un razzismo convinto ed esibito – negli Usa 1124 gruppi razzisti

il trionfo dell’ultradestra

«noi razzisti e allora?

di Umberto De Giovannangeli
in “l’Unità” del 1 febbraio 2017

attualmente ci sono negli Usa 1124 gruppi razzisti che sostengono idee come la supremazia bianca basata sulla teorica superiorità di questa razza su afro-americani, ispanici, arabi o ebrei.
Queste credenze, basate sull’odio hanno fondamenta politiche e sociali, che a volte partono da una base religiosa spesso legata al cristianesimo fondamentalista

Il killer della moschea di Quebec City aveva il mito dei «suprematisti» e su Facebook «AlexB» (Bissonette) inneggiava a Trump, Marine Le Pen e le forze di difesa israeliane. Se anche è stato da solo a compiere la strage (6 morti, 8 feriti) Alex Bissonette non è certo il solo a essere influenzato e armato, almeno ideologicamente, dal razzismo suprematista made in Usa. Perché da tempo negli Stati Uniti agiscono e si rafforzano quelli che oggi potrebbero essere definiti i legionari di Trump. Attualmente ci sono negli Usa 1124 gruppi razzisti che sostengono idee come la supremazia bianca basata sulla teorica superiorità di questa razza su afro-americani, ispanici, arabi o ebrei. Queste credenze, basate sull’odio hanno fondamenta politiche e sociali, che a volte partono da una base religiosa spesso legata al cristianesimo fondamentalista. Nella South Carolina, ad esempio, secondo il Southern Poverty Law Center, operano almeno 19 «hate groups», cioè i gruppi che fanno dell’odio la propria cifra.

C’è il Ku Klux Klan, naturalmente, che non molto tempo fa aveva lanciato una campagna di adesioni esplicita, facendo trovare caramelle davanti alle porte dei cittadini. Qui sventolare le bandiere confederate sugli edifici pubblici è ancora legale: non può sorprendere che ci siano sei gruppi ancora determinati a non riconoscere la sconfitta nella Guerra Civile. I miliziani suprematisti sono oggi oltre 50mila in tutti gli States. Tra i gruppi che operano attivamente si includono: neonazisti, miliziani del Ku Klux Klan, nazionalisti bianchi, neoconfederati, teste rasate di taglio razzista, vigilanti frontalieri. I gruppi neonazi nel 2008 erano 159 , otto anni dopo sono saliti a 1384. Tra i più attivi: American front, American guard, Hammerskins, National alliance, National socialist American labor party, National socialist vanguard, Nsdap/Ao, White aryan resistance. Il suprematismo bianco Usa corre anche sul web. Un recente studio del Simon Wiesenthal Center ha identificato più di 12mila gruppi di odio xenofobo e antisemita sul web. La League of the South sul proprio sito avverte: «Se ci chiamerete razzisti, la nostra risposta sarà: e allora?». Tra i gruppi più attivi si segnalano l’Aryan Brotherhood in New Mexico e i Nazi Low Riders nella California del sud: sorti come gang di strada, si sono poi ideologizzati. Di più recente fondazione è l’American Third Position party, denominato per brevità A3P, un gruppo che fa della supremazia bianca la sua bandiera e che ha preso il via in California facendo poi proseliti in altri Stati americani.

La crescita delle organizzazioni bianche è tutta in queste cifre: il 16% in più rispetto a due anni fa, il 71% rispetto al 2000. Tra i suprematisti bianchi che hanno appoggiato Donald Trump in campagna elettorale ci sono anche quelli dell’American Freedom Party, il cui leader William Johnson aveva spiegato, in interviste e dichiarazioni pubbliche, che i suoi uomini stanno lavorando in stretta collaborazione con la campagna di Trump per far andare tutto liscio il giorno delle elezioni. Mobilitati altri suprematisti, quelli del Traditionalist Workers Party, che si erano dati appuntamento in Ohio, il giorno del voto, per volantinare a favore di Trump. In Stati come l’Arizona, i gruppi suprematisti sono in prima linea contro l’immigrazione dei latinos, classificati tra le razze «inferiori» non bianche. Accanto a questi gruppi troviamo poi il movimento dell’estrema destra cristiana noto come Christian Identity, a cui fanno capo gruppi come Aryan Nations (la cui connotazione cristiana li distingue da altri, che si rifanno al paganesimo celtico, così come parte della destra radicale europea). Nell’ambito della Christian Identity troviamo anche piccoli gruppi religiosi e sette apocalittiche, come quella di David Koresh che nel 1993 fu protagonista dei fatti di Waco, in Texas (dove più di 70persone morirono nell’incendio di un ranch assediato dalle forze federali). Sempre in ambito religioso troviamo poi i gruppi antiabortisti più radicali come Operation Rescue, che negli ultimi decenni si sono impegnati in numerosi blitz contro le cliniche dove si eseguono aborti. Sono900 gli episodi di intolleranza e odio avvenuti negli Stati Uniti nei giorni che hanno seguito la vittoria di Donald Trump alle elezioni americane. «Non ho dubbi che si tratti di una stima in ribasso», ha detto Richard Cohen del Southern Poverty
Law Center, che ogni hanno compila una mappa dei crimini legati all’odio. In tutto il gruppo ha registrato 867 casi di molestie e intimidazioni dopo l’elezione di Trump.

Il presidente eletto sin dall’inizio ha avuto il sostegno dei suprematisti bianchi, spinti a appoggiarlo dalle sue posizioni di estrema destra su immigrati, musulmani e donne. Secondo John Horgan, studioso di terrorismo dell’Università di Massachusetts-Lowell, la percezione sbagliata della gente è ormai evidente per gli esperti. «C’è consenso ora sull’idea che la minaccia del terrorismo islamico sia stata esagerata e che invece quella portata dagli estremisti di destra e dagli antigovernativi sia stata sottovalutata ».Cosa abbia rappresentato per la variegata galassia suprematista, l’elezione di “The Donald”a presidente degli Stati Uniti, lo chiarisce molto bene l’ex Gran Dragone del Ku Klux Klan David Duke: «Dio benedica Donald Trump. È venuto il tempo di fare le cose giuste, di rendere agli Usa il posto che meritano nel mondo. Voglio rendere omaggio a tutti i bianchi che hanno votato per la difesa della loro cultura e dei loro figli». Duke è stato tra i primi a congratularsi, via social network, con Trump, certo che «con questa vittoria sono le idee per le quali combattiamo da una vita ad essersi imposte». Trump non l’ha deluso.

anche gli Stati Uniti hanno il loro olocausto

l’olocausto di cui nessuno vuole parlare

31 gennaio 1876

gli Stati Uniti istituiscono i lager per gli Indiani (le riserve) allo scopo di attuare la loro “soluzione finale”

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Indiani

oggi ricorre un triste anniversario

Il 31 gennaio 1876 gli Stati Uniti ordinano ai Nativi Americani di trasferirsi nelle riserve.

Quasi tutte le tribù erano state decimate, sconfitte e massacrate e la distruzione dei bisonti le avevano private delle fonti di sostentamento dei veri Americani.
Le riserve furono prima dei campi di rieducazione, poi dei ghetti, infine delle isole di residenza, dove gli indiani d’America potevano mantenere le loro usanze. Ma solo a parole. Non avevano diritto al voto (acquisito solo nel 1924). Nei campi i Veri Americani venivano perseguitati e assassinati, spogliati di tutto. Le riserve di terre infertili o discariche o terreni contaminati. Alcuni gruppi di Nativi Americani furono addirittura “trasferiti” in nuove riserve ricavate in discariche di scorie nucleari.

Si è tentato di tutto per azzerare questo popolo e non solo nell’800.

Solo tra il 1940 e il 1980, il 40% di tutte le donne nelle riserve indiane sono state sterilizzate contro la loro volontà dal governo degli Stati Uniti!! In pieno secolo XX, gli USA hanno messo in marcia un piano di sterilizzazione forzata delle donne native, chiedendo loro di firmare formulari scritti in una lingua che non comprendevano, minacciandole del taglio dei sussidi o, semplicemente, impedendo loro l’accesso ai servizi sanitari.

Gli USA sono stati fondati sul genocidio di 10 milioni di Nativi. Ma di questo Olocausto non dobbiamo sapere niente !!

 

tratto da: http://zapping2015.altervista.org/lolocausto-di-cui-nessuno-vuole-parlare-31-gennaio-1876-gli-stati-uniti-istituiscono-i-lager-per-gli-indiani-le-riserve-allo-scopo-di-attuare-la-loro-soluzione-finale/

i cattolici americani divisi sul voto a Trump

Sulla vittoria di Trump, la divisione del mondo cattolico Usa e lo shock dei progressisti

sulla vittoria di Trump, la divisione del mondo cattolico Usa e lo shock dei progressisti

Ludovica Eugenio 

 

da: Adista Notizie n° 40 del 19/11/2016
Shock. È questo il sentimento che, nel mondo cattolico progressista statunitense, ha accompagnato la campagna elettorale e la vittoria di Donald Trump. Vittoria che, peraltro, è stata raggiunta anche grazie al voto dei cittadini di appartenenza cristiana, soprattutto dei bianchi evangelici (che hanno votato Trump nella misura dell’81%, con un 3% in più rispetto al loro voto per il candidato repubblicano Mitt Romney nel 2012), cattolici (52% per Trump; avevano dato a Romney il 59% delle preferenze) e mormoni (46% solo nello Utah, dove quasi due terzi della popolazione appartengono a questa denominazione religiosa).

Se il voto degli evangelici bianchi è stato un voto «nostalgico», commenta il Religion News Service, sensibile ai richiami di Trump a «rendere di nuovo grande l’America», i cattolici latino hanno votato per Hillary Clinton per il 67%, con meno convinzione, dunque, rispetto al 2012, quando in tre su quattro avevano scelto Barack Obama. Quanto ai mormoni dello Utah, la loro fama di rigore morale e il loro fervore per i valori tradizionali non ha favorito Clinton quanto il candidato McMullin, mormone. E tra gli evangelici, a fare appello a non votare per Trump è stato il presidente della Commissione etica e libertà religiosa della Convenzione dei Battisti del Sud Moore: «A prescindere dalle divisioni razziali ed etniche in America – ha detto – possiamo essere Chiese che dimostrano e incarnano la riconciliazione del Regno di Dio. La lezione più importante che possiamo trarre è che la Chiesa deve opporsi contro il modo in cui la politica è diventata una religione e la religione è diventata una faccenda politica».

Un incubo contro cui lottare

Lo certifica a chiare lettere il settimanale National Catholic Reporter (9/11), affermando che il Paese «si è auto inflitto un gravissimo disastro». Non è accaduto «come avviene un terremoto o un tornado. Questa ferita auto inflitta è stata scelta». «Il presidente eletto ha pronunciato un discorso conciliante e persino moderato. Non lasciamoci ingannare. Ha ottenuto la vittoria facendo appello ai peggiori sentimenti della natura umana e ha risvegliato una belva. La belva continuerà a voler essere alimentata e quando i suoi consiglieri gli diranno di non continuare a suscitare quei sentimenti, non li ascolterà». Lo shock, però, deve funzionare come spinta a lavorare per il futuro: «Gli immigrati, i vulnerabili, il pianeta, tutti richiedono da parte nostra vigilanza e protezione nei giorni bui che verranno. Impegniamoci nel compito di dar vita a una identità nazionale diversa da quella ratificata la notte dell’elezione, un’identità radicata in un’autentica visione morale per il nostro Paese, occupandoci di coloro per i quali il risultato di questa elezione costituisce una minaccia personale e di coloro il cui senso di alienazione culturale li ha portati a votare per Trump. Ora siamo tutti in un ospedale da campo».

Il sentimento di smarrimento, paura e incertezza è diffuso, ma altrettanto forte è il desiderio di lottare e di rendere la Chiesa un fattore determinante per la salute del Paese. «La Chiesa cattolica – scrive il gesuita p. Thomas Reese, columnist del Ncr e saggista, già direttore del settimanale dei gesuiti America – si trova in una posizione unica per contribuire al recupero del Paese. Non solo è presente in quasi ogni angolo della nazione, ma è una delle poche organizzazioni i cui aderenti comprendono repubblicani e democratici, ispanici e anglosassoni, neri e bianchi, donne e uomini, ricchi e poveri, colti e non, e rappresenta ogni generazione». Reese propone di adattare al dialogo politico gli strumenti pensati per il dialogo ecumenico: tanto per cominciare, partire dalle aree comuni piuttosto che dalle differenze, imparare a conoscere l’altro. Non convertirlo. E questo a ogni livello della Chiesa, incoraggiando un “dialogo della vita” accanto a un “dialogo dell’azione sociale comune”; in tal senso, la Chiesa, portando democratici e repubblicani a lavorare insieme sulle malattie del Paese, può offrire alla nazione un enorme contributo. «La Chiesa – afferma Reese – deve essere parte della soluzione, altrimenti sarà parte del problema. Sarà agente di riconciliazione e cura o sarà divisa dall’ambiente politico in cui vive. La Chiesa ha le persone, le risorse e gli strumenti per farlo. Cominciamo».

Anche gli intellettuali che, negli Stati Uniti, lavorano all’intersezione tra religione e politica esprimono lo shock post-elettorale; a loro dà voce l’Ncr. Stephen Schneck, docente alla Catholic University, elenca i suoi incubi: «Trump accerchierà e deporterà milioni di immigrati. Gli americani musulmani saranno sottoposti a indagini repressive. Le donne, i disabili, i non bianchi, coloro che sono diversi e categorie che Trump identifica semplicemente come “perdenti” oggi guardano al Paese con paura. Milioni di americani, la maggior parte dei quali ai livelli minimi di reddito, non avranno più assistenza sanitaria. Il progresso sociale sui diritti delle persone di colore, dei gay, delle religioni non cristiane e delle donne farà marcia indietro. Le tutele ambientali di base che proteggono la nostra atmosfera e l’acqua e ci difendono dagli agenti inquinanti saranno rimosse. Le norme per la tutela dei consumatori saranno eliminate. Gli standard educativi si abbasseranno».

A fare breccia tra i cattolici pro-life è stato l’elemento antiabortista di Trump. Jeanne Mancini, presidente di March for Life, lo ha detto esplicitamente: «Non vediamo l’ora di lavorare insieme per portare a compimento le promesse del presidente Trump di garantire giudici della Corte suprema pro-life, politiche antiabortiste e di smettere di finanziare il massimo organismo che pratica aborti, Planned Parenthood».

Le voci (non univoche) della gerarchia cattolica

Che papa Francesco non vedesse di buon occhio Trump è ampiamente documentato dalle osservazioni fatte qualche tempo fa su chi vuole costruire muri anti-migranti. Ora, in un’intervista a Eugenio Scalfari su La Repubblica (11/11), il papa ha affermato di non dare «giudizi sulle persone e sugli uomini politici»: «Voglio solo capire quali sono le sofferenze che il loro modo di procedere causa ai poveri e agli esclusi». «Il denaro – ha aggiunto – è contro i poveri oltreché contro gli immigrati e i rifugiati, ma ci sono anche i poveri dei Paesi ricchi i quali temono l’accoglienza dei loro simili provenienti da Paesi poveri. È un circolo perverso e deve essere interrotto. Dobbiamo abbattere i muri che dividono: tentare di accrescere il benessere e renderlo più diffuso, ma per raggiungere questo risultato dobbiamo abbattere quei muri e costruire ponti che consentono di far diminuire le diseguaglianze e accrescono la libertà e i diritti. Maggiori diritti e maggiore libertà».

Da ministro degli Esteri vaticano, il card. Pietro Parolin, si è diplomaticamente congratulato con Trump per la vittoria: «Facciamo gli auguri al nuovo presidente perché il suo governo possa essere davvero fruttuoso e assicuriamo anche la nostra preghiera perché il Signore lo illumini e lo sostenga al servizio della sua patria, naturalmente, ma anche a servizio del benessere e della pace nel mondo. Credo – ha detto – che oggi c’è bisogno di lavorare tutti per cambiare la situazione mondiale, che è una situazione di grave lacerazione, di grave conflitto». Altrettanto diplomaticamente, a chi faceva riferimento al duro scambio di battute tra Trump e papa Francesco di alcuni mesi fa sugli immigrati che dal Messico cercano di entrare negli Usa, ha risposto «vedremo come si muove il presidente. Normalmente dicono: altro è essere candidato, altro è essere presidente, avere una responsabilità…». «Mi pare prematuro dare giudizi».

Equilibrista la dichiarazione del presidente della Conferenza episcopale statunitense mons. Joseph Kurtz: «La Conferenza episcopale – afferma – attende di lavorare con il presidente eletto Trump per tutelare la vita umana dal suo inizio vulnerabile alla sua conclusione naturale. Sosterremo politiche che offrano opportunità a tutte le persone, di ogni fede, in tutte le fasi della vita». Trapela preoccupazione dalla dichiarazione dell’arcivescovo di Chicago mons. Blase Cupich che ha detto di «pregare per gli eletti e chiedere al Signore di illuminarli e sostenerli nel loro servizio a tutto il popolo del nostro Paese. Prego anche per coloro che hanno posizioni opposte, affinché continuino a partecipare alla nostra democrazia nel nostro sforzo di lavorare insieme in rispettosa armonia per il bene comune». «Non dobbiamo mai stancarci di esprimere la nostra tradizione di servizio ai bisognosi, a coloro che si trovano ai margini della società», ha detto. «Nostro obiettivo comune dev’essere dimostrare il nostro impegno verso quegli ideali, recuperare la nostra solidarietà come nazione».

Esulta, invece, il conservatorissimo card. Raymond Burke, già prefetto della Segnatura apostolica e poi declassato da papa Francesco – verso il quale si è sempre dimostrato ostile – a cappellano dell’Ordine di Malta: intervistato all’indomani delle elezioni da Il Giornale, ha espresso la speranza che «l’America, con questo nuovo presidente, possa ritrovare una buona strada da percorrere»; «mi pare che il nuovo presidente capisca bene quali sono i beni fondamentali per noi importanti. In primo luogo sono convinto che, da come ha detto, avrà a cuore la difesa della vita umana sin dal suo concepimento e che potrà mettere in campo tutte le azioni possibili per contrastare l’aborto. E poi credo anche che abbia ben chiaro l’insostituibile bene della libertà religiosa. Infine sicuramente porrà attenzione alla sanità americana, tema che per ora non va molto bene negli Stati Uniti!». Nessun timore, per Burke, anche a proposito del muro che Trump intenderebbe costruire sul confine messicano: «Non penso che il nuovo Presidente sarà ispirato da odio nel trattamento della questione dell’immigrazione, una questione di prudenza che richiede la conoscenza di chi sono gli immigrati, delle ragioni che li spingono ad emigrare e della capacità delle comunità locali ad accoglierli. La carità deve essere sempre intelligente e, perciò, informata da una profonda conoscenza della situazione sia di chi vuol immigrare sia di chi deve ricevere queste persone».

Mondo cattolico diviso

La netta spaccatura nel mondo cattolico espressa sinteticamente dalle cifre del voto si percepisce nei commenti della base, religiosa e laica, esplicitata in commenti e dichiarazioni sui social network. «Abbiamo del lavoro davanti a noi. Temo che questo diventerà il nostro momento Bonhoeffer», twitta il francescano p. Daniel Horan. Opposta la reazione di p. Kevin Cusick, cappellano militare nella Marina: «Ora che i cattolici hanno un amico alla Casa Bianca, facciamo tornare la Chiesa alla sua grandezza», incita. E tra i cattolici che sostengono Trump, si coglie la speranza che il nuovo presidente faccia piazza pulita del mandato, previsto dalla riforma del sistema sanitario di Obama, che chiedeva alle aziende, anche quelle di matrice confessionale, di farsi carico dell’assistenza sanitaria dei dipendenti per ciò che riguardava la salute riproduttiva, contraccezione e aborto compresi; lo può fare «con un colpo di penna», scrive su Twitter Ryan T. Anderson della Heritage Foundation, istituzione che si occupa di matrimonio e famiglia.

Chi, nella Chiesa, si occupa di giustizia sociale e delle categorie più svantaggiate, mostra invece una gravissima preoccupazione soprattutto per la questione della violenza razziale. «Trump ha alimentato la rabbia delle popolazioni bianche vulnerabili che sentono di non essere prese in considerazione», ha affermato, secondo quanto riporta il quotidiano francese La Croix (10/11) suor Simone Campbell, notissima religiosa, avvocata e direttrice di Network (organismo impegnato nel campo della giustizia sociale). Preoccupata per le «recenti tensioni razziali» che negli Stati Uniti hanno scatenato violenze, ha ribadito che «i problemi economici sono stati messi sulle spalle delle persone di colore».

«È un giorno nero per tutti coloro che credono in una società in cui i più poveri siano onorati, rispettati, sostenuti», ha dichiarato la benedettina suor Joan Chittister, che inscrive la vittoria di Trump in un sovvertimento sociale molto più ampio. «Siamo in un periodo della storia in cui i cambiamenti – nuove tecnologie, arrivo di migliaia di migranti, evoluzione della famiglia – sono troppo rapidi da assorbire per le generazioni più vecchie e la popolazione più sprovveduta. Molti vogliono tornare all’America che conoscevano, quella degli anni ’50. Di fronte alla paura del cambiamento, inevitabile, bisogna adattarsi a una società pluralista e i governi non hanno saputo gestire questi cambiamenti». È evidente, affermano le due religiose, che i cattolici statunitensi non hanno fatto proprio l’insegnamento di papa Francesco: «Cento anni di dottrina sociale cattolica per arrivare a questo!»; suor Chittister rilancia: «Tocca a noi più che mai batterci per far rispettare i diritti delle minoranze, dei poveri, delle persone emarginate o vittime di ingiustizia».

* Opera di DonkeyHotey. Immagine originale e licenza.

riflessioni amare su un voto dettato dall’insicurezza dell’intero occidente e dalla paura dei poveri

non piaceva a nessuno, è stato votato da tutti

 

 di Massimo Marnetto

 

Quando c’è paura, scegli chi ti toglie di meno e non chi ti dà di più. La domanda di giustizia sociale può attendere


donaltrump

E’ presto. Mi bevo un caffè amaro, vedendo il contatore dei voti di Trump scavalcare quello della Clinton. L’uomo che non piaceva a nessuno, è stato votato da tutti. Penso che  molto dipenda dall’insicurezza globale dell’Occidente e in particolar modo degli Usa. Quando c’è paura, scegli chi ti toglie di meno e non chi ti dà di più. La domanda di giustizia sociale può attendere. Quando le vacche torneranno grasse e i confini sicuri. Ora sono tempi incerti, la massa vede la globalizzazione unicamente come invasione. Di prodotti e di persone.

I poveri fanno più paura dei ricchi. Allora si votano i miliardari per fermarli, per riportare l’ordine. L’antidoto che si cerca quando c’è l’epidemia della paura. Non è necessario che la società sia giusta, dicono gli spaventati, purché ci sia ordine. E i poveri tornino al loro posto, in fondo alla società, senza pretendere diritti; le donne tornino dietro agli uomini, senza disturbare con la loro domanda di uguaglianza e di avere finalmente una presidente donna; gli stranieri stiano fuori, senza portarci anche i loro problemi. La zattera è piccola. Dobbiamo prendere a remate in testa chi ci si attacca per salire, perché può farla rovesciare.
 
La Clinton non ha rassicurato chi soffre le disuguaglianze, per una distanza di status abissale tra sé e la classe media, per non parlare di afro-americani e latinos. Non solo. Poco credibile per la sua appartenenza a una dinastia, non ha raccolto i voti dei sostenitori Bernie Sanders, l’unico che poteva sfidare Trump mobilitando i defraudati in una lotta di classe. Hilary è una minestra riscaldata, non l’elemento di rottura che attendevano i tanti che hanno sempre meno, per contrastare i pochi che hanno sempre di più.
 
Non so come andrà a finire. Se Trump vincerà, inaugurerà l’inizio del declino americano.
Ma avrà almeno il vantaggio di mostrare il volto violento e ingiusto del capitalismo, troppo a lungo camuffato.
In America e in Europa.

Fonte: www.articolo21.org

e se papa Francesco chiedesse il bando delle armi nucleari … ?

viaggio negli Usa

ora papa Francesco  spaventa il Pentagono

il pontefice durante il viaggio negli Usa potrebbe chiedere il bando degli arsenali nucleari, finora tollerati dalla Chiesa

mentre si prepara un piano di riarmo da mille miliardi

di Gianluca Di Feo
Viaggio negli Usa, ora papa Francesco  spaventa il Pentagono

la visita di Francesco negli Stati Uniti adesso comincia a preoccupare anche il Pentagono. Perché nell’alba di una nuova guerra fredda, il Papa potrebbe chiedere di eliminare una volta per tutte la peggiore eredità del vecchio confronto tra Washington e Mosca: le armi nucleari. Un allarme rosso dei generali e delle aziende militari che adesso si è materializzato sulla homepage di Defense One , il sito specializzato ampiamente sponsorizzato dai colossi bellici americani, che ha affidato però la materia a due esponenti di una fondazione pacifista

La direzione presa da Bergoglio è chiara: oggi gli arsenali atomici non hanno più giustificazione. Non sono moralmente accettabili, non servono a mantenere la pace e costituiscono solo una minaccia per l’umanità. È una linea che rompe la posizione della Santa Sede dell’ultimo mezzo secolo. Da Giovanni XXIII in poi, il Vaticano ha sempre denunciato l’orrore di queste armi, tollerandole però in nome della deterrenza reciproca che ha dominato il mondo prima della caduta del Muro di Berlino: nessuno era disposto a usare ordigni atomici nel timore che la ritorsione causasse un disastro globale. Era l’equilibrio del terrore, che garantiva la pace grazie al pericolo dell’apocalisse planetaria. Quella della Chiesa era presentata come «un’accettazione provvisoria, a condizione che fosse un passo verso il progressivo disarmo», come recitano i documenti ufficiali.

 
“Il santo popolo fedele di Dio che vive a Cuba è un popolo che ama la festa, l’amicizia, le cose belle. È un popolo che cammina, che canta e loda. È un popolo che ha delle ferite, come ogni popolo, ma che sa stare con le braccia aperte, che cammina con speranza, perché la sua vocazione è di grandezza”. Così papa Francesco nell’omelia durante la messa in Plaza de la Revolución all’Avana

Da mesi, invece, il Vaticano di Bergoglio ha intensificato i messaggi che spingono verso il bando totale degli ordigni. A dicembre una nota ha precisato che «il deterrente nucleare e la minaccia di distruzione reciproca non possono essere la base di un’etica di fraternità e convivenza pacifica tra i popoli e gli Stati». E la scorsa settimana, in un intervento scritto l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario vaticano per i rapporti con gli Stati, è stato ancora più diretto, dichiarando che le finalità degli arsenali atomici erano ormai scomparse e «oggi rischiano di essere usati in un modo che può causare gravi conseguenze umanitarie. Bisogna infine riconoscere che il possesso di armi atomiche, anche se per scopi di deterrenza, è moralmente problematica».

Non è una questione remota. Negli Stati Uniti si sta discutendo un piano di investimenti colossali, pari a mille miliardi di dollari, per modernizzare la triade di sistemi nucleari del Pentagono: missili lanciati da aerei, sottomarini e silos sotterranei. L’aggressività di Putin in Ucraina è servita da pretesto per varare nuovi progetti, intorno ai quali si sta costruendo un’intesa tra colossi industriali e vertici delle forze armate.

 
“Vedo l’incontro tra il Papa e Fidel Castro come qualcosa di molto positivo”. E’ stato questo il commento dell’ex presidente dell’Uruguay, Pepe Mujica, in visita a Expo 2015. “E’ un Papa sudamericano, è uno di noi, del mio stesso condominio – dice scherzando lo storico presidente – il Papa ama il calcio, balla il tango. Avere un Papa così è un premio per tutta l’America Latina perché lui dà una grande influenza morale non soltanto alla chiesa, ma anche a tutta la gente comune”. L’ex presidente uruguayano è tornato poi sugli argomenti del suo libro “Felicità al potere”, dove il concetto di libertà è associato al tempo in cui si trascorre la propria vita. E così come Papa Francesco ha fatto nella sua enciclica “Laudato Sì”, anche Mujica si è soffermato su concetti chiave come quelli della terra e della famiglia per un nuovo modello di sostenibilità. “Io sono nato contadino e ho sempre sperato di terminare la mia vita lavorando la terra. Da contadino”, ha concluso “il Presidente” che a lungo ha combattuto la dittatura nel suo paese, passando in carcere 12 anni della sua vita. (di Alessandro Puglia)
   
   
   
   

Questo apparato mostruoso secondo il pontefice non solo ha costi inaccettabili ma non risponde più alla difesa «dalle minacce nei confronti delle nazioni e dell’umanità». Insomma, mentre Washington sembra ancorata alla visione della vecchia guerra fredda, Francesco pone il problema in termini etici e strategici nuovi. Sapendo che nella base cattolica americana il tema è molto sentito: in questo momento ci sono suore e religiosi in carcere per avere condotto proteste choc, penetrando nelle basi dei missili atomici per manifestare concretamente la missione pacifista.

Il presidente Obama dal canto suo si è personalmente dichiarato contrario agli arsenali atomici. Nel 2009 ha detto «chiaramente e con convinzione l’impegno dell’America per raggiungere la pace e la sicurezza di un mondo senza armi nucleari». Permettendo però i programmi del Pentagono per rilanciare la corsa alle testate al plutonio. E adesso sulla scena compare la figura di Francesco, che ha una popolarità molto forte negli States.

Una volta Stalin chiese con disprezzo: «Quante divisioni ha il papa?». Oggi si stima che più di 130 deputati, 25 senatori, il vicepresidente e un quarto della popolazione statunitense siano cattolici. E che un intervento di Bergoglio possa mobilitare la Chiesa americana verso una posizione veramente pacifista.

 

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