l’Alan dei Rohingya – la strage degli innocenti continua senza sosta

quel bimbo nel fango è l’Alan dei Rohingya

di Roberto Toscano
in “la Repubblica” 

Il corpo di un bambino di pochi mesi annegato quando la sua famiglia cercava la salvezza fuggendo dall’oppressione e dalla repressione. Lo avevamo già visto. Allora, nel settembre 2015, si chiamava Alan Kurdi, oggi Mohammed Shohayet. Come allora, il mondo presta attenzione, si commuove. Sinceramente, di certo, ma è anche legittimo chiedersi come mai questi due piccoli siano riusciti a rompere quel muro di sostanziale indifferenza che caratterizza questo nostro tempo — il tempo di una protratta, atroce strage di innocenti dalla Siria allo Yemen. «Ecco l’Alan Kurdi Rohingya: ora il mondo prenderà atto?».

È l’interrogativo che ieri ha lanciato la rete televisiva statunitense Cnn accanto alla foto di Mohammed Shohayet, un rifugiato Rohingya di 16 mesi fuggito dalle violenze nello Stato birmano di Rakhine verso il Bangladesh solo per annegare durante il viaggio insieme alla madre, lo zio e al fratello di tre anni. La sua foto era circolata su vari siti bengalesi già all’inizio dello scorso dicembre, ma è diventata virale solo ieri dopo che la giornalista della Rebecca Wright ha incontrato il padre del piccolo Mohammed in un campo bengalese e raccontato la sua storia. L’uomo, Zafor Alam, aveva traversato il fiume Naf che separa la Birmania dal Banghadesh da solo, la famiglia avrebbe dovuto raggiungerlo a inizio dicembre ma la loro nave era affondata. «Mi hanno detto di aver ritrovato il corpo di mio figlio e mandato la sua foto tramite cellulare. Ogni volta che la vedo mi sento morire».

Si ripropone qui per chi fa un giornale un problema di etica professionale, nel senso che non è facile giustificare quella che può sembrare la concessione a una commozione che sappiamo troppo episodica e troppo poco coerente rispetto a una sistematica sordità morale fatta di ignoranza ed egoismo. È giusto resistere alle tentazioni del conformismo patetico, ma è anche vero che la solidarietà umana può scattare solo se l’astratto si trasforma in concreto, solo se i bambini morti, i tanti bambini morti per noi senza volto e senza nome, diventano Alan e Mohammed. La commozione però dovrebbe diventare la premessa di una presa di coscienza sia morale che politica. Certo, la responsabilità è direttamente proporzionale al potere di cui si dispone per incidere sulla realtà, e oggi più che mai la sensazione degli individui — in questo mondo sempre più ingovernabile — è quella dell’impossibilità di contare e di agire.

Ma siamo davvero così irrimediabilmente impotenti? Quanto meno in quella ristretta parte del mondo in cui esiste ancora la figura del cittadino ed è possibile pronunciarsi sulle scelte politiche, solidarietà o chiusura sono due strade ugualmente praticabili, costituiscono anzi una componente sempre più importante del dibattito politico. Lo spostamento attraverso le frontiere di grandi masse umane, sia rifugiati che migranti, ci chiama in causa soprattutto alla luce della drammatica contraddizione che sta alla radice del presente disordine mondiale: quella fra la realtà globale dei grandi fenomeni — dalla sicurezza all’ambiente, dalla finanza alle pandemie — e il persistere di una struttura non solo politica, ma anche eticoculturale, che ancora riconosce solo istituzioni e appartenenze identitarie di tipo parziale, nazionale quando non tribale. Quei bambini a faccia in giù su una spiaggia o sulla riva di un fiume (o quelli dilaniati dai bombardamenti in Siria o in Yemen) sono nostri, ci appartengono, così come
appartengono a tutti gli italiani le vittime del terremoto in Umbria. Ma la presa di coscienza di tipo morale non può avvenire senza la conoscenza. Qui la responsabilità di chi fa informazione è primaria e indiscutibile. Così come si è cercato di spiegare perché Alan è annegato vicino alla costa turca oggi è doveroso raccontare le vicende che hanno portato Mohammed a morire in un fiume che divide la Birmania dal Bangladesh. Posti lontani, ma dove le tragedie umane non sono poi così diverse da quelle che vediamo sulle coste del Mediterraneo.

Sono tragedie che sempre rientrano nella categoria della violazione di diritti umani, in particolare nella negazione dei diritti delle minoranze. In Myanmar, un paese a maggioranza buddista che un tempo si chiamava Birmania, vivono oltre un milione di musulmani, i Rohingya. Ci vivono da lungo tempo, ma non vengono riconosciuti come cittadini e li si considera immigrati privi di diritti. Vengono discriminati e sono oggetto di una repressione dura e indiscriminata. Certo, la Birmania è stata retta a lungo — e tuttora lo è nonostante alcune limitate riforme politiche — da un duro regime militare, ma attribuire esclusivamente il problema a un regime dittatoriale sarebbe troppo ottimista e falsamente consolatorio. Purtroppo l’esclusione e la discriminazione nei confronti di chi è diverso non è monopolio di una sola cultura o di una sola religione. Condanniamo giustamente l’intolleranza del radicalismo islamico nei confronti dei cristiani, ma in questo caso i musulmani sono gli oppressi, mentre gli oppressori appartengono alla religione che più viene associata alla pace e alla comprensione universale: il buddismo. Tutte le religioni hanno avuto storicamente una versione intollerante, quando non fascista, e il buddismo evidentemente non fa eccezione. Nel caso della Birmania, poi, risulta particolarmente scoraggiante constatare che anche una vera eroina del dissenso, Aung San Suu Kyi, nel 1991 Premio Nobel per la pace, non è capace di sottrarsi a una visione sostanzialmente settaria. Ha lottato con coraggio, pagandolo con lunghi anni di reclusione a domicilio coatto, per la libertà del proprio popolo, ma evidentemente per lei i musulmani non fanno parte del suo popolo e il perimetro della sua solidarietà e del suo impegno politico e morale non si estende oltre a quelli che lei considera affini per cultura e religione. Lo stesso limite e lo stesso problema, ovunque. Se non sapremo affrontarlo con intelligenza e coraggio politico il disordine e la violenza continueranno, e non basterà certo a salvarci la commozione di fronte all’immagine di bambini morti.

il giusto rimprovero del papà del piccolo Alan

“vi eravate commossi per il mio piccolo Alan ma ora costruite altri muri”

intervista a Abdullah Kurdi

a cura di Fabio Tonacci
in “la Repubblica”

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Otto mesi dopo, Abdullah Kurdi è un condannato alla vita con un ultimo desiderio che nessuno ha esaudito

«I bambini profughi continuano ad affogare ogni giorno, la guerra in Siria non è stata fermata. Vedo Stati che costruiscono muri e altri che non ci vogliono accogliere. Il mio Alan è morto per niente, poco è cambiato»

Il suo Alan. Un corpicino con la maglietta rossa e le scarpe blu che le onde adagiarono pietosamente sulla spiaggia di Bodrum dopo il naufragio. Era il settembre scorso, e per qualche settimana la foto scattata da una reporter turca fu il macigno sulla coscienza dell’Europa. A bordo del gommone che puntava all’isola greca di Kos erano in dodici. C’era Abdullah, siriano in fuga da Kobane. C’era sua moglie Rehan. C’erano Alan, tre anni, e l’altro figlioletto Galip, cinque anni. Li ha persi tutti. Lui è sopravvissuto.

Cosa ricorda di quei giorni?

«Ho i ricordi annebbiati, come fossi stato ubriaco. Ero assediato dai media di tutto il mondo, rilasciavo un’intervista dopo l’altra. Il clamore mi impediva di realizzare che non avevo più la mia famiglia. I miei figli, erano meravigliosi… mi sono scivolati dalle mani, quando cademmo in acqua. Vi prego chiamatelo Alan e non Aylan come a volte scrivono i giornalisti. Ci tengo». I trafficanti di uomini condannati dalla polizia turca per quel naufragio, Muwafaka Alabash e Asem Alfrhad, l’hanno accusata di far parte della rete degli scafisti. «Ma quale scafista metterebbe la propria famiglia su un gommone tra i disperati? Uno scafista ha i soldi e le conoscenze per prendere un motoscafo e far viaggiare con dignità e sicurezza i suoi figli.

Alan3Questa accusa è un’offesa all’intelligenza di chi l’ascolta».

Ha seppellito sua moglie e i suoi figli a Kobane. Vive ancora accanto a loro?

«No, sono a Erbil, nel Kurdistan iracheno. Sono stato a Kobane per un mese dopo il funerale, ma mancava tutto, la città era distrutta ed ero solo. Da un giorno all’altro, poi, sono spariti tutti. Non ce la facevo più, stavo per perdere la testa e il cuore mi faceva male da quanto soffrivo ».

Nessuno l’ha aiutata?

«Non le organizzazioni internazionali, né quelle siriane o curdo-siriane. La solidarietà si era dissolta, ad eccezione dell’ex premier turco Davutoglu che mi ha dato 5.000 dollari. Per fortuna mi è arrivata la telefonata del premier del Kurdistan iracheno Nechirvan Barzani che mi ha invitato a Erbil, dove mi ha comprato una casa ».

Dopo la tragedia, nell’intervista con Repubblica, lei si augurava che il sacrificio di Alan e di Galip cambiasse l’atteggiamento dei governi europei nei confronti della questione profughi. Oggi cosa pensa?

«Per un po’ sembrava che la foto di Alan avesse smosso qualcosa negli animi dell’opinione pubblica occidentale e nelle stanze della politica. A mio figlio sono state intitolate scuole e campagne, e questo mi fa piacere perché può aiutare a stimolare l’empatia della gente e a non dimenticare la mia famiglia. Ma le notizie di nuovi naufragi, di muri eretti lungo la via balcanica, delle polemiche tra i governi, mi dicono che in realtà, al di là della reazione emotiva sul momento, poco è cambiato ».

In Europa stanno guadagnando terreno partiti xenofobi, e a Bruxelles i membri Ue fanno fatica a distribuire equamente l’accoglienza dei migranti. Qual è il suo messaggio per le istituzioni?

«Ai governi e alle persone spaventate dall’arrivo di tanta gente vorrei dire che non è più moralmente accettabile chiudere le porte in faccia a chi fugge dalla morte e dell’umiliazione. Chi si mette su un barcone non ha alternative, credetemi ». Come giudica il comportamento del governo turco nei confronti dei rifugiati siriani? «Sono grato alla Turchia, perché ha dato ai miei connazionali molti permessi di lavoro e ha consentito a tanti di prendere la cittadinanza».

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Cosa farà adesso?

«Barzani mi ha promesso che aprirà una fondazione umanitaria per l’assistenza dei bambini intitolata ad Alan, e ci lavorerò anch’io. Voglio essere la mano tesa verso i più piccoli, per accogliere chi ha bisogno e dar loro la possibilità di non aver paura, di non aver più fame. E di ricominciare a giocare ».

( Ha collaborato Fouad Roueiha)

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