il commento al vangelo della domenica

è «amore» la parola chiave del vangelo


È «amore» la parola chiave del Vangelo

il commento di E. Ronchi al vangelo della  trentesima domenica del tempo ordinario – Anno A

Gesù rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente». Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: «Amerai il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

Maestro, qual è il comandamento grande? Il comandamento-sorgente, la parola-fonte, la legge che unifica e dà senso alle altre, così che possiamo anche noi semplificare la vita, andare diritti all’essenziale? Domanda seria, alla quale Gesù risponde ma, come al suo solito, liberando dagli schemi, proponendo una parola che tra le Dieci Parole non c’è. Comincia con un verbo: amerai, al futuro, a indicare che l’amore è il futuro del mondo, che senza amore non c’è futuro: amatevi, altrimenti vi distruggerete. È tutto qui il Vangelo. Tu amerai, per guarire la vita e farla felice, perché la bilancia su cui si pesa la beatitudine di questa vita è dare e ricevere amore. Non amare è solo un lento morire. Lentamente muore chi non ama, chi non trema per una persona, di quell’amore che ripulisce gli occhi, che “fa vedere le persone come le vede la divinità, che muove il sole e le altre stelle e muove tutto in noi” (M. Gualtieri), che scava pietre per costruire case, cha fa nascere abbracci per ritrovarci interi, che fa sorgere arcobaleni che indicano la via.

Amerai Dio con tutto il cuore. Qualcuno ha proposto un’altra traduzione: amerai Dio con tutti i tuoi cuori. Come a dire: con il tuo cuore di luce e anche con il cuore d’ombra; con il cuore che crede e anche con il cuore che dubita; quando splende il sole e quando si fa buio; a occhi chiusi quando hai un po’ paura, e perfino con le lacrime. Lo amerai come puoi, meglio che puoi, con ciò che hai, magari col fiatone. Ma con tutta la tua anima, cioè con tutta intera la tua vita. Con tutta la tua mente. Amore intelligente dev’essere; quindi conoscilo, leggi, parlane, vai a fondo. Scrivi una preghiera, una canzone, una poesia d’amore al tuo Amore… Amerai con tutto. Se fai entrare una persona nella tua vita, non puoi essere avaro di te, sarai generoso di sentimenti buoni. Ma con questo, cosa ha detto di nuovo Gesù? In fondo sono le parole che ripetono i mistici, i cercatori di Dio di tutte le religioni. La novità di Gesù sta nell’aggiunta di un secondo comandamento, che è simile al primo… Il genio del cristianesimo: “amerai l’uomo” è simile a “amerai Dio”. Il prossimo è simile a Dio. Il prossimo ha volto e voce, ha cuore e bellezza, simili a Dio. La terra risponde al cielo. Vangelo strabico, verrebbe da dire: un occhio in alto, uno in basso, testa nel cielo e piedi per terra. La grandezza della vita ha a che fare con l’amore. Dio ha a che fare con l’amore. E Gesù è venuto a prendersene cura, come guaritore del disamore del mondo. Il disamore è l’unico peccato che rende deserta la terra e impensabile il domani. Venuto per guarire il cuore. E che diventi la culla del futuro e la culla di Dio.

(Letture: Esodo 22,20-26; Salmo 17; Prima Tessalonicesi 1,5c-10;Matteo 22,34-40)

il commento al vangelo della domenica

l’amore di Cristo fa sbocciare la speranza


L'amore di Cristo fa sbocciare la speranza
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della quinta domenica del tempo di Pasqua – Anno C

(…) «Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».

Se cerchiamo la firma inconfondibile di Gesù, il suo marchio esclusivo, lo troviamo in queste parole. Pochi versetti, registrati durante l’ultima cena, quando per l’unica volta nel vangelo, Gesù dice ai suoi discepoli: «Figlioli», usa una parola speciale, affettuosa, carica di tenerezza: figliolini, bambini miei.
«Vi do un comandamento nuovo: come io ho amato voi così amatevi anche voi gli uni gli altri». Parole infinite, in cui ci addentriamo come in punta di cuore, trattenendo il fiato.
Amare. Ma che cosa vuol dire amare, come si fa?
Dietro alle nostre balbuzie amorose c’è la perdita di contatto con lui, con Gesù. Ci aiuta il vangelo di oggi. La Bibbia è una biblioteca sull’arte di amare. E qui siamo forse al capitolo centrale. E infatti ecco Gesù aggiungere: amatevi come io ho amato voi.
L’amore ha un come, prima che un ciò, un oggetto. La novità è qui, non nel verbo, ma nell’avverbio. Gesù non dice semplicemente «amate». Non basta amare, potrebbe essere solo una forma di dipendenza dall’altro, o paura dell’abbandono, un amore che utilizza il partner, oppure fatto solo di sacrifici. Esistono anche amori violenti e disperati. Amori tristi e perfino distruttivi.
Come io ho amato voi. Gesù usa i verbi al passato: guardate a quello che ho fatto, non parla al futuro, non della croce che pure già si staglia, parla di cronaca vissuta. Appena vissuta. Siamo nella cornice dell’Ultima Cena, quando Gesù, nella sua creatività, inventa gesti mai visti: il Maestro che lava i piedi nel gesto dello schiavo o della donna. Offre il pane anche a Giuda, che lo ha preso ed è uscito. E sprofonda nella notte. Dio è amore che si offre anche al traditore, e fino all’ultimo lo chiama amico. Non è amore sentimentale quello di Gesù, lui è il racconto inedito della tenerezza del Padre; ama con i fatti, con le sue mani, concretamente: lo fa per primo, in perdita, senza contare.
È amore intelligente, che vede prima, più a fondo, più lontano. In Simone di Giovanni, il pescatore, vede la Roccia; in Maria di Magdala, la donna dei sette demoni, intuisce colei che parlerà con gli angeli; dentro Zaccheo, il ladro arricchito, vede l’uomo più generoso di Gerico.
Amore che legge la primavera del cuore, pur dentro i cento inverni! Che tira fuori da ciascuno il meglio di ciò che può diventare: intere fontane di speranza e libertà; tira fuori la farfalla dal bruco che credevo di essere. In che cosa consiste la gloria, evocate per cinque volte in
due versetti, la gloria per ciascuno di noi? La gloria dell’uomo, e la stessa gloria si Dio consistono nell’amare. Non c’è altro di cui vantarsi. È lì il successo della vita. La sua verità.
«La verità rivelata è l’amore» (P. Florenski).

(Letture: Atti 14,21b-27; Salmo 144; Apocalisse 21,1-5a; Giovanni 13,31-33a.34-35)

il commento al vangelo della domenica


amare Dio e il prossimo: un unico amore!
il commento di E. Bianchi al Vangelo della trentunesima domenica del tempo ordinario: anno B
Mc 12,28-34
 

²⁸Allora si avvicinò a lui uno degli scribi che li aveva uditi discutere e, visto come aveva ben risposto a loro, gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». ²⁹Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; ³⁰amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. ³¹Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi». ³²Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; ³³amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». ³⁴Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.

Uno scriba che ha appena ascoltato la discussione di Gesù con i sadducei a proposito della resurrezione dei morti (cf. Mc 12,18-27) e ha apprezzato la sua sapienza, si avvicina a lui per chiedergli: “Qual è il primo di tutti i comandamenti?”. Domanda che nasce da un’esigenza assai diffusa nell’ambiente religioso del tempo di Gesù: operare una sintesi dei precetti di Dio presenti nella Torah (613, secondo il Talmud babilonese), così da giungere all’essenziale, a ciò che costituisce l’intenzione profonda del cuore di Dio, della sua offerta di vita e di senso a tutta l’umanità. 

Gesù risponde citando come primo comandamento l’inizio dello Shema‘ Jisra’el (cf. Dt 6,4-9) ossia la grande professione di fede nel Signore Dio ripetuta tre volte al giorno dal credente ebreo, centrale in tutta la tradizione rabbinica: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è uno. Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze” (Dt 6,4-5). Questa preghiera rivela che l’ascolto ha un primato assoluto, è la modalità di relazione decisiva dell’uomo nei confronti di Dio: l’ascolto obbediente è il fondamento dell’amore. Anzi, le parole del Deuteronomio riprese da Gesù sembrano addirittura tracciare un movimento che dall’ascolto (“Ascolta, Israele”) conduce alla fede (“Il Signore è il nostro Dio”), dalla fede alla conoscenza (“Il Signore è uno”) e dalla conoscenza all’amore (“Amerai il Signore”)… Al Dio che ci ama di un amore eterno (cf. Ger 31,3), che ci ama per primo gratuitamente (cf. 1Gv 4,19), si risponde con un amore libero e pieno di gratitudine, che si radica nell’ascolto obbediente della sua Parola, fonte della fede. Fidarsi di Dio significa fidarsi del suo amore della sua capacità di amare, del suo essere amore (cf. 1Gv 4,8.16). Questo significa credere in Dio e dunque anche, inseparabilmente, amarlo. 

Qui possiamo e dobbiamo approfondire la nostra meditazione, chiedendoci cosa significhi amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Che amore è mai questo verso un tu invisibile, “tre volte santo” (cf. Is 6,3), cioè altro, distinto da chi ama? Nella tradizione cristiana incontriamo almeno due risposte diverse a tale questione. In Agostino e in una lunga tradizione spirituale dietro a lui, l’amore verso Dio da parte del credente è un amore di desiderio, un sentimento, una dinamica per cui il credente va alla ricerca dell’amore e dunque ama l’amore. Il linguaggio di questo amore è sovente quello presente nel Salterio: 

Io ti amo, Signore, mia forza, Signore, mia rupe, mia difesa, mio liberatore (Sal 18,2-3).

L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente (Sal 42,3).

La mia anima ha sete di te, a te, mio Dio, anela la mia carne (Sal 63,2). 

Sì, Dio è oggetto di amore da parte dell’essere umano, perché è il “tu” che con il suo amore preveniente desta l’amore del credente come risposta; l’amore per Dio può essere un amore più forte di quello nutrito per se stessi o per qualche altra persona. Si faccia però attenzione: non si tratta di un amore totalitario che esclude altri amori, ma è un amore appassionato, un amore in cui non c’è timore (cf. 1Gv 4,18). In breve, un amore che supera e ri-orienta tutti gli altri amori. 

Ma nella spiritualità cristiana è presente anche un’altra interpretazione dell’amore per Dio. È quella che legge nell’amore per Dio un amore obbediente, nel senso di un amore che nasce dall’ascolto (ob-audire), di un amore che risponde “amen” alla parola del Signore e all’amore stesso del Signore sempre preveniente. È un amore non di desiderio, di ricerca, di nostalgia, ma di adesione; è un amore con cui il credente cerca di realizzare pienamente la volontà di Dio, cerca di vivere come vuole il suo Signore e così mostra di amarlo. Ci sono parole di Gesù anche a questo proposito: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti” (Gv 14,15); “se uno mi ama, osserverà la mia parola” (Gv 14,23). E ancora, nella Prima lettera di Giovanni: “Questo è l’amore di Dio, osservare i suoi comandamenti” (1Gv 5,3). In questa seconda ottica l’accento cade quindi sull’amore del prossimo comandato da Dio: realizzare questo comando, sintesi di tutta la Legge e i Profeti (cf. Rm 13,10; Gal 5,14), significa amare Dio. Dunque amare Dio è innanzitutto amare l’altro come Dio lo ama, perché – come ha chiarito una volta per tutte il discepolo amato – “chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20). 

È in questo senso che possiamo comprendere la decisiva innovazione compiuta da Gesù, il quale accosta il comandamento dell’amore per Dio a quello dell’amore per il prossimo: “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18). L’innovazione consiste per l’appunto nell’abbinamento di questi due passi della Torah, dato senza paralleli nella letteratura giudaica antica, ripreso invece con frequenza dai successivi scritti cristiani. Basti pensare al brano di un antichissimo scritto cristiano delle origini, la Didaché: “La via della vita è questa: innanzitutto amerai il Dio che ti ha plasmato e poi il prossimo tuo come te stesso; e tutto ciò che non vorresti fosse fatto a te, neppure tu fallo a un altro” (1,2). 

È importante riflettere sulla novità a livello dei contenuti della fede che questo accostamento di passi biblici porta con sé. È indubbio che Gesù stabilisca una precisa gerarchia tra i due precetti, ponendo l’amore per Dio al di sopra di tutto. Nello stesso tempo, però, risalendo alla volontà del Legislatore, egli discerne che amore di Dio e del prossimo sono in stretta connessione tra loro: la Legge e i Profeti sono riassunti e dipendono dall’amore di Dio e del prossimo, non l’uno senza l’altro. Non a caso nella versione di Matteo il secondo comandamento è definito simile al primo (cf. Mt 22,39), mentre l’evangelista Luca li unisce addirittura in un solo grande comandamento: “Amerai il Signore Dio tuo … e il prossimo tuo” (Lc 10,27). In altre parole, se è vero che ogni essere umano è creato da Dio a sua immagine (cf. Gen 1,26-27), non è possibile pretendere di amare Dio e, contemporaneamente, disprezzare la sua immagine sulla terra: ecco la profonda unificazione del pensare, parlare e agire alla quale Gesù invita. Una comprensione riassuntiva delle sante Scritture porta dunque Gesù – il cui parere è condiviso dal suo interlocutore – ad affermare che l’uomo compiuto, l’uomo “non lontano dal regno di Dio” è colui che, amando Dio con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze sa amare il prossimo come se stesso. E il prossimo è colui al quale ci facciamo prossimi, vicini, come Gesù ha affermato a commento della parabola del samaritano (cf. Lc 10,36-37). 

Nel quarto vangelo, quando dà l’ultimo e definitivo comandamento, che per questo si chiama “il comandamento nuovo”, Gesù compie un ulteriore passo avanti: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati” (Gv 13,34; 15,12), ossia senza misura, “fino alla fine” (Gv 13,1). In questa ardita sintesi, Gesù non ha neppure esplicitato la richiesta di amare Dio, perché sapeva bene che quando gli umani si amano in verità, quando si amano come lui li ha amati, nel fare questo vivono già l’amore di Dio. Ecco perché l’apostolo Giovanni, che nel prologo del vangelo ha scritto: “Dio nessuno l’ha mai visto, ma il Figlio unigenito lo ha raccontato” (Gv 1,18), è lo stesso che nella sua Prima lettera afferma: “Dio nessuno l’ha mai visto, ma se ci amiamo gli uni gli altri Dio dimora in noi e in noi il suo amore è giunto a pienezza” (1Gv 4,12). Amando gli altri noi amiamo anche Dio e ne abbiamo una conoscenza autentica, mentre chi dice di credere in Dio senza amare i fratelli è un illuso e un bugiardo (cf. 1Gv 4,20-21)! 

Gesù ha vissuto la sua intera esistenza come capolavoro d’amore e in questo ha compiuto pienamente la volontà di Dio, è stato “l’uomo secondo il cuore di Dio”. Così facendo ha tracciato una via ben precisa per chi vuole seguirlo, semplificando all’estremo il cammino per andare a Dio: il comandamento che deve orientare la vita del cristiano è quello dell’amore per tutti, fino ai nemici (cf. Mt 5,44). Sì, l’amore concreto e quotidiano per i fratelli e le sorelle è il segno da cui si riconoscono i discepoli di Gesù Cristo, i cristiani, come ha indicato una volta per tutte Gesù stesso: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35).

la cosa più importante nella vita secondo Boff

alla fine saremo tutti giudicati sull’amore

quello effettivo

un colloquio con Leonardo Boff

 

 

Forse aveva ragione Bauman quando scriveva:

“Il vero problema dell’attuale stato della nostra civiltà è che abbiamo smesso di farci delle domande. Astenerci dal porre certi problemi è molto più grave di non riuscire a rispondere alle questioni già ufficialmente sul tappeto; mentre porci domande sbagliate troppo spesso ci impedisce di guardare ai problemi davvero importanti. Il prezzo del silenzio viene pagato con la dura moneta delle umane sofferenze. Porsi le questioni giuste è ciò che, dopotutto, fa la differenza tra l’affidarsi al fato e perseguire una destinazione, tra la deriva e il viaggio. Mettere in discussione le premesse apparentemente indiscutibili del nostro modo di vivere può essere considerato il più urgente dei servizi che dobbiamo svolgere per noi stessi e per gli altri”.

Per questo abbiamo bisogno di letture “divergenti” che aiutino – anche le nostre comunità ecclesiali – a guardare in profondità, a mettere in discussione l’ovvio, a chiedere fino a che punto la fede in Gesù Cristo è passione per l’uomo e per la storia.

Lo facciamo con un testimone privilegiato: Leonardo Boff, uno dei padri della teologia della liberazione. Boff, nipote di immigrati veneti giunti in Brasile alla fine del XVIII secolo per installarsi nel Rio Grande do Sul, è entrato nell’Ordine dei frati francescani minori nel 1959. Emessa la professione solenne e diventato sacerdote, studia negli Stati Uniti,in Belgio e in Germania, dove consegue il dottorato di filosofia e teologia presso l’Università di Monaco (uno dei due relatori era Joseph Ratzinger).

Tornato in Brasile, Boff occupa la cattedrale di teologia sistematica ed ecumenica a Petropolis, è direttore di numerose riviste teologiche e consulente della Conferenza episcopale brasiliana. La sua azione teologica, unita a quella di Gustavo Gutierrez, sostanzia la teologia della liberazione.

Ma l’uscita del libro “Chiesa: carisma e potere” gli procura un confronto serrato con la Congregazione per la Dottrina della Fede che gli impone, per un anno, un “silenzio ossequioso”. Dopo qualche anno, Leonardo Boff abbandona l’Ordine dei francescani. Ma non il suo impegno nelle comunità di base brasiliane e la sua attività di teologo, docente e scrittore. Nel 1993 è nominato docente di etica, filosofia della religione ed ecologia presso l’Università Statale di Rio de Janeiro.

Attualmente vive a Jardim Araras, una riserva ecologica a Petropolis, insieme a Marcia Maria Monteiro de Miranda e ha sei bambini adottati.

Cosa vuol dire guardare e leggere la storia con gli occhi di chi fa più fatica, con gli occhi dei poveri?

Significa cambiare lo scenario. Perché ogni punto di vista è a partire da un punto. Da quello che scegliamo, dipende il nostro sguardo e il nostro giudizio. I poveri sono la stragrande parte dell’umanità, sono la maggioranza della popolazione. Eppure, nonostante questo, non hanno voce: sono socialmente invisibili, non contano, sono considerati uno zero economico perché producono poco e consumano poco. Nella contabilità del sistema non hanno un peso.

Qual è stata l’intuizione della teologia della liberazione? E’ stata quella di sostenere che coloro che sono ai margini, che vivono nella periferia, coloro che secondo il giudizio del mondo sono non persone,  sono, invece, l’apparizione di Cristo crocefisso nella storia, sono coloro che hanno la centralità nel Vangelo, i primi destinatari del messaggio di Gesù.  Vedere la verità evangelica a partire dai poveri significa vedere a partire dalla stragrande parte della popolazione.

E questo cambia radicalmente il paesaggio sociale. Occorre conoscere la vita dei poveri nelle favelas, nelle borgate: non funziona niente: non c’è né Stato né la scuola, né parrocchia, né polizia. Uomini e donne, vecchi e bambini  abbandonati a se stessi. Sopravvivono in mezzo a questa immensa via crucis di dolore e di passione. Vedere il mondo a partire da loro significa dire anzitutto che questo non può essere, bisogna cambiare questa realtà. E’ troppo disumana, troppo ingiusta. Ti fa star male.

Soprattutto quando incontri il dolore innocente: i bambini che stendono le mani, il dramma, diffuso, della prostituzione infantile, lo sfascio di molte famiglie. Tutto questo provoca l’ira sacra, come quella dei profeti biblici.

Da questo sguardo sul mondo è nata la teologia della liberazione?

Sì! La povertà se analizzata in profondità è sempre un’ingiustizia e ogni ingiustizia è peccato. Sociale e storico insieme. Perché la povertà non è naturale, non è qualcosa che Dio vuole: è stata prodotta dentro relazioni storiche umane la cui conseguenza ha generato impoverimento. Non sono poveri, sono impoveriti, sono oppressi. E contro l’oppressione vale la liberazione.

Noi, alla fine degli anni sessanta, siamo partiti da una domanda, che rimane aperta ancora dopo tanti anni: come annunciare Dio, padre e madre di tenerezza di bontà, in un mondo di miserabili? Come dire che Dio è buono a chi vive una vita disperata?

Quali conseguenze nascono da questa domanda?

Per annunciare che Dio è veramente padre di tutti, specialmente dei poveri, perché sia vero il nostro annuncio, bisogna cambiare questa realtà. Non a partire da Gramsci o da Marx. No! Occorre cambiare dal capitale simbolico del cristianesimo: tutti questi poveri sono allo stesso tempo poveri e credenti, poveri e cristiani.

Come fare in modo che la fede cristiana, troppo a lungo sinonimo di rassegnazione, possa essere una fede di liberazione? Nei vangeli si racconta che Gesù libera le persone dalla fame, dal dolore, dalla morte. Occorre fare del contenuto della fede una forza di mobilitazione sociale,  un atteggiamento per un cambio di liberazione.

Cosa significa in concreto?

Significa avviare un’azione che porti più libertà. E’ un processo pedagogico, non avviene dall’oggi al domani. Per questo la teologia della rivoluzione non è mai stata una teologia latinoamericana. E’ stata pensata in Europa.

Per noi liberazione è creare le condizioni perché, riconoscendosi carichi di una dignità che viene da Gesù Cristo, ogni uomo, insieme agli altri, crei le condizioni sociali, culturali, economiche e politiche perché possa essere specchio dell’immagine divina.

I poveri al centro, dunque

Certo. Dobbiamo costruire la liberazione a partire dai poveri. Occorre superare la visione paternalistica, assistenzialistica, di chi ha molto e aiuta coloro che non hanno niente.  E’ importante condividere il pane. Però questo rischia di tenere l’altro sempre dipendente.

Occorre invece fare del povero soggetto della sua liberazione. I poveri sanno pensare, organizzarsi, muoversi. Non siamo noi a liberarli. Non è né la Chiesa né lo stato che liberano i poveri. Possono stare accanto a loro, camminare insieme, condividere il loro dolore, assumere la loro causa. Anche se tutto questo può procurare ferite e lacerazioni.

L’unica Chiesa che oggi nel mondo ha dei martiri è la Chiesa della liberazione: tantissimi vescovi, suore, laici, sacerdoti. Perché? Perché hanno assunto la posizione più difficile. Vista dai ricchi la loro era un’insurrezione, una tribolazione sociale che doveva essere evitata. Invece hanno dimenticato che l’opposto della povertà non è la ricchezza è la giustizia. Questo è il cuore della teologia della liberazione e il centro dell’insegnamento sociale della chiesa. In molti documenti – da Leone XIII in poi – la chiesa ha affermato che non vuole una società povera o una società ricca ma una società giusta e fraterna.

Ma se la Chiesa assume il punto di vista dei crocefissi della storia, non rischia di diventare una grande Ong, di ridurla ad essere solo un organizzazione umanitaria?

Può darsi che ci siano stati eccessi perché quando si vede a quale livello arriva la disumanizzazione qualcuno può aver assunto posizioni radicali. Ricordo quando portai Moltmann, il grande teologo della speranza, a visitare il Brasile. Al termine del lungo viaggio ci chiese perché non facevamo niente di fronte al peccato sociale, all’ingiustizia strutturata.  Gli abbiamo spiegato che avevamo scelto la pedagogia di Paolo Freire che implica da sempre un coinvolgimento di tutti, un cambiamento, lento e graduale, delle menti e dei cuori.

Sì, può darsi, come ricorda mio fratello Clodovis, che qualcuno abbia posto l’accento più sulla liberazione che sulla teologia. Ma la stragrande maggioranza dei teologi, delle comunità di base, dei cristiani latinoamericani non dimenticano la radice, la fonte della liberazione che è il Vangelo e la prassi di Gesù. La fede cristiana in sé stessa è liberatrice e questo non perché i teologi lo dicono. La vita di Gesù ha sempre un contenuto di liberazione e tutti dobbiamo fare in modo che il vangelo non diventi un pozzo di acque morte ma sorgente di acque vive.

Alla fine della vita, ci ricordano i grandi mistici, saremo giudicati non se avremo fatto teologia o meno ma se avremo avuto un rapporto di cura e di amore con quanti hanno fame, hanno sete, sono colpiti dall’Aids. Saremo, cioè, giudicati dall’amore. Quello effettivo.

A ottant’anni, dopo che hai scritto decine di libri, ti sei impegnato in molte lotte, qual è la tua immagine di Dio?

Ti racconto una piccola storia che forse spiega quello che ho in mente. In Brasile c’era un grande antropologo che ha sempre difeso gli indios, cercato la giustizia e per questo ha vissuto anche in esilio. Era ateo e invidiava frei Betto e me. “Come mai due persone intelligenti come voi credono in Dio?” ci diceva sempre. Aveva il cancro e sapeva di morire. Un giorno ha voluto che andassi a trovarlo perché desiderava avere un’ultima grande discussione metafisica con me. Mi ha fatto leggere la sua autobiografia dove terminava, con amarezza, dicendo che tutto – la sua vita e le sue passioni, la sua lotta e il suo impegno – finiva ora nella polvere cosmica, nel niente. Mi chiese: “Tu che dici?”.

Gli ho risposto che questo non era vero. “C’è un’ultima istanza di amore e di accoglienza che ha la figura di una nonna (italiana, non tedesca!).” Gli ho detto: “Quando arriverai di là, non porterai con te alcun passaporto, passerai direttamente. La tua vita a difesa dei poveri ti impedirà di fermarti alla dogana, di pagare pesanti pedaggi. E quando giungerai, Dio ti aprirà le sue braccia dicendoti: “Finalmente sei arrivato. Ti aspettavo con tanta nostalgia. Perché sei giunto così tardi?” E comincerà a abbracciarti e baciarti con dolcezza. Perché Dio è madre e padre di infinita tenerezza”.  Lui ha cominciato a piangere e ha perso i sensi.

Quando si è ripreso mi ha detto: “Questo che dici lo accetto, un Dio così lo voglio anch’io. Un Dio che mi ama per quello che sono. Ma, dimmi la verità: “Tutto questo è un’idea tua o un’invenzione della Chiesa?” “Non è ne mia né della Chiesa ma è l’immagine che Dio ci ha consegnato nella figura di Gesù. Che si chiama suo padre ‘Abbà’, che parla di Dio come del padre che aspetta con ansia il figliol prodigo e gli corre incontro, che sceglie sempre la via della misericordia?’”.

La grande eredità che ci ha lasciato Gesù Cristo – e che i cristiani e le chiese non hanno ancora del tutto assimilato – è questa. Non dilapidiamola!

il vero significato della croce

solo per amore

da Altranarrazione 

Hai piantato la croce

nel nulla per donargli senso,

nel dolore per donargli dignità,

nell’esclusione per donarle riscatto,

nella fragilità per donarle benedizione,

nell’egoismo per donargli redenzione,

nell’oppressione per donarle giustizia,
nell’Impero per donargli contraddizione,

nel potere religioso per donargli spirito di servizio,

nell’abisso per donargli speranza,

nel ritualismo per donargli confidenza,

e nella morte per donarle Vita vera.

Per questo, noi, conquistati dal tuo Amore, anche se ancora vediamo in maniera confusa e conosciamo in modo imperfetto (1), non vogliamo fuggire dall’ignominia della croce ma, al contrario, testimoniarti come Cristo crocifisso, scandalo per gli osservanti senza misericordia e stoltezza per i dotti senza mistica (2).

(1) 1 Corinzi 13, 12

(2) Cfr.  1 Corinzi 1, 22-25

l’amore ‘esagerato’ di Dio

Osea: l’assurdo di Dio

«Dio non ha bisogno per la sua gloria di gente perfetta ma di gente che lo ami»

M. Delbrêl

L’anima si lascia sedurre dagli idoli, perché cerca sicurezze, non sopporta l’angoscia  dei mutamenti a cui è esposta.

L’anima si scopre inconsistente. Così preferisce i punti fermi visibili anche se solo apparenti e illusori rispetto a quelli risolutivi ma invisibili. Non si fida di un amore appena percepibile e perennemente da dissotterrare, continuamente contraddetto, falsificato, dileggiato.

L’anima è in cerca di consensi perché preferisce indossare una maschera piuttosto che cercare la verità in solitudine. È disponibile all’alleanza con Dio ma solo in vista di benefici materiali o spirituali. È a suo agio tra la folla che attende un miracolo o un intervento di tipo magico di distruzione del male. Non sopporta la sofferenza del giusto che si attendeva invece forte e conquistatore. Solo il vincente è utile alla causa personale,  ma cosa farsene di un salvatore che non salva nemmeno se stesso? Quali vantaggi ottenere da uno che soffre e fa quella fine? Meglio aggrapparsi alle soddisfazioni che offre il mondo.

L’anima è infedele perché non sa discernere ma non lo ammette. Non si confronta con l’Unico che conosce davvero non solo il Bene in generale ma quello specifico per ogni persona.

L’anima cerca scorciatoie: si impone obblighi per rispettare l’immagine non autentica che si è costruita, invece di operare scelte nel profondo secondo l’immagine di somiglianza impressa da Dio.

L’anima chiusa alla conoscenza di Dio si aspetta castighi per le sue infedeltà. E si ritrae sempre di più. Se si lasciasse rassicurare scoprirebbe che i contraenti dell’alleanza sono due ma il garante è uno solo: Dio. O meglio scoprirebbe che gli sposi sono due ma uno solo è fedele: Dio(1). Se ascoltasse la sua voce comprenderebbe che Dio non ha scritto nessun codice penale e che alle sue cadute Lui risponde con l’Amore che eccede e che anticipa il pentimento. L’assurdo di Dio che sfugge all’anima è questo: la convinzione che sia proprio il suo perdono a farci convertire, a indurci a tornare e ad avere fiducia(2).

 

(1) “Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore”.

Osea 2, 21-22

Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto nessuno sa sollevare lo sguardo. Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? Come potrei trattarti al pari di Admà, ridurti allo stato di Seboìm? Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira. Seguiranno il Signore ed egli ruggirà come un leone: quando ruggirà, accorreranno i suoi figli dall’occidente, accorreranno come uccelli dall’Egitto, come colombe dall’Assiria e li farò abitare nelle loro case. Oracolo del Signore”.

(2)“Il messaggio di Osea ha qualcosa di sconcertante. La nostra logica religiosa segue il passaggio peccato-conversione-perdono. La grande novità di Osea, che lo situa su un piano diverso e lo fa un precursore del Nuovo Testamento, è che egli inverte l’ordine: il perdono precede la conversione. Dio perdona prima che il popolo si converta, e sebbene non si sia convertito”.

(Luis Alonso Schökel, I profeti, traduzione e commento di L. Alonso Schokel e J. L. Sicre Diaz, ed. italiana a cura di Gianfranco Ravasi, Borla, Roma 1984, p. 976).

gli oppressori e il comandamento dell’amore

il senso dell’amore per gli oppressori

 

«Chi spera in Cristo non si adatta alla realtà così com’è ma comincia a soffrirne e a contraddirla»

(J.Moltmann)

 

“«Alzati, va’ a [Roma] la grande città e in essa proclama che la loro malizia è salita fino a me». Giona però si mise in cammino per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore” (¹).

Di fronte all’oppressore assistiamo spesso a tre tipi di comportamento egualmente antievangelici: sostegno esplicito in cambio di privilegi, assenza di contestazione per non alterare il quieto vivere, vendetta e volontà di annientamento.

In genere circola la falsa idea che Gesù, nel proporre l’amore per i nemici (²) intenda, se non proprio un compromesso amorale, almeno una specie di accondiscendenza alle loro malefatte. Invece l’amore, non solo non esclude il conflitto con chi genera situazioni di iniquità, ma lo esige.

La voce contraria, infatti, scalfisce le sicurezze autoassolutorie del prepotente, avviando una riflessione dagli esiti imprevedibili che, nel lungo periodo, potrebbe anche trasformarsi in ravvedimento. L’adulazione e il disimpegno dalla critica agiscono da rinforzi dell’errore, la contestazione coraggiosa e radicale sono, al contrario, un gesto d’amore portatore di nuove possibilità anche in un cuore pietrificato.

Il problema è che si trovano più militanti di una pace ipocrita, senza giustizia, che profeti interpreti della visione di Dio rispetto alla convivenza nel mondo. D’altronde, contraddire il potere umanamente non conviene e non è facile accettarne il destino: l’esilio, l’oblio, la calunnia, l’incomprensione, la morte.

Nonostante i rischi, l’opposizione deve essere condotta tenendo presente due obiettivi: la difesa dei deboli e la conversione del dominatore. Occorre chiudere ogni spazio al rancore, ricordandosi sempre di distinguere la persona dai rispettivi comportamenti. Il profeta è un collaboratore della grazia di Dio, un annunciatore delle prospettive del Regno di Dio, non un tifoso dello sterminio punitivo. Il profeta è un testimone della Giustizia di Dio, che si manifesta in quell’atto di continuo allontanamento dall’umanità devota, per andare a cercare quella perduta(³), creando infinite occasioni di conversione e tenendo conto della gravità delle ferite personali.

(¹) Cfr. Giona 1,2-3

(²) «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Vangelo di Matteo 5,43-48)

(³) «Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (Vangelo di Luca 15, 4-7)

da ‘altranarrazione’

 

“ama e fà quello che vuoi” direbbe s. Agostino

 

papa Francesco e l’amore più forte della legge

di Vito Mancuso

«far comprendere il mistero dell’amore di Dio», scrive papa Francesco nella lettera apostolica di chiusura dell’anno giubilare, ma il termine «mistero» lo si può, anzi lo si deve, applicare all’amore in quanto tale 

 
 
Amore? Perdono? In questo mondo dove tutto è calcolo, tecnica, prestazione; in questo mondo dove tutto risponde a una logica del legale, dell’utile, del redditizio, del necessario; in questo mondo dove sempre e comunque tutti devono pagare ogni cosa con il denaro ma ancor più con la libertà, il tempo, la vita; in questo mondo di forti, furbi, potenti e prepotenti, in questo mondo che così è e sempre così sarà, il compito della Chiesa, dichiara finalmente un Papa, è un altro: non di essere l’ennesima istituzione governata dal potere e dalla ricchezza, ma di essere “segno di contraddizione”, paradosso, scandalo, e così di rimandare a un altro stile e a un’altra possibile vita. È l’utopia della gratuità, del disinteresse, della generosità, della nobiltà d’animo: di tutto ciò a cui Francesco si riferisce dicendo «misericordia». Questa parola un po’ oleosa e consunta per il linguaggio contemporaneo, e che nessuno quasi usa più, acquista con lui un sapore nuovo e una freschezza inaspettata …
 
Per il mondo in cui viviamo e lavoriamo la legge è e sarà sempre importante, esso non ne può fare a meno, come non può fare a meno della spada per punire i trasgressori. Però il compito di quella pazzia che si chiama cristianesimo è un altro. E finalmente da oltre tre anni è arrivato un Papa «dalla fine del mondo» a ribadire che la Chiesa esiste per indicare che al fondo delle nostre esistenze vi è qualcosa di più importante della legge e dell’ordine, ed è l’essere umano nella sua concretezza. Comprensivo di quei disordini umani che la Chiesa chiama “peccati”. E di quel disordine assai particolare che è l’aborto.
 
Non che per il Papa i peccati non siano più rilevanti e l’aborto non sia più un peccato. Anzi: «Vorrei ribadire con tutte le mie forze che l’aborto è un grave peccato, perché pone fine a una vita innocente». L’aborto in quanto tale non sarà mai accettabile dalla coscienza cristiana perché essa è convinta che di fronte a una vita diversa dalla propria la signoria dell’Io debba fermarsi e procedere nel massimo rispetto, all’insegna della non-violenza e di quella cultura della pace che si auspica venga applicata dagli Stati nel risolvere i conflitti e da sempre più persone nell’alimentazione e nel trattare gli animali. Quell’esserino chiamato al mondo a sua insaputa, e che ora nel ventre materno vuole solo vivere, va protetto e lasciato sussistere nel suo slancio vitale: non c’è bisogno di essere cristiani per riconoscerlo, tutte le religioni lo fanno, così come numerosi filosofi tra cui Giordano Bruno e Norberto Bobbio. Ma una cosa è l’aborto, un’altra cosa è la donna che abortisce e il medico che le procura l’aborto. Se queste persone comprendono il male commesso verso quell’esserino innocente (a volte procurato per evitare altri mali più incombenti), la Chiesa di Francesco è pronta a concedere il perdono nel modo più semplice perché ciò che finora era riservato ai vescovi viene ora concesso ordinariamente a tutti i sacerdoti. Scrive il Papa: «Concedo d’ora innanzi a tutti i sacerdoti la facoltà di assolvere quanti hanno procurato peccato di aborto». Perché? Perché «posso e devo affermare che non esiste alcun peccato che la misericordia di Dio non possa raggiungere e distruggere».
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Siamo lontani anni luce da quell’intransigenza che nel 2009 portò un vescovo brasiliano a scomunicare la madre e i medici che avevano fatto abortire una bambina di soli 9 anni, incinta a seguito delle violenze del patrigno e che rischiava la vita anche per il fatto che si sarebbe trattato di un parto gemellare. A quel tempo dal Vaticano il portavoce del Pontificio Consiglio per la Famiglia sostenne il vescovo, affermando che la Chiesa «non può mai tradire il suo annuncio, che è quello di difendere la vita dal concepimento fino al suo termine naturale, anche di fronte a un dramma umano così forte». Papa Francesco dice invece un’altra cosa: posiziona la Chiesa non più in difesa come una rigida sentinella, ma in attacco, nel centro del mondo, per annunciare la follia dell’amore universale da lui chiamato misericordia. Questa sua posizione potrà aprire un dibattito sul numero sempre più alto di medici obiettori? Se è vero infatti che l’aborto è sempre un male, è altrettanto vero che talora (per esempio nel caso di stupro o di pericolo di vita della madre) è un male necessario per evitarne di maggiori.
 
I non pochi denigratori del Papa avranno ora ulteriori argomenti per accusarlo di lassismo. Ma non sanno quello che dicono. Non c’è la minima traccia di lassismo in questo documento, né nell’intera predicazione, né nell’austera persona di papa Francesco. C’è semmai l’attento rigore di chi ha veramente capito in cosa consiste la rivoluzione evangelica, troppe volte tradita dagli apparati ecclesiastici, preoccupati del potere e dell’ordine, e non di essere coerenti con quell’amore evangelico che vuole sempre e solo il bene concreto della persona concreta, e che per questo sa essere più forte anche della legge, compresa quella ecclesiastica. 
(fonte: Vito Mancuso)

l’amore non tollera frontiere

l’amore oltre le frontiere

il bacio dei profughi in tenda

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