gli scartati della globalizzazione
di Leonardo Becchetti*
in “La Stampa-Vatican Insider” del 3 giugno 2015
La globalizzazione doveva portare alla fine della storia, frullando in un omogeneizzato compatto tutte le culture e offrendo dividendi e partecipazione a tutti. Quello che sta accadendo è invece il paradosso di un’uniformità di visione economica e di progresso tecnologico che produce derive identitarie e quantità enormi di “scartati”. Sempre più persone nelle società occidentali non votano, non lavorano né studiano, insomma non partecipano alla vita sociale e questo inevitabilmente finisce per erodere il capitale sociale, quel collante fondamentale di fiducia, cooperazione, reciprocità, dono e senso civico che tiene insieme l’edificio sociale ed economico. La verità è che il progresso tecnologico che automatizza non solo il lavoro routinario ma anche parte di quello creativo non ha bisogno di tutti per funzionare. E’ evidente che in società come queste il problema della distribuzione diventa quello fondamentale. Se volessimo estremizzare per assurdo si potrà arrivare un giorno ad un’unica super macchina che produce e vende tutto quello di cui l’umanità ha bisogno. Il proprietario di questa super macchina sarebbe l’uomo più ricco del mondo e l’unico a percepire reddito ma qui si pone il problema di come fare a sostenere il potere d’acquisto degli esclusi che dovrebbero acquistare i prodotti. Fantapolitica, d’accordo, ma se osserviamo che già oggi gli 85 più ricchi del pianeta hanno la stessa ricchezza dei 3 miliardi dei più poveri e che le banche centrali si affannano ad inondare il mondo di liquidità per sostenere la domanda asfittica ci rendiamo conto che la realtà non è poi così lontana da questo estremo. L’altro enorme problema che abbiamo di fronte, oltre a quello della distribuzione e della sostenibilità sociale dello sviluppo, è quello della sostenibilità ambientale. Soprattutto quando consideriamo quei beni ambientali non appropriabili e non rinnovabili come il clima che rappresentano beni pubblici globali sottoposti ai tradizionali dilemmi che rendono difficile il coordinamento tra diversi paesi sovrani per la riduzione delle emissioni. La metafora più calzante è quella del surfista che “cavalca” una gigantesca onda nell’oceano. Lo osserviamo ammirati in quell’equilibrio precario e non sappiamo se alla fine riuscirà ad arrivare prima dell’onda o se l’onda che lo “insegue” lo travolgerà. In altri termini l’umanità sta correndo per cercare di sfuggire alla catastrofe ambientale (mentre già paga le conseguenze dei danni provocati) ma non sappiamo se sarà in grado di correre abbastanza veloce oppure no. Dell’ambiente parlavano fino ad una decina di anni fa solo gli ambientalisti mentre oggi la sostenibilità è diventata un fattore competitivo di business aprendo molti importanti settori (dal riciclo dei rifiuti che diventano risorsa alla ristrutturazione energetica degli edifici) ma, ancora, non sappiamo se questo basterà. Una soluzione esiste ed è l’economia civile. Il modello tradizionale a due mani dove la somma degli egoismi degli homines economici e delle imprese massimizzatrici di profitto viene riconciliata magicamente ed eroicamente in bene comune dall’azione dei due dei ex machina del mercato e delle istituzioni (benevolenti, perfettamente informate e così solide da non essere catturate dai regolati) non funziona e non può funzionare. La soluzione dell’economia civile è quella di un modello a quattro mani dove l’azione di mercato e istituzioni è integrata e complementata da quella dei cittadini responsabili che fanno cittadinanza attiva e votano col loro portafoglio e dalle imprese pioniere che abbandonano lo schema riduzionista della massimizzazione del profitto per diventare multistakeholder e creare valore economico in modo sostenibile ripartendo lo stesso in modo più equo tra i diversi portatori d’interesse. Quest’economia a quattro mani è anche la soluzione al problema da cui siamo partiti, quello degli scartati perché le aziende responsabili sono di solito aziende low profit e ad alta intensità di lavoro e perché le modalità di ingaggio dell’economia civile coinvolgono i cittadini in molte pratiche di cittadinanza attiva promuovendo inclusione e contribuendo alla creazione di capitale sociale. Al famoso esempio di Keynes che parlava delle buche da riempire come lavori pubblici per superare la
crisi del ’29 l’economia civile contrappone le iniziative di impegno civico e le palestre di capitale sociale e di cittadinanza attiva che non sono semplicemente dei riempitivi per oziosi ma un modo avvincente e coinvolgente di partecipare e di far fiorire la propria vita lavorando per promuovere benessere e dignità di tutti. La soluzione è portata di mano ma ancora non è divenuta mainstream. Cosa aspettiamo ? Dipende solo da noi. Il mercato è fatto di domanda e di offerta e la domanda siamo noi. Se useremo il voto col portafoglio per premiare le aziende leader nella sostenibilità sociale ed ambientale il problema sarà risolto. Mosè convinse gli ebrei ad uscire dall’Egitto nonostante questi ultimi sapessero che rischiavano la vita e la rappresaglia del faraone. A noi serve molto meno perché spostare le nostre scelte di risparmio e di consumo fa parte delle facoltà di scelta assolutamente ammissibili in una società liberale. Il vero faraone siamo noi ovvero l’incapacità di mettersi in moto verso la soluzione di tanti di noi per mancanza di consapevolezza e di coordinamento. La sfida affascinante della wikieconomia sta dunque nel costruire questa consapevolezza e questo coordinamento giorno dopo giorno attraverso il nostro lavoro sui social per creare quel bene comune collaborativo della nuova economia civile. E già questo è un compito bellissimo che risolve il problema dello scarto e della mancata partecipazione. Perché non si tratta di un’opera per uomini soli al comando ma di un lavoro collettivo dove siamo tutti protagonisti.
* economista, docente di Economia politica all’Università di Roma Tor Vergata