l’incanto è indispensabile per «costruire un mondo diverso che deve prima abitare negli occhi»

cercando in ogni giorno l’incanto del Regno

di Lucia Capuzzi
in “Avvenire”

Angelo Casati, L’alfabeto di Dio, Il Saggiatore

Casati

Max Weber, il padre della sociologia, definiva la modernità come l’epoca del «disincantamento del mondo», in cui la scienza aveva esautorato dalla natura il magico, lo spirituale, il sacro. Eppure, adesso più che mai, l’incanto è indispensabile per «costruire un mondo diverso che deve prima abitare negli occhi». Perché «se ti incanti davanti a un volto non ti accadrà di sfigurarlo; se ti incanti davanti a un’anima, non ti accadrà di occuparla; se ti incanti davanti a una terra, non ti accadrà di sfruttarla».

L’autore di queste parole, Angelo Casati, è un esperto sul tema. Nei suoi oltre sessant’anni di ministero sacerdotale, si è esercitato nell’arte di incantarsi, accogliendo il suggerimento di Isacco di Ninive. Don Casati si incanta di fronte ai visi degli uomini e delle donne, ai fiori che si ostinano a spuntare sui marciapiedi della ‘sua’ Milano, al mattino, al vento, ai bambini, ai vecchi. In una parola, alla vita. Quella che comincia ogni giorno «quando sgusci dalle coperte e termina quando vi rientri la notte». Perché lì, nella carne, nella storia «bistrattata» degli umani, Dio scrive, col suo alfabeto, il sogno del Regno.

Il recente libro di don Casati, L’alfabeto di Dio è un elogio dei piccoli, degli ordinari, degli esclusi: i preferiti di Gesù, secondo il Vangelo

Casati

Il saggio si ‘srotola’ come un piccolo dizionario di suggestioni e riflessioni bibliche, intorno ad alcune parole-chiave. E a soffermarsi sull’elenco dei 38 termini scelti, s’intravede, in controluce, il filo rosso che li unisce. È la ricerca estenuante e gioiosa del volto di Dio nel mondo. Pur sapendo che, scrive don Angelo, nessuno sguardo né parola umana, pur gloriosa, può contenere «l’incandescenza della sua luce o della luce della verità». Per questo, da poeta qual è, l’autore preferisce «scrutare il cielo e la terra a tutto campo», non intristito «dall’arroganza del possesso della verità», per «sorprenderne i segni», «innamorarsi delle tracce». Solo così, il sacerdote può davvero entrare nella casa dell’altro. A cui non si accede sfondando la porta bensì come fa Dio «bussando al silenzio e alla libertà». Questa è la mitezza evangelica. Non debolezza di fronte al male. «Proprio perché la mitezza nasce dalla carezza del volto dell’altro, dalla sua difesa, nei veri miti, e si pensi a Gesù, trovi questa mescola sorprendente di mitezza e di fortezza». Certo, non è facile familiarizzare con l’alfabeto di Dio sparso nei granelli di sabbia dei nostri giorni e delle nostre notti. Ci vuole un’esistenza intera e nemmeno questa basta. Come scolaretti, però, non possiamo sottrarci al fascino di provare a catturare qualche lettera, fosse anche uno scarabocchio. Magari gli occhi si sono fatti opachi, per la «cataratta dello spirito» «incapaci di sorprendere il mistero che abita le cose». Allora non resta che fermarsi, «indugiare alla soglia delle cose». Se la fretta ci fa predatori e l’effimero ci imprigiona nel qui e ora, l’antidoto alla disumanizzazione in questo tempo del consumo vorace e spietato è, ancora una volta, l’incanto.




i volti del divino e il divino dei volti

il divino e i volti

di Angelo Casati

in “Esodo” n. 4 del dicembre 2015

Casati

Il divino e i volti. Ringrazio per il congiungimento – per la “e” del congiungimento tra il divino e i volti -. Ho sofferto a lungo, troppo a lungo, per la schizofrenia di un divino che mi veniva raccontato come prendere distanza dall’umano, e la sete del volto di Dio raccontata come purificazione dalla sete del volto delle donne e degli uomini del mio tempo, e questo nei giorni in cui mi andavo sempre più innamorando. Innamorando dei volti.

Veniva sera e scrivevo: I volti degli amici sono come Terra Promessa: pochi metri di zolla nera e feconda che conosco palmo a palmo, come il ramificarsi delle vene su una mano. I volti dei miei amici sono come lo specchio del tempo. Li interrogo in silenzio la sera: negli occhi s’è fissata e ancora vive, tutta, l’avventura di un giorno: ancora inseguono scomode immagini, come mozziconi che nessuno osa spegnere in ceneri di indifferenza. Dilaga nella piega degli occhi la lotta dei disperati, l’amore dei folli, questo nostro sperare contro ogni speranza. Sui volti dei miei amici ripercorro ogni giorno il sentiero inquieto delle nostre domande senza risposta. Unica certezza – tra sabbie e deserti di scelte provvisorie – il Cristo Presenza e Assenza, vicino come la carne di uno sposo, e atteso nella notte con fiaccole che faticano al vento quasi fossero sul punto di morire. E noi, amici? Noi chiamati a rischiare la notte, a decidere al buio – quando fioca è la luce – per un cammino o per l’altro. Perché non parli, o Signore? Nostra nuova condizione è non sapere e sperare contro ogni speranza. Volti dei miei amici volti senza presunzione, immagine della speranza dei folli. Volti dei miei amici, la terra del domani. La frequentazione della Paola creava congiungimento di divino e di volti. Mi affascinava e mi intrigava l’immagine di un Dio che si lasciava prendere da stupore per ciò che gli era uscito dalle mani: “E vide che era cosa buona, bella”. Lui al culmine dello stupore, quando gli riuscì di creare un uomo e una donna: “E vide che era cosa molto buona, molto bella”. Parte di lui abitava quel volto di donna, quel volto di uomo, li aveva creati a sua immagine, secondo la sua somiglianza. E la parola immagine, nella lingua antica, non racconta una fotografia, ma una custodia di presenza, della presenza del divino nel volto. A volte l’affresco parlava nei suoi colori. A volte purtroppo – e furono secoli! – l’affresco veniva dimenticato o appesantito di sovraccarico. Ci furono giorni in cui scordammo l’affresco delle origini, che parlava di volti abitati. Nuovi maestri, cosiddetti dello spirito, mi parlavano di un Dio di cui innamorarmi, da contemplare, e di donne e uomini da relativizzare, dai quali distogliere gli occhi. Ci furono anche giorni in cui in Seminario – e rabbrividivo – mi portavano come esempio di virtù S. Luigi Gonzaga, per il fatto che non guardasse in volto, perché donna, sua madre. A me sembrava pura schizofrenia. Come se amare la vita, fosse togliere qualcosa a Dio. Un disamoramento chiamato virtù. Pensavo all’incarnazione. Non era il superamento della schizofrenia, tra Dio e uomo? Dio si è fatto uomo. Dio lo trovi dove? Dove è andato a nascondersi? Nella carne, nella storia degli umani. Non è contro la vita, è nella vita. Oggi, alla domanda dov’è andato a nascondersi Dio, mi si accende nel cuore l’indicazione di una preferenza che urge come una segnalazione. Da non scordare. Pena il perdere l’appuntamento. Risuona già insistente nel primo Testamento dove Dio in pagine e pagine viene evocato come il difensore dell’orfano, della vedova, dello straniero, di coloro che portano scritta nella pelle un’ assenza che grida, assenza di difesa, di affetti, di terra. Dio congiunto a loro. Dove si è nascosto Dio? Al cuore mi ritorna un racconto, quello biblico del roveto che narra di Mosè che nei pressi di un monte, al di là del deserto, vide un roveto ardere e non consumarsi. Mosè si avvicinò, ma Dio gli parlò dal roveto chiedendogli di sostare: “Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo, sul quale tu stai, è suolo santo!”. Ci dovrebbe dunque condurre il sospetto che il luogo che calpestiamo sia sacro, mescola di umano e divino. Dove si è nascosto Dio? Un midrasch della tradizione rabbinica cerca di spiegare l’immagine del roveto che arde e non si consuma. Ecco come la interpreta: “Il Santo, benedetto sia, disse a Mosè: ‘Non senti che io sono nel dolore proprio come Israele è nel dolore? Guarda da che luogo ti parlo: dalle spine! Se così si potesse dire, io condivido il dolore di Israele’. Perciò si legge anche (Is 63,9): ‘In tutte le loro angustie Egli fu afflitto’” (Esodo Rabbà 2,5). Dov’è il divino, dove si è nascosto Dio? Fedele alla sua tradizione, con la sua vita ancor prima che con le sue parole, Gesù ha insegnato dove Dio oggi si nasconde, dove lui stesso oggi è presente: “Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,34-40). Sembra di capire il perché della preferenza di Dio e, di conseguenza, il perché della scelta preferenziale per i poveri – per i poveri di ogni categoria – a cui siamo chiamati urgentemente dalla Parola di Dio. Una scelta cui spesso ci chiama papa Francesco. Perché la preferenza? Non certo perché Dio faccia preferenza di persone, ma perché di questi suoi figli vede i volti violati, sconsacrati, depauperati della sua immagine divina. Altri hanno mezzi e stratagemmi con cui difendersi, hanno accoliti e solidali che li difendono, questi no. Li difende Dio, li difendono i veri credenti in Dio. E quando succede che a difenderli siano gli atei, Dio si sente difeso dagli atei. E quando succede che non li difendano i credenti, Dio si sente abbandonato e sconfessato dai credenti. Paradossi della storia! C’è una conversione da operare. Una conversione di sguardi e di cuore. A chi normalmente vanno i nostri sguardi? Chi ha un posto – e dovrebbe essere posto di preferenza – nei nostri sguardi? E nelle nostre assemblee pastorali? E nei nostri programmi pastorali? Alcuni di noi forse ricordano con commozione come la Didascalia degli apostoli (III secolo) prescrivesse al cap. 12 che, ad accogliere nell’assemblea i poveri, uomini o donne che fossero, doveva essere il vescovo stesso e non i diaconi, e che doveva essere ancora il vescovo a procurare loro un posto e che, se questo non si fosse trovato, doveva cedere il suo e sedere a terra ai loro piedi. “È questo un sogno? – si chiedeva anni fa il teologo don Pino Ruggieri -, o sono piuttosto un tradimento dell’eucaristia quelle celebrazioni che ripropongono, nella disposizione dei partecipanti e nello stile della partecipazione, le gerarchie mondane, ma anche soltanto l’educato stare ognuno per conto suo?”. Non è forse vero che riconsacriamo il pane del Signore ogni volta che ci lasciamo trascinare dal gesto, l’ultimo che il Signore ci ha lasciato come comando, in quella sua ultima cena, il gesto del servo che si china a lavare i piedi stanchi? E dunque ricondotti anche noi ai piedi, impolverati di fatiche, delle donne e degli uomini con cui camminiamo, nel desiderio di sollevarli dalle stanchezze e di rialzarli a dignità? Uno sguardo di preferenza ai loro volti. Uno sguardo segnato dalla tenerezza. Perché non basta vedere. Anche il sacerdote e il levita della parabola videro, ma passarono oltre. A differenza del samaritano che vide e sentì rivoluzionarsi dentro le viscere per la compassione. C’è modo e modo di vedere le sofferenze dell’umanità, e c’è modo e modo di parlarne, nelle nostre omelie e nei nostri incontri. Posso vedere e posso parlare senza “toccare”, senza “lasciarmi toccare” da ciò che vedo, da ciò di cui si sta parlando. Posso guardare e parlare a occhi asciutti. O mi si possono inumidire gli occhi. C’è un modo distaccato, professionale, asettico di guardare e di parlare. Si può guardarlo come un caso da risolvere, come un caso che, se gli dai attenzione, ti ruba tempo, un caso che in qualche modo ti crea disagio o ti contagia. Ci sono anche oggi categorie che noi sospettiamo di contagio, sbrigativamente li chiamiamo “irregolari”, portano ferite devastanti nell’anima, esclusioni che sono morti civili. Forse il sacerdote e il levita avevano una purezza da salvaguardare, chissà, in vista di quali celebrazioni nel tempio! Avevano una sacra giustificazione per “girarsi dall’altra parte”. Quante volte non ci si ferma, invocando una non opportunità. Una non opportunità secondo le convenzioni codificate. Ma un’opportunità secondo il vangelo. Il 10 luglio di quest’anno a Santa Cruz della Sierra, in Bolivia, parlando di volti ai movimenti popolari, Francesco, il vescovo di Roma, diceva: “Quando guardiamo il volto di quelli che soffrono, il volto del contadino minacciato, del lavoratore escluso, dell’indigeno oppresso, della famiglia senza casa, del migrante perseguitato, del giovane disoccupato, del bambino sfruttato, della madre che ha perso il figlio in una sparatoria perché il quartiere è stato preso dal traffico di droga, del padre che ha perso la figlia perché è stata sottoposta alla schiavitù; quando ricordiamo quei “volti e nomi” ci si stringono le viscere di fronte a tanto dolore e ci commuoviamo… Perché “abbiamo visto e udito” non la fredda statistica, ma le ferite dell’umanità sofferente, le nostre ferite, la nostra carne. Questo è molto diverso dalla teorizzazione astratta o dall’indignazione elegante. Questo ci tocca, ci commuove e cerchiamo l’altro per muoverci insieme. Questa emozione fatta azione comunitaria non si comprende unicamente con la ragione: ha un “più” di senso che solo la gente capisce e che dà la propria particolare mistica ai veri movimenti popolari”. Scoprire il divino nei volti significa in qualche misura anche perdersi. Perdersi a contemplare – sia pure attraverso un’esile fessura –. Perdersi a contemplare l’oltre che abita i volti . Qualcosa che eccede, qualcosa che fa la dignità di quel volto, che a volte è stato piegato in un nome, in un genere, in un’età, in una categoria, in una professione, in una cultura, in una religione. Se ti perdi con gli occhi nell’aldilà che lo abita, sfiori il divino. Un oltre che diventa per te nutrimento. Spesso mi fermo a pensare e anche a ringraziare per i volti. Sono stati la mia ricchezza, il mio nutrimento. Quello che io sono in gran parte lo devo a loro, all’oltre che li ha abitati. Se ti perdi nei loro volti, i crocifissi della storia, che nel migliore dei casi vengono considerati come oggetto di cui prendersi cura, vengono strappati alle loro periferie per ritrovare dignità: da oggetto diventano soggetto, protagonisti, portatori di dignità e di ricchezza, creature che possono dare, possono ospitare, possono insegnare. Come non ricordare la donna del vangelo che Gesù, alla fine della sua vita pubblica, invita a guardare? Quasi ci dicesse: “Guardate lei, imparate da lei”. Intrigante pensare che, alla fine del vangelo, Gesù lasci in eredità un volto. Di una donna, vedova e povera. Nella sua povertà ha lasciato scivolare due monetine nel tesoro del tempio, era quanto aveva per vivere. E Gesù la mette in cattedra, mentre spodesta altri dalle loro solenni, altezzose cattedre; ha appena finito di dire: “Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa” (Mc 12,38- 40). Dal vangelo viene una consegna, quella di ricondurre dalla terra di esilio in cui sono stati deportati, dalle periferie della società in cui sono stati emarginati, dai silenzi in cui sono stati zittiti, gli ultimi della terra. Gli ultimi che per il vangelo sono i primi: qui sta la rivoluzione del vangelo, negata o incompiuta. Gli ultimi che Gesù difese a costo di morte, restituendo loro quella dignità di cui spesso vengono illegalmente espropriati. Gli ultimi, i dimenticati, inghiottiti nelle nebbie della nostra dilagante indifferenza, nelle nostre agghiaccianti leggi di esclusione, esclusione illegale in umanità. Gli ultimi, una categoria dell’umanità, che dovrebbe aver un posto di privilegio, terra sacra, nella vita di ogni vero discepolo del vangelo. Potremmo azzardare domande: attingiamo alla sapienza degli ultimi? Li mettiamo in cattedra nei nostri consigli pastorali, nelle nostre assemblee ecclesiali? A chi diamo la voce nei nostri grandi convegni, nelle imponenti faraoniche manifestazioni ecclesiali? Troviamo presenti i loro volti? Ci prende timore che in assenza dei loro volti, in una misura non indifferente, si nasconda anche Dio? Una rivoluzione? Incompiuta o nemmeno iniziata? Se ne intravedono inizi – e nemmeno tanto timidi, in alto, che più alto non si può – quasi un segnale per tutta la chiesa e non solo per la chiesa. Forse queste mie parole – le mie troppe parole – possono efficacemente essere racchiuse in una sola immagine, quella dei centocinquanta clochard in visita ai Musei vaticani e alla Cappella Sistina il 26 marzo scorso, su invito di papa Francesco. Passi offrire la cena! Ma offrire una visita ai musei e alla cappella Sistina, con guida di esperti? È gesto che rivendica dignità di occhi e di intelligenza per coloro che noi chiamiamo “barboni”. Dignità, intelligenza, capacità di godere della bellezza, un volto! A sorpresa il papa si affacciò nel mezzo della loro visita, strinse le mani a ciascuno, disse loro: “Benvenuti. Questa è la casa di tutti, è casa vostra. Le porte sono sempre aperte per tutti”. I suoi occhi! I suoi occhi mentre li guarda. Li vedi come perduti in un’icona, quasi stessero sulla soglia. Sulla soglia del divino. Invito a una sosta.

Angelo Casati




ha un volto la misericordia?

il volto della misericordia

di Angelo Casati
in “Mosaico di pace” del febbraio 2016

Casati

“non cadiamo nell’indifferenza che umilia, nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che distrugge. Apriamo i nostri occhi per guardare le miserie del mondo, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità, e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro grido di aiuto. Le nostre mani stringano le loro mani, e tiriamoli a noi perché sentano il calore della nostra presenza, dell’amicizia e della fraternità. Che il loro grido diventi il nostro e insieme possiamo spezzare la barriera di indifferenza che spesso regna sovrana per nascondere l’ipocrisia e l’egoismo”

papa3

Non posso che spigolare. Spigolare dietro un’abbondanza. L’abbondanza di una lettera. Non sono un esperto di giubilei del passato né delle loro bolle di indizione, sono lettore della lettera che papa Francesco ha scritto, con la quale apre questo giubileo, “Misericordiae vultus”. “Lettera” sta scritto. Mi sono detto che non dovremmo leggerla come un documento, quasi depredandola della sua qualifica di lettera. Un conto è quando leggi un testo, un conto è quando apri e leggi una lettera. La differenza è enorme. Se è lettera, in primo piano c’è un volto e tu ascolti racconti. Le lettere è difficile riassumerle, e forse anche farne commento, forse puoi solo raccontare emozioni. A busta richiusa. Per certe lettere mai chiusa. La premessa va da un lato a dire l’entusiasmo per il genere letterario della “lettera”, ma anche a segnalare l’orizzonte piccolo delle mie riflessioni: saranno emozioni di lettura. Niente di più: sono principiante, per natura un principiante. Una prima emozione è nella titolazione “Misericordiae vultus”. Il volto: confesso che ho passato una vita a cercare volti. Soprattutto volti. Più che ottantenne ancora cerco volti, mi interessano i volti. Volti — diceva Italo Mancini —”da guardare, da rispettare, da accarezzare…”. Ha un volto la misericordia? Starei per dire che il suo volto, la sua identità, la sua passione è “guardare, rispettare, accarezzare i volti”, senza esclusioni. La lettera di Francesco invita a guardare, a toccare con tenerezza: “Non cadiamo nell’indifferenza che umilia, nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che distrugge. Apriamo i nostri occhi per guardare le miserie del mondo, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità, e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro grido di aiuto. Le nostre mani stringano le loro mani, e tiriamoli a noi perché sentano il calore della nostra presenza, dell’amicizia e della fraternità. Che il loro grido diventi il nostro e insieme possiamo spezzare la barriera di indifferenza che spesso regna sovrana per nascondere l’ipocrisia e l’egoismo” (n.15). Ebbene, mi sembra di poter dire che il volto, i volti, hanno a che fare con le porte e penso alle porte dell’anno santo. La porta, immagine di una bellezza mozzafiato, la porta, che fa squarcio nell’immobile durezza del cemento armato. È con la misericordia che tu bussi e passi umile e fiducioso la porta dell’altro. Giubileo come aprire porte. Ma non puoi dimenticare la precedenza: se tu passi una porta, è perché Dio per primo l’ha passata per te, verso di te. La tua misericordia, il tuo sguardo di misericordia, il tuo volto di misericordia ha un incipit nella misericordia del tuo Dio. Lui, il primo a passare la porta verso di te, a mostrarti il suo volto. Troppo a lungo abbiamo annunciato un Dio impassibile, distaccato, in alto; meno, un Dio toccato nelle viscere dalla nostra fragilità e dal nostro peccato. Toccato nelle viscere —dice l’Antico Testamento —come succede a una donna quando porta in grembo un piccolo d’uomo. Così Dio. È toccato nelle viscere per noi, quando ancora noi non siamo toccati nella via di una conversione. Ed era lo scandalo del Vangelo. Gesù passava la porta prima che i peccatori si fossero convertiti. Così agendo diventava insopportabile. Insopportabile l’idea che — come successe quel giorno con Zaccheo, ma fu una volta tra le tante — sedesse a pranzare con pubblicani e peccatori. Si badi, non convertiti. Perché nel caso avessero premesso un atto di pentimento, nessuno avrebbe gridato allo scandalo. Quella festa, con quelle voci che giungevano sin sulla strada, era per i benpensanti della religione indecorosa. Ma così è Dio, e così, con questi banchetti, il Figlio lo raccontava. Ed era questo a convertire. A convertirti non è certo uno sguardo inceneritore, bensì la tenerezza che pulsa nello sguardo dell’altro. Che non ti guarda dall’alto in basso. Anche questa è mistificazione della misericordia. Misericordia non significa far piovere dall’alto una sorta di compassione, quasi dicessimo “oh poverini!”. Non è questa la misericordia di Dio. Che va, invece, a riconoscere e a scommettere sulla bellezza che è in te. Dio ti riconosce dignità vestendoti. Lo fece
con Adamo ed Eva, lo raccontò Gesù narrando di un padre che fece una festa da sogno per il figlio che se n’era andato e lo vestì dell’abito più luminoso. dal basso in alto Non dall’alto in basso, ma dal basso in alto. Misericordia è inginocchiarsi. Ancora mi ritorna alla memoria, quasi icona, il Gesù piegato a terra il giorno in cui gli portarono, quasi fosse un oggetto, la donna sorpresa in adulterio. E Gesù, a confronto con gli scribi e i farisei, che, da giudici spietati, volevano la lapidazione della donna, che cosa disse e che cosa fece? “Chi di voi” disse “è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”. E poi, dopo aver scritto parole segrete per terra, sulla sabbia, si alzò e disse “Donna, nessuno ti ha condannata? Nemmeno io ti condanno. Va’ e d’ora in poi non peccare più”. Dal loro alto scribi e farisei la condannavano, lui dal basso “faceva misericordia”. Quel giorno sulla sabbia accadde la misericordia. Il Gesù piegato. Piegato fa la misericordia. Se non ti pieghi dici a parole misericordia, ma non fai la misericordia. La donna sentì parole che erano a centimetro di viso, le altre arrivano da grattacieli di spietatezza.
Dio passa la porta inginocchiandosi davanti a te. Messaggio per una Chiesa. Dimenticato? Troppo critici, direbbe qualcuno. Ma la constatazione, se pur preceduta da un incantevole “forse”, è di papa Francesco: nella lettera osa dire che in qualche misura si è smarrito il cuore dell’Evangelo, che si è ampiamente e a lungo declinato la fede con parole marginali, impallidendone la buona notizia, impallidendo il vero nome di Dio che è “misericordia”. Temo che ancora non ci sfiori l’intensità e l’urgenza di questa denuncia del Papa che scrive: “Forse per tanto tempo abbiamo dimenticato di indicare e di vivere la via della misericordia” (n.10). Per tanto tempo! sosta laica Passo di emozione in emozione leggendo, né mi rimane tempo di sostare. Vorrei, prima di consegnare questi pensieri su volti e su porte, fare un accenno alle porte che forse un poco rozzamente chiamiamo “laiche”. Per recensire un altro stupore. Perché per troppo tempo eravamo abituati a giubilei che fossero passare la porta santa in un luogo liturgico, nella sfera del cosiddetto sacro. Ma se in una lettera ti viene sussurrato che l’indulgenza tu la ricevi in dono, anche se fai un’opera di misericordia, tutto cambia. A me sa di rivoluzione. Quasi a dire che ci sono porte sante “laiche”, ci sono porte sante di “non credenti”. Le opere di misericordia, infatti, non sono forse quelle che l’Evangelo in una parabola attribuisce a coloro che non hanno conosciuto il Signore, ma si sono sentiti dire di averlo servito solo perché si sono chinati sulla sofferenza degli umani? Passerò per un sognatore, ma non riesco a non immaginarmi porte sante nelle case e per le strade, vado riconoscendo porte sante anche là dove qualcuno proprio non le metterebbe. Non ha forse chiarito anche questo, Francesco, quando, parlando dei carcerati, ha scritto: “Ogni volta che passeranno per la porta della loro cella, rivolgendo il pensiero e la preghiera al Padre, possa questo gesto significare per loro il passaggio della Porta santa”. Cammino e vedo porte sante.