cinquanta anni di ‘opzione per i poveri’

Medellín, 50 anni dopo. L’opzione per i poveri declinata al futuro

Medellín, 50 anni dopo

l’opzione per i poveri declinata al futuro

tratto da: Adista Documenti n° 32 del 22/09/2018
«Simbolo della memoria fondante della Chiesa latinoamericana», secondo le parole del teologo brasiliano Luiz Carlos Susin, Medellín resta un’insostituibile fonte di ispirazione per il presente. È in quest’ottica che l’ultimo numero di Voices – la rivista di teologia dell’Associazione ecumenica di teologi e teologhe del Terzo Mondo (Eatwot o Asett) – celebra il cinquantesimo anniversario della II Conferenza episcopale latinoamericana, svoltasi nella città colombiana di Medellín nel 1968, l’anno delle utopie per eccellenza, l’anno di Praga, di Parigi e di Woodstock.

E se è a Medellín che, secondo le parole del teologo spagnolo José María Vigil, ha avuto inizio, intorno all’opzione per i poveri, «tutta la spiritualità della liberazione» (la Chiesa dei poveri, la teologia della liberazione, la cristologia della liberazione), dopo 50 anni – si chiede Susin nell’introduzione –, in tempi segnati dallo strapotere del mercato e del capitalismo finanziario, dalla disuguaglianza crescente e dalla minaccia globale agli ecosistemi planetari, «dove stiamo andando? Qual è la memoria e l’interpretazione del cammino percorso? E qual è il futuro, tenendo conto dei nuovi contesti e degli eventi post-Medellín»? È a questi interrogativi che cercano di rispondere gli autori del numero, a partire dai tre punti che meglio riassumono lo spirito della Conferenza: l’onestà dello sguardo verso la durissima realtà dei popoli latinoamericani, l’opzione per i poveri e la liberazione «come principio e cammino dell’evangelizzazione e della pace attraverso la giustizia».

Se, a giudizio del teologo brasiliano Carlos Alberto Motta Cunha e di Geraldo Luiz De Mori, rettore della Facoltà gesuita di Teologia e Filosofia di Belo Horizonte, la scoperta «della forza storica e teologale dei poveri è, senza dubbio, la principale eredità della Conferenza di Medellín, quella che le conferisce un posto unico nella storia del cristianesimo», il suo spirito è «un soffio di rinnovamento nella lotta profetica per il riconoscimento dei diritti delle “vittime della storia”, come direbbe Jon Sobrino». E i suoi frutti alimentano il lavoro teologico del presente, testimoniando «la natura sovversiva dell’evento Gesù Cristo di fronte ai poteri egemonici». Del resto, sono proprio «Gesù e i poveri», a cui, come evidenzia la teologa guatemalteca Geraldina Céspedes, papa Francesco invita costantemente a tornare, «le due ali imprescindibili affinché la Chiesa possa spiccare il volo del rinnovamento». E non è certo una novità, considerando come, ogni volta che nel corso della storia la Chiesa ha voluto rinnovarsi, abbia «dovuto fare questo doppio movimento: tornare a Gesù e tornare ai poveri». Medellín, insomma, prosegue Céspedes, ha indicato in maniera chiara «quale sia il cammino da seguire e quale sia il quadro non negoziabile all’interno del quale realizzare qualunque rinnovamento ecclesiale»: «Questo orizzonte della liberazione e dell’opzione per i poveri si costituisce oggi nel termometro che ci aiuta a misurare lo “stato di salute” delle distinte teologie che sono germogliate in America Latina e nel mondo».

Se tuttavia, in questi 50 anni, la teologia e la spiritualità della liberazione si sono dovute confrontare, come ricorda ancora José María Vigil, «con l’evoluzione costante del pensiero, con le sue rivoluzioni scientiche o cambiamenti di paradigma», l’opzione per i poveri, pur mantenendo inalterato il suo valore, «non potrà più fondarsi sulle stesse narrative bibliche né potrà essere espressa e giustificata sulle stesse basi». Continuare a pensare a una teologia e a una spiritualità liberatrici come quelle originali degli anni ’80 del secolo passato, sarebbe infatti, «oltre che un anacronismo», nient’altro che un suicidio: «finirebbero, ormai irrilevanti, nelle biblioteche».

E allora, conclude Vigil, «come nella vita, molte volte, per restare fedeli a se stessi bisogna saper cambiare, così, per preservare la fedeltà allo spirito genuino di Medellín non basta più attenersi ai suoi documenti, ma è necessario assumere i nuovi paradigmi che da allora sono emersi»

50 anni di storia spirituale con l’opzione per i poveri
José Maria Vigil 

«Simbolo della memoria fondante della Chiesa latinoamericana», secondo le parole del teologo brasiliano Luiz Carlos Susin, Medellín resta un’insostituibile fonte di ispirazione per il presente. È in quest’ottica che l’ultimo numero di Voices – la rivista di teologia dell’Associazione ecumenica di teologi e teologhe del Terzo Mondo (Eatwot o Asett) – celebra il cinquantesimo anniversario della II Conferenza episcopale latinoamericana, svoltasi nella città colombiana di Medellín nel 1968, l’anno delle utopie per eccellenza, l’anno di Praga, di Parigi e di Woodstock.

E se è a Medellín che, secondo le parole del teologo spagnolo José María Vigil, ha avuto inizio, intorno all’opzione per i poveri, «tutta la spiritualità della liberazione» (la Chiesa dei poveri, la teologia della liberazione, la cristologia della liberazione), dopo 50 anni – si chiede Susin nell’introduzione –, in tempi segnati dallo strapotere del mercato e del capitalismo finanziario, dalla disuguaglianza crescente e dalla minaccia globale agli ecosistemi planetari, «dove stiamo andando? Qual è la memoria e l’interpretazione del cammino percorso? E qual è il futuro, tenendo conto dei nuovi contesti e degli eventi post-Medellín»? È a questi interrogativi che cercano di rispondere gli autori del numero, a partire dai tre punti che meglio riassumono lo spirito della Conferenza: l’onestà dello sguardo verso la durissima realtà dei popoli latinoamericani, l’opzione per i poveri e la liberazione «come principio e cammino dell’evangelizzazione e della pace attraverso la giustizia».

Se, a giudizio del teologo brasiliano Carlos Alberto Motta Cunha e di Geraldo Luiz De Mori, rettore della Facoltà gesuita di Teologia e Filosofia di Belo Horizonte, la scoperta «della forza storica e teologale dei poveri è, senza dubbio, la principale eredità della Conferenza di Medellín, quella che le conferisce un posto unico nella storia del cristianesimo», il suo spirito è «un soffio di rinnovamento nella lotta profetica per il riconoscimento dei diritti delle “vittime della storia”, come direbbe Jon Sobrino». E i suoi frutti alimentano il lavoro teologico del presente, testimoniando «la natura sovversiva dell’evento Gesù Cristo di fronte ai poteri egemonici». Del resto, sono proprio «Gesù e i poveri», a cui, come evidenzia la teologa guatemalteca Geraldina Céspedes, papa Francesco invita costantemente a tornare, «le due ali imprescindibili affinché la Chiesa possa spiccare il volo del rinnovamento». E non è certo una novità, considerando come, ogni volta che nel corso della storia la Chiesa ha voluto rinnovarsi, abbia «dovuto fare questo doppio movimento: tornare a Gesù e tornare ai poveri». Medellín, insomma, prosegue Céspedes, ha indicato in maniera chiara «quale sia il cammino da seguire e quale sia il quadro non negoziabile all’interno del quale realizzare qualunque rinnovamento ecclesiale»: «Questo orizzonte della liberazione e dell’opzione per i poveri si costituisce oggi nel termometro che ci aiuta a misurare lo “stato di salute” delle distinte teologie che sono germogliate in America Latina e nel mondo».

Se tuttavia, in questi 50 anni, la teologia e la spiritualità della liberazione si sono dovute confrontare, come ricorda ancora José María Vigil, «con l’evoluzione costante del pensiero, con le sue rivoluzioni scientiche o cambiamenti di paradigma», l’opzione per i poveri, pur mantenendo inalterato il suo valore, «non potrà più fondarsi sulle stesse narrative bibliche né potrà essere espressa e giustificata sulle stesse basi». Continuare a pensare a una teologia e a una spiritualità liberatrici come quelle originali degli anni ’80 del secolo passato, sarebbe infatti, «oltre che un anacronismo», nient’altro che un suicidio: «finirebbero, ormai irrilevanti, nelle biblioteche».

E allora, conclude Vigil, «come nella vita, molte volte, per restare fedeli a se stessi bisogna saper cambiare, così, per preservare la fedeltà allo spirito genuino di Medellín non basta più attenersi ai suoi documenti, ma è necessario assumere i nuovi paradigmi che da allora sono emersi»

Medellín è stata l’origine e la culla dell’opzione per i poveri (OP), per quanto l’espressione non comparisse nel testo. In qualche modo, lì, a Medellín, intorno alla OP, ebbe inizio tutta la spiritualità della liberazione (SdL): la Chiesa dei poveri, la teologia della liberazione (TdL), la cristologia della liberazione… È lì che iniziò tutto. In materia di presa di coscienza, di mobilitazione e di coscientizzazione ecclesiale popolare, il Concilio Vaticano II, in America Latina, mobilitò meno, in realtà, della Conferenza di Medellín. Sono passati 50 anni, tutta una vita. Quanti di noi erano all’epoca ancora giovani e hanno potuto averne una conoscenza sufficiente, oggi hanno circa 70 anni e si trovano in una posizione privilegiata per offrire la migliore testimonianza su Medellín e sulla spiritualità dell’OP, che ne è stato il frutto principale. È stata una storia appassionante.

Ogni riflessione teologica autentica non può non avere una dimensione autobiografica e questa revisione dei “50 anni di storia spirituale con l’opzione per i poveri” non pretende di nasconderla.

Medellín è prima di tutto l’OP

(…). Nel ricordare Medellín, vogliamo soffermarci su quella che è stata la sua eredità teologica e mistica più importante. In effetti, la OP ha trasformato la nostra coscienza e il nostro sguardo: con questa nuova coscienza abbiamo scoperto il «luogo sociale» (Julio Lois, Cristología, in Mysterium Liberationis I, 225-227): il luogo da cui si guarda al mondo e lo si interpreta (…).

Molti di noi eravamo appena stati svezzati dal Concilio Vaticano II, che ci aveva aperto gli occhi sull’urgente superamento della Chiesa di cristianità – sembrava impossibile dopo tanti secoli! –: la fine di una Chiesa alleata con il potere (…). Accettare il pensiero del Concilio su questa materia era quasi come rinnegare di colpo la maggior parte della storia che conoscevamo della Chiesa.

Il Concilio ci avrebbe aperto gli occhi sui “diritti del primo illuminismo”: la libertà di coscienza, la libertà politica, la libertà di espressione e di riunione, la libertà religiosa, l’imprescindibilità della democrazia, la fine dell’Ancien Régime… La nostra è stata realmente la generazione che, sulla scia del Concilio Vaticano II, ha lasciato il mondo in cui era nata per fare il salto in una società nuova. Siamo passati a vedere il mondo per la prima volta con occhi politici critici. Era la scoperta che tutto ha una “dimensione politica”, che tutto, anche la sfera spirituale, incide sulla costruzione della polis. «Che tutto è politico, anche se il politico non è tutto», come diceva Emmanuel Mounier. Con la famosa poesia di Bertold Brech sull’analfabetismo politico, tutti noi che studiavamo teologia in quel tempo ci disalfabetizzammo da quella incosciente pretesa di neutralità politica della religione.

Ed entrando nel continente del politico cominciammo a capire con chiarezza che si trattava di “optare”. Che si trattava di un continente conflittuale, “dialettico”, come si diceva allora, e che non c’erano mezze tinte né neutralità possibile. Già vedevamo tutto con altri occhi, quelli del “Vedere” della pedagogia della liberazione freiriana, la quale ci aveva fatto superare la visione “funzionalista” della società (secondo cui tutto avrebbe funzionato perfettamente, come un organismo, con l’esistenza di elementi poveri e di elementi ricchi ma gli uni e gli altri impegnati a “cooperare inesorabilmente” al bene dell’insieme, cosicché persino la povertà era buona ed esercitava un suo ruolo). La nuova visione socio-critica ci aveva tolto la benda dagli occhi: non credevamo più che tutto cooperasse per il bene, ma riconoscevamo che esisteva il male: che c’erano poveri e ricchi, e, ancor più, che «c’erano poveri perché c’erano ricchi», come più tardi sarebbe arrivato a riconoscere lo stesso Giovanni Paolo II.

A partire da questa trasformazione di coscienza sul semplice piano della visione dialettica, non c’era più neutralità possibile: bisognava porsi da un lato o dall’altro del muro, bisognava fare un’opzione. Ecco la parola, emersa non dai dibattiti teologici, ma dalle discussioni sulle analisi della realtà: schierarsi dalla parte degli oppressi o dalla parte dell’oppressione. La parola “opzione” emerse dal discorso dei militanti cristiani popolari, per le strade. L’urgenza della realtà obbligava a optare: (…) a definire la direzione della propria vita dinanzi alla biforcazione del cammino in cui quella congiuntura ci aveva posto. Era la fine dell’incoscienza e dell’ingenua neutralità. Ossia, il contrario di ciò che gli autori del documento di Puebla sarebbero venuti a mistificare, seminando confusione nel passare a parlare della OP come di un’“opzione preferenziale” (una semplice questione di “precedenza”, di “preferenza”, una specie di richiamo all’attenzione per capire di chi occuparsi prima, se i poveri o i ricchi, dando per scontato che ci occuperemo di tutti, e di tutti allo stesso modo, senza alcuna differenza o discriminazione). A questo vollero ridurre a Puebla la OP di Medellín.

Ma nella SdL derivata da Medellín avevamo chiaramente compreso come la OP fosse, nettamente, una questione di giustizia. Non si tratta di una questione di semplice “gratuità” di Dio (…), né ha a che fare con un qualsiasi altro argomento teologico slegato dalla giustizia. Né la “gratuità di Dio”, né la tenerezza di Dio dinanzi all’“insignificanza del Povero”, né alcun altro argomento biblico-letterario possono dar conto dell’essenza della OP, che è un’“Opzione per i senza giustizia” (…).

Nei primi anni dopo Medellín, ovviamente, non c’era ancora un discernimento dettagliato sul concetto di “poveri”. I poveri erano semplicemente i “poveri” a cui si riferisce il dizionario e la povertà la situazione ingiusta a causa della quale una persona non può contare sui mezzi minimi di sussistenza che la sua dignità esige. Stavamo iniziando. E fu sufficiente lasciar scorrere il tempo perché nel concetto iniziale di “povero” scoprissimo rapidamente in tutto il continente e in tutti i versanti teologici i “nuovi soggetti emergenti”: la donna doppiamente sfruttata, in quanto povera e in quanto donna; l’indio disprezzato culturalmente; i neri come popolo emarginato; chi è rifiutato per il proprio orientamento sessuale… (…).

Il conflitto civile e l’involuzione ecclesiale

Molti di noi nati nella Chiesa di Pio XII fummo trasformati dal Vaticano II e da Medellín in uomini e donne nuovi, persone interamente rinnovate tanto nel pensiero come nella mistica: senza timore di dare la vita, incarnati nelle realtà più difficili, nel solco stesso della vita dei poveri, disposti a vivere e a morire tra loro (…). Questo nuovo esercito di seguaci di Gesù a partire dalla SdL non poteva non ricevere una risposta dai poteri di questo mondo. L’allarme lanciato dal rapporto Rockefeller lo evidenziò senza pudore: «Se la Chiesa applica i principi di Medellín, attenta contro gli interessi nordamericani e in generale capitalisti». E così iniziò la guerra “totale” scatenata contro la Chiesa di Medellín: le dittature militari, la repressione, la persecuzione contro i movimenti popolari e tutti i simpatizzanti delle cause e dei diritti del popolo, l’operazione Condor, la massiccia repressione in Guatemala… Gli storici possono riportare dettagliatamente la serie di testimoni del nostro interminabile martirologio latinoamericano. Il loro sangue ci accompagna e ci sostiene, con San Romero d’America in testa.

Il conflitto civile venne accompagnato dall’involuzione ecclesiastica, che, sul piano spirituale, rappresentò una difficoltà molto più dura, in quanto appariva semplicemente blasfema: che un papa come il polacco Karol Wojtyla prendesse posizione senza esitazioni contro la ribellione di tutto un popolo che insorgeva contro una lunga dittatura e contro il capitalismo selvaggio imposto dagli Stati Uniti, come era il caso dei Paesi centroamericani a partire dal Nicaragua e da El Salvador, non era concepibile nella prospettiva di fede dei più semplici ma già coscientizzati figli fedeli della Chiesa: non lo intendevamo che come un mistero, ma un mistero al rovescio, ossia un mysterium iniquitatis (…).

Che egli screditasse e combattesse le comunità popolari di base (!), o maltrattasse direttamente mons. Romero, secondo la testimonianza di prima mano di María López Vigil, era per molti/e di noi, teologi, operatori di pastorale e comunità di base, uno scandalo per la fede dei piccoli, tale da indurre molte persone e comunità credenti ad abbandonare per sempre la fede nella Chiesa istituzionale. (…).

Le analisi tracciate erano innumerevoli e convergenti, a partire dal «ritorno alla grande disciplina (Libânio), dal «pontificato della paura» (González Faus), dal «disfacimento utopico della postmodernità» (José María Mardones), dalla «restaurazione» (Zizola)… (…).

Ciò vuol dire che la SdL e la TdL derivanti da Medellín dovettero attraversare un tempo e un ambiente di segno culturale opposto, anche all’interno della Chiesa. (…).

Per semplificare (…), si potrebbe dire che il grande cambiamento, l’inizio del fallimento storico-politico delle cause della sinistra (…), iniziò nel 1989 con la caduta del muro di Berlino e in pochi anni si completò in Centroamerica con la sconfitta democratica elettorale (1990) del Nicaragua rivoluzionario militarmente aggredito e il fallimento di altri processi rivoluzionari centroamericani (El Salvador, Guatemala). In non più di tre anni ci trovammo in un orizzonte sociopolitico in cui l’egemonia capitalista proclamava la fine della storia, con l’avallo della dottrina pontificia di Giovanni Paolo II, attraverso la sua Centesimus Annus, l’enciclica pontificia più incline al capitalismo che sia mai stata scritta, in cui le sottolineature critiche, pur presenti, appaiono piuttosto risorse retoriche per smorzare l’entusiasmo per la caduta del socialismo reale. La fine del socialismo nella Polonia di Giovanni Paolo II fu unanimemente considerata quasi un suo trionfo personale, che si intendeva estendere ben presto a Cuba con le militanti visite papali. (…).

Nel 1968 l’egemonia politica emergente e più rilevante in America Latina era stata quella delle masse popolari che prendevano coscienza del loro stato di oppressione e rivendicavano per tutto il Continente un cambiamento delle strutture socioeconomiche: quello che la stessa Populorum Progressio aveva riconosciuto come un «clamore che si alzava fino al cielo», arrivando a suggerire che in alcuni momenti la situazione di ingiustizia avrebbe potuto in presenza di determinate condizioni giustificare la rivoluzione. Eravamo ora (…) agli antipodi del clima culturale e politico che regnava al tempo della Conferenza di Medellín. E in tutto questo la cosa più grave è che ciò è potuto avvenire all’interno dell’ambito ecclesiastico e soprattutto gerarchico: che per 26 anni sono stati scelti vescovi di mentalità opposta a Medellín, all’opzione per i poveri, alla teologia e alla spiritualità della liberazione (…), in buone relazioni con il capitale e con la destra. (…).

Esperienze mistiche nella Spiritualità della Liberazione

Non possiamo non riconoscere che, insieme a questi contrattempi e a queste persecuzioni, abbiamo anche vissuto esperienze autenticamente mistiche, come quelle di alcuni compagni che si impegnarono ad accompagnare pastoralmente il popolo ribelle insorto in armi o di altri che rinunciarono definitivamente alla patria (e alla famiglia) per accompagnare in maniera definitiva un popolo oppresso dalla guerra alimentata dalla maggiore potenza del continente. O come quella di chi fu costretto ad abbandonare la congregazione religiosa (…) per non rinunciare all’impegno politico per i poveri in mezzo all’insurrezione contro la dittatura somozista: Roma dixit. (…).

Quante volte abbiamo reso grazie a Dio per quegli anni condivisi nell’oscurità, facendo affidamento solo sulla fede, gli anni più difficili e al tempo stesso più felici della nostra vita, in cui ci siamo abbandonati solo a Dio, (…), sostenuti dai vibranti testi di Medellín e da tutti ciò che essi suscitavano.

Ricordo di aver detto – scritto, predicato, pubblicato – che non mi pentivo di nulla di ciò che avevo vissuto nell’obbedienza alla OP, anche in quell’obbedienza che mi aveva condotto – e come me tanti altri/e – a “disobbedire” (…) al superiore generale, il quale accettò il confronto durante tutto un venerdì santo, confermandomi che, per quanto politicamente discordasse con la mia opzione, pure ne riconosceva la qualità etica e la validità evangelica. Gliene sono ancora grato (…).

Se Dio non mi abbandona in futuro, spero di vivere e morire in questa spiritualità della liberazione per il resto dei miei giorni.

Una spiritualità sempre aperta alla sfida del cambiamento

In questi 50 anni la SdL e la TdL si sono andate autocostruendo laboriosamente, confrontandosi quotidianamente con l’evoluzione costante del pensiero, con le sue rivoluzioni scientiche o cambiamenti di paradigma. (…).

Il primo fondamento su cui si costruì – negli anni ‘70 – la spiritualità dell’opzione per i poveri fu la riscoperta del Gesù storico. Ci sembrava impossibile che (…) potessimo ora scoprire tanti aspetti e atteggiamenti che non conoscevamo di Gesù. La cristologia, la teologia e l’esperienza spirituale cambiarono radicalmente. A poco a poco ci spogliammo di quel Gesù divino prigioniero del tabernacolo, del Cristo Re disegnato a immagine e somiglianza del Giove di Roma, o del Gesù ospite dell’anima al centro della nostra preghiera abituale (…). Queste “immagini” (…) vennero meno (…) quando apparve dinanzi a noi il Gesù annunciatore dell’Utopia del Regno, che percorreva i cammini polverosi della Palestina con l’ossessione di suscitare l’entusiasmo di seguaci impegnati con la Rivoluzione del Regno, della sua Utopia; un Gesù militante, profondamente umano – così umano che solo Dio avrebbe potuto esserlo –, anti-imperialista, utopico, messianico… (…).

Furono anni decisivi ed è giusto ricordare e riconoscere che la ragione della trasformazione che ci ha condotto all’OP e alla TdL e SdL non è stato altro che il Gesù storico, la sua riscoperta, la sua sequela.

Gottwald e il Dio degli habiru-ebrei

Fu forse negli anni ‘80 che gli studi teologici e biblici garantirono il massimo del sostegno all’opzione per i poveri, ricercandone i fondamenti anche nell’Antico Testamento. Alla prospettiva del Gesù storico si aggiunse così quella dello studio storico e archeologico della storia reale dell’apparizione di Israele. Norman K. Gottwald fu, tra pochi altri, la stella più brillante in quel firmamento.

Parallelamente alla riscoperta del Gesù storico si registrava ora una riscoperta dell’Israele originale storico, il cui punto iniziale non si pensava più che fosse (…) l’esodo, ma un fenomeno sociologico un poco anteriore: la rivoluzione agrario-contadina della fine del XIII secolo a.C., quando un settore della popolazione povera e marginale, i cosiddetti habiru – parola etimologicamente legata a “ebrei” – fuggì dalle oppressive città-stato per occupare la parte alta delle montagne del centro del Paese: il luogo della nascita del popolo originale di Israele (…). Non potevamo allora immaginare la svolta che l’archeologia biblica avrebbe iniziato a intraprendere proprio negli anni immediatamente successivi.

Fine del ciclo dell’archeologia biblica

Con gli anni, questo nuovo paradigma storico-archeologico (…) avrebbe richiesto anche una riconversione della spiritualità della OP di Medellín (…). Per il primo decennio del secolo gli scienziati del nuovo paradigma archeologicobiblico davano ormai per scontato che i patriarchi, la permanenza degli ebrei in Egitto, la traversata del deserto, l’Alleanza del Sinai, la conquista della “terra promessa”, come pure la confederazione delle tribù di Israele, non avessero nulla di storico. Se non fu uno tsunami, è solo perché l’onda dell’informazione rivoluzionaria giunse poco per volta e di fatto non è ancora arrivata in molti luoghi. Molte università, gruppi, comunità non hanno ancora preso atto di questa nuova visione e ancora non hanno abbandonato la narrativa classica della maggior parte dei nostri scritti teologico- biblici sulla TdL e concretamente sulla OP (…). Dobbiamo riconoscere che su questo punto neppure possiamo dire di trovarci all’interno del processo di transizione: siamo piuttosto appena agli inizi. Vi sono ancora molti libri, congressi e testi della TdL che non sanno nulla di questa nuova visione e quanti ne sanno qualcosa preferiscono non mescolare lo spirito di Medellín con questo cambiamento di prospettiva storico-archeologica. C’è chi ritiene che pubblicare tali risultati provocherebbe un danno grave alla lettura popolare della Bibbia e alla Chiesa dei poveri. (…). Ed effettivamente, la riconversione teologica, l’accettazione ben ponderata del nuovo racconto scientifico archeologico (…), è ancora tutta da fare. (…).

Viviamo in un altro mondo. La OP mantiene tutto il suo valore, ma non potrà più fondarsi sulle stesse narrative bibliche né potrà essere espressa e giustificata sulle stesse basi.

L’incrocio con un nuovo paradigma: il pluralismo religioso

Da lontano si iniziò a vedere un altro orizzonte, che però minacciava altre coste, non le nostre: un nuovo paradigma, quello del pluralismo. Era una questione che suonava totalmente nuova. Di fatto, il primo libro sul tema venne scritto nel 1963 (Die Religionen als Thema der Theologie, Herder Verlag, Freiburg im Breisgau 1963, collana Quaestiones Disputatae, a cura di Karl Rahner ed Heinrich Schlier) e il suo argomento – la teologia delle religioni, che poi si sarebbe chiamata “teologia del pluralismo religioso” – non arrivò al Vaticano II.

L’ambiente teologico ecclesiastico era così gravato dalla persecuzione ai teologi e alle teologhe che furono pochi coloro che si presero la responsabilità di rispondere alla nuova sfida (…). Si disse: tale problematica teologica non riguarda l’America Latina; qui non ne abbiamo bisogno. Che poi non è vero, a meno di ignorare i popoli originari del nostro continente con le loro culture e le loro religioni. (…).

La OP come tale, invece, si sentì eccome toccata dalla sfida pluralista.

Famose le parole del teologo asiatico Aloysius Pieris: «L’irruzione del Terzo Mondo, con le sue esigenze di liberazione, significa anche l’irruzione del mondo non cristiano. L’immensa maggioranza dei poveri di Dio avvertono le proprie preoccupazioni esistenziali ed esprimono le proprie lotte di liberazione nel linguaggio delle religioni e delle culture non cristiane. Per questo, una teologia che non parli a, o non parli attraverso di, questa umanità con le sue religioni, è un lusso di una minoranza cristiana».

Avevamo bisogno di una TdL universale, religiosamente pluralista, che si rivolgesse a tutti i poveri del mondo. Era necessario ampliare la TdL cercando di incrociarla con la teologia del pluralismo religioso, cioè costruire una teologia delle religioni che fosse al tempo stesso (…) «una teologia pluralista delle religioni liberatrice» (Paul F. Knitter, Toward a Liberation Theology of Religions). Era un appello alla costruzione di una SdL e di una OP universali, religiosamente pluraliste, costruite su schemi e fondamenti oltre l’esclusivismo e l’inclusivismo cristiani. (…).

Come applicazione del Concilio Vaticano II all’America Latina, tanto i documenti di Medellín quanto la TdL che da Medellín derivò erano “inclusivisti”, facendo proprio il paradigma con cui il Concilio, senza clamore né parole solenni, aveva sostituito il paradigma anteriore, quell’“esclusivismo” che si era autoimposto fin dal IV secolo. Tuttavia, all’inizio degli anni ‘90 del XX secolo, la TdL mosse un passo avanti prendendo coscienza del superamento dell’inclusivismo ed elaborando esplicitamente il cosiddetto “macroecumenismo” (…) come nuova designazione per un inclusivismo aperto completamente al pluralismo del Regno, così come lo avevamo scoperto proprio nel Gesù storico: Mt 25,31ss; Lc 10,25ss; Mt 7,21; Mt 21,28-32. (…). In qualche modo, il macroecumenismo latinoamericano sarebbe stato la “teologia latinoamericana pluralista” avant la lettre.

In tal senso, settanta teologhe e teologi latinoamericani parteciparono alla riflessione teologica della serie “Per i molti cammini di Dio”, la più grande opera teologica latinoamericana fino a questo momento. Con un andamento progressivo, l’ultimo dei cinque volumi della serie guardava alla meta che Pieris aveva indicato come invito all’elaborazione di una teologia della liberazione pluralista in una prospettiva globalizzata, una teologia della liberazione che era avanzata molto rispetto a Medellín, offrendo una visione che ai tempi della Conferenza era semplicemente impossibile trovare. Come nella vita, molte volte, per restare fedeli a se stessi bisogna saper cambiare, così, per preservare la fedeltà allo spirito genuino di Medellín non basta più attenersi ai suoi documenti, ma è necessario assumere, con lo stesso spirito che animò i “padri di Medellín”, i nuovi paradigmi che da allora sono emersi. Oggi non si può più essere religiosi se non inter-religiosamente.

La spiritualità di Medellín – con la SdL al suo interno – non smette di arricchirci

(…). Vi sono non poche associazioni, pubblicazioni, congressi, incontri sulla teologia della liberazione che ne parlano, si può dire, con gli occhi degli anni ‘80: ancora legati all’inclusivismo tradizionale di un cristocentrismo assoluto, possono, sì, parlare di pluralismo, ma riferendosi alla sfera inter-culturale, non a quella religiosa, non a una prospettiva teologica aperta al riconoscimento dell’efficacia salvifica autonoma delle altre religioni. Si guardi alle dichiarazioni finali di congressi e incontri e si osservi come, pur incorporando il vocabolario relativo ai nuovi paradigmi, di fatto si eviti ogni affermazione concreta che implichi un passo in avanti.

Il paradigma dell’ecologia profonda (“integrale”)

Sarebbe impossibile riferirsi a tutti i cambiamenti di paradigma che si sono registrati e hanno investito lo spirito di Medellín, ma non possiamo evitare di richiamare quello ecologico. La TdL e la SdL di Medellín, come tutta la teologia anteriore e come praticamente tutta la tradizione cristiana, davano le spalle alla natura. Con Medellín, sotto la spinta del Concilio Vaticano II, la teologia e la spiritualità operarono il grande cambiamento: quello di smettere di guardare solo al soprannaturale (…) per volgere lo sguardo al Regno di Dio annunciato da Gesù qui sulla terra, e in primo luogo nei poveri (…).

Solo più tardi avrebbero preso coscienza della necessità di aprirsi ad altre forme di povertà e di oppressione (…), con la conseguente apparizione dei cosiddetti nuovi soggetti emergenti, autori di nuovi rami della teologia della liberazione: femminista, indigeno, nero… E fu in questa congiuntura che si registrò anche l’apertura all’Ecologia. Il libro emblematico fu Grido della Terra, grido dei poveri di Leonardo Boff, in cui venne espressa la ragione dell’inclusione dell’ecologia nella TdL: la Terra è il grande povero che richiede anch’esso di essere sanato.

La TdL non ha avuto grosse difficoltà ad accettare la Terra come una grande causa per cui lottare; da questo punto di vista non ci sono stati problemi. L’accettazione generalizzata dell’enciclica Laudato si’ ne è la prova. Un importante consigliere di vescovi latinoamericani mi diceva: in generale i nostri vescovi non hanno alcun problema ad accettare il tema ecologico; subito lo aggiungono «come un’appendice» al loro piano di pastorale. Accettiamo la problematica ambientale della Terra come un ulteriore problema dei poveri, della grande Povera, in questo caso. E tanto più lo hanno fatto i seguaci della TdL di Medellín, introducendo l’ecologia nella propria prospettiva, senza alcuna resistenza. Ma questa assunzione dell’ecologia come appendice degli impegni liberatori della nostra prassi pastorale non comporta, in realtà, alcun cambiamento di paradigma; non significa l’accettazione del paradigma ecologico, o ecocentrico, o eco-centrato. (…). Il paradigma di base di questa TdL, per quanto rinnovata possa apparire, continua spesso a essere quello vecchio: è una TdL teocentrica, cristocentrica e antropocentrica. In questa tessitura, la dimensione ecologica non è altro che un campo di azione in più, un’appendice o una verniciatura che non tocca in nulla le strutture del paradigma. Tuttavia, la visione ecologica ha operato il salto verso un autentico paradigma con il movimento dell’ecologia profonda degli scandinavi Arne Naes e George Sessions: non si tratta di far posto all’ecologia, ma di ecocentrare tutto. È possibile una teologia il cui paradigma centrale sia oiko-centrico, ossia che colga e ordini tutto a partire dalla realtà cosmica intesa come nostro oikos, la nostra Casa comune? (…).

Adottare il paradigma ecologico profondo implica recuperare la nostra vera “storia sacra” (la storia cosmica di 13.730 milioni di anni, senza limitarla ai 3.500 anni della storia biblica), abbandonare l’antropocentrismo, il bibliocentrismo (tornare al “primo libro scritto da Dio”, superando la nostra tendenza a rinchiuderci nel “secondo”), il teocentrismo (compreso lo stesso teismo). (…).

Il passaggio a un paradigma ecologico profondo è in marcia, in costruzione, e bisogna riconoscere che vi sono gruppi minoritari che già hanno colto questo movimento. E benché neppure il campo ecclesiale della teologia lo lasci intravedere nelle sue attuali pubblicazioni, non ci sono dubbi che, per quanti vogliano “arrivare fino alla fine”, un’altra TdL e un’altra SdL siano possibili e che forse saranno le uniche a consentirci di superare la crisi che viene.

Conclusione

Sono oggi in costruzione altri paradigmi rispetto a quelli a cui abbiamo accennato in questa piccola storia della teologia e della spiritualità derivate da Medellín. Il momento fondante continua a essere quello, Medellín, non ce ne è stato un altro in questo mezzo secolo ormai trascorso. Ma paradigmi co-fondanti o ri-fondanti hanno continuato a sorgere e ad andare incontro alla TdL e alla SdL più e più volte. Non abbiamo parlato del paradigma olistico (un solo piano della realtà, non due), del paradigma femminista (che molte/i uniscono a quello ecologico), del paradigma post-teista, del paradigma post-religionale, del nuovo paradigma epistemologico… Viviamo in un tempo che molti definiscono come un nuovo “tempo assiale”, sostenendo che quasi tutti i fondamenti teorico-paradigmatici di un’epoca millenaria si stanno estinguendo, senza che quelli nuovi appaiano spontaneamente già pronti all’uso. La TdL e la SdL non potranno sussistere se non affronteranno con coraggio tutti questi cambiamenti di paradigma. Continuare a pensare a una TdL e a una SdL “pure”, come quelle originali degli anni ‘80 del secolo passato, oltre che un anacronismo, non sarà altro che un suicidio: queste TdL e SdL pure finirebbero, ormai irrilevanti, nelle biblioteche. La tentazione continua a essere quella di guardare indietro e trasformare in una statua di sale, in un monumento, la Conferenza di Medellín. La celebrazione dei 50 anni in questo 2018 deve avvenire guardando in avanti, non solo verso il passato.

GAZA: SMASCHERARE LE MENZOGNE

Gaza

ROMPERE IL MURO DELL’OMERTÀ

faccio mie le riflessioni che l’agenzia di stampa Adista fa in merito al teatro bellico e ai troppi massacri nella striscia di Gaza, e credo opportuno farle circolare per delle più precise e oggettive coordinate per meglio leggere questa realtà così cupa:

 

 Una cosa è certa: checché ne dicano i media mainstream piegati alla versione israeliana, nella punizione collettiva scatenata da Netanyahu in queste settimane, c’entrano ben poco i razzi lanciati dalla Striscia di Gaza. Il vero obiettivo di Israele è, secondo la maggior parte degli analisti, far naufragare il governo di unità nazionale Hamas-Fatah sancito dall’accordo di riconciliazione firmato ad aprile. D’altronde non è certo un’invenzione di Israele la strategia del divide et impera. Ma uno dei risultati dei fatti cui stiamo assistendo, e di processi già in atto da anni, potrebbe anche essere – come rileva Nahed Hattar su al-Akhbar (16/7) – la fine della cristallizzazione della politica palestinese attorno ai due poli costituiti da Hamas e Fatah, ognuno alle prese con i propri problemi interni e indotti alla riconciliazione proprio dal progressivo indebolimento. 

Quali scenari apra questa possibilità non è facile a dirsi, anche considerato che sul movimento politico palestinese pesa la mancanza di un vero leader in cui tutto il popolo possa riconoscersi. L’unico che abbia le caratteristiche necessarie, a detta di molti, è il prigioniero politico Marwan Barghouti che Israele, nonostante le pressioni internazionali (v. Adista Segni nuovi n. 26/14), non ha nessuna intenzione di liberare.

Ma se sul futuro gravano queste incognite, il presente, cadenzato dalla conta dei morti dell’operazione “Bordo di protezione”, è più cupo che mai. Ormai sepolte le speranze che la giornata di preghiera dell’8 giugno scorso possa avere risvolti concreti, papa Francesco, al termine dell’Angelus del 13 luglio, è tornato a rivolgere un accorato appello per la Terra Santa, parlando dei «tragici eventi» di questi giorni. Esortando autorità locali e internazionali «a non risparmiare la preghiera e alcuno sforzo per far cessare ogni ostilità», ha poi auspicato che non ci sia «mai più guerra» e ha invocato «il coraggio di compiere gesti concreti per costruire la pace»: «Rendici disponibili – ha detto – ad ascoltare il grido dei nostri cittadini che ci chiedono di trasformare le nostre armi in strumenti di pace, le nostre paure in fiducia e le nostre tensioni in perdono.». E ovviamente non è stato il solo. 

Il vero crimine è l’occupazione

«In Israele e Palestina – scrive la Commissione Giustizia e Pace dell’Assemblea degli Ordinari cattolici di Terra Santa in un documento diffuso l’8 luglio – riecheggia il pianto delle madri e dei padri, dei fratelli e delle sorelle, di quanti amavano uno dei giovani caduti vittima dell’ultimo round del ciclo di violenza che affligge questa terra. I volti di alcuni di loro sono ben noti perché i media hanno dato conto fin nel minimo dettaglio della loro vita, intervistando i genitori, facendoli vivere nella nostra immaginazione, mentre gli altri, di gran lunga più numerosi, sono mere statistiche, senza nome e senza volto». La Commissione Giustizia e Pace condanna quindi «il linguaggio violento» di chi in Israele «chiede vendetta», «alimentato da una leadership che porta avanti politiche discriminatorie che promuovono i diritti di un gruppo e l’occupazione, con tutte le sue disastrose conseguenze». «I leader coloniali sembrano credere che l’occupazione possa vincere schiacciando l’aspirazione del popolo alla libertà e alla dignità. Sembrano credere – prosegue Giustizia e Pace – che la loro determinazione alla fine metterà a tacere l’opposizione e renderà giusto ciò che è sbagliato». Allo stesso modo gli Ordinari cattolici condannano «il linguaggio violento» di chi in Palestina «chiede vendetta», «alimentato da coloro che hanno perso ogni speranza di vedere una giusta soluzione al conflitto attraverso i negoziati. Coloro che cercano di costruire una società monolitica e totalitaria, in cui non c’è spazio per alcuna differenza o diversità e che ottengono il sostegno popolare sfruttando questa situazione di disperazione». «Dobbiamo riconoscere – proseguono – che il rapimento e l’assassinio a sangue freddo dei tre giovani israeliani e il brutale assassinio per vendetta del giovane palestinese sono prodotti dall’ingiustizia e dall’odio che l’occupazione instilla nei cuori di chi compie simili gesti». «Utilizzare la morte di tre israeliani per compiere una punizione collettiva contro il popolo palestinese e il suo legittimo desiderio di libertà significa sfruttare una tragedia e si traduce in ancora più violenza e odio». 

Stessi richiami di Munib A. Younan, a capo della Chiesa evangelica luterana in Giordania e Terra Santa, il quale in un comunicato del 16 luglio scorso, ricorda che «questo Paese e la sua gente hanno attraversato 65 anni di violenza, rappresaglie e contro-rappresaglie», e sottolinea che «la situazione di stallo politico esistente tra Israele e Palestina non può essere risolta militarmente». 

E sulla stessa lunghezza d’onda è anche il segretario generale del World Council of Churches, Olav Fykse Tveit: «Condanniamo fermamente gli attacchi indiscriminati da parte dell’esercito israeliano contro la popolazione civile di Gaza, come condanniamo l’assurdo e immorale lancio di razzi da parte di militanti di Gaza verso zone abitate in Israele», si legge nel comunicato diffuso l’11 luglio scorso. «Quello che sta accadendo a Gaza non è una tragedia isolata», puntualizza Tveit: «Questi eventi devono essere visti nel contesto dell’occupazione dei Territori palestinesi iniziata nel 1967. Il World Council of Churches ha sempre chiesto di porre fine a questa occupazione illegale e al blocco imposto alla Striscia di Gaza da parte di Israele. Senza porre fine all’occupazione – conclude Tveit – il ciclo della violenza continuerà».

Il Wcc era già intervenuto l’8 luglio scorso con un documento che incoraggia le Chiese a fare scelte responsabili circa gli investimenti che hanno un impatto sulla regione, contribuendo «a ridurre la violenza e a promuovere la pace per entrambi i popoli», riconoscendo però il forte squilibrio di forze in campo, a tutto vantaggio di Israele. Il richiamo del Wcc è al boicottaggio di quelle aziende che traggono profitto dall’illegale occupazione della Cisgiordania, così come deciso recentemente sia dalla Chiesa presbiteriana che dalla Chiesa metodista statunitensi, con lo scopo, scrive il Wcc, di «portare una pace giusta che andrà a beneficio sia della Palestina che di Israele».

Stop alle armi italiane a Israele

Ben altro dovrebbe fare invece il nostro Paese che ha precise responsabilità in questo massacro considerato che Israele è uno dei nostri principali acquirenti di armi. Ed è precisamente su questo aspetto che verte l’appello al governo della Rete Italiana per il Disarmo, che raggruppa le principali organizzazioni italiane impegnate sui temi del disarmo e del controllo degli armamenti, e che insieme alla Rete della Pace il 16 luglio scorso ha organizzato fiaccolate, presidi e altre iniziative in circa 50 città italiane. «L’Italia – scrive la Rete – è oggi il maggiore esportatore dell’Unione europea di sistemi militari e di armi leggere verso Israele e proprio nei giorni scorsi, durante i raid aerei israeliani su Gaza, l’azienda Alenia Aermacchi del gruppo Finmeccanica ha inviato i primi due aerei addestratori M-346 alla Forza Aerea israeliana». Rete Disarmo «chiede che alle doverose parole di condanna degli attacchi aerei sulle aree civili faccia immediatamente seguito un’azione inequivocabile da parte del governo italiano come la sospensione dell’invio di sistemi militari e di armi nella zona. Il nostro governo, che in questo semestre ha l’incarico di presiedere il Consiglio dell’Unione europea, si faccia subito promotore di un’azione a livello comunitario per un embargo europeo di armi e sistemi militari verso tutte le parti in conflitto, per proteggere i civili inermi e riprendere il dialogo tra tutte le parti». 

Disinformazione di massa

Ma come sottolinea Pax Christi in un commento apparso sul sito il 14 luglio scorso – facendo eco alla dichiarazione diffusa in questi giorni da alcuni cooperanti italiani che vivono e lavorano in Palestina – parte del problema risiede altrove: nell’informazione totalmente manipolata dei media occidentali. «Chi legge i principali giornali o guarda i principali Tg dell’Occidente può farsi solo un’idea vaga e sbagliata di quello che sta succedendo. Ma questo è problema annoso nel caso della Palestina, lo sa bene chi da anni segue e magari periodicamente visita quella Terra che alcuni si ostinano a chiamare Santa». Ed ecco una piccola lista di perle della nostrana disinformazione: «Dopo i primi due giorni di bombardamenti il Tg1 in prima serata ha sostenuto che la cosa più grave fosse rappresentata dal lancio da Gaza di missili verso Tel Aviv. Lancio che non aveva  provocato alcun danno mentre a Gaza già più di 40 erano i morti, fra cui molti civili inermi. La Stampa ha pubblicato sul suo sito resoconti che sono vere e proprie traduzioni letterali delle comunicazioni di una delle due parti coinvolte: quella israeliana. Repubblica ha titolato a tutto campo che i razzi punterebbero minacciosamente alle centrali nucleari. Le centinaia di testate nucleari che lo Stato di Israele possiede non hanno mai avuto così tanta enfasi come i razzi artigianali che partono da Gaza senza una precisa destinazione». 

«Alla giusta empatia mostrata verso i tre ragazzi uccisi – prosegue il commento – non è corrisposta altrettanta commozione per i palestinesi morti prima, durante il rapimento e adesso nel bombardamento indiscriminato di Gaza. Anzi soprattutto della fase precedente non si ricorda nulla ma proprio nulla. Forse perché si trattava di provocazioni di ordinaria quotidianità». «Smascherare le falsità e rompere il muro d’omertà – conclude – è il compito unico che ci spetta, anziché occupare la nostra mente in sterili proposte di soluzione che non spettano a noi». (ingrid colanicchia)

 

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