e seduce, perché l’uomo va dove il suo cuore gli dice che troverà la felicità.

E che sono inganni / lo so, e tutti e due sappiamo / che non potrò / non ingannarmi ancora (Turoldo).

v. 16. Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio, perché chiunque crede non vada perduto, ma abbia la vita eterna.

Siamo al versetto centrale del vangelo di Giovanni, il versetto dello stupore che rinasce ogni volta per parole buone come il miele, tonificanti come una camminata in riva al mare fra spruzzi d’onde e aria buona respirata a pieni polmoni: Dio ha tanto amato il mondo…

Versetto decisivo, centro del vangelo di Giovanni, parole da riassaporare ogni giorno e alle quali aggrapparci forte nell’ultimo passaggio: ha tanto amato da dare suo Figlio.

A queste parole la notte di Nicodemo si illumina. E le nostre notti.

Qui possiamo rinascere. Ogni giorno. Alla fiducia, alla speranza, alla serena pace, alla voglia di amare, di vivere, di custodire e coltivare persone e cose, e ogni più piccolo giardino di Dio.

La rivelazione di Gesù: Dio ha considerato il mondo, ogni uomo, più importante di se stesso.

Per acquistare me ha perduto se stesso. Follia d’amore.

Se Egli ha amato il mondo e non solo noi, il mondo con la sua bellezza fragile, allora anche tu amerai il creato come te stesso, lo amerai come il prossimo tuo: «mio prossimo è tutto ciò che vive» (Gandhi).

Perché il mondo sia salvato: salvare vuol dire conservare, e nulla andrà perduto, non un sospiro, non una lacrima, non un filo d’erba; non va perduta nessuna generosa fatica, nessuna dolorosa pazienza, nessun gesto di cura per quanto piccolo e nascosto: Se potrò impedire a un Cuore di spezzarsi, non avrò vissuto invano.

Se potrò alleviare il Dolore di una Vita, o aiutare un pettirosso caduto a rientrare nel suo nido non avrò vissuto invano. (Emily Dickinson).

Dio ha tanto amato, e noi con Lui siamo chiamati non a salvare il mondo, ma a salvarlo, non a convertire le persone, ma ad amarle.

Se non per sempre, almeno per oggi; se non tanto, almeno un po’. E fare così, perché così fa Dio.

Il vero ateo non è chi non crede, ma chi non ama.

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il commento al vangelo della domenica

“la casa di mio Padre non è un luogo di mercato”

 Gv 2, 13-25

il commento al vangelo della terza domenica di quaresima

Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. [14] Trovò nel tempio quelli che vendevano buoi, pecore e colombe, e i cambiavalute seduti al banco. [15] Fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori del tempio con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi, [16] e ai venditori di colombe disse: “Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato”. [17]I discepoli si ricordarono che sta scritto: Lo zelo per la tua casa mi divora. [18] Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: “Quale segno ci mostri per fare queste cose?”. [19] Rispose loro Gesù: “Distruggete questo santuario e in tre giorni lo farò risorgere”. [20] Gli dissero allora i Giudei: “Questo santuario è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?”. [21] Ma egli parlava del santuario del suo corpo. [22] Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù. [23] Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa molti, vedendo i segni che faceva, credettero nel suo nome. [24] Gesù però non si fidava di loro, perché conosceva tutti [25] e non aveva bisogno che qualcuno testimoniasse sull’uomo, egli infatti sapeva quello che c’è nell’uomo.

L’episodio odierno è raccontato in tutti e quattro i vangeli, ma a differenza dei sinottici, Giovanni non lo colloca a ridosso del racconto della passione di Gesù, bensì all’inizio della sua vita pubblica, ricevendo da questo contesto un senso differente, perché l’intento dell’evangelista è quello di anticipare al lettore gli eventi della passione, morte e resurrezione di Gesù (cfr. vv 19 e 21). La scena si svolge in occasione della salita di Gesù a Gerusalemme per la prima delle tre Pasque che celebrerà durante il suo ministero pubblico. Di fronte allo spettacolo poco edificante e ancor meno religioso del commercio nel cortile del tempio, Gesù agisce con determinazione. Non ci pensa due volte a farsi una frusta (il messia veniva rappresentato con un flagello in mano per castigare i peccatori) e ad attraversare la spianata del tempio come un torrente impetuoso, travolgendo uomini, animali, tavoli, monete. Come un tempo avevano fatto i profeti, Gesù denuncia il culto perverso con un gesto fortemente polemico (Zc 14,21): In quel giorno non vi sarà più mercante nel tempio del Signore” e (Ml 3, 3): “Egli purificherà i figli di Levi, renderà gradite al Signore le offerte testimoniando contro tutti quelli che insozzano la casa del Signore”. Da notare che, a differenza dei sinottici, Gesù scaccia non solo i venditori, ma anche le vittime scelte per i sacrifici, un chiaro riferimento di Giovanni alla nuova e definitiva vittima pasquale, “L’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo” (Gv1, 29), “il sommo sacerdote di beni futuri” (Eb 9, 11), che offrirà liberamente la sua vita per amore, solo per amore, per la salvezza di tutti gli uomini. Ĕ un gesto forte, dirompente, che interroga ancora oggi tutti i credenti a non fare mercato della fede: Dio non si compra e non si vende, è di tutti. Noi siamo salvi perché ci ama. Gratuitamente. A Lui possiamo offrire solo un sacrificio di lode (Sal 50, 14): “Offri a Dio un sacrificio di lode e sciogli all’Altissimo i tuoi voti” e amarlo con tutto noi stessi (Os 6,6): “… li ho colpiti per mezzo dei profeti, … poiché voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti”. Gesù richiama dunque al senso profondo del tempio e all’attività fondamentale che vi si deve svolgere: l’ascolto della Parola. Ma fa di più. Diversamente dai sinottici, non definisce il tempio “casa di preghiera”, ma “casa del Padre mio”. Si tratta di un distinguo importante, rivelativo: siamo di fronte a una relazione filiale; difendendo la casa del Padre Gesù difende il suo legame d’amore, l’intimità con Colui che lo ha inviato nel mondo, la sua radice, il suo stesso essere. Del resto, già nel Prologo del vangelo, Gesù è apparso come il luogo in cui risiede la pienezza della gloria di Dio (Gv 1, 14). I discepoli, però, non sono in grado di capire, e il commento dell’evangelista chiarisce che essi sono ancora legati alla figura tradizionale del Messia che doveva purificare le istituzioni, perché il loro ricordo rimanda all’AT, dove la parola “zelo”, era associata particolarmente al profeta Elia (1Re 19, 10.14). Ma Gesù non si presenta come un riformista, non aspira a impadronirsi del tempio né a destituirne le autorità. Con lui sta nascendo una nuova alleanza che prenderà il posto dell’antica, cui il tempio apparteneva. In contrasto con i discepoli, probabilmente sbalorditi, tanto da osservare la scena senza dire una parola, i giudei impegnano Gesù in una controversia. Come altrove nei vangeli (Mc 8,11; Mt 12,38; 16,1; Lc 11,16,29-30), essi si ergono a giudici e gli chiedono un segno prodigioso che li convinca della legittimità della sua azione. Ma il segno proposto da Gesù si pone su un piano completamente diverso: non un prodigio strepitoso, segno di potenza, ma un gesto profetico: Giovanni gioca intenzionalmente sull’ambiguità del verbo “farò risorgere” (in greco eghéiro che significa sia innalzare un edificio, sia far risorgere un morto). Indicando la sua resurrezione, Gesù afferma che avrebbe trasformato il vecchio tempio (hierόn -edificio di pietra) in uno nuovo (naόs – santuario – tempio come presenza) che avrebbe rivelato la sua divinità. Il nuovo tempio-santuario si identifica così con il suo corpo. La dichiarazione di Gesù (v.19): “distruggete questo santuario e in tre giorni lo farò risorgere” è proprio quella che lega il suo gesto provocatorio alla sua morte, perché sarà usata contro di lui dai testimoni del processo davanti al Sinedrio (Mt 26,61). I giudei gli hanno domandato un segno; egli dà loro quello della sua morte e resurrezione. Per Giovanni il nuovo tempio, sempre attuale e duraturo, è il corpo di Cristo risorto dai morti. Il culto dovrà d’ora in poi fare riferimento alla sua persona, luogo di incontro trinitario, casa da abitare e custodire nell’amore. I giudei neanche per un attimo si chiedono se la denuncia di Gesù sia giustificata, continuano a intendere il santuario come edificio, non come luogo della presenza di Dio, senza capire che non è in questione l’esistenza del tempio come luogo di culto, ma la conversione del cuore alla luce di quanto Gesù dirà più avanti nel suo dialogo con la Samaritana (Gv 4, 23-24): “Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità”. Anche per i discepoli quelle parole di Gesù rimangono incomprensibili. Ma per loro ci sarà la luce della Pasqua, illuminata dal Cristo risorto e guidata dallo Spirito Santo, che li porterà a vedere tutto chiaro. Non a caso l’evangelista usa ancora una volta il verbo “ricordare” già visto nella prima scena. Far ricordare è l’azione ermeneuta dello Spirito Santo, che aprirà le loro menti all’intelligenza delle Scritture e li condurrà alla Verità tutta intera (Gv 16,13). Un’azione che continua nell’oggi delle comunità che ascoltano la Parola del Signore. Con i termini “tempio”, “casa del Padre”, “santuario-presenza”, Giovanni ci ha condotti per mano in un percorso rivelativo che anticipa il termine “dimora”, tema che svilupperà nei discorsi di addio (Gv 14; 15). Sì, perché, grazie al dono della sua vita, Gesù renderà partecipi tutti gli uomini della sua relazione col Padre: (Gv 14, 23): “Se qualcuno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e verremo a lui e faremo dimora presso di lui”. E l’uomo sperimenterà cosa significa essere il santuario di Dio, come dice San Paolo in 1Cor 3,9; 6, 15.19: “Voi siete l’edificio di Dio…Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? … Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi?”. Perché allora, ancora oggi, molti invocano segni per credere? “Vedere” sicuramente suscita entusiasmo, ma per una fede autentica, occorre radicare questo entusiasmo nell’ascolto della Parola. Gesù conosce l’intimo dell’uomo, le sue fragilità e sa distinguere i veri testimoni della Verità, quelli che suscitano il senso di una presenza altra, con la propria vita. Non ci resta che volgere il nostro sguardo al corpo di Cristo innalzato sulla croce, unico vero segno dell’onnipotenza dell’amore di Dio.

Annalisa Comunità Kairόs

Brani di riferimento oltre a quelli già citati: Eb 9; 10, 1-18

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il commento al vangelo della domenica

GLI ARCHIVI DELL’ANIMA
La Trasfigurazione 
Mc 9,2-10
il commento di E. ronchi al angelo della seconda domenica di quaresima
Il monte della luce, collocato a metà del racconto di Marco, è lo spartiacque della ricerca su chi è Gesù.
Come in un dittico, la sua prima parte racconta opere e giorni di Gesù il maestro; la seconda parte, a partire da qui, disegna il volto alto del “Figlio di Dio”: vangelo di Gesù, il Cristo, il Figlio di Dio (Mc 1,1).
Gesù chiama di nuovo con sé i primi chiamati: tutto è narrato dal punto di vista dei discepoli, di ciò che loro accade. Li porta su un alto monte e si trasfigura davanti a loro: i monti nella Bibbia sono dimora di Dio, ma offrono a noi la possibilità di uno sguardo nuovo sul mondo, di coglierlo da una nuova angolatura, osservarlo dall’alto, da un punto di vista inedito. Dal punto di vista di Dio.
Pietro ne è sedotto e prende subito la parola: che bello essere qui! Facciamo tre capanne.
L’entusiasmo di Pietro, il suo: che bello! ci fanno capire che la fede per essere pane deve discendere da uno stupore, da un innamoramento che ti stordisce, gridato a pieno cuore.
Ciò che seduce Pietro non è l’onnipotenza di Dio, non lo splendore del miracolo o il fascino di effetti speciali, ma la bellezza del volto di Gesù, dove l’uomo si sente finalmente a casa: qui è bello stare! Altrove siamo sempre lontani, in viaggio.
Il Vangelo della Trasfigurazione dona ali alla nostra speranza: il male e il buio non vinceranno, non è questo il destino dell’uomo, perché Adamo ha, o meglio “è” una luce custodita in un guscio di creta, e la sua vocazione è liberarla.
Con la sua esclamazione Pietro ci apre la strada, e vorrei, balbettando come lui, dire che anch’io ho sfiorato, qualche volta, la bellezza del credere.
Che anche per me credere è stato acquisire bellezza del vivere in pienezza, che come Pietro che si tuffa nell’entusiasmo dell’agire in fretta: “facciamo, qui, ora, subito….” sappiamo tutti che gli innamorati volano.
Che la vita non avanza per ordini o divieti, ma per una seduzione che nasce da una bellezza intravista, anche se per poco, anche solo nella freccia di un istante.
La nostra comprensione, la nostra intelligenza, la nostra luce non ci bastano, le cose attorno a noi non sono chiare, la storia e i sentieri del futuro per nulla evidenti.
Ma il mondo è intriso di luce, lo sanno tutte le religioni, lo sanno gli innamorati, gli artisti, i puri.
E lo ricorderanno i discepoli quando tutto si farà buio, quando il loro Maestro sarà preso, incatenato, deriso, spogliato, torturato, crocifisso.
Come fu per loro, come fu per molti nei lager o nei gulag, fino ai Navalny dei nostri giorni, come è per quanti si ostinano a proporsi la pace, anche per noi nei nostri inverni, sarà necessario cercare negli archivi dell’anima le tracce della luce, la memoria del sole, per appoggiarvi il cuore e la fede.
È dall’oblio che discende la notte.
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la cultura rom al di là degli stereotipi

“Il contributo dei rom alla cultura”

Associazione Marco Mascagna

Per molti questa frase suona strana: “E quale contributo hanno dato i rom alla cultura?”, penseranno. Lo stereotipo del rom è di accattone, ladro, nullafacente, impostore, vagabondo, nomade. Brutti, sporchi e cattivi e anche ignoranti.

Eppure tra pochi giorni (8 aprile) si festeggerà la Giornata internazionale del popolo rom, istituita nel 1990 e riconosciuta dall’ONU, per fare conoscere e celebrare la cultura romanì (il popolo romanì si compone di vari sottogruppi – sinti, rom, kalè, romanichal, ecc. – tutti accomunati dalla medesima lingua, simile all’antico sanscrito, da determinate tradizioni e da una lunga storia di discriminazioni e persecuzioni da parte dei “non-zingari” [1]).

Allora cerchiamo di conoscere qual è il contributo che i rom hanno dato all’umanità.

Cinema

Pochi sanno che il più grande cineasta di tutti i tempi (sceneggiatore, regista, montatore, attore, produttore e autore delle musiche) è un rom: stiamo parlando di Charlie Chaplin. Figlio di due attori girovaghi di etnia rom; nato su un carro; “conosciuto” dallo Stato solo all’età di 2 anni (all’anagrafe non risultava); vissuto per un paio di anni in un ospizio per bambini poveri (la Central London School, che in un enorme casermone “curava” oltre mille bambini); poi “attore comico” (alias pagliaccio) in un circo, insieme al fratello. Chaplin non ha mai detto in vita di essere un rom (forse aveva già avuto abbastanza problemi e non voleva averne altri). Solo dopo la morte (grazie anche a figli) si è conosciuta la verità.

Eppure lo si poteva immaginare perché la poetica di Chaplin è profondamente rom: Charlot è un vagabondo, uno che vive alla giornata, un discriminato, il perdente per antonomasia perché schiacciato da una società a lui estranea, uno non attaccato al denaro, generoso fino alla prodigalità, pacifista, sempre pronto a ricominciare, a fare baldoria, a ridere, cantare, ballare; il suo “nemico” è il poliziotto, la “gente per bene”, lo Stato, che non è il suo Stato. Insomma Charlot è lo stereotipo del rom per il popolo romanì.

Tra i rom che hanno dato un contributo alla settima arte vanno ricordati anche Michael Caine e Yul Brinner (entrambi hanno ricoperto la carica di presidente della Romanì Unione, l’associazione mondiale dei popoli romanì), Rita Hayworth, Antonio Banderas, Bob Hoskins. 

Musica

Una manifestazione nazionale di rom e sinti a Bologna, nel 2015
(LaPresse – Stefano De Grandis)

Il contributo dato alla musica da parte del popolo romanì è generoso e sotterraneo. Fonti storiche evidenziano che fin dal XVI secolo gitani, lautari, rom, kalè suonavano presso le corti (Spagna, Ungheria, Russia) e i palazzi nobiliari. Erano famosi per un modo tutto loro di suonare (in particolare il violino) e per l’arte dell’improvvisazione.

Molti sono i musicisti che si sono ispirati alle loro musiche o che le hanno trascritte, orchestrate “arrangiate”:

Haydn: il Trio in sol maggiore termina con un rondò in stile zingaro, il Quartetto n.4 ha un movimento alla zingara e il Concerto per pianoforte una danza ungherese (in realtà zigana).

Schubert: secondo alcuni musicologi la melodia del famoso Momento musicale n. 3 è rom.

Brahms: le famosissime Danze ungheresi sono in maggioranza danze zigane ascoltate da Brahms e “arrangiate” (di qualcuna oggi si conosce anche il nome dell’autore). La czarda, infatti è una composizione di origine rom, poi utilizzata da compositori ungheresi e anche italiani: per esempio famosissima è quella di Monti. Altre composizioni di Brahms spirate alla musica romanì sono i Canti zingari op. 103 e il rondò alla zingaresca del piano Quartetto n.1.

Listz: le rapsodie ungheresi sono piene di musiche zigane. Listz fu il primo che indagò i rapporti tra musica romanì e musica ungherese e scrisse anche un libro nel quale evidenziava che gran parte delle musiche popolari ungheresi erano in realtà rom [2]. Per questo suo scritto fu molto criticato dagli ungheresi.

Ravel, dopo avere ascoltato un violinista romanì lo interrogò a lungo per capire la tecnica e gli stilemi. Poi si chiuse in casa per alcuni giorni e compose Tziganeper violino e pianoforte (poi orchestrata).

De Falla ha compiuto studi sulla musica gitana e in particolare sul Cante Jondo (canto profondo), la forma più antica del flamenco (che è una danza gitana) e si è ispirato a tali musiche per varie sue composizioni (per esempio in El amor brujo, El Sombrero de tres picos e nelle 7 Canzoni popolari spagnole).

Bartok: una delle sue più popolari composizioni, Danze rumene, sono ispirate alla musica dei rom lautari.

De Sarasate ha scritto Arie zingare, Saint-Saens Danze zingare, Dvorak Melodie zigane, Debussy la Danse bohemienne, Ligeti il Concert romanesc.

Con una lunga tradizione di improvvisatori non stupisce che molti “zingari” siano diventati jazzisti e che esista un particolare tipo di jazz (jazz manouche) tipicamente romanì. Massimo esponente di questo stile è Reinhardt Django , musicista sinto dal precocissimo talento per il banjo (django nella lingua romanì significa talentuoso, geniale). Quando aveva 18 anni il carro sul quale abitava prese fuoco e si ustionò gravemente la mano sinistra, che, mal curata, riportò l’atrofizzazione e la fusione del mignolo e anulare. Con enorme tenacia e inventiva sviluppò una tecnica tutta particolare di suonare la chitarra e riprese la sua carriera arrivando a suonare con Duke Ellington e a esibirsi alla Carnegie Hall. Non avendo mai frequentato la scuola era del tutto analfabeta (imparò a scrivere il suo nome quando dovette firmare il primo contratto) e digiuno di conoscenze musicali (si racconta che una volta chiese ad altri musicisti che parlavano di scale: “ma cos’è una scala?”).

Nell’ambito della musica leggera vanno ricordati Elvis Presley (la madre era sinti e il padre romanichal), Ronnie Wood (il chitarrista del Rolling Stone, anche lui romanichal), i Gipsy King (kalò) e Goran Bregovich, bosniaco, ma la cui musica è per gran parte rom.

Pittura

Il più importante pittore “napoletano” del ‘400 è un rom abruzzese Antonio Solaro Lo Zingaro, autore del ciclo di affreschi sulla vita di San Benedetto del chiostro del Platano (chiesa dei santi Severino e Sossio). Otto Mueller, pittore tedesco inviso ai nazisti (bruceranno oltre trecento suoi quadri, sequestrati da musei, palazzi, case d’asta), era sinti e ritrasse spesso personaggi e scene di vita zingara.

La vita degli zingari è fonte di ispirazione per molti artisti ed è alla base del movimento dei Bohemien. Murger scrisse Scene della vita di boheme (da cui Illica e Giacosa trassero il libretto per la Boheme di Puccini); Merimée autore di Carmen (poi messa in musica da Bizet) conosceva bene la cultura rom (parlava anche un poco il romanì); Courbet viene considerato l’iniziatore degli artisti bohemien, avendo affermato: “Nella nostra società così civile bisogna che io conduca una vita da selvaggio, bisogna che io mi liberi dei governi. Devo rivolgermi al popolo per trarre ispirazione e sostentamento. Ecco perché ho appena dato inizio alla mia nuova, grande vita vagabonda e indipendente di bohémien”. Posizione che fu fatta propria da Touluse Lautrec, Modigliani, Van Gogh, Sisley, Utrillo, Monet e tanti altri artisti.

Augustus John, pittore gallese, prese talmente sul serio l’invito di Courbet che si unì a una carovana di zingari e poi si comprò un suo carro, dove visse girando per l’Europa (la bellezza dei suoi quadri convinse gli invisi accademici inglesi a nominarlo membro onorario della Royal Academy).

Letteratura

Tra i poeti chi maggiormente si è fatto influenzare dalla cultura romanì è Garcia Lorca: studiò l’originario flamenco gitano con De Falla, e con lui organizzò la Fiesta del Cante Jondo, 3 giorni di esibizioni all’aperto di danza, musica, poesia, teatro con artisti gitani e spagnoli; fondò La Barraca, una compagnia di teatro girovaga, per la quale scrisse i suoi drammi più famosi; i titoli delle sue raccolte di poesie esplicitano l’influenza della cultura zingara (Poema del Cante jondo, Romancero gitano); scrisse e musicò canzoni di stile gitano.

Tra i più importanti scrittori romanì va citata Mariella Mehr, che ha vissuto l’infanzia in diversi brefotrofi, perché in Svizzera dagli anni ‘20 agli anni ‘70 i bambini venivano tolti agli “zingari” (la Svizzera da pochi anni ha riconosciuto questa pratica come genocidio). Questa esperienza ha segnato tragicamente la vita sua e della madre. I suoi libri sono tradotti anche in italiano.

L’UNESCO solo nel 2015 ha invitato gli Stati ha riconoscere e tutelare la lingua e la cultura romanì.

La UE ha tra i propri principi la tutela delle minoranze e delle lingue minoritarie. In Europa gli “zingari” sono 12 milioni, molti più degli estoni (1,5 milioni), gli irlandesi gaelici (1,5 milioni), lettoni (2 milioni), sloveni (2 milioni), lituani (3 milioni), lingue che l’UE rispetta talmente che il sito istituzionale e gran parte dei documenti sono redatti anche in tali lingue. I rom sono cittadini europei ma non possono leggere nella loro lingua ciò che li riguarda.

L’Italia tutela 12 minoranze linguistiche (12.000 greci, 20.000 catalani, 24.000 croati, 35.000 ladini ecc.), ma non riconosce come minoranza linguistica quella rom composta da oltre 120.000 persone (di cui ormai solo 50.000 parlano il romanì), eppure sono cittadini italiani anche loro.

Più passano gli anni e sempre meno persone parlano il romanì e si va perdendo la cultura “zingara”.

L’UNESCO ha dichiarato patrimonio dell’umanità molte cose (il caffè turco, i pupi siciliani, la danza cocolo, i canti tenores sardi, le danze baltiche, il pugnale indonesiano, il flauto a 3 fori slovacco, la birra belga, la transumanza, la cultura del popolo Zapara e quella dei beduini, i canti pigmei, ecc.), ma, tranne il flamenco (ascritta però alla tradizione spagnola) non tutela niente dei popoli romanì (né la lingua, né genericamente la cultura, né musiche, danze, tradizioni, feste “zingare”).

Un appello di intellettuali e cittadini a Google perché inserisse nel suo traduttore anche la lingua romanì è caduto nel vuoto (eppure provate a vedere quante lingue sono contemplate in questa app).

Far scomparire una cultura è un crimine perché impoverisce tutta l’umanità e per sempre. Abbiamo visto come grandi capolavori sono nati dalla conoscenza di culture estranee alla propria.

Qualche Paese finalmente è “svegliato”: Svezia, Austria, Germania e Finlandia hanno riconosciuto i romanì come minoranza linguistica, tutelando lingua e cultura. In Italia nel 2015 è stata presentata una nuova proposta di legge dalle associazioni di rom e sinti (sottoscritta solo da 21 parlamentari), ma a oggi nulla è stato fatto. E’ un maledetto circolo vizioso: la gente non conosce la cultura rom ed è, quindi, piena di pregiudizi negativi su di loro; i politici o cavalcano e rinfocolano tali pregiudizi per avere voti o preferiscono essere defilati per non scontentare parte del proprio elettorato. In questa maniera nessun provvedimento viene preso per far conoscere e tutelare la cultura rom e superare i pregiudizi negativi su rom e sinti. Per questo, dobbiamo cercare di adoperarci noi, intervenendo quando qualcuno parla male dell’intero popolo rom o ripete luoghi comuni e accuse false, facendo conoscere la loro cultura e il contributo che hanno dato alla nostra.

Note: 1) Gli appartenenti al popolo romanì sono chiamati in vario modo dai non appartenenti a questa etnia: “zingari”, “zigani”, “gitani”, “bohemien”, “gipsy”, “nomadi”. Essendo eteronimi (come “terrone”, “negro”, “polentone” ecc.) e quasi sempre con valore dispregiativo, tali termini non dovrebbero essere adoperati. Per questo li scriviamo tra virgolette; 2) Des Bohémiens et de leur musique en

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il commento al vangelo della domenica

DAI SASSI LA VITA

il commento di E. Ronchi al vangelo della prima  domenica di quaresima

Mc 1,12-15
In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano.
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».

 La tentazione? Una scelta tra due amori, scegliere la stella polare. Le tentazioni non si evitano, si attraversano.

Gesù inizia dal deserto: dalla sete, dalla solitudine, dal silenzio delle interminabili notti. “Que sueno el de la vita: sobre aquel abiso petreo!” Che sogno quello della vita e sopra quale abisso di pietre (Miguel de Unamuno).

In questo luogo simbolico Gesù gioca la partita decisiva, quale vita sognare e vivere. Che Messia sarà? Venuto per prendere, salire, comandare, oppure per scendere, avvicinarsi, donare? Quale volto di Dio annuncerà?

La prima lettura racconta di un Dio che inventa l’arcobaleno, questo abbraccio lucente tra cielo e terra; che fa alleanza – mai revocata e irrevocabile- con ogni essere che vive in ogni carne. Questo Dio non ti lascerà mai. Tu lo puoi lasciare, ma lui no, non ti lascerà mai.

L’arcobaleno, lanciato tra cielo e terra, dopo quaranta giorni di navigazione nel diluvio, prende nuove radici nel deserto, nei quaranta giorni di Gesù. Ne intravvedo i colori nelle parole: stava con le fiere e gli angeli lo servivano. Gesù lavora, nel deserto, all’armonia perduta e anche l’infinito si allinea. E nulla che faccia più paura.

Quelle fiere selvatiche che Gesù incontra, sono anche il simbolo delle nostre parti oscure, gli spazi d’ombra che ci abitano, ciò che non mi permette di essere completamente libero o felice, che mi rallenta, che mi spaventa, che non fiorisce: quelle bestie che un giorno ci hanno graffiato, sbranato, artigliato.

Gesù stava con loro… Impariamo con lui a stare lì, a guardarle in faccia, a nominarle, a far pace con loro. Non le devi né ignorare né temere, non le devi neppure uccidere, ma dar loro un nome, che è come conoscerle, e poi dare loro una direzione: sono la tua parte di caos, ma chi ti sospinge a incontrarle è lo Spirito Santo.

Dio mi raggiunge attraverso la mia debolezza, entra nei miei punti deboli e non i miei punti forti, e la mia parte malata diventa il punto di incontro con il guaritore.

Forse mai i miei problemi saranno del tutto guariti, ma in realtà sono io che devo essere guarito, e sarò maturo quando saprò avviare percorsi, iniziare processi, incalzato dal vento dello Spirito. “L’uomo non è ne angelo né bestia, ma una corda tesa tra i due. E quando vuole essere angelo diventa bestia” (Pascal). Anche il viaggio più lungo comincia dal primo passo.

Dopo che Giovanni fu arrestato Gesù andò nella Galilea proclamando il vangelo di Dio. E diceva: il Regno di Dio è vicino. Proclama Dio come una “bella notizia”. Non era ovvio per niente. Non tutta la bibbia è vangelo; alle volte è minaccia e ingiunzione. Ma la caratteristica originale del rabbi di Nazaret è annunciare vangelo, che equivale a confortare la vita: Dio si è fatto vicino, è un alleato amabile, un abbraccio, un arcobaleno. Questo è l’annuncio che corre lungo le rive del lago di Galilea: Dio è vicino a te. Con amore.

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il commento al vangelo della domenica

Dio risana le nostre vite senza porre condizioni

il commento di  E. Ronchi al angelo della sesta domenica del tempo ordinario – Anno B

Venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!» […]

Un lebbroso cammina diritto verso di lui. Gesù non si scansa, non mostra paura. Si ferma in faccia al dolore, al rifiuto del villaggio, così vicino da toccarlo. Il lebbroso “porterà vesti strappate, sarà velato fino al labbro superiore, starà solo e fuori” (Lev 13,46). Dalla bocca velata, dal volto nascosto del rifiutato, esce un’espressione bellissima: «Se vuoi, puoi guarirmi». Con tutta la discrezione di cui è capace: «Se vuoi». E intuisco Gesù toccato da questa domanda grande e sommessa, che gli stringe il cuore e lo obbliga a rivelarsi: «Se vuoi». A nome di tutti i figli dolenti della terra il lebbroso lo interroga: che cosa vuole veramente Dio da questa carne piagata, che se ne fa di queste lacrime? Vuole dolore o figli guariti? Davanti al contagioso, all’impuro, un cadavere che cammina, che non si deve toccare, uno scarto buttato fuori, Gesù prova “compassione”. Il vangelo usa un termine di una carica infinita, che indica un crampo nel ventre, un morso nelle viscere, una ribellione fisica: no, non voglio; basta dolore! Gesù prova compassione, allunga la mano e tocca. Nel Vangelo ogni volta che Gesù si commuove, tocca. Tocca l’intoccabile, toccando ama, amando lo guarisce. Dio non guarisce con un decreto, ma con una carezza. La risposta di Gesù al “se vuoi” del lebbroso, è diretta e semplice, una parola ultima e immensa sul cuore di Dio: «Lo voglio: guarisci!». Me lo ripeto, con emozione, fiducia, forza: eternamente Dio altro non vuole che figli guariti. È la bella notizia, un Dio che fa grazia, che risana la vita, senza condizioni. Che adesso lotta con me contro ogni mio male, rinnovando goccia a goccia la vita, stella a stella la notte. E lo mandò via, con tono severo, ordinandogli di non dire niente. Perché Gesù non compie miracoli per qualche altro fine, per fare adepti o avere successo, neppure per convertire qualcuno. Lui guarisce il lebbroso perché torni integro, perché sia restituito alla sua piena umanità e alla gioia degli abbracci. È la stessa cosa che accade per ogni gesto d’amore: amare “per” non è amore vero, pregare “per” non è preghiera pura. Quanti uomini e donne, pieni di vangelo, hanno fatto come Gesù e sono andati dai lebbrosi del nostro tempo: rifugiati, senza fissa dimora, migranti, donne della tratta. Li hanno toccati, con tenerezza, e molti di questi, e sono migliaia, sono letteralmente guariti dal loro male, e sono diventati a loro volta guaritori. Prendere il vangelo sul serio ha dentro una potenza che cambia il mondo. E tutti quelli che l’hanno preso sul serio e hanno toccato i lebbrosi, tutti testimoniano che questo porta con sé una grande felicità. Perché sei dalla parte giusta della vita.

(Letture: Levitico 13,1-2.45-46; Sal 31; 1 Corinzi 10,3111,1; Marco 1,40-45)

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