per non dimenticare Tibhirine
Algeria
20 anni fa il martirio dei monaci di Tibhirine
nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996 il loro rapimento dal monastero di Notre-Dame dell’Atlas e il 30 maggio il ritrovamento dei corpi
«Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese. Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza e nell’anonimato. La mia vita non ha più valore di un’altra».
Aveva scritto così nel suo testamento, stilato tra il dicembre 1993 e il gennaio 1994: poco più di due anni dopo, nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996, frère Christian de Chergé – priore del monastero trappista di Notre-Dame de l’Atlas in Algeria, veniva preso in ostaggio insieme a sei confratelli da un commando del Gia (Gruppo islamico armato). I loro corpi martoriati furono ritrovati dopo 56 giorni.
Una vicenda, quella dei monaci di Tibhirine che a vent’anni di distanza non cessa di indurre una riflessione sul sangue dei «martiri di oggi» – come li ha definiti Papa Bergoglio all’Angelus del 6 marzo scorso in riferimento alle quattro missionarie della carità uccise in Yemen – ed è significativo che il loro anniversario cada quest’anno proprio alla veglia pasquale.
Sono stati testimoni (traduzione del termine greco, martire) della loro fede in un Dio che considera figli e fratelli tutti gli uomini della terra, testimoni di una convinzione profondamente evangelica: la possibilità di una pacifica convivenza tra le diverse religioni al di là di ogni fondamentalismo.
Il loro monastero in Algeria, come quello di Deir Mar Musa fondato da padre Paolo Dall’Oglio – l’uno arroccato sui monti dell’Atlas, l’altro sul monte Libano davanti al deserto siriano – entrambi luoghi in cui la fede cristiana aveva imparato a convivere con l’islam. Perché padre Chergé e i suoi confratelli sapevano ben distinguere evitando ogni strumentale generalizzazione e, pur coscienti di venie assimilati a ingenui e idealisti, hanno perseverato fino all’ultimo nella fedeltà di una scelta che li aveva indotti a restare, a fianco dei loro fratelli algerini in balia del conflitto che dilaniava il paese (una vicenda rappresentata nel film di Xavier Beauvois «Des hommes et des dieux» 2010).
«So il disprezzo con il quale si è arrivati a circondare gli algerini globalmente presi – continua il testamento – So anche le caricature dell’islam che un certo islamismo incoraggia. È troppo facile mettersi a posto la coscienza identificando questa via religiosa con gli integralismi dei suoi estremisti».
Provenivano da esperienze personali assai diverse i sette monaci uccisi (come accade in ogni comunità religiosa, dove si diventa semplicemente un «fratello»): un figlio di un generale dell’esercito, un idraulico, un convinto sessantottino, un dirigente scolastico, un fresatore, un medico, un religioso «di strada». Ma al monastero avevano raggiunto uno straordinario «sentire comune» e proprio questa vita comune – come ha scritto Enzo Bianchi nella prefazione a un testo pubblicato a Bose nel decimo anniversario della morte «Più forti dell’odio» – ha affinato la loro contemplazione, li ha portati all’autentica contemplazione cristiana: vedere gli uomini – ogni uomo, anche il nemico – e le cose – tutte le cose, anche la morte violenta – con gli occhi di Dio».
«Potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze» continua frère Christian.
«Quante sono le vie che conducono a Dio?» è stato chiesto all’allora cardinale Ratzinger nel libro «Sale della terra»: «tante quante sono gli uomini sulla terra», tutti in cerca di quel «Dio ignoto» di cui parla san Paolo all’agorà di Atene.
«E anche a te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi – conclude il Priore dopo avere reso grazie a Dio, amici e familiari e alludendo all’unica Gerusalemme celeste – Sì anche per te voglio questo grazie e questo “ad-Dio” da te previsto. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se piace a Dio, Padre Nostro, di tutti e due. Amen! In š?? All?h».
Sono ben 19 i religiosi uccisi in Algeria tra il 1994 e il 1996 (il 1° agosto dello stesso anno, anche il vescovo di Orano, il domenicano Pierre Claverie) tanto che nel 2013 il monaco trappista francese Thomas Georgeon è stato nominato postulatore della loro causa di beatificazione in corso.
«Un segno sulla montagna», il motto del monastero, nel frattempo ha ripreso vita, ancora sull’Atlas, ma a Midelt in Marocco: una piccola comunità intitolata a Maria Notre-Dame, dove vive l’ultimo sopravvissuto di Tibhirine (che in lingua locale significa «giardino»), Jean-Pierre Schumacher, ultranovantenne.