appello di R. La Valle per la pace
L’APPELLO ALLA SOCIETÀ CIVILE E PACIFICA DI RANIERO LA VALLE
(PACE, TERRA E DIGNITA’)
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La minaccia di un’apocalisse nucleare non è una novità. L’atomica è già stata usata. Non è impossibile che si ripeta. È caso ampiamente contemplato nei manuali di strategia. Di fronte a questa minaccia l’opinione pubblica sembra pericolosamente assuefatta. Nessuna forte reazione popolare, nessuna convinta e razionale volontà di impedirla. Si diffonde una pericolosa sensazione di inevitabilità e di rassegnazione, o, peggio, l’idea che solo una “resa dei conti” possa far nascere un nuovo e stabile ordine mondiale. Ma oggi nessuna guerra può imporre un ordine sotto le cui macerie non restino il pianeta, i popoli, l’umanità tutta. Non ci si può rassegnare. Ma a una volontà razionale di pace bisogna offrire uno scenario credibile per chiudere questo conflitto, divampato con l’aggressione russa al di là delle gravissime tensioni nel Donbass. Un conflitto che non può avere la vittoria tutta da una parte e la sconfitta tutta dall’altra, secondo una concezione manichea del mondo e della storia.
Tutti gli attori in conflitto, quelli che stanno sul teatro di guerra e quelli che l’alimentano o non lo impediscono, ne devono essere consapevoli. Bisogna fermare l’escalation e impedire la catastrofe del sonnambulismo. In quest’ottica riteniamo che i governi responsabili debbano muoversi su queste linee: 1) Neutralità di un’Ucraina che entri nell’Unione Europea, ma non nella Nato, secondo l’impegno riconosciuto, anche se solo verbale, degli Stati Uniti alla Russia di Gorbaciov dopo la caduta del muro e lo scioglimento unilaterale del Patto di Varsavia. 2) Concordato riconoscimento dello status de facto della Crimea, tradizionalmente russa e illegalmente “donata” da Kruscev alla Repubblica Sovietica Ucraina. 3) Autonomia delle Regioni russofone di Lugansk e Donetsk entro l’Ucraina secondo i Trattati di Minsk, con reali garanzie europee o in alternativa referendum popolari sotto la supervisione dell’Onu. 4) Definizione dello status amministrativo degli altri territori contesi del Donbass per gestire il melting pot russo-ucraino che nella storia di quelle Regioni si è dato ed eventualmente con la creazione di un ente paritario russo-ucraino che gestisca le ricchezze minerarie di quelle zone nel loro reciproco interesse. 5) Simmetrica descalation delle sanzioni europee e internazionali e dell’impegno militare russo nella regione. 6) Piano internazionale di ricostruzione dell’Ucraina.
A nostro avviso questi possono essere i punti di partenza realistici e credibili per un cessate il fuoco. In una direzione simile va da ultimo la proposta di Elon Musk, e da tempo le sollecitazioni di Henry Kissinger a una soluzione che nel rispetto delle ragioni dell’Ucraina offra insieme una via d’uscita al fallimento militare di Putin sul terreno. Fondamentalmente sono le linee più credibili di un negoziato possibile e necessario, anche per l’unica Agenzia mondiale all’opera davvero per la pace, la Chiesa di Roma. Questa soluzione conviene a tutti, anche all’Occidente e in particolare ai Paesi dell’Unione Europea, i più minacciati dall’ipotesi di un disperato attacco nucleare russo. E all’Ucraina stessa, se non vorrà essere la nuova Corea nel cuore dell’Europa per i prossimi 50 anni. Liberiamo la ragione e la politica dalle pastoie dell’odio, e forse troveremo anche il cuore e l’intelligenza per mettere fine a questo macello. È un invito rivolto a tutti, a quanti ascoltandolo vorranno rilanciarlo e farsene carico.
Antonio Baldassarre, Pietrangelo Buttafuoco, Massimo Cacciari, Franco Cardini, Agostino Carrino, Francesca Izzo, Mauro Magatti, Eugenio Mazzarella, Giuseppe Vacca, Marcello Veneziani, Stefano Zamagni
mai più come prima
salviamo il paesaggio
da: Adista Documenti n° 18 del 09/05/2020
l’epidemia provocata dal nuovo virus SARS-CoV-2, con il suo tragico carico di morti e miseria, serva da insegnamento
lezioni dal coronavirus: la “normalità” di prima non la vuole nessuno
qui di seguito l’appello pubblicato sul sito del forum Salviamo il paesaggio (20/4) in occasione della giornata mondiale della Terra, il 22 aprile, firmato, tra gli altri, da Mario Agostinelli, Marco Bersani, Paolo Cacciari, Alberto Castagnola, Roberto Mancini, Daniela Padoan, Tonino Perna, Gianni Tamino, Guido Viale, Alex Zanotelli
La Terra è un macrorganismo vivente in cui tutto si tiene: biologia, ecologia, economia, istituzioni sociali, giuridiche e politiche. La salute di ciascun individuo è interconnessa e dipendente dal buon funzionamento dei cicli vitali del pianeta.
Il susseguirsi di malattie nuove e terribili sempre più frequenti e virulente (Ebola, HIV, influenza suina e aviaria, afta, febbre gialla, dengue, solo per citare le più note) sono la conseguenza della alterazione dei delicati equilibri naturali esistenti tra le differenti specie viventi e i loro relativi habitat. L’abbattimento e gli incendi delle foreste tropicali, il consumo di suolo vergine, lo sfruttamento minerario, la caccia e il consumo di fauna selvatica, la concentrazione di allevamenti animali, l’agricoltura superintensiva, il sovraffollamento urbano e lo spostamento continuo di merci e persone sono le cause primarie dello scatenamento delle pandemie. Come aveva scritto inascoltato un attento osservatore dei microrganismi patogeni: «Là dove si abbattono gli alberi e si uccide la fauna, i germi del posto si trovano a volare in giro come polvere che si alza dalle macerie» (David Quammen, Spillover, 2012).
Non c’è alcun “nemico invisibile”, tantomeno imprevisto e sconosciuto, che ha dichiarato guerra al genere umano. Nessuna “catastrofe naturale” e nessun “castigo di Dio” si sono abbattuti su di noi. Al contrario è il sistema economico dominante che provoca un progressivo deterioramento dei sistemi ecologici, l’estinzione di massa delle specie viventi, il surriscaldamento del clima. Tutto ciò aumenta i rischi e la vulnerabilità e abbassa le difese immunitarie degli individui. La retorica sui sacrifici necessari (a partire da quelli affrontati da medici e infermieri, spesso lasciati senza nemmeno i più elementari dispositivi di protezione individuale) non basta a coprire il tracollo del sistema sanitario.
La sottovalutazione dei fenomeni in atto, l’impreparazione e l’incompetenza delle istituzioni pubbliche ad ogni livello – laddove è prevalso il modello neoliberista – hanno indebolito i presidi socio-sanitari con definanziamenti e privatizzazioni. L’aziendalizzazione dei servizi è andata nella direzione opposta a una medicina di territorio. In particolare in Italia abbiamo dovuto constatare un tasso di letalità eccessivo, troppi contagi registrati tra gli operatori sanitari, insufficienza delle attrezzature, mancanza di scorte di strumenti di protezione, assenza di luoghi dedicati alla quarantena, inadeguatezza dei protocolli diagnostici e terapeutici e la mancanza di un piano di emergenza e prevenzione in caso di malattie epidemiche.
Per mascherare questi fallimenti – quasi fossero inevitabili – molti mass-media, politici e persino dirigenti sanitari hanno scelto di raccontare l’impegno per contenere la pandemia da coronavirus usando una terminologia bellica: “battaglie”, “armi”, “trincee”, “nemico”. Il linguaggio della medicina invece si esprime con parole di cura e di pace, non di guerra. Di salute psicofisica, di sollievo della sofferenza, di rispetto della dignità umana.
Le guerre vere, quelle che servono per accaparrare le terre e le risorse del pianeta, la cui violenza si abbatte sulla parte più debole della popolazione civile, continuano purtroppo a essere finanziate (si pensi alla costruzione dei bombardieri F35 e dei sottomarini U-212), preparate e messe in atto in molte parti del mondo causando distruzioni irreparabili all’ambiente e grandi spostamenti forzati di popolazioni. Ha dichiarato Antonio Guterres, segretario generale dell’ONU: «La furia del virus mostra la follia della guerra. Per questo chiedo un cessate il fuoco mondiale».
Le ripercussioni del lockdown sull’economia globalizzata porteranno ad una crisi senza precedenti con effetti catastrofici specie nei Paesi più periferici (rimasti senza commesse), nei ceti più poveri (rimasti senza reddito), tra i precari (rimasti senza lavoro), tra le donne madri (rimaste senza reti e servizi), tra le bambine e i bambini. Le pandemie non conoscono differenze di classe, ma si ripercuotono accentuando ancor di più le disuguaglianze e le ingiustizie sociali. Per uscirne non basterà inondare il mondo con una pioggia di denaro “a debito”. Bisognerà che quel denaro serva effettivamente ad avviare una profonda conversione ecologica e solidale degli apparati produttivi e dei comportamenti di consumo.
La salute è un bene comune globale. In quanto esseri umani siamo parte della natura.
Esistiamo gli-uni-con-gli-altri, in reciproca connessione. Ogni componente organica e inorganica, dai microorganismi agli esseri umani, concorre a formare un unico complesso sistema che mantiene le condizioni della vita sulla Terra. Ognuno di noi dipende dall’aria che respira, dai cibi con cui si nutre, dal tipo di energia che usa per muoversi, riscaldarsi e comunicare, dall’organizzazione sociale in cui è inserito. Siamo parte dell’universo biogeo- fisico ed energetico.
Il 2020 è l’anno dedicato dall’Onu alla biodiversità. Secondo l’ultimo Rapporto dell’Agenzia Europea per l’Ambiente, circa il 75% dell’ambiente terrestre e oltre il 60% dell’ambiente marino sono gravemente alterati. In più, come nota il Rapporto: «L’accelerazione dei cambiamenti climatici sarà probabilmente associata a un aumento dei rischi, in particolare per i gruppi vulnerabili». Il 2020 è l’anno della verifica dell’Accordo di Parigi sul clima, ma la Cop 26 prevista a Glasgow è stata rinviata al prossimo anno.
Sono già passati cinque anni dall’Agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile dell’Onu e molti dei target intermedi fissati al 2020, nell’ambito dei suoi 17 macro obiettivi, sono stati clamorosamente disattesi. Sono passati cinque anni anche dalla pubblicazione dell’enciclica Laudato si’, ma il suo messaggio per un’ecologia integrale è stato ignorato.
Non possiamo più fingere di non vedere. La normalità del mondo dopo-coronavirus non può essere quella di prima. Tutto e subito deve cambiare direzione, parametri di misura, valori di riferimento. Non vogliamo essere testimoni muti. Mai come oggi è evidente che se volessimo trarre qualche insegnamento dalla tragedia della pandemia dovremmo trasformare alla radice il sistema socioeconomico dominante capitalista, che sta mostrando tutta la sua carica distruttiva e autodistruttiva, nella direzione di una società mondiale giusta e sostenibile.
Speriamo che la giornata della Terra del 22 aprile possa essere il momento di uscita dall’emergenza, di ricongiungimento degli affetti, di abbraccio simbolico dei parenti con i propri cari deceduti, di cordoglio di tutta la comunità, di ringraziamento per quanti si sono assunti rischi enormi nella cura dei malati e, per tutte e tutti, di un nuovo inizio dell’impegno per:
– restituire ai dinamismi naturali almeno il 50% del suolo e delle aree marine; – proteggere e promuovere la biodiversità e il rispetto di tutte le specie viventi; – ridurre da subito le emissioni che alterano il clima;
– fermare immediatamente tutte le guerre in corso, riconvertire le produzioni belliche e liberare risorse per la cura della salute;
– contingentare, tracciare e controllare l’estrazione di materiali vergini dal sottosuolo (combustibili fossili, metalli, altri minerali);
– fermare gli allevamenti intensivi, l’agrobusiness e promuovere l’agricoltura contadina;
– potenziare la ricerca, la prevenzione, la cura e la medicina di comunità;
– applicare sistematicamente il principio di precauzione alle trasformazioni tecnologiche che producono inquinamenti o che manipolano l’autonomia e la riservatezza personale su cui si fonda la democrazia;
– riconoscere la soggettività delle donne, il diritto alla sicurezza anche in famiglia, all’indipendenza economica e all’autodeterminazione nelle scelte riproduttive (unica vera risposta alla crescita della popolazione);
– riconoscere alle comunità locali il potere di decisione sui propri destini e rispettare i saperi e le forme di esistenza delle popolazioni indigene;
– promuovere i beni comuni e le pratiche sociali di gestione comunitaria delle risorse sociali e ambientali di un territorio con modi e forme che garantiscano l’integrazione e la solidarietà tra comunità civili nazionali, continentali e planetarie;
– riconoscere immediatamente i diritti civili e di accesso ai servizi sanitari e al welfare per tutti i cittadini stranieri che si trovano, per qualsiasi motivo, in Italia o in un paese dell’Unione europea;
– anteporre la cura della vita alle leggi del mercato tutelando il lavoro di cura; – garantire le condizioni di lavoro e la sicurezza di tutti i lavoratori e le lavoratrici;
– varare misure urgenti e strutturali per garantire a ogni persona un reddito di base per una vita dignitosa;
– modificare stili di vita, consumi e produzione nel rispetto della Terra e di tutti i suoi abitanti umani e non umani;
– garantire i diritti di tutte le bambine e di tutti i bambini come rappresentanti delle generazioni future.
Questa pandemia ha toccato profondamente le nostre vite.
Poniamo la vita e la cura della vita al centro.
E’ inaccettabile per me il silenzio sulla drammatica situazione nel Sud Sudan (il più giovane stato dell’Africa)
Ingarbugliato in una paurosa guerra civile che ha già causato almeno trecentomila morti e milioni di persone in fuga.
E’ inaccettabile il silenzio sul Sudan, retto da un regime dittatoriale in guerra contro il popolo sui monti del Kordofan, i Nuba ,il popolo martire dell’Africa e contro le etnie del Darfur.
E’ inaccettabile il silenzio sulla Somalia in guerra civile da oltre trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni.
E’ inaccettabile il silenzio sull’Eritrea, retta da uno dei regimi più oppressivi al mondo, con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa.
E’ inaccettabile il silenzio sul Centrafrica che continua ad essere dilaniato da una guerra civile che non sembra finire mai.
E’ inaccettabile il silenzio sulla grave situazione della zona saheliana dal Ciad al Mali dove i potenti gruppi jihadisti potrebbero costituirsi in un nuovo Califfato dell’Africa nera.
E’ inaccettabile il silenzio sulla situazione caotica in Libia dov’è in atto uno scontro di tutti contro tutti, causato da quella nostra maledetta guerra contro Gheddafi.
E’ inaccettabile il silenzio su quanto avviene nel cuore dell’Africa , soprattutto in Congo, da dove arrivano i nostri minerali più preziosi.
E’ inaccettabile il silenzio su trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia , Sud Sudan, nord del Kenya e attorno al Lago Ciad, la peggior crisi alimentare degli ultimi 50 anni secondo l’ONU.
E’ inaccettabile il silenzio sui cambiamenti climatici in Africa che rischia a fine secolo di avere tre quarti del suo territorio non abitabile.
E’ inaccettabile il silenzio sulla vendita italiana di armi pesanti e leggere a questi paesi che non fanno che incrementare guerre sempre più feroci da cui sono costretti a fuggire milioni di profughi. (Lo scorso anno l’Italia ha esportato armi per un valore di 14 miliardi di euro!!)
I mea culpa della Chiesa avvengono in genere “a babbo morto”, svariati decenni e, più spesso, secoli dopo il “delitto” commesso. Sicché Giovanni Paolo II ha chiesto perdono fra l’altro per lo schiavismo, le stragi degli indios, la condanna di Galileo, i crimini dei cattolici croati nei Balcani. Più coraggiosamente, papa Francesco corregge storture più recenti, pur se è ancora molto ricordato e venerato il pontefice sotto il quale sono avvenute. Per esempio, se Wojtyla aveva sospeso a divinis p. Miguel D’Escoto per la sua partecipazione al governo sandinista, Bergoglio il 1° agosto scorso ha cancellato la sospensione, certo motivandola con il pentimento sincero del sacerdote: «Ha capito di aver sbagliato e il pontefice ha compreso la sincerità del ravvedimento». Chi non accetterà mai di ammettere di avere sbagliato, sempre che questo abbia fatto D’Escoto, è il teologo svizzero e sacerdote Hans Küng, che proprio Giovanni Paolo II privò nel 1979 della missio canonica relativa all’insegnamento della teologia cattolica. E allora per la sua “riabilitazione” si stanno muovendo semplici fedeli, su iniziativa della Parrocchia Universitaria di Montevideo (in Uruguay), con una lettera a Francesco che ha subito raccolto un centinaio di firme in vari Paesi dell’America Latina e in Spagna e Portogallo (ma la sottoscrizione è in continuo aggiornamento). «Si avvicina la fine dei suoi giorni», scrivono di Küng, 86enne e malato di Parkinson. «È ora di restituirgli quello che non chiede, ma che senza dubbio merita. La Chiesa sarà la prima a beneficiarne, con un atto di riconoscimento giusto e pieno d’amore». Sanno i firmatari di trovare in Francesco orecchie ben disposte: egli stesso ha inviato al teologo due lettere e in una di esse il papa ha scritto «resto a disposizione». E allora, scrivono, «ti chiediamo un passo in più: che Küng possa tornare nella sua condizione di “teologo cattolico”». «Sappiamo che non è facile», aggiungono, «ma abbiamo sovrabbondanti prove che sei specializzato in temi difficili».
Sollecita la riabilitazione di Küng anche Manuel Fraijó, teologo e filosofo spagnolo di formazione gesuita, che si pose a fianco di Küng, quando a questi venne ritirata la missio canonica, fino ad accettare di non insegnare più nelle facoltà cattoliche di Teologia e a rinunciare qualche tempo dopo al sacerdozio. Discepolo e amico di Küng (come anche di Karl Rahner, Wolfhart Pannenberg, Jürgen Moltmann, Johann Baptist Metz e José Luis López Aranguren), nell’articolo “La serena certezza del dovere compiuto” pubblicato il 24 dicembre scorso sul quotidiano spagnolo El País, ricorda gli oltre «60 libri, alcuni dei quali molto voluminosi, tradotti in molte lingue», attraverso i quali Küng «ha illuminato i grandi temi della vita umana: Dio, Gesù, la Chiesa, le religioni del mondo, il senso della vita, l’etica, l’aldilà, l’origine della realtà, la bramata pace, la politica e l’economia, la musica ed un ingombrante eccetera». L’anziano teologo svizzero guarda con «entusiasmo» a Francesco, aggiunge Fraijó, trovando nell’attuale papa «grandi somiglianze con l’ammirato Giovanni XXIII» e riconoscendo che sta mettendo mano a «riforme necessarie, lungamente attese e tenacemente difese da lui e da molti altri teologi». Accadrà allora, si chiede Fraijó, che «il papa prenderà il telefono e chiamerà Küng per dirgli che è riabilitato, che la Chiesa non può permettere che muoia come teologo non cattolico uno dei teologi della seconda metà del XX secolo e inizi del XXI che più ha contribuito alla diffusione e all’approfondimento del cattolicesimo nel mondo?».
José María Castillo spera
Di teologi puniti – Wojtyla regnante in coppia con il “suo” prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, card. Ratzinger, poi Benedetto XVI – perché la loro ricerca non si limitava al ruolo di microfono del Magistero ce n’è una teoria. La “riabilitazione” a breve (diciamo nel tempo di questo pontificato) di tutti loro sarebbe davvero un fatto storico ed insieme impensabile, ma per qualcuno di loro (oltre che per Küng, se si confida in quel “francescano” «sono a disposizione») è probabile: per esempio per il teologo spagnolo José María Castillo. Anche a questi il papa ha scritto una lettera. Lo ha rivelato, un po’ obtorto collo, lo stesso teologo in occasione dell’omaggio che gli è stato reso, in quanto maestro della Teologia Popolare, il 27 novembre scorso al Collegio Maggiore Chaminade, Università di Madrid. «Ho ricevuto nell’agosto scorso – ha detto – una lettera del papa, scritta di suo pugno» nella quale Francesco dice: «Ti ho perduto negli anni ‘80 e ora ti ritrovo»; il papa «mi ha detto che ne era rallegrato, ha aggiunto: “Ti chiedo di pregare per me come io prego per te” e ha terminato con un grande abbraccio». Il pontefice fa riferimento a quando (v. Adista nn. 39 e 50/88) Castillo fu destituito dall’insegnamento di Teologia dogmatica dell’Università di Granada (insieme a Juan Antonio Estrada, gesuita come Castillo, e in contemporanea con il claretiano Benjamin Forcano, cui venne sottratta la direzione della rivista Misión abierta) dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, dopo che una commissione di vescovi spagnoli nell’ottobre 1986 aveva pubblicato una nota critica nei confronti dei quaderni di “Teologia Popolare”, di cui il sacerdote era uno dei curatori. Tale teologia, nata sul finire degli anni ‘70 del secolo scorso, era il risultato della preoccupazione derivante dall’allontanamento, dal popolo e dalla gente, della teologia e della predicazione ecclesiastica, della catechesi, del Vangelo, ecc. La maggior parte dei teologi scrive una teologia che non è compresa dal popolo e che non gli interessa, sostiene infatti Castillo. (eletta cucuzza)
Fonte: Adista n. 2/2015
APPELLO
Con Papa Francesco a sostegno della sua pastorale teologica
Comunità di San Torpete Genova, con Paolo Farinella, prete
Comunità Le Piagge Firenze, con Alessandro Santoro, prete
Noi Siamo Chiesa-Italia con Vittorio Bellavite
Comunità Parrocchiale di Ronco di Cossato Biella con Mario Marchiori, prete
Ornella Marcato e Fabio Cozzo, coniugi
Aldo Antonelli, prete
Benito Fusco, frate
Chiara Sibona e Diego Rufillo Passini, coniugi – fraternità secolare OSSM
per adesioni scrivere a donmariocossato@libero.it
“Tornare al primo amore»
questo l’appello di tre vescovi profeti per una Chiesa sinodale per rivivere una nuova primavera conciliare
Giungono da ogni parte del corpo ecclesiale le pressioni per una riforma strutturale della Chiesa: riemergendo dal panorama di desolazione lasciato dai pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI – da quel “ritorno alla grande disciplina” che ha richiuso violentemente le finestre aperte dal Concilio – le speranze legate alle parole e ai gesti del nuovo papa alimentano con crescente intensità la richiesta di cambiamenti concreti. Si tratta, sottolinea il teologo Víctor Codina, di una sfida di immane portata, considerando la quantità e la qualità dei cambiamenti necessari: «Il ritorno al Concilio e alla Chiesa dei poveri, il decentramento ecclesiale, la partecipazione del popolo all’elezione dei vescovi e la revisione dell’attuale metodo di elezione papale, la trasformazione dei sinodi episcopali da consultivi a deliberativi, la riforma dei ministeri ordinati (il celibato non obbligatorio per il clero latino, l’ordinazione di uomini sposati, l’accesso delle donne ai ministeri), il ripensamento della morale sessuale e matrimoniale e della pastorale dei divorziati, il dialogo con le scienze e con la biogenetica, l’apertura alla problematica ecologica, l’avvicinamento ecumenico tra le Chiese, il dialogo interreligioso, una maggiore considerazione nei confronti dei teologi, la riforma della Curia vaticana e un lungo eccetera». Anche solo riguardo alla riforma della Curia, a cui papa Francesco ha iniziato a porre mano attraverso la creazione del consiglio di otto cardinali (al di là del profilo controverso di alcuni di essi), il compito si annuncia tutt’altro che semplice.
È un progetto chiaramente ambizioso quello a cui guarda, per esempio, il teologo Leonardo Boff, convinto che il modo migliore di riformare la Curia sia quello di operare «un grande decentramento delle sue funzioni»: «Perché – scrive il 16 agosto sul suo blog (leonardoboff.wordpress.com) – il dicastero per l’Evangelizzazione dei Popoli non può trasferirsi in Africa? Quello del Dialogo interreligioso in Asia? Quello di Giustizia e Pace in America Latina? Quello della Promozione dell’unità dei cristiani a Ginevra, insieme al Consiglio ecumenico delle Chiese? Alcuni, per gli aspetti più immediati, resterebbero in Vaticano. Attraverso videoconferenze, skype e altre tecnologie della comunicazione, potrebbero mantenere un contatto quotidiano immediato. Si eviterebbe così la creazione di un anti-potere, su cui la Curia tradizionale è tanto esperta. Ciò renderebbe la Chiesa cattolica realmente universale».Un «decentramento del processo decisionale nella Chiesa», insieme al «riconoscimento di una responsabilità collegiale», all’«abbandono di strutture assolutiste e monarchiche», all’«emancipazione delle donne a tutti i livelli» è quanto sollecita anche il movimento internazionale Noi Siamo Chiesa, evidenziando la necessità che il processo di riforma non avvenga «a porte chiuse», ma «in maniera trasparente e in dialogo aperto con le Chiese locali». Tanto più che, come evidenzia ancora Codina, «lo Spirito opera solitamente dal basso, dalla periferia, da quanti non fanno parte del sistema sociale ed ecclesiale, dai laici, dai giovani, dalle donne, dai poveri, dagli indigeni, da quegli esclusi della storia che erano i prediletti di Gesù». È a partire da loro, conclude il teologo, che lo Spirito sta «invitando tutta la Chiesa a tornare a Gesù di Nazareth».
Nel dibattito intervengono anche tre voci d’eccezione, quelle di dom Tomás Balduino, vescovo emerito di Goiás, dom Pedro Casaldáliga, vescovo emerito di São Félix do Araguaia e dom José Maria Pires, arcivescovo emerito di Paraíba, ultimi rappresentanti dell’eroica e profetica generazione di vescovi della Chiesa della Liberazione nata a Medellín, i quali, in una lettera ai fratelli dell’episcopato brasiliano, rivolgono loro un forte e pressante invito ad agire, riprendendo concretamente «la mistica del Regno di Dio nel cammino con i poveri e a servizio della loro liberazione» e intervenendo «con più libertà e autonomia» sulle «questioni che richiedono una revisione pastorale e teologica». «Se i pastori di tutto il mondo – scrivono i tre vescovi – esercitassero con più libertà e responsabilità fraterne il dovere del dialogo ed esprimessero più liberamente la propria opinione su vari temi, certamente cadrebbero alcuni tabù e la Chiesa riuscirebbe a riprendere quel dialogo con l’umanità a cui Giovanni XXIII ha dato inizio e a cui sta guardando papa Francesco».
Di seguito, in una nostra traduzione dal portoghese, la lettera dei tre vescovi e, dallo spagnolo, il comunicato del movimento internazionale Noi Siamo Chiesa. (claudia fanti)
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Il momento di agire
di José María Pires, Tomás Balduino, Pedro Casaldáliga
Cari fratelli nell’episcopato,
siamo tre vescovi emeriti che, sulla base dell’insegnamento del Concilio Vaticano II, pur non essendo più pastori di una Chiesa locale, partecipiamo comunque al Collegio episcopale, e insieme al papa, ci sentiamo responsabili della comunione universale della Chiesa cattolica.Ci ha molto rallegrato l’elezione di papa Francesco alla guida della Chiesa, per i suoi messaggi di rinnovamento e di conversione, i suoi ripetuti appelli ad una maggiore semplicità evangelica e ad un più accentuato zelo di amore pastorale per tutta la Chiesa. Ci ha anche colpito la sua recente visita in Brasile, in particolare le sue parole ai giovani e ai vescovi. E questo ci ha richiamato alla memoria lo storico Patto delle Catacombe.Sarà possibile per noi vescovi renderci conto di cosa, teologicamente, significhi questo nuovo orizzonte ecclesiale? In Brasile, in un’intervista, il papa ha ricordato la famosa massima medievale: “Ecclesia semper renovanda”.Pensando a questa nostra responsabilità come vescovi della Chiesa cattolica, ci permettiamo questo gesto di fiducia di scrivervi queste riflessioni, rivolgendovi una richiesta fraterna a sviluppare un più intenso dialogo al riguardo.
1. LA TEOLOGIA DEL VATICANO II SUL MINISTERO EPISCOPALE
Il Decreto Christus Dominus dedica il 2º capitolo alla relazione tra il vescovo e la Chiesa locale. Ogni diocesi è presentata come «porzione del Popolo di Dio» (e non più solo come un territorio) e si afferma che «in ogni Chiesa locale è presente e opera autenticamente la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica» (CD 11), poiché ogni Chiesa locale non è solo un pezzo di Chiesa o una filiale del Vaticano, ma è veramente Chiesa di Cristo e così la designa il Nuovo Testamento (LG 22). «Ogni Chiesa locale è unita dallo Spirito Santo per mezzo del Vangelo, ha la sua propria consistenza nel servizio alla carità, cioè nella missione di trasformare il mondo e di testimoniare il Regno di Dio. Tale missione è espressa nell’Eucarestia e nei sacramenti. E vissuta nella comunione con il suo pastore, il vescovo».Tale teologia pone il vescovo non al di sopra o al di fuori della sua Chiesa, ma come cristiano inserito nel gregge con un ministero di servizio ai suoi fratelli. È a partire da questo inserimento che ogni vescovo, locale o emerito, come pure gli ausiliari e coloro che ricoprono funzioni pastorali senza diocesi, in quanto portatori del dono ricevuto da Dio nell’ordinazione sono tutti membri del Collegio Episcopale e responsabili della cattolicità della Chiesa.
2. LA SINODALITÀ NECESSARIA NEL XXI SECOLO
L’organizzazione del papato come struttura monarchica centralizzata è stata istituita a partire dal pontificato di Gregorio VII, nel 1078. Durante il primo millennio del cristianesimo, il primato del vescovo di Roma era organizzato in forma più collegiale e l’intera Chiesa presentava una maggiore sinodalità.Il Concilio Vaticano II ha orientato la Chiesa alla comprensione dell’episcopato come un ministero collegiale. Tale innovazione si è scontrata tuttavia, durante il Concilio, con l’opposizione di una minoranza critica. La questione, in realtà, non è stata sufficientemente fissata. Tanto più che il Codice di Diritto Canonico del 1983 e i documenti emanati dal Vaticano a partire da allora non danno risalto alla collegialità, ma anzi ne restringono la comprensione e creano barriere al suo esercizio. Il tutto a vantaggio della centralizzazione e del crescente potere della Curia romana e a scapito delle Conferenze nazionali e continentali e dello stesso Sinodo dei vescovi, di carattere solo consultivo e non deliberativo, organismi che pure detengono, insieme al vescovo di Roma, la piena e suprema potestà in relazione alla Chiesa intera.Ora, papa Francesco sembra voler restituire alle strutture della Chiesa cattolica e a ciascuna delle nostre diocesi un’organizzazione più sinodale e una dimensione di comunione collegiale. In questo quadro, egli ha costituito una commissione di cardinali di tutti i continenti per studiare una possibile riforma della Curia Romana. Tuttavia, per muovere passi concreti ed effettivi in questa direzione – come già sta avvenendo – egli ha bisogno della nostra partecipazione attiva e cosciente. Dobbiamo farlo come forma di comprensione della funzione stessa dei vescovi: non come meri consiglieri e ausiliari del papa, che lo aiutano nella misura in cui egli lo chiede o lo vuole, ma come pastori incaricati insieme al papa di provvedere alla comunione universale e alla cura verso tutte le Chiese.
3. IL CINQUANTENARIO DEL CONCILIO
In questo momento storico, che coincide anche con il cinquantenario del Concilio Vaticano II, il primo contributo che possiamo offrire alla Chiesa è assumere la nostra missione di pastori che esercitano il sacerdozio del Nuovo Testamento, non come sacerdoti della legge antica, ma come profeti. Ciò ci obbliga a collaborare effettivamente con il vescovo di Roma, esprimendo con più libertà e autonomia la nostra opinione su questioni che richiedono una revisione pastorale e teologica. Se i vescovi di tutto il mondo esercitassero con più libertà e responsabilità fraterne il dovere del dialogo ed esprimessero più liberamente la propria opinione su vari temi, certamente cadrebbero alcuni tabù e la Chiesa riuscirebbe a riprendere quel dialogo con l’umanità a cui Giovanni XXIII ha dato inizio e a cui sta guardando papa Francesco.L’occasione, allora, è quella di assumere un Concilio Vaticano II attualizzato, superando una volta per tutte la tentazione della Cristianità, in maniera da vivere all’interno di una Chiesa plurale e povera, segnata dall’opzione per i poveri, da un’ecclesiologia di partecipazione, di liberazione, di diaconia, di profezia, di martirio… Una Chiesa esplicitamente ecumenica, di fede e politica, attenta all’integrazione della Nostra America, alla rivendicazione piena dei diritti della donna, superando al riguardo le chiusure provenienti da un’ecclesiologia sbagliata.Concluso il Concilio, alcuni vescovi – molti dei quali brasiliani – hanno sottoscritto il Patto delle Catacombe di Santa Domitilla. E, in questo impegno di radicale e profonda conversione personale, sono stati seguiti da circa 500 vescovi . È stato così che si è inaugurata una ricezione coraggiosa e profetica del Concilio.
Oggi, varie persone, in diverse parti del mondo, stanno pensando ad un nuovo Patto delle Catacombe. Per questo, volendo contribuire alla vostra riflessione ecclesiale, vi inviamo in allegato il testo originale del Primo Patto.Il clericalismo denunciato da papa Francesco sta sequestrando la centralità del Popolo di Dio nella comprensione di una Chiesa i cui membri, attraverso il battesimo, sono innalzati alla dignità di “sacerdoti, profeti e re”. Lo stesso clericalismo sta escludendo il protagonismo ecclesiale dei laici e delle laiche, facendo sì che il sacramento dell’ordine si sovrapponga al sacramento del battesimo e alla radicale uguaglianza in Cristo di tutti i battezzati e le battezzate.Inoltre, in un contesto mondiale in cui la maggior parte dei cattolici si trova nei Paesi del Sud (America Latina e Africa), diventa importante dare alla Chiesa altri volti oltre a quello espresso nella cultura occidentale. Nei nostri Paesi, è necessario avere la libertà di de-occidentalizzare il linguaggio della fede e della liturgia latina, non per creare una Chiesa diversa, ma per arricchire la cattolicità ecclesiale.Infine, ad essere in gioco è il nostro dialogo con il mondo. È l’immagine di Dio che diamo al mondo e che testimoniamo attraverso il nostro modo di essere, il linguaggio delle nostre celebrazioni e la forma che assume la nostra pastorale. Questo è il punto che deve più preoccuparci ed esigere la nostra attenzione. Nella Bibbia, per il Popolo di Israele, “tornare al primo amore” significava riprendere la mistica e la spiritualità dell’Esodo.
Per le nostre Chiese dell’America Latina, “tornare al primo amore” significa riprendere la mistica del Regno di Dio nel cammino con i poveri e a servizio della loro liberazione. Nelle nostre diocesi, le pastorali sociali non possono essere mere appendici dell’organizzazione ecclesiale o espressioni minori della nostra cura pastorale. Al contrario, è questo che ci costituisce come Chiesa, assemblea riunita dallo Spirito per testimoniare che il Regno è vicino e che è ciò che chiediamo e vogliamo: venga il tuo Regno!
Questo è senza dubbio, soprattutto per noi vescovi, urgentemente, il momento di agire. Papa Francesco, rivolgendosi ai giovani durante la Giornata mondiale della gioventù ed esprimendo il suo appoggio alle loro mobilitazioni, così si è espresso: «Voglio che la Chiesa vada in strada». E questo fa eco all’entusiastica parola rivolta dall’apostolo Paolo ai Romani: «È ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce» (13,11-12). Sia questa la nostra mistica e il nostro più profondo amore.Un abbraccio, con fraterna amicizia.