è decisamente contento E. Scalfari degli atteggiamenti e degli interventi di papa Francesco: a lui il papa ha fatto delle telefonate e gli ha concesso un’ampia intervista; Scalfari a più riprese ha espresso la sua soddisfazione e su ‘la Repubblica’ odierna ne parla come di un papa ‘rivoluzionario’: pur non rinnegando la dottrina tradizionale esprime un approccio col messaggio evangelico in modo radicalmente diverso dalle impostazioni tradizionali che mettevano al centro il peccato anzjché la misericordia:
La rivoluzione di Francesco ha abolito il peccato
di Eugenio Scalfari
in “la Repubblica” del 29 dicembre 2013
Si cercano con insistenza le novità e le innovazioni con le quali papa Francesco sta modificando la
Chiesa. Alcuni sostengono che le novità sono di pura fantasia e le innovazioni del tutto inesistenti;
altri al contrario sottolineano le innovazioni organizzative che non turbano tuttavia la tradizione
teologica e dottrinaria; altri ancora definiscono Francesco, Vescovo di Roma come egli ama
soprattutto definirsi, un Pontefice rivoluzionario.
Personalmente mi annovero tra questi ultimi. È rivoluzionario per tanti aspetti del suo ancor breve
pontificato, ma soprattutto su un punto fondamentale: di fatto ha abolito il peccato.
Un Papa che abbia modificato la Chiesa, anzi la gerarchia della Chiesa, su una questione di questa
radicalità, non si era mai visto, almeno dal terzo secolo in poi della storia del cristianesimo e l’ha
fatto operando contemporaneamente sulla teologia, sulla dottrina, sulla liturgia, sull’organizzazione.
Soprattutto sulla teologia.
I critici di papa Francesco sottovalutano le sue capacità e inclinazioni teologiche, ma commettono
un grossolano errore. Il peccato è un concetto eminentemente teologico, è la trasgressione di un
divieto. Quindi è una colpa.
La legge mosaica condensata nei dieci comandamenti ordina e impone divieti. Non contempla
diritti, non prevede libertà. Il Dio mosaico descrive anzitutto se stesso: «Onora il tuo Dio, non
nominare il nome di Dio invano, non avrai altro Dio fuori di me».
Poi, per analogia, ordina di onorare il padre e la madre. Infine si apre il capitolo dei divieti, dei
peccati e delle colpe che quelle trasgressioni comportano: «Non rubare, non commettere atti impuri,
non desiderare la donna d’altri (attenzione: il divieto è imposto al maschio non alla femmina perché
la femmina è più vicina alla natura animale e perciò la legge mosaica riguarda gli uomini)».
Il Dio mosaico è un giudice e al tempo stesso un esecutore della giustizia. Almeno da questo punto
di vista non somiglia affatto all’ebreo Gesù di Nazareth, figlio di Maria e di Giuseppe della stirpe di
David. Non contempla alcun Figlio il Dio mosaico; non esiste neppure il più vago accenno alla
Trinità. Il Messia – che ancora non è arrivato per gli ebrei – non è il Figlio ma un Messaggero che
verrà a preannunciare il regno dei giusti. Né esistono sacramenti né i sacerdoti che li amministrano.
Quel Dio è unico, è giudice, è vendicatore ed è anche, ma assai raramente, misericordioso, ammesso
che si possa definire chi premia l’uomo suo servo se e quando ha eseguito la sua legge.
È Creatore e padrone delle cose create. Nulla è mai esistito prima di lui e quindi da quando esiste
comincia la creazione. Questo Dio i cristiani l’hanno ereditato trasformandolo fortemente nella sua
essenza ma facendone propri alcuni aspetti importanti: il divieto e quindi il peccato e la colpa.
Adamo ed Eva peccarono e furono puniti, Caino peccò e fu punito, e anche i suoi discendenti
peccarono e furono puniti. L’umanità intera peccò e fu punita dal diluvio universale.
Questo è il Dio di Abramo, il Dio della cattività egizia e babilonese, di Assiria, di Babele, di
Sodoma e Gomorra. Nella sostanza è il Dio ebraico o molto gli somiglia salvo che nella
predicazione di alcuni profeti e poi soprattutto in quella evangelica di Gesù.
Nei secoli che seguirono, fino all’editto di Costantino che riconobbe l’ufficialità del culto cristiano,
il popolo che aveva seguito Gesù offrì martiri alla verità della fede, fondò comunità, predicò amore
verso Dio e soprattutto verso Cristo che trasferì quell’amore alle creature umane affinché lo
scambiassero con il loro prossimo. Nacquero così l’agape, la carità e l’esortazione evangelica «ama
il tuo prossimo come te stesso».
Questo è il Dio che predicò Gesù e che troviamo nei Vangeli e negli Atti degli apostoli. Un Dio
estremamente misericordioso che si manifestò con l’amore e il perdono.
Nella dottrina dei Concili e dei Papi restano tuttavia le categorie del Dio giudice, del Dio esecutore
di giustizia, del Dio che ha edificato una Chiesa e man mano l’ha distaccata dal popolo dei fedeli.
Dall’editto di Costantino sono passati 1700 anni, ci sono stati scismi, eresie, crociate, inquisizioni,
potere temporale. Novità e innovazioni continue su tutti i piani, teologia, liturgia, filosofia,
metafisica. Ma un Papa che abolisse il peccato ancora non si era visto. Un Papa che facesse della
predicazione evangelica il solo punto fermo della sua rivoluzione ancora non era comparso nella
storia del cristianesimo.
Questa è la rivoluzione di Francesco e questa va esaminata a fondo, specie dopo la pubblicazione
dell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, dove l’abolizione del peccato è la parte più
sconvolgente di tutto quel recentissimo documento.
***
Francesco abolisce il peccato servendosi di due strumenti: identificando il Dio cristiano rivelato da
Cristo con l’amore, la misericordia e il perdono. E poi attribuendo alla persona umana piena libertà
di coscienza. L’uomo è libero e tale fu creato, afferma Francesco. Qual è il sottinteso di questa
affermazione? Se l’uomo non fosse libero sarebbe soltanto un servo di Dio e la scelta del Bene
sarebbe automatica per tutti i fedeli. Solo i non credenti sarebbero liberi e la loro scelta del Bene
sarebbe un merito immenso. Ma Francesco non dice questo. Per lui l’uomo è libero, la sua anima è
libera anche se contiene un tocco della grazia elargita dal Signore a tutte le anime. Quella scheggia
di grazia è una vocazione al Bene ma non un obbligo. L’anima può anche ignorarla, ripudiarla,
calpestarla e scegliere il Male; ma qui subentrano la misericordia e il perdono che sono una costante
eterna, stando alla predicazione evangelica così come la interpreta il Papa. Purché, sia pure
nell’attimo che precede la morte, quell’anima accetti la misericordia. Ma se non l’accetta? Se ha
scelto il Male e non revoca quella scelta, non avrà la misericordia e allora che cosa sarà di lui?
Per rivoluzionario che sia, un Papa cattolico non può andare oltre. Può abolire l’Inferno, ma ancora
non l’ha fatto anche se l’esistenza teologica dell’Inferno è discussa ormai da secoli. Può affidare al
Purgatorio una funzione “post mortem” di ravvedimento, ma si entrerebbe allora nel giudizio
sull’entità della colpa e anche questo è un tema da tempo discusso.
Papa Francesco indulge talvolta a ricordare ai fedeli la dottrina tradizionale anche se il suo dialogo
con i non credenti è costante e rappresenta una delle novità di questo pontificato che ha trovato i
suoi antecedenti in papa Giovanni e nel Vaticano II.
Francesco non mette in discussione i dogmi e ne parla il meno possibile. Qualche volta li
contraddice addirittura. È accaduto almeno due volte nel dialogo che abbiamo avuto e che spero
continuerà.
Una volta mi disse, di sua iniziativa e senza che io l’avessi sollecitato con una domanda: «Dio non è
cattolico». E spiegò: Dio è lo Spirito del mondo. Ci sono molte letture di Dio, quante sono le anime
di chi lo pensa per accettarlo a suo modo o a suo modo per rifiutarne l’esistenza. Ma Dio è al di
sopra di queste letture e per questo dico che non è cattolico ma universale.
Alla mia domanda successiva a quelle sue affermazioni sconvolgenti, papa Francesco precisò: «Noi
cristiani concepiamo Dio come Cristo ce l’ha rivelato nella sua predicazione. Ma Dio è di tutti e
ciascuno lo legge a suo modo. Per questo dico che non è cattolico perché è universale». Infine ci fu
in quell’incontro un’altra domanda: che cosa sarebbe accaduto quando la nostra specie fosse estinta
e non ci sarà più sulla Terra una mente capace di pensare Dio?
La risposta fu questa: «La divinità sarà in tutte le anime e tutto sarà in tutti». A me sembrò un arduo
passaggio dalla trascendenza all’immanenza, ma qui entriamo nella filosofia e vengono in mente
Spinoza e Kant: «Deus sive Natura» e «Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me».
«Tutto sarà tutto in tutti». A me, l’ho già detto, è sembrata una classica immanenza ma se tutti
hanno tutto dentro di sé potrebbe essere concepita anche come una gloriosa trascendenza.
Resta comunque assodato che per Francesco Dio è misericordia e amore per gli altri e che l’uomo è
dotato di libera coscienza di sé, di ciò che considera Bene e di ciò che considera Male.
Ma qui si pone un’altra e fondamentale domanda: che cos’è il Bene e che cosa è il Male? Credo sia
impossibile dare una definizione a questi due concetti. Una soltanto è possibile: sono necessari
l’uno all’altro per poter reciprocamente esistere di fronte ad un essere vivente che ha conoscenza di
sé. Gli animali non hanno il problema del Male e del Bene perché non possiedono una mente che si
guarda e si giudica. Noi sì, quella mente l’abbiamo. Se ci fosse solo il Bene, come definirlo? Ma se
c’è anche il Male l’esistenza di uno fa la differenza dell’altro come accade tra la luce e il buio, tra la
salute e la malattia, e se volete, tra esistenza e inesistenza. Il nulla non è definibile né pensabile
perché privo di alternativa.
***
Evangelii Gaudium non parla soltanto di teologia. Anzi parla molto più a lungo di altre cose,
concrete, organizzative, rivoluzionarie anch’esse. Parla del ruolo positivo e creativo delle donne
nella Chiesa. Parla dell’importanza dei Sinodi dei quali il Papa fa parte in quanto Vescovo di Roma,
“primus inter pares”. Parla dell’autonomia delle Conferenze episcopali. Parla dell’importanza delle
parrocchie e degli oratori sul territorio. Parla perfino di politica, non certo nel senso del politichese,
ma della politica come visione del bene comune e della libertà per chiunque di utilizzare lo spazio
pubblico per diffondere e confrontarsi con le idee altrui. Parla delle diseguaglianze che vanno
diminuite. «Io non ce l’ho con i ricchi, ma vorrei che i ricchi si dessero direttamente carico dei
poveri, degli esclusi, dei deboli». Così papa Francesco. E parla infine della Chiesa missionaria che
rappresenta il punto centrale della sua rivoluzione. La Chiesa missionaria non cerca proselitismo ma
cerca ascolto, confronto, dialogo.
Concludo con una frase che dice tutto su questo Papa, gesuita al punto d’aver canonizzato pochi
giorni fa Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia più nobile e più discussa tra gli Ordini della
Chiesa e contemporaneamente d’aver assunto il nome di Francesco che nessun Pontefice prima di
lui aveva mai usato. I gesuiti mettono al servizio della Chiesa la loro proverbiale e non sempre
apprezzabile flessibilità. Francesco d’Assisi era invece integrale nella sua visione d’un Ordine
mendicante e itinerante. L’Ordine francescano fu rivoluzionario ma la sua potenza fu molto limitata;
la Compagnia di Gesù al contrario fu potentissima e molto flessibile.
Questo Papa riunisce in sé le potenzialità degli uni e degli altri e conclude con due righe che
rappresentano la sintesi di questo storico connubio: «È necessaria una conversione del Papato
perché sia più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli. Non bisogna aver paura di
abbandonare consuetudini della Chiesa non strettamente legate al Vangelo. Bisogna essere audaci e
creativi abbandonando una volta per tutte il comodo proverbio “Si è sempre fatto così”. Bisogna
non più chiudere le porte della Chiesa per isolarci, ma aprirle per incontrare tutti e prepararci al
dialogo con altri idiomi, altri ceti sociali, altre culture. Questo è il mio sogno e questo intendo fare».
Questo dialogo riguarda anche e forse soprattutto i non credenti, la predicazione di Gesù ci
riguarda, l’amore per il prossimo ci riguarda, le diseguaglianze intollerabili ci riguardano. Un Papa
rivoluzionario ci riguarda e il relativismo di aprirsi al dialogo con altre culture ci riguarda.
Questa è la nostra vocazione al Bene che dobbiamo perseguire con costante proposito
è stato , da diverse parti, e comprensibilmente – soprattutto in riferimento all’affermazione perentoria contenuta nel titolo sull’ ‘abolizione del peccato’ – commentato l’articolo di E. Scalfari qui riportato (acuni, da parte tradizionalista e sterilmente critica ha accusato Scalfari di voler “insegnare il catechismo al papa” (cfr. ‘il Foglio’)
è intervenuto anche il portavoce vaticano stesso, padre Lombardi per puntualizzare diverse cose e mettere meglio a fuoco il pensiero di papa Francesco
E. Scalfari risponde così alle puntualizzazioni di p. Lombardi:
Francesco e il peccato
di Eugenio Scalfari
in “la Repubblica” del 31 dicembre 2013
Padre Lombardi ha rilasciato ieri alla Radio Vaticana una lunga dichiarazione sul mio articolo uscito
l’altroieri suRepubblica e ne segnala l’importanza come l’espressione da parte del mondo laico non
credente su come Papa Francesco sta modificando la struttura stessa della Chiesa. Lo ringrazio per
l’attenzione che pone al mio lavoro e al mio pensiero. C’è però nella sua dichiarazione alla Radio
Vaticana una netta smentita all’ipotesi da me formulata che il Papa abbia abolito il peccato. Questa
ipotesi è ovviamente una mia interpretazione la quale tuttavia è da me accompagnata da una
constatazione che qui trascrivo: “L’uomo è libero e tale fu creato, afferma Francesco. Qual è il
sottinteso di questa affermazione? Se l’uomo non fosse libero sarebbe soltanto un servo di Dio e la
scelta del Bene sarebbe automatica per tutti i fedeli. Solo i non credenti sarebbero liberi e la loro
scelta del Bene sarebbe un merito immenso. Ma Francesco non dice questo. Per lui l’uomo è libero,
la sua anima è libera anche se contiene un tocco della grazia elargita dal Signore a tutte le anime.
Quella scheggia di grazia è una vocazione al Bene ma non un obbligo. L’anima può anche ignorarla,
ripudiarla, calpestarla e scegliere il Male; ma qui subentrano la misericordia e il perdono che sono
una costante eterna, stando alla predicazione evangelica così come la interpreta il Papa. Purché, sia
pure nell’attimo che precede la morte, quell’anima accetti la misericordia. Ma se non l’accetta? Se
ha scelto il Male e non revoca quella scelta, non avrà la misericordia e allora che cosa sarà di lui?
Per rivoluzionario che sia, un Papa cattolico non può andare oltre”.
Da questa citazione di quanto ho scritto risulta evidente che il Papa non abolisce il peccato se la
persona umana, sia pure in punto di morte, non si pente e la mia conclusione, come già citato sopra,
è appunto quella che “un Papa cattolico non può andare oltre”. Da questo punto di vista Padre
Lombardi ed io la pensiamo allo stesso modo. Perché tuttavia io penso che Papa Francesco abbia
abolito di fatto il peccato? Ho cercato di spiegarlo subito dopo sottolineando che nel momento
stesso in cui il Papa pone come condizione alla conquista della grazia il pentimento, riafferma
tuttavia la libertà di coscienza e cioè il libero arbitrio che Dio riconosce all’uomo. Se, a differenza
di tutte le altre creature viventi, la nostra specie è consapevole della propria libertà, è il Creatore che
gliel’ha consentita. La libertà di coscienza fa dunque parte integrante del disegno divino. Il Dio
mosaico punisce chi esercita la sua libertà. punisce Adamo ed Eva cacciandoli dal Paradiso
terrestre, punisce Caino e i suoi discendenti, punisce l’umanità intera con il diluvio universale.
Quanto a Gesù (che sia figlio di Dio o figlio dell’uomo) è comunque incarnato e sente dentro di sé
le virtù, i dolori e le tentazioni della carne, altrimenti non si misurerebbe col demonio nei quaranta
giorni che passa nel deserto per respingerle. Ma soprattutto non accetterebbe il martirio e la
crocifissione assumendosi tutte le colpe degli uomini per ripristinare l’alleanza con Dio. Il Papa
cattolico ha come limite tradizionale la punizione di chi non si pente ma a mio avviso la supera nel
momento in cui l’uomo esercita la sua libertà di coscienza. La libertà di coscienza fa parte dunque
del disegno divino. Sua Santità ha rivendicato come suo autore preferito il Dostoevskij dei
FratelliKaramazov.
Padre Lombardi certamente ben conosce le pagine sul Grande Inquisitore e certamente le conosce
Papa Francesco. Il rapporto tra il Bene e il Male è dunque molto aperto in chi discute con i non
credenti. Mi permetto tuttavia di segnalare a Padre Lombardi la chiusura del mio articolo di
domenica che qui desidero riportare testualmente: “La predicazione di Gesù ci riguarda, l’amore per
il prossimo ci riguarda, le diseguaglianze intollerabili ci riguardano. Un Papa rivoluzionario ci
riguarda e il relativismo di aprirsi al dialogo con altre culture ci riguarda. Questa è la nostra
vocazione al Bene che dobbiamo perseguire con costante proposito”.
anche V. Mancuso ha voluto commentare l’articolo di Scalfari su riportato, puntualizzando, con maggiore senso e linguaggio teologico appropriato, in quale maniera precisa può parlarsi di ‘rivoluzione’ teologica ed ecclesiale di papa Francesco:
Il peccato nella Chiesa di Francesco
di Vito Mancuso
in “la Repubblica” del 3 gennaio 2014
Nell’editoriale di domenica scorsa Eugenio Scalfari ha sostenuto che papa Francesco è un Pontefice
«rivoluzionario » e che la sua rivoluzione consiste nella «abolizione del peccato». A mio avviso si
tratta di una tesi che contiene un’intuizione importante ma che ultimamente non può sussistere. Non
lo può anzitutto perché è troppo presto per stabilire se Francesco sia davvero rivoluzionario o anche
solo schiettamente riformista visto che la sua azione si deve ancora sostanziare in concreti atti di
governo (in primis nomine dei vescovi e reale libertà di insegnamento teologico) e in concrete
decisioni disciplinari (in primis effettiva promozione della donna e concessione dei sacramenti ai
divorziati risposati). Ma la tesi di Scalfari a mio avviso non regge soprattutto perché l’ipotetica
rivoluzione bergogliana non potrà mai consistere nella abolizione del peccato. «Confesso a Dio
onnipotente e a voi fratelli che ho molto peccato»: così comincia, dopo il saluto del celebrante, la
Messa cattolica, ricordando a ogni fedele di percepirsi anzitutto come peccatore, anzi, come uno che
ha «molto» peccato «in pensieri, parole, opere e omissioni». Lutero a sua volta insegnava
pecca
fortiter sed crede fortius
(pecca forte, ma più forte credi), legando l’atto di fede all’esperienza del peccato. E secondo il Vangelo le prime parole di Gesù furono: «Il regno di Dio è vicino,convertitevi» (Marco 1,15). Per il cristianesimo quanto più ci si avvicina alla luminosa sorgente del bene, tanto più aumenta la percezione dell’indegnità per il male prodotto dall’ego, unasituazione molto simile al chiaroscuro di Caravaggio e di Rembrandt.
L’abolizione del peccato venne tentata un secolo e mezzo fa in piena modernità da un filosofo molto
amato da Scalfari ma nemico mortale del cristianesimo, Nietzsche, il quale promosse una filosofia
che intendeva condurre gli uomini in un territorio «al di là del bene e del male» (il saggio omonimo
è del 1886). Si tratta però solo di un sogno, non privo peraltro di immensi pericoli, perché questa
terra promessa al di là del bene e del male purtroppo non esiste. Per noi uomini, qui e ora, tutto è “al
di qua” del bene e del male. C’è una politica buona e una politica che non lo è. C’è un’economia
buona, e una che non lo è. C’è una cronaca buona, e una che non lo è. A partire dalle più elementari
esperienze vitali quali l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo e il cibo che mangiamo, fino alle
più elevate produzioni della mente, tutto ciò che procede e ritorna alla vita dell’uomo è sempre
invalicabilmente “al di qua” del bene e del male. La libertà umana esiste, ed esistendo opera, e
quindi può agire bene oppure male in ogni dimensione. Volenti o nolenti, siamo così rimandati
all’esperienza del peccato, e ovviamente anche del merito. E infatti non c’è tradizione spirituale che
non conosca il concetto di peccato, sorto nella coscienza per il bisogno di segnalare le azioni che
producono una diminuzione del grado di ordine o di armonia. Da qui le catalogazioni ora secondo
l’oggetto come nel caso dei peccati (per esempio i cosiddetti “quattro peccati che gridano vendetta
al cospetto di Dio”), ora invece secondo la disposizione soggettiva come nel caso dei vizi (per
esempio i cosiddetti “sette vizi capitali”).
Si aprirebbe a questo punto la questione accennata anche da Scalfari sul perché tanto spesso l’uomo
sia attratto dal male, un interrogativo che incombe sul pensiero fin dalla notte dei tempi. La dottrina
cattolica risponde mediante il dogma del peccato originale, il quale ha il merito di segnalare il
problema ma il demerito ben maggiore di presentare una soluzione teoreticamente insufficiente e
moralmente indegna, al cui riguardo ha scritto Kant: «Qualunque possa essere l’origine del male
morale nell’uomo, non c’è dubbio che il modo più inopportuno è quello di rappresentarci il male
come giunto fino a noi per eredità dei primi progenitori».
Dicevo all’inizio che l’articolo di Scalfari contiene un’intuizione importante e a mio avviso essa
consiste nell’auspicabile superamento del cosiddetto amartiocentrismo, cioè di quella visione che fa
del peccato il perno della vita spirituale (amartíain greco significa peccato). Se il peccato infatti non
potrà (purtroppo) mai essere abolito, il suo primato sì, lo può, anzi lo deve essere, se il cristianesimo
vuole tornare a essere fedele al Vangelo e alla sua gioia — la quale va detto, diversamente da quanto
sostenuto da Scalfari, non si contrappone all’ebraismo, ma senza l’ebraismo non avrebbe potuto
sorgere.
Ma la cosa a mio avviso più preziosa dell’editoriale di Scalfari è quanto scrive alla fine, cioè che la
predicazione di Gesù «riguarda anche e forse soprattutto i non credenti». Rimane infatti da chiedersi
come la coscienza laica percepisca oggi il peccato, e come i non credenti possano anche loro
arrivare a dire «confesso a voi fratelli che ho molto peccato» (tralasciando ovviamente la prima
parte del Confiteor che si rivolge «a Dio onnipotente»). Penso infatti che lo scoprirsi inadempienti
di fronte all’imperativo etico sia inevitabile in chiunque conosca se stesso e penso altresì che la
percezione delle proprie colpe abbia precise implicazioni sociali. Penso inoltre che la dimensione
giuridica, la quale ritrascrive il peccato mediante il concetto di reato, non sia sufficiente a esprimere
tutta la densità umana del fenomeno. Come la legalità è solo una pallida immagine della giustizia,
così lo è il concetto di reato rispetto alla tensione che manifesta la coscienza del peccato. Forse chi
ha espresso al meglio questa dialettica è stato Dostoevskij in Delitto e castigo, il romanzo che nel
1866 inaugurava il ciclo narrativo che l’ha reso immortale