Quei lager made in Italy
Un reportage tv andato in onda su Tv7 (Raiuno) svela indirettamente anche le ambiguità dell’attuale missione militar-umanitaria. La denuncia delle reali condizioni in cui versano i rifugiati somali detenuti in Libia per conto dell’Italia. Ad Agrigento cerimonia senza bare per le vittime del naufragio del 3 ottobre fra le polemiche. Il sindaco: «Questi funerali sono una farsa di Stato»
«Freedom… freedom freedom», il televisore rimbomba di grida quasi sincopate: sono persone giovani, alcune adolescenti, che urlano, cantano, ritmando dietro le sbarre di prigioni-container. È il reportage di Amedeo Ricucci sulla condizione reale dei migranti africani nella nuova Libia, andato in onda venerdì su Tv7. Un documento, eccezionale quanto inequivocabile, che illumina le responsabilità italiane. Il giornalista Rai, già collaboratore del manifesto, ha raccontato la disperazione di tremila immigrati rinchiusi in un centro di detenzione a 50 km da Tripoli, controllati armi alla mano da miliziani del Jebel Nafusa «che sanno fare la guerra», tutti catturati mentre erano in procinto di lasciare il territorio libico per raggiungere l’Italia e l’Europa. In fuga dalla guerra e dalla miseria della Somalia. Sono loro stessi a dirlo. Ma ora vivono da molti, moltissimi mesi rinchiusi nelle gabbie dei «centri di accoglienza» libica, i campi di concentramento che l’Italia finanzia e organizza con le “autorità” libiche. E dal reportage emerge che in quella condizione ci sono più di 50mila persone e che altrettante sono state rispedite nei luoghi di provenienza. Mentre urlano da dietro le sbarre il bisogno di libertà, di una condizione migliore della fame, delle guerre. Per «il diritto di cambiare il mio destino» ripete ossessivamente un ragazzo recluso. Smistati come animali. Infatti sono stati raccolti prima nell’area dello zoo di Tripoli prima di finire nell'”accoglienza” dei containerlager. E vengono tenuti in galera per noi. Perché quei campi di concentramento altro non sono che il risultato diretto dei trattati voluti dall’Italia e firmati con la Libia, prima tra Gheddafi e Berlusconi (con approvazione bipartisan del parlamento italiano) e poi riattivati dopo l’ottobre 2012 con le nuove “autorità” dopo la caduta nel sangue del Colonnello libico. E che ora vengono ripristinati dal governo Letta-Alfano come risposta ai naufragi a mare dei barconi e alle stragi di Lampedusa e Malta. La denuncia del reportage televisivo sulla condizione reale dei migranti africani sequestrati in Libia, arriva negli stessi giorni in cui solerti funzionari del governo italiano trattano con il “governo” libico sui rimpatri, la sicurezza dei porti e il pattugliamento a mare. Mettiamo le virgolette alla parola governo, perché in Libia non esistono autorità, le istituzioni ufficiose centrali per “governare” usano milizie armate spesso contrapposte, come dimostrano la cattura recente del premier Zeidan, gli assalti e gli incendi dei ministeri, gli attentati alle ambasciate e l’uccisione, solo venerdì scorso, del capo della polizia. Sarebbe davvero interessante sapere con quale banda armata tratta il governo Letta-Alfano. Intanto l’Italia ha avviato, senza discuterne in parlamento, la «missione militare-umanitaria» per il soccorso a mare dei barconi di esseri umani in fuga e per il contrasto dell’immigrazione clandestina. Una commistione d’intenti che rischia di trasformarsi, in mare, in pericolosa ambiguità. Come definire altrimenti la doppiezza governativa? Con il cittadino Letta che si augura la fine della Bossi-Fini e il ministro Alfano che la difende e che insiste sulla perseguibilità del reato di clandestinità. Due le soluzioni, entrambi sulla pelle delle persone migranti. Male che vada, come purtroppo è prevedibile – al di là dell’umanità dei militari impegnati e delle storiche regole del mare – il contrasto umanitario che perseguita il reato di clandestinità pretende aggressività, volontà d’ordine, repressione, abbordaggio contro gli scafisti, recupero e accompagnamento al porto vicino più sicuro e anche a quello di provenienza. È l’ingaggio strabico che non è stato dichiarato da nessuno, ma che così dovrà essere applicato. Senza memoria di quello che fu nel marzo 1997 la tragedia annunciata della Kater I Rades, contrastata in mare dalla Sibilia della Marina militare che provocò 108 vittime, perché applicava il blocco navale militar-umanitario deciso davanti all’Albania dall’allora governo di centrosinistra. E invece, bene che vada, l’attuale missione militar-umanitaria, riporterà gli esseri umani che ci ostiniamo a considerare clandestini, in Libia (o a Malta perché tornino il Libia o a Lampedusa perché poi tornino in Libia), nei lager descritti nel reportage di Amedeo Ricucci. Una inchiesta, la sua, che dovrebbe essere vista dal parlamento italiano, che dovrebbe sentire l’autore nelle sue commissioni esteri e interni. Ci auguriamo che accada. Temiamo invece che non accadrà nulla. Solo un rumoroso silenzio militar-umanitario e tante lacrime e parole di circostanza ai funerali senza bare ad Agrigento delle 387 vittime del massacro di Lampedusa. Solo le ultime delle migliaia delle quali siamo responsabili.
Tommaso Di Francesco – ‘il manifesto’