la morte di Bettazzi impoverisce la chiesa e il mondo

Bettazzi

vescovo sui passi del Concilio voleva una Chiesa «serva e povera»


di Filippo Rizzi 
Di Treviso ma figlio della Chiesa di Bologna, fu uomo di fiducia di Lercaro e coltivò una particolare amicizia “teologica” con il cardinale Giacomo Biffi: «Pur diversi, ci volevamo bene»

Monsignor Luigi Bettazzi in una foto d'archivio

 Un padre conciliare che ha sempre visto nel Vaticano II «più pastorale che dogmatico», il compimento di molti dei suoi “sogni” giovanili e il migliore strumento di annuncio della fede ai lontani. Ma anche un’assemblea che per i suoi contenuti e intenti programmatici ha ancora molto da dire con il suo «già e non ancora» al futuro della Chiesa.  

Si può condensare in questa immagine il rapporto con il Concilio del vescovo emerito di Ivrea, Luigi Bettazzi, morto alla soglia dei 100 anni (era nato il 23 novembre 1923) la scorsa domenica mattina ad Albiano di Ivrea. Con Bettazzi, come è stato scritto in questi giorni, scompare l’ultimo padre conciliare italiano (era il vescovo ausiliare del carismatico cardinale di Bologna Giacomo Lercaro): partecipò a 40 anni alla seconda sessione nel 1963 e solo il 4 ottobre di quello stesso anno fu consacrato presule nella Basilica di San Petronio a Bologna.

Gli ultimi superstiti tra i pastori di quella storica assise (composte da circa 2.500 vescovi) voluta da Giovanni XXIII e conclusa da Paolo VI sono oramai solo quattro: il messicano José de Jesús Sahagún de la Parra, 101 anni (1° gennaio 1922) e ultimo testimone della sessione di apertura nell’11 ottobre 1962; Victorinus Youn Kong-hi, della Corea del Sud, 98 anni (8 novembre 1924); l’indiano Alphonsus Matthias, 95 anni (22 giugno 1928); e il cardinale nigeriano Francis Arinze, 90 anni (1° novembre 1932).

Ma Bettazzi è stato, fino a domenica scorsa, soprattutto l’ultimo testimone della firma del “Patto delle Catacombe” il 16 novembre 1965, pochi giorni prima della conclusione del Vaticano II, l’8 dicembre dello stesso anno. A quello storico incontro avvenuto alle Catacombe di Domitilla a Roma, dopo una solenne celebrazione eucaristica, erano presenti figure carismatiche come Hélder Pessoa Câmara e José Maria Pires.  

Successivamente, al Patto aderirono molti altri padri conciliari dei diversi continenti che condividevano la sfida di una «vita di povertà» e il desiderio di una Chiesa «serva e povera», come aveva suggerito Giovanni XXIII.

«L’impegno, denominato “il Patto delle Catacombe”, fu poi firmato da centinaia di vescovi e fu affidato a Lercaro, che lo portò a Paolo VI – ha raccontato lo stesso Bettazzi alcuni anni fa – insieme al risultato delle sue consultazioni che, fra l’altro, suggerivano la soppressione dell’esercito pontificio e un distacco dai legami tradizionali con l’aristocrazia romana, mentre indicavano, come primo indice di povertà, nel mondo attuale, la trasparenza dei bilanci».

È significativo ancora oggi tornare con la mente al primo intervento di Bettazzi sulla «collegialità episcopale» nell’Aula di San Pietro durante la seconda sessione del Vaticano II nel 1963. L’intervento di Bettazzi fu salutato con stima e vivo apprezzamento e per questo annotato nei suoi diari (Quaderni del Concilio, Jaca Book, 2009) da un teologo del rango di Henri de Lubac.

E fu lo stesso giovane ausiliare di Lercaro a rievocare il senso del suo contributo: «Preparato dal centro bolognese di don Giuseppe Dossetti e dal professor Giuseppe Alberigo, voleva dimostrare che la collegialità era nella prassi della Chiesa romana; il cardinale Giacomo Lercaro, per cui era stato preparato, per vari motivi, non era stato in grado di farlo. Lo rielaborai e lo esposi in assemblea concludendo che la parola “collegio” contestata da alcuni, perché presso i romani indicava un’assemblea di uguali, era invece usata nella liturgia di san Mattia, inserito nel “collegio degli apostoli”».  

Bettazzi ha lasciato la sua “impronta” indiretta su testi conciliari come il documento sui laici Apostolicam Actuositatem e la Costituzione pastorale sul mondo contemporaneo la Gaudium et spes. Quest’ultimo testo rappresentò per il giovane presule un’autentica bussola di orientamento per la sua futura vita di pastore nel post-Concilio soprattutto durante il suo lungo governo della diocesi di Ivrea dal 1966 al 1999 e per i suoi 17 anni alla guida di Pax Christi (1968-1985).

È giusto ricordare che Bettazzi fu uno dei motori, a conclusione del Concilio Vaticano II nel 1965, per l’avvio della causa di canonizzazione del “suo” papa Giovanni XXIII. A testimoniarlo sono le annotazioni del grande teologo domenicano francese Yves Marie Congar nel volume da poco ripubblicato dalla San Paolo Diari del Concilio, 1960-1966.

Come certamente singolare è stata la sua amicizia intrattenuta con il venerabile il vescovo don Tonino Bello. «Lo indicai – raccontò a chi scrive – come mio successore per la sua attenzione ai poveri e agli ultimi alla guida di Pax Christi al cardinale presidente della Cei di allora, Anastasio Alberto Ballestrero. E la proposta fu accettata».

Un rapporto di stima e di confronto soprattutto teologico fu quello che Bettazzi intrattenne con il cardinale Giacomo Biffi, conosciuto a Parigi nel lontano 1951, di cui rammentava spesso l’«esemplare omelia» tenuta ai funerali di don Giuseppe Dossetti a Bologna nel 1996. «Pur nelle diversità di vedute ecclesiali – confidava – ci siamo voluti bene e gradì molto la mia ultima visita prima della sua morte nel 2015. Ci salutammo e benedicemmo da amici».  

Un ultimo spezzone significativo e originale della lunga vita di Bettazzi, originario di Treviso, ma da sempre figlio della Chiesa di Bologna, era il poter presiedere, ogni anno, finché le forze l’hanno sostenuto, la Messa ogni 4 agosto («Quasi sempre la prima Eucaristia mattutina», raccontano i frati predicatori) nella Basilica patriarcale di San Domenico.

Qui infatti venne ordinato prete il 4 agosto 1946 dall’allora cardinale di Bologna, Giovanni Battista Rocca di Corneliano. E qui tornò per i suoi 75 anni di Messa nel 2021 con l’attuale cardinale arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi. «Il mio essere qui a Bologna ogni anno – amava ripetere – è per ringraziare il Signore di essere sacerdote per sempre».

mons. Bettazzi scrive al capo del governo

lettera aperta all’on. Giuseppe Conte,
presidente del consiglio dei ministri italiano
Scrivo questa lettera sul tema scottante degli immigrati (e la scrivo da un edificio diocesano che ne ospita). Lo faccio non come antica autorità religiosa al Presidente di un Governo “laico” (anche se un autorevole membro del Suo Governo ha sbandierato, sia pure in campagna elettorale, simboli apertamente religiosi, anzi cristiani, quindi compromettenti) soprattutto dopo i costanti, appassionati appelli di Papa Francesco e le autorevoli istanze dei responsabili della CEI.
Lo faccio come cittadino dell’Italia che, nella Costituzione, garantisce il diritto d’asilo a quanti, nel loro paese, sono impediti di esercitare le libertà democratiche; lo faccio come cittadino dell’Europa che, nella Carta dei diritti fondamentali, afferma: “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”.
Ci siamo resi conto che Lei, al recente vertice Ue, ha fatto sentire fortemente la voce dell’Italia; ma siamo stati delusi dalla sordità della maggioranza dei rappresentanti dell’Europa (me lo lasci notare, anche delle nazioni tradizionalmente più “cristiane”) e dell’incapacità dell’insieme di mantenere le tradizioni “umane” del nostro Continente e dell’ispirazione iniziale della sua unità. Mi lasci dire che siamo – parlo di tanti di cui ho colto il pensiero – altrettanto delusi che, nella difficoltà di ottenere consensi più ampi, l’Italia rimanga su posizioni di chiusura, forse (ma solo “forse” se guardiamo al nostro passato coloniale o ci proiettiamo sul nostro futuro demografico) comprensibili sul piano della contrattazione, non su quello del riferimento a vite umane. Siamo tanti a non volerci sentire responsabili di navi bloccate e di porti chiusi, mentre ci sentiamo corresponsabili di Governi che, dopo avere sfruttato quei Paesi e continuando a vendere loro armi, poi reagiscono se si fugge da quelle guerre e da quelle povertà; non vogliamo vedere questo Mediterraneo testimone e tomba di una sorta di genocidio, di cui diventiamo tutti in qualche modo responsabili.
Non ignoriamo che i problemi sono immensi, dai rapporti con Paesi che noi – Europa tutta – abbiamo contribuito a divenire ciò che essi spesso sono (costruttori di lager e tutori di brigantaggi), a quelli con i Paesi di partenza degli immigrati (con cui già i Governi precedenti avevano progettato iniziative, sempre fermate al livello di progetti).Vorremmo davvero che l’Italia, consapevole della sua tradizione di umanità (prima romana, poi cristiana) non accettasse di divenire corresponsabile di una tragedia, che la storia ha affidato al nostro tempo e da cui non possiamo evadere.
Al di là di un’incomprensibile indifferenza o di un discutibile privilegio ( “prima gli italiani” – quali italiani? – o “prima l’umanità”?!), credo che, nell’interesse della pace, aspirazione di ogni persona e di ogni popolo, l’Italia possa e debba essere – per sé e per tutta l’Europa – pioniera di accoglienza, controllata sì, ma generosa.
Con ogni augurio e molta solidarietà.
Albiano d’Ivrea, 2 luglio 2018 + Luigi Bettazzi
vescovo emerito di Ivrea

anche l’ “humanae vitae” deve cambiare – parola di mons. Bettazzi

mons. Bettazzi

anche per l’ “Humanae vitae” è ora di attuare il Concilio


“la decisione di Paolo VI fu tormentata”
“temeva di non essere compreso e scelse il rigore
Anche per Humanae vitae è ora di attuare il Concilio
 
Luciano Moia

Mezzo secolo dopo è forse arrivato il momento di ripensare alle conclusioni indicate da Paolo VI nell’Humanae vitae e di “scongelare”, come sta tentano di fare papa Francesco, l’eredità del Vaticano II. Lo afferma il vescovo emerito di Ivrea, Luigi Bettazzi, 94 anni il prossimo novembre, ultimo testimone del Concilio:

Che rapporto c’è tra la teologia di Humanae vitae e quella espressa dal Vaticano II?
Era uno dei temi che Paolo VI si era riservato. Al Concilio non fu possibile parlare di contraccezione. Com’è noto della questione si occupò una commissione. Il Papa ne allargò la partecipazione e poi sposò la tesi della minoranza.

Perché questa scelta?
Pensava che forse, lasciando la possibilità di discutere il tema al Concilio, sarebbe uscita una linea che non condivideva. Sul piano provvidenziale non riteneva che fosse opportuno aprire modifiche alla teologia consolidata. Ora, cinquant’anni dopo, può darsi invece che sia arrivato il momento di ripensare la questione. Ma affermare questo oggi, non vuol dire concludere che allora la decisione di Paolo Vi non fu chiara.

Fu comunque tormentata. La stessa scelta di aprire un supplemento di indagini dopo l’esito della commissione, non dimostra che il Papa stesso soppesò a lungo la questione?
Non poteva che essere così. Sapeva che sia la maggioranza dei padri conciliari, sia della commissione di esperti, propendeva per un parere più sfumato rispetto al “no” che poi sarebbe arrivato nell’Humanae vitae. Per questo venne contestato sia da molti teologi sia da tante conferenze episcopali.

Da dove nascevano le sue incertezze?
Temeva di non essere compreso. La Chiesa non ama i balzi in avanti. Nella storia è sempre stato così. Nell’Ottocento si aveva paura della democrazia. Cinquant’anni fa Paolo VI si convinse di non poter venire meno al rigore dottrinale sui temi della generazione. Oggi forse è arrivato il momento di ascoltare Giovanni XXIII: non è il Vangelo che cambia, siamo noi che con il trascorrere degli anni, riusciamo a capirlo sempre meglio. E quindi non sono le dottrine a cambiare, siamo noi che riusciamo a comprenderne sempre meglio il significato leggendole alla luce dei segni dei tempi.

Oggi la situazione sociale è profondamente diversa e anche la riflessione teologica è andata molto avanti. Amoris laetitia esprime questo cambio di prospettive.
Sì, perché riprende il Vaticano II. Non era facile a quei tempi affermare che nel matrimonio quello che conta è l’amore degli sposi e poi c’è la procreazione. Non che non sia importante. Ma al primo posto c’è l’amore coniugale. Era una posizione molto avanzata.

Quando pesarono in quella scelta i pareri di chi consigliava Paolo VI di non staccarsi dalla tradizione?
L’enciclica venne firmata da lui e quindi dobbiamo pensare che la decisione fu sua. Forse non vedeva chiaramente gli esiti di una decisione diversa. Forse arrivarono pressioni importanti. Ma non possiamo mettere in discussione il fatto che fu lui a decidere. Certo, i tormenti ci furono. E anche le sollecitazioni. La posizione rigorosa del cardinale Ottaviani e dell’allora Sant’Uffizio non è un mistero.

È vero che di fronte al dilagare delle proteste, Paolo VI avrebbe voluto tornare sulla questione?
Questo non saprei dirlo. Certo, l’attuazione del Concilio era un tema che lo preoccupava molto. In un senso e nell’altro. Ci teneva, ma lo portava avanti con molta prudenza. Tanto che il vescovo brasiliano Helder Camara scrisse in un suo libro di aver sollecitato più volte Paolo VI perché istituisse una commissione per l’attuazione del Concilio.

Perché questa esigenza?
Ma è chiaro. Camara, e tanti vescovi con lui, si chiedevano come sarebbe stato possibile lasciare l’attuazione del Concilio in mano a quelli che non l’avevano voluto…

E invece andò proprio così…
Purtroppo sì. Poi arrivò la rivoluzione del ’68, la Chiesa si spaventò ancora di più. E prevalsero i nemici del Concilio. Non che non ci fossero esagerazioni postconciliari da correggere. Ma invece di correggere, abbiamo congelato tutto. Con l’acqua sporca abbiamo buttato via anche il bambino.

Adesso però papa Francesco sta tentato l’operazione “scongelamento del Concilio”. Ci riuscirà?
Sì, ma deve farlo con prudenza. Perché come già aveva intuito Paolo VI, non bisogna sgomentare i fedeli più semplici. E anche quella parte della Chiesa dove la situazione sociale è diversa rispetto all’Occidente. Non è un caso che le resistenze più forti ad Amoris laetitia siano arrivate dall’Africa e dall’Europa dell’Est. E poi ci sono i tradizionalisti. Ma questo dura fin dai tempi del Vangelo. Gli oppositori di Gesù provenivano dall’area più intransigente, da coloro che guardavano alla lettera della religione, scribi e farisei. Oggi come allora, cambiare significa rinunciare a determinate posizioni, a una fetta del proprio potere, quello politico e quello ideologico. Pensarla diversamente è normale e anche giusto, ma il confronto deve avvenire nella carità, nel rispetto reciproco.

Gli attacchi che oggi vengono rivolti al Papa non sembrano proprio nel segno della carità…
No, infatti. Mi ha molto amareggiato l’uscita dei quattro cardinali con i Dubia. Si sono giustificati dicendo che inizialmente avevano scritto in privato. Ma nel momento in cui si esce pubblicamente, si tratta quasi di una sovrapposizione al potere del Papa. Certa gente è papista finché pensa che il Papa sia dalla loro parte.

Anche dopo Humanae vitae si visse questo clima di attacco al papa?
Sicuramente sì. Nella sostanza l’opposizione, anche da parte di intere conferenze episcopali, fu molto netta. Si pronunciarono per un’applicazione estensiva di Humanae vitae più di 40 conferenze episcopali. Ma in modo rispettoso, non come gli attacchi che abbiamo visto in questi mesi contro Francesco. Allora la preoccupazione dei vescovi era di tipo interpretativo. Non volevano che i divieti mettessero in secondo piano il tema dell’amore nella coppia, che anche il Concilio aveva indicato come punto di svolta.

mons. Bettazzi riconosce la fede e la profezia di Giovanni Franzoni e gliene resta grato

 

in ricordo di Giovanni Franzoni

+ Luigi Bettazzi

già presidente di Pax Christi 

 http://www.paxchristi.it/?p=13132

Pax Christi Italia e Mosaico di Pace mi chiedono di esprimere la loro partecipazione al lutto della famiglia e della Comunità  cristiana di S. Paolo a Roma per la morte di Giovanni Franzoni.

Personalmente lo ricordo, quando era Abate di S. Paolo, alle Assemblee della CEI e agli ultimi due Periodi del Concilio Vaticano II. Penso alla sua attività negli anni caldi dopo il 1968; il suo libro “La terra è di Dio” (cui seguì poi “Anche il cielo è di Dio. Il credito dei poveri”) anticipava i problemi ecologici oggi sul tavolo della politica internazionale. Le sue prese di posizione sulla Chiesa dei poveri e sul dialogo con i comunisti sembrano appartenenti al passato, ma la sua dichiarazione di aver votato comunista lo portò alla “riduzione allo stato laicale”. Il suo temperamento ardente ma soprattutto il legame con la Comunità di S. Paolo, che aveva fondato e diretto fino ai nostri giorni, lo portarono a prese di posizioni di critica e di contestazione molto forti al di là di ogni compromesso (ad esempio di prendere domicilio nella mia Diocesi, pur restando a Roma), che indussero poi la Chiesa a decisioni drastiche.

Era rimasto, anche vivendo da laico (e sposandosi) uomo di fede. L’avevo incontrato il mese scorso, presentando insieme in una parrocchia piemontese il Concilio Vaticano II, di cui eravamo rimasti gli ultimi membri viventi italiani, ed era stato molto pacifico e fraterno. Forse i suoi atteggiamenti di contrasto non permetteranno lo si ponga tra i profeti, accanto a d. Mazzolari e d. Milani, ma non gli tolgono il merito di una profezia – sulla Chiesa dei poveri, sull’ecologia, sulla nonviolenza e la pace – perseguita con sincerità e con coraggio e con la coscienza di una fede sincera. Gliene restiamo grati.

vescovi italiani denunciano la stoltezza della guerra

“denunciamo la follia della guerra”

«Stiamo vivendo giorni di bombardamenti e devastazioni atroci su molte città. Tragedie che ci richiamano alla Costituzione del Concilio Vaticano II ‘Gaudium et spes’ e alla sua condanna della guerra totale, l’unica condanna in un Concilio ‘pastorale’»

Bettazzi

Inizia così un appello dei vescovi di Pax Christi Italia che condanna i bombardamenti e le violenze che in questi giorni devastano tante città e tanti territori, con sofferenze indicibili per le popolazioni

I vescovi continuano: «Essa così afferma al n. 80: “Ogni atto di guerra, che mira indiscriminatamente alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e con fermezza e senza esitazione deve essere condannato”». «Il Concilio continua denunciando la corsa agli armamenti, che preparano gli interventi distruttivi. “E’ necessario pertanto ancora una volta dichiarare: la corsa agli armamenti è una delle piaghe più gravi dell’umanità e danneggia in modo intollerabile i poveri; e c’è molto da temere che, se tale corsa continuerà, produrrà un giorno tutte le stragi, delle quali va già preparando i mezzi”. (n. 81)Bona
Come vescovi successivamente responsabili di Pax Christi, movimento cattolico internazionale per la pace, più che mai impegnato contro ogni forma di guerra, ma ancor prima come ‘uomini di buona volontà’, mentre deploriamo e condanniamo queste distruzioni che servono ad utilizzare i nostri armamenti e ad esaltare i nostri poteri e le nostre supremazie, chiediamo con forza che cessino queste devastazioni e si usino invece gli strumenti della politica e della diplomazia, forse più faticosi ma rispettosi delle vite umane, da soccorrere non da bombardare, come insiste papa Francesco, il quale pochi giorni fa, col Patriarca Ortodosso Cirillo esortava ‘la Comunità Internazionale ad unirsi per porre fine alla violenza e al terrorismo e, nello stesso tempo, a contribuire attraverso il dialogo ad un rapido ristabilimento della pace civile’.

Dobbiamo pregare, ma dobbiamo anche operare. Valentinetti
Invitiamo tutti ad operare, con la preghiera ed il digiuno, ma anche con l’impegno, la sollecitazione nel denunciare la follia della guerra, anche con manifestazioni, appelli ed esponendo anche le bandiere della pace, come segno visibile di un impegno che scuote ognuno nella propria coscienza».

L’appello,in data 18 febbraio 2016, è firmato dai vescovi
Giovanni Ricchiuti, Vescovo di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti presidente di Pax Christi

Giudici vescovo
Luigi Bettazzi, Vescovo emerito di Ivrea, già presidente di Pax Christi
Diego Bona, Vescovo emerito di Saluzzo, già presidente di Pax Christi
Tommaso Valentinetti, escovo di Pescara-Penne, già presidente di Pax Christi
Giovanni Giudici, Vescovo emerito di Pavia, già presidente di Pax Christi

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il vescovo Bettazzi e le nuove sfide che la chiesa deve affrontare

«comunione ai divorziati e gay, la chiesa affronti le nuove sfide»

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Mons. Bettazzi

mons. Bettazzi

intervista con mons. Bettazzi: «Con Francesco torna lo spirito del Concilio»

Bruno Quaranta

 

il peccato per cui la Chiesa deve chiedere specialmente misericordia? Non aver attuato pienamente il Concilio Vaticano II, scegliendo di essere Chiesa dei poveri e Chiesa comunione a tutti i livelli. Il peccato che “segna” in particolare l’uomo d’oggi? L’indifferenza di fronte ai grandi valori (a cominciare da quello religioso)».

 

meditando sull’Anno Santo prossimo venturo con Luigi Bettazzi nel verde Canavese. Dal 1966 al 1999 vescovo di Ivrea, il novantunenne monsignore, fra i pastori che non sdegnano, anzi, l’odore delle pecore (dagli operai olivettiani agli obiettori di coscienza), già frettolosamente, mediaticamente, soprannominato «il vescovo rosso», ha infine trovato conforto – se mai abbisognasse di conforto -nelle parole di Francesco: «Privilegiare i poveri non vuol dire  essere comunisti».

Papa Francesco ha già creato diversi cardinali ultraottantenni. Potrebbe ricevere anche lei la porpora.

«Non sono una figura così di rilievo. E comunque: Loris Capovilla, il segretario di Roncalli, è diventato cardinale a novantasette anni, sono ancora giovane…».

 

Torino è fra le sorprese dell’ultimo Concistoro…

«La mancata berretta cardinalizia è motivo di riflessione, certo. Ma non dimentichiamo che il Papa mira a segnalare situazioni peculiari, come nel caso di Francesco Montenegro, vescovo di Agrigento, che accolse Francesco a Lampedusa».

 

È pur vero che Torino è la città della Sindone.

«Sì, forse la prossima ostensione autorizzava l’attesa della porpora».

 

Per lei la Sindone è un’icona o una reliquia?

«E’ anche reliquia. Secondo Odifreddi è falsa perché non si è riusciti finora a spiegarla scientificamente. Per me è l’esatto contrario: ciò che non è spiegabile, implica un intervento al di là della scienza».

 

La Sindone icona e reliquia del Dolore. La carneficina tunisina come quella parigina (Charlie Ebdo) sollecita un quesito: l’Occidente decristianizzato potrà arginare il fondamentalismo islamico?

«La secolarizzazione del cristianesimo ha un sicuro risvolto positivo: ci ha consentito di arrivare alla democrazia. Vi è chi ha definito la Carta dei diritti dell’uomo il vangelo secondo l’Onu, un ventaglio di principi evangelici laicamente espressi. L’auspicio è che il mondo musulmano compia il medesimo cammino».

 

Papa Francesco: ha avuto occasione di incontrarlo?

«Un paio di volte, a Santa Marta. Una volta concelebrando con lui. Mi sono presentato: “Sono un superstite del Concilio”. Mi ha iniettato fiducia: “Un testimone”».

 

Quale Papa sente più affine?

«Giovanni XXIII, tale la sua umanità. Luciani mi invitò a non turbare la fede della gente. Giovanni Paolo II mi bacchettò: “Si fa presto a scrivere una lettera a Berlinguer, quando non si è vissuto sotto i comunisti”».

 

Lei testimone del Concilio, accanto a Lercaro di cui fu ausiliare.

«L’11 ottobre 1963 pronunciai l’intervento in favore della collegialità. In idem sentire, di lì a poco, Joseph Ratzinger, teologo del cardinal Frings».

 

Ma il dopo Vaticano non si caratterizza per la collegialità mancata?

«Purtroppo. Francesco vi sta rimediando grazie ai cardinali che ha voluto al suo fianco. Le remore non sono poche, né lievi: il Vaticano è il governo, il Concilio è il parlamento, i governi, notoriamente, soffrono i parlamenti».

 

Sarebbe favorevole a un Vaticano III?

«Come lo intendeva il cardinal Martini. Una serie di sessioni tematiche, che durino un mese: la bioetica, il sesso, la collegialità…Francesco, con il Sinodo in due tempi, si avvicina a Martini».

 

Il Sinodo che si esprimerà, fra l’altro, sulla comunione ai divorziati risposati e sulla condizione omosessuale.

«La comunione: vi sono cristiani ortodossi che, appellandosi al Concilio di Nicea, ammettono persino un secondo matrimonio, nel segno beninteso della sobrietà. L’omosessualità: la questione del sesso va studiata, emancipandosi dai neoplatonici che facevano coincidere sesso e decadenza dello spirito. Perché non espressione dello spirito umano? È noto che mi pronunciai in favore dei Dico, il riconoscimento delle unioni civili».

 

Torniamo al Concilio, al gruppo bolognese: Lercaro, Dossetti, lei. E Giuseppe Alberigo, storico del Vaticano II. Quando morì, sette anni fa, la curia felsinea (cardinal Caffarra) non le permise di presiedere la celebrazione eucaristica. Poté solo concelebrare. Quali le colpe di Alberigo?

«La sua lettura del Concilio: non l’umanità per la Chiesa, ma la Chiesa per l’umanità; non il laicato per la gerarchia, ma la gerarchia per il laicato».

 

Dossetti, un padre costituente. Jemolo rimproverò a Montini di non averlo nominato arcivescovo.

«Montini era un diplomatico, di respiro moroteo. Dossetti lo allarmava».

 

Jemolo avrebbe voluto vedere vescovo un’anima irrequieta come don Milani, magari a capo della pastorale per gli immigrati.

«Distinguerei tra i pastori e i profeti».

 

Francesco ha scandalizzato i cattolici «medi» sostenendo che «il proselitismo è una solenne sciocchezza».

«Francesco è latino-americano. Nel suo bagaglio storico ci sono i nostri antenati che, traversato l’Oceano, non lesinavano l’aut-aut agli indigeni: o diventavano cristiani o venivano eliminati. Le religione è, sia, un affare di coscienza. Cito il Concilio: “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio”».

il cristiano di fronte alla guerra e alle armi

Bettazzi 2

una bella conferenza di mons. Bettazzi, a suo tempo presidente internazionale di ‘pax Christi’, sul rapporto del cristiano con le armi e la risoluzione dei conflitti fra popoli con  la guerra

una conferenza un po’ datata ma ancora attualissima che fa il punto preciso sull’ampia problematica che vede la vita cristiana individuale ed ecclesiale coinvolta in scelte radicali per essere fedele al vangelo della pace:

INTRODUZIONE

DALLA GUERRA LIBERACI, SIGNORE

La pace è diventata oggi più che mai un tema fondamentale e di attualità.

Essa è sempre stata un desiderio dell’uomo e dei popoli; tra i grandi mali da cui si chiedeva al Signore di essere liberati, la guerra veniva unita alle epidemie e alle carestie: «A peste, fame et bello, libera nos Domine». Oggi peraltro la prospettiva della guerra appare veramente tragica, dal momento che le terribili armi nucleari creano la possibilità effettiva di un olocausto atomico, della distruzione globale dell’umanità.

1. I CRISTIANI DI FRONTE ALLA PACE E ALLA GUERRA

I «segni dei tempi» di oggi I megamorti Gli scienziati, consapevoli delle terribili possibilità delle forze distruttive da essi scoperte, e forse particolarmente toccati dalla responsabilità morale che si accompagna alle responsabilità scientifiche che sono loro proprie, hanno ammonito ripetutamente l’umanità. Essi si appellano soprattutto ai governanti, illustrando in maniera particolareggiata non solo la gravità delle distruzioni che verrebbero provocate diretta- mente dagli ordigni nucleari attuali, ciascuno migliaia di volte più potente delle bombe sganciate su Hiroshima e Nagasaki al termine della seconda guerra mondiale, ma altresì delle conseguenze che per lungo tempo renderebbero impossibile qualunque forma di soccorso e di sussistenza. Anche i costosissimi rifugi atomici che qua e là si stanno montando risulterebbero praticamente inutili.

L’Europa in più aggiunge la considerazione che una guerra atomica anche parziale tra le due grandi superpotenze, una guerra di «teatro» come si dice in gergo, avrebbe appunto come teatro l’Europa e porterebbe alla distruzione pressoché istantanea di tutte le sue città e alla morte della maggioranza dei suoi abitanti. Si parla oggi, anche solo nella previsione di una guerra «limitata», di ben 750 milioni di morti (o, come si dice con un macabro eufemismo, di 750 «megamorti») nelle prime ventiquattro ore: e là vi sarebbero inclusi quasi tutti gli europei!

Eppure si continuano a costruire armi sempre più raffinate e distruttive, secondo l’antico detto romano: «Se vuoi la pace, prepara la guerra». Il motivo diffuso è che bisogna difendersi, e che non c’è mezzo più persuasivo, per dissuadere l’avversario dall’ attaccare, che di rendersi più forti e quindi più temibili.

Se si rinunciasse a un bombardiere

Dobbiamo anche dirci chiaramente quanto le guerre fredde e le tensioni tra paesi possano venire influenzate dalle esigenze di mantenere i guadagni e i livelli di occupazione nelle fabbriche di armi, mentre non dobbiamo ignorare come tutto questo sia pagato col saccheggio di materie prime e di lavoro nei paesi dipendenti…

Sono facili i paragoni tra le spese militari e quelle civili. Già nel 1954 l’apostolo dei lebbrosi Raoul Follereau chiedeva, inutilmente, ad Eisenhower e a Stalin di rinunciare ciascuno a un bombardiere: le due potenze sarebbero rimaste in equilibrio reciproco, e con quei soldi si sarebbe eliminata la lebbra dal mondo!

Oggi basterebbe meno per eliminare la malaria o il vaiolo, mentre con l’equivalente di un solo carro armato si potrebbero costruire ottanta trattori agricoli, con un solo caccia a reazione ben quarantamila farmacie di villaggio, con un incrociatore lanciamissili cinquemila posti letto in ospedale, e con l’equivalente di un solo colpo di cannone si potrebbero pagare i libri per un ragazzo della scuola media per tre anni. Si è fatto il calcolo che i cinquanta milioni di uomini – quindici di bambini – che muoiono ogni anno per la fame o per le sue conseguenze, potrebbero essere salvati con le cifre di un mese e mezzo di spese militari!

Possono sembrare cifre proposte a scopi… emotivi; esse peraltro ci aiutano a prendere coscienza delle responsabilità che hanno soprattutto i paesi più industrializzati e più potenti.

sogno una chiesa

I cristiani e le guerre

Le guerre giuste

Nei primi secoli, i cristiani rifuggivano dalla guerra, vedendola come occasione di omicidio, oltreché spesso come occasione di culto pagano per propiziare la vittoria delle armi. Poi, finito il tempo della presenza «eroica» in un mondo pagano e persecutore, si è inaugurata con Costantino una nuova era, in cui lo Stato si preoccupa dell’incremento della comunità cristiana e ne prende le difese, con un esercito esso stesso composto di cristiani. Le guerre che difendono la religione cristiana o che salvaguardano uno Stato garante della vera religione risultano allora «giuste», anzi doverose. Così le Crociate saranno «giuste» per principio, proprio perché legate all’espansione e alla difesa della religione cristiana.

Il concetto di « guerra giusta » si allargherà poi fino ad abbracciare la difesa di qualunque « valore», ivi compreso l’onore dinastico (quando, ad esempio, un re dichiarava guerra a un altro re solo perché questi gli aveva rifiutato la mano della figlia!).

Quando si è capito che il concetto di « guerra giusta » era troppo elastico, lo si è ristretto alla « guerra di difesa », escludendo dunque ogni aggressione (sia pure per motivi nobili), e ponendo delle condizioni: un motivo serio, la legittima autorità che la gestisce, una certa « proporzione » tra i beni da difendere e i danni prodotti dalla guerra.

Anche questo concetto è oggi nuovamente in crisi, non foss’altro perché le guerre nucleari uccidono al primo colpo centinaia di milioni di persone e distruggono intere civiltà, mentre esigono, per una qualunque speranza di cosiddetta vittoria, che si spari per primi per annullare così la possibilità o il volume di attacco dell’avversario.

La pace e il cosiddetto «buon senso»

Non possiamo allora meravigliarci se il tema della pace non trova ancora oggi un’adeguata coscienza nell’opinione pubblica cristiana. Mentre altri temi hanno trovato precisazioni particolareggiate ed esigenti (dalle norme della morale sessuale al precetto della Messa festiva), il tema della guerra non è ancora entrato a pieno titolo e in tutti i suoi aspetti nella coscienza cristiana.

Credo che il grande ostacolo per un giudizio cristiano sia il cosiddetto « buon senso », che è poi oggi il giudizio suggerito dai mezzi di comunicazione sociale, spesso in mano agli stessi proprietari delle fabbriche d’armi!

In realtà, quando si parla tra cristiani di guerre e di armamenti atomici, non ci si appella quasi mai a motivazioni evangeliche. Si ricorre piuttosto a ragioni politiche, anzi partitiche, suggerite dalle scelte tra i due grandi blocchi, o da evidenti interessi economici che guidano la fabbricazione delle armi (da accumulare o da vendere ad altri paesi), e che manipolano l’opinione pubblica perché appoggi quanto è stato da loro programmato.

Il magistero della Chiesa sulla pace

Papa Giovanni XXIII

Di fronte ai drammatici « segni dei tempi » di oggi, il Magistero della Chiesa ha parlato, con chiarezza e con forza. Fu Papa Giovanni XXIII inaugurare questo Magistero specifico nel 1963, con l’Enciclica «Pacem in terris».

Egli era stato colpito dalle sofferenze e dalle contraddizioni della seconda guerra mondiale, che aveva vissuto come Delegato apostolico a Istanbul, un osservatorio privilegiato degli intrecci tra le varie diplomazie e dei loro retroscena più sconvolgenti, come pure delle tante miserie provocate dalle distruzioni belliche e dalle violenze razziali. Ancor più era rimasto sgomento per il rischio di guerra nucleare tra Usa e Urss al tempo della crisi di Cuba, nella quale era riuscito a essere fortunoso e provvidenziale arbitro di pace. Questo forse illumina la sua decisione di pubblicare un’Enciclica specifica sulla pace.

Due cose in essa sono da notare tra le altre: primo, l’assoluta novità di un documento pubblico con un tema non strettamente religioso e rivolto a tutti gli uomini di buona volontà (e non solo ai membri della Chiesa); e secondo, la novità appunto del richiamo ai «segni dei tempi», cioè alle situazioni concrete che, nella perennità della Rivelazione, impongono però nuove analisi e applicazioni per mantenerla sempre attuale ed efficace.

Il Concilio Vaticano II

Il Concilio Vaticano Il, convocato dallo stesso Papa Giovanni e allora in pieno svolgimento, raccolse questa intuizione, sviluppandola nella Costituzione Pastorale su «La Chiesa nel mondo contemporaneo» (chiamata dalle sue prime parole latine «Gaudium et spes»). Questo importante documento dichiara esplicitamente (al n. 78) che la pace non è soltanto il tacere delle armi, il dominio del più potente, o l’equilibrio delle armi (e siamo nel 1965!), ma è frutto di giustizia e di carità.

Passando poi a parlare della corsa agli armamenti (n. 81), il Concilio la condanna apertamente come una realtà non solo pericolosa («Le cause di guerra, anziché venire eliminate da tale corsa, minacciano piuttosto di aggravarsi gradatamente»), ma altresì ingiusta («Mentre si spendono enormi ricchezze per procurarsi sempre nuove armi, diventa poi impossibile arrecare sufficiente rimedio alle miserie così grandi del mondo presente»). Per questo il Concilio ribadisce (sempre al n. 81): « La corsa agli armamenti è una delle piaghe più gravi dell’umanità e danneggia in modo intollerabile i poveri; e c’è molto da temere che, se tale corsa continuerà, produrrà un giorno tutte le stragi delle quali va già preparando i mezzi ».

Il documento, pur non giungendo a una condanna coraggiosa di ogni guerra, di fronte allo spavento di una guerra totale – quale sarebbe una guerra atomica – non esita a condannarla in modo esplicito e incondizionato, con una solennità che non si ritrova in altri testi conciliari: «Avendo ben considerato tutto ciò, questo Sacrosanto Concilio fa proprie le condanne della guerra totale già pronunciate dai recenti sommi Pontefici, e dichiara: ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città o di vaste regioni, e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità, e con fermezza e senza esitazione dev’essere condannato» (n. 80).

La Dichiarazione all’Onu sul disarmo

Tali condanne sono state riprese in documenti successivi. Così nel 1976 la Santa Sede inviava all’Onu una dichiarazione sul disarmo, nella quale la corsa agli armamenti veniva nuovamente condannata senza riserve. Si dice che essa è:

1. un pericolo, per l’uso che viene facilitato e per l’applicazione del ricatto;

2. un’ingiustizia, perché dà il primato alla forza, mentre sottrae numerose risorse alla possibilità di sopravvivenza e di sviluppo ai paesi più poveri: «Gli armamenti, anche se non messi in opera, con il loro alto costo uccidono i poveri, facendoli morire di fame»;

3. un errore, perché mentre intende salvaguardare l’occupazione non considera la possibilità di una graduale e programmata riconversione industriale;

4. una colpa, per la rinuncia a cercare modi di sussistenza diversi dal far costruire strumenti di morte;

5. una pazzia, perché provoca una forma di isterismo collettivo diminuendo la sicurezza con la crescita di nuovi rischi, e alimenta il commercio delle armi che provoca squilibri e incoraggia l’aggressività.

Gli ultimi interventi della Chiesa

Di recente (nel 1982) Papa Giovanni Paolo II durante il viaggio in Giappone rinnovava, a Hiroshima, la condanna alla guerra atomica, e in Inghilterra, a Coventry, affermava che ogni guerra, atomica o convenzionale, era da dichiarare inaccettabile.

Su questa linea ci sono state dichiarazioni locali ma significative. Così i vescovi olandesi, in unione con i capi religiosi protestanti, si pronunciavano contro l’accoglienza di missili nella loro patria, inducendo il governo a rinviare l’accettazione dèlle proposte fatte dalla Nato. Inoltre alcuni vescovi statunitensi (così mons. Hunthausen vescovo di Seattle o mons. Matthiesen vescovo di Amarillo) non hanno esitato a dichiarare illecita ogni collaborazione a una possibile guerra atomica; essi hanno affermato l’obbligo di coscienza per gli operai cristiani di non partecipare in alcun modo alla costruzione di quegli ordigni di morte, e invitato i cittadini all’obiezione fiscale, cioè a non pagare la quota di tasse corrispondente al bilancio del Ministero della Difesa, o comunque la quota presumibilmente destinata agli armamenti atomici, inviando il corrispondente a iniziative di vita e di sviluppo.

Nel 1983 vi sono state numerose prese di posizione di episcopati cattolici, all’Ovest e all’Est, sul problema della pace e del disarmo: particolarmente importante quella dei vescovi degli Stati Uniti d’America, sia per la completezza della trattazione che denuncia l’immoralità della guerra nucleare e mette in guardia dai rischi e dallo stesso principio dalla « deterrenza » (tenete le armi per spaventare l’avversario, non per usarle…), sia per l’influsso che può avere su una politica mondiale effettivamente orientata al disarmo.

2. L’ANNUNCIO CRISTIANO DELLA PACE

La pace è stata uno dei temi centrali del messaggio di Gesù, venuto appunto a proclamare «gloria a Dio nel più alto dei cieli, e pace in terra agli uomini che Egli ama» (Luca 2,14). La traduzione più esatta della frase evangelica riconosce che la « buona volontà » è quella di Dio, non quella degli uomini, e che quindi la pace non va riservata agli uomini «di buona volontà», tra i quali ciascuno è portato a mettere in primo luogo se stesso e gli amici, e ad escludere gli altri, soprattutto i «nemici»; essa va estesa a tutti gli uomini, perché tutti sono oggetto della «buona volontà» di Dio, cioè appunto a tutti gli uomini perché Dio li ama tutti!

La pace nuova portata da Gesù

Non uccidere

Proprio perché Dio ama tutti gli uomini, questi devono amarsi tra di loro, riconoscendosi fratelli ed escludendo ogni forma di inimicizia e di violenza reciproca: il riconoscimento della fraternità universale elimina la categoria stessa del «nemico».

Il Vangelo di Matteo ci ammonisce (5,43): « Avete inteso che fu detto: amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti ». E conclude (v, 48): «Siate voi dunque perfetti (il Vangelo di Luca preciserà: siate misericordiosi!) come è perfetto il Padre vostro celeste».

Matteo, preoccupato sempre di richiamare l’aspetto globale degli atteggiamenti cristiani, precisa inoltre che non ci si deve accontentare di non uccidere, ma che bisogna eliminare qualunque tipo di offesa: «Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non uccidere”, ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto al giudizio… e chi gli dice pazzo, sarà sottoposto al fuoco della geenna» (5,21-22).

Tu porgigli l’altra guancia

Questo rifiuto della violenza dev’essere globale: « Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra… e se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due» (5,38-41). Il che non è esortazione alla passività, tanto meno alla stupidità; è piuttosto l’invito, anzi il comando, di rifiutare l’uso dei mezzi violenti, sia pure per difendersi da un attacco violento, è impegno a una reazione non violenta, a costo di ricevere un altro schiaffo o di dover raddoppiare il viaggio per riuscire a convincere l’avversario.

Sono parole molto chiare, comandi molto espliciti: essi cozzano contro il nostro modo di pensare e di agire, che noi definiamo come «buon senso», ma che in realtà è un rifiuto ad accogliere la proposta nuova che Gesù porta. Gesù ce lo ricorda, nel suo discorso di addio (Giovanni 14,27): «Vi lascio la pace, vi do la mia pace; non come la dà il mondo, io la do a voi».

La pace che Gesù porta, corona e compimento della pace antica («shalom», cioè pienezza di beni spirituali e materiali), è il regno di Dio, un mondo in cui si è amici di Dio e solidali con tutti.

Pace è riconciliazione

I lontani diventano vicini

In questa luce si comprende perché san Paolo, dopo averci detto che Cristo è la nostra pace, ci presenta la pace come riconciliazione. Il testo è nella Lettera agli Efesini, e richiama la situazione primitiva di discriminazione tra gli ebrei e i pagani: gli ebrei si ritenevano i soli depositari anche della nuova rivelazione di Gesù (si sentivano vicini), e guardavano perciò con un certo distacco i pagani, quasi escludendoli dalla possibilità di un completo riscatto (e perciò lontani). Paolo si rivolge ai pagani, «esclusi dalla cittadinanza di Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo», e li rassicura:

«Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia… per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia: egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini» (Efesini 2,12-17).

Possiamo già fin d’ora notare che la riconciliazione richiede la disposizione, da parte di chi ha, a rinunciare ai propri privilegi a favore di chi non ha. In questo caso erano gli ebrei a dover rinunciare alloro esclusivismo, così come in seguito i popoli più fortunati dovranno rinunciare ai loro privilegi di razza o ai privilegi nazionali. Ma ogni discriminazione dovrà essere superata, comprese quelle date dalle diversità naturali (sesso o impedimenti fisici) o dalle differenze sociali (di ricchezza o di potere). Lo stesso san Paolo lo richiamerà apertamente in altre sue Lettere; basti la citazione lapidaria di Galati3,38: «Non c’è più Giudeo né Greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né donna, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù».

Se il tuo fratello ha qualcosa contro di te

Questa pace, riconciliazione tra gli uomini, nasce però dalla riconciliazione con Dio, cioè dalla liberazione dal peccato, che è la radice delle tensioni e delle guerre. La Bibbia fin dalle prime pagine descrive l’ordine armonioso in cui Dio aveva creato il mondo, ponendo l’uomo come culmine e signore. E rivela che il peccato ha portato il disordine:

1. nell’interno dell’uomo (la vergogna della nudità, l’angoscia della morte);

2. degli uomini tra loro (il maschio domina la femmina, i fratelli si uccidono, Babele rende incomunicabili gli uomini);

3. del creato contro l’uomo (la fatica del lavoro e del dominio sulla natura).

Cristo, con la sua morte e la sua risurrezione, viene a riconciliare gli uomini con Dio. E gli uomini, riconciliati con Dio, dovranno riconciliarsi tra loro. Ciò è talmente indispensabile, che Gesù ne fa una condizione per la validità del culto: «Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’ altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello; poi torna a offrire il tuo dono» (Matteo 5,23-24).

Dunque, non c’è vera pace con Dio se non c’è ricerca di riconciliazione e di pace con il fratello. Siamo noi stessi a ricordarlo a Dio nella preghiera: «E rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Matteo 6,12). Questo vale per i singoli, vale per la Chiesa: una comunità non celebra validamente il suo culto se non si impegna alla riconciliazione con tutti. Un impegno serio di pace diventa cosi la verifica di autenticità nella vita di una comunità cristiana.

Pace è servizio

Tutta la terra per tutti gli uomini

La riconciliazione non è soltanto perdonare le offese ricevute personalmente, è anche tentare di riportare un ordine e un equilibrio rovinati dalle ingiustizie e dalle discriminazioni del passato.

La pace implica l’impegno di chi è in posizione favorevole, a mettere le sue capacità e disponibilità al servizio di chi si trova in necessità. Tanto più che le situazioni privilegiate molto spesso sono state procurate da sopraffazioni e prepotenze passate, compiute, se non dall’interessato stesso, da altri, ma di cui l’interessato si trova ora a beneficiare.

La terra è data agli uomini perché la utilizzino per la loro vita: tutta la terra per tutti gli uomini. Se la proprietà privata può essere un mezzo idoneo e legittimo per una più approfondita utilizzazione della terra e dei suoi beni, oltreché uno stimolo per l’impegno dell’individuo, ciò non sopprime la sua funzione sociale: quando un certo uso della proprietà affami o danneggi considerevolmente gli altri uomini, la destinazione universale dei beni (cioè il diritto degli uomini alla sopravvivenza e a una vita umana attraverso l’uso dei beni terreni) prevale sulla proprietà privata.

È un’antichissima dottrina della Chiesa, non sempre presente ai cristiani e alloro impegno pubblico, ma richiamata anche di recente da un Documento della Pontificia Commissione Justitia et Pax (agosto 1976). I modi concreti della sua attuazione entreranno nella sfera strettamente politica, ma i suoi princìpi coinvolgono la coerenza con il Vangelo.

Il più grande come colui che serve

Gesù stesso, venuto certamente per portare un messaggio «religioso», si è presentato nella sinagoga di Nazaret commentando una pagina significativa di Isaia (vedi Luca 4,19-21): «Il Signore mi ha unto » (cioè ha preso possesso di me e mi ha dato un incarico sostanziale), « e mi ha mandato a portare ai poveri l’annuncio gioioso» (il Vangelo, annuncio di salvezza), «a dare la vista ai ciechi, a confortare gli afflitti, a liberare i prigionieri, ad annunciare un anno di misericordia del Signore» (che consiste appunto in questa solidarietà con i più poveri ed emarginati).

Ha parlato, sì, di Dio, e ha preso come modello gli uccelli del cielo e i gigli del campo, ma poi non ha esitato a denunciare le ingiustizie e le oppressioni concrete (e si trattava di dominatori religiosi!). E proprio per questo è stato perseguitato e ucciso.

Gesù ha fatto di questo atteggiamento la caratteristica specifica dei suoi discepoli: «I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo, e chi governa come colui che serve»(Luca 22,25-26).

La sete di avidità e di dominio genera le oppressioni e le guerre, solo lo spirito di servizio può preparare la pace, a qualunque livello.

Quel che si fa agli altri lo si fa a Dio

Dobbiamo richiamarlo ai cristiani (ma anche a tutti gli altri!) che lavorano in politica; e la comunità cristiana deve saper incoraggiare i suoi membri (vorrei dire in particolare i giovani) a impegnarsi nel servizio dei più poveri ed emarginati. Anche questo è un impegno «religioso», se Gesù ne ha fatto il criterio per entrare nel Regno dei cieli.

Si legga e si mediti il brano dell’ «ultimo giudizio» (Matteo 25,31), dove la ragione dell’invito a entrare nel regno preparato da Dio per i suoi eletti è proprio la solidarietà con i più bisognosi: «Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, ero nudo e mi avete vestito, pellegrino e mi avete ospitato, ero ammalato e in carcere e mi avete visitato… Perché ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». Fare in modo che i fratelli abbiano pane, lavoro, casa, salute, dignità, è essere solidali con Cristo!

Questo non vuol dire che amare e aiutare gli altri sia più importante dell’amare Dio; ma è importante concretamente perché è segno e garanzia indiscutibile dell’amore di Dio. Ce lo dice chiaramente laPrima Lettera di Giovanni (4,20): «Se uno dicesse “lo amo Dio” e odiasse il fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede».

Farsi prossimi per aiutare

Questo aiuto, inoltre, non dovrà essere offerto lasciandolo cadere dall’ alto delle proprie ricchezze e superiorità; ci si dovrà invece mettere accanto ai più « piccoli” condividendo i loro problemi, « facendosi prossimo” come il Samaritano della parabola (Luca 10,30). Vi è una profonda pedagogia in questa precisazione evangelica.

La parabola, al sacerdote e al levita, chiusi nei loro problemi e disattenti di fronte alla situazione drammatica dell’uomo assalito dai ladroni, contrappone un Samaritano, dunque un eretico, uno scomunicato, un nemico, che però si fa in quattro per venire incontro alle sofferenze e alle necessità del malcapitato. La conclusione non domanda: «Chi ha trattato il poveretto come prossimo», aiutandolo con la superiorità del benestante, bensì: «Chi si è fatto prossimo al poveretto», mettendoglisi accanto e aiutandolo a livello di fraternità.

Farsi prossimi è aiutare i fratelli più diseredati a realizzare essi stessi, con responsabilità e dignità, la loro affermazione e la loro salvezza. Ogni forma di servizio, ogni impegno di volontariato, in patria o fuori, nelle strutture civili come in strutture confessionali e private, soprattutto se si tratta di aiuto temporaneo che renda i fratelli capaci poi di agire autonomamente, diventa « riconciliazione » concreta, cammino di pace.

3. UNA MENTALITÀ DI PACE

Emerge dunque la necessità di analizzare i motivi delle tensioni e delle guerre, per poterli affrontare in modo non violento. E si troverà agevolmente che alla radice delle guerre ci sono le avidità e gli egoismi di coloro che si trovano in una condizione di privilegio e la vogliono difendere e accrescere a tutti i costi, le avidità di coloro che vogliono crearsi benessere e dominio a danno dei più poveri e dei più deboli.

La giustizia e i più poveri

Il Nord e il Sud del mondo

Ormai diventa ogni giorno più chiaro che lo scontro tra l’Est e l’Ovest, cioè tra l’imperialismo comunista e quello capitalista, non è più tanto uno scontro di ideologie quanto uno scontro appunto di imperialismi; e che chi paga le spese tra questi colossi del Primo e del Secondo Mondo – che in realtà costituiscono il Nord del mondo (cioè la parte più ricca) – è il cosiddetto Sud del mondo, cioè l’insieme dei paesi meno sviluppati e più poveri, che costituiscono appunto il cosiddetto Terzo Mondo.

L’ha illustrato con evidenza un rapporto elaborato da un gruppo di scienziati e di politici di svariate nazioni e continenti, sotto la guida dell’ex Cancelliere tedesco Willy Brandt (e perciò il Documento viene comunemente chiamato «Rapporto Brandt»).

Forse si rimane talora bloccati dal timore che una critica agli imperialismi finisca col sembrare una critica ali imperialismo capitalista, in particolare agli Stati Uniti d’America, e quindi una scelta filocomunista. Anche perché il capitalismo occidentale (non so se per miopia o per un processo inevitabile) lascia al comunismo internazionale il privilegio di farsi portavoce e difensore dei diritti e delle rivendicazioni dei più poveri, salvo poi a opprimerli con nuove imposizioni. Ma tant’è, il capitalismo sembra fare gli interessi dei ricchi, e il comunismo l’interesse dei poveri.

Questo porta troppe volte che la diffidenza e il rifiuto del comunismo autorizzino e quasi consacrino ogni forma di sfruttamento e di violenza fatti in nome della libertà, rimuovendo ogni preoccupazione di denunciare le ingiustizie e le sopraffazioni dei paesi ricchi a danno dei paesi poveri. E troppe volte questa è presentata come la «terza via»; mentre astenersi dal giudizio e dall’ intervento quando un potente sta schiacciando un misero, è già praticamente mettersi dalla parte del più forte!

Il vergognoso mercato delle armi

Per questo dobbiamo condannare con forza la corsa al riarmo, che affama i più poveri; per questo dobbiamo denunciare con chiarezza il vergognoso mercato d’armi che ne deriva, che incrementa la bilancia commerciale dei più ricchi incentivando gli armamenti (e spesso le dittature!) dei più poveri.

Pensiamo all’Italia, che viene al quarto posto nella graduatoria dei venditori di armi (sia pure a grande distanza da- gli Stati Uniti e dalla Russia, e a una certa distanza anche dalla Francia), e che si presta a favorire con le sue armi qualunque tipo di violenza. Inclusi – e ne fu rimproverata ufficialmente dall’Onu – l’ apartheid sudafricano e le dittature dell’ America Latina.

È così, ad esempio, che il governo rivoluzionario del Nicaragua deve ora pagare a fabbriche italiane armamenti ch’esse vendettero al dittatore Somoza, e che questi non pagò, pur utilizzando le nostre armi per uccidere il popolo a cui noi intanto offrivamo la nostra commiserazione e la nostra solidarietà.

Dare autorità all’Onu

Per questo dobbiamo protestare con tutte le forze contro la divisione del mondo in due, fatta a Yalta verso il termine dell’ultima guerra mondiale, che offrendo spazi d’azione e di dominio alle due grandi superpotenze, le ha forse distolte dal guardare con occhio violento all’altro campo, ma ha ribadito e quasi consacrato la dipendenza e la servitù delle nazioni minori. In questa linea si dovrebbe premere perché l’Onu risultasse davvero efficace, eliminando gli anacronistici «veti» delle grandi potenze, che in tal modo non solo bloccano denunce di violenza e di ingiustizie, ma vanificano l’autorità e l’efficacia dell’Onu. Mentre solo un’efficace autorità supernazionale potrebbe dirimere le contese in maniera pacifica, allontanando i rischi di guerre. Proprio come l’autorità nazionale degli Stati moderni ha eliminato le guerre tra le singole città o regioni, che in altri tempi sembravano inevitabili.

Queste denunce e queste pressioni, anche se fatte in modi che possono essere discussi o contestati, ma non derisi (non foss’altro perché costituiscono alternative di «ideali» a una vita piatta fatta di disinteresse e di evasioni, come la droga o la violenza), in realtà esprimono e incrementano uno stato d’animo della «massa» che non può essere disatteso dai capi politici. Così non è a caso che dopo le grandi marce europee della pace dell’ autunno 1981 è ripreso a Ginevra il dialogo prima interrotto tra Usa e Urss per un accordo sull’armamento nucleare!

La scelta dei poveri…

Una maggiore giustizia trova nei più poveri il punto di riferimento. Abbiamo visto che la corsa al riarmo, accanto alla pericolosità che innesca per il rischio che il moltiplicarsi delle armi possa condurre quasi fatalmente (se non addirittura inavvertitamente, per errore di segnalatori automatici) all’olocausto atomico, realizza già ora l’ingiustizia della sottrazione ai più poveri delle risorse indispensabili alla loro sopravvivenza: è un caso clamoroso in cui l’uso eccessivo della proprietà privata cozza contro la destinazione universale dei beni terreni. Questa considerazione, già fatta dal Concilio e oggi richiamata da molte forze politiche e sociali, dovrebbe trovare il primo posto in un giudizio cristiano.

In realtà il Concilio stesso aveva parlato di «scelta dei poveri», un’espressione che era stata chiarita concretamente e fatta propria dai vescovi dell’America Latina – di un continente di ingiustizie secolari e di sfruttamenti ignominiosi! – nelle loro assemblee di Medellìn (1968) e di Puebla (1980). Non si tratta della scelta di una parte sociale con l’esclusione delle altre, bensì del riconoscimento che un mondo di giustizia e di pace può essere costruito solo se lo si progetta dal punto di vista dei poveri, dei loro diritti conculcati e da risollevare con il sacrificio di tutti, non se si continua a programmarlo dal punto di vista dei ricchi e di un’ economia che difende le posizioni di privilegio, basate sull’inevitabilità di masse di poveri e di diseredati.

… e la scelta dei ricchi

Se per esempio faccio grandi progetti di risanamento che richiedono molto tempo e lunghi sacrifici che io, ricco, posso attendere e affrontare, ma che metteranno alla prova e alla disperazione masse di poveri interni o esterni alla nazione, allora ho fatto la «scelta dei ricchi». Pare che la Banca Mondiale, che dovrebbe assistere e favorire i popoli più poveri, ne abbia scartati un certo numero per il motivo che sono troppo sottosviluppati e il provvedere a loro porterebbe troppi sacrifici per i Paesi più sviluppati!…

Questa «scelta dei ricchi» si appella appunto normalmente alle «leggi ferree dell’economia» per giustificare la difesa degli interessi di chi ha già. E sono le stesse leggi ferree che, ad esempio, un tempo sembravano esigere come necessaria la schiavitù, per poter assolvere i lavori più pesanti…

La «scelta dei poveri» invece si appella alla capacità dei ricchi di rinunciare alle loro sproporzionate ricchezze, o anche solo di non evadere le tasse, di non portare capitali all’estero, di investire in operazioni produttive, in industrie di vita e non di morte. Essa mette al primo posto l’uomo, certa che quando si salvano e si promuovono le categorie più povere (e con un po’ di fantasia e di buona volontà si possono scoprire nuove leggi dell’economia, altrettanto ferree), allora è tutta la società che cresce e si sviluppa.

L’uomo concreto

Lo sviluppo dei popoli

La pace dunque – una pace vera e diffusa – deve partire dal riconoscimento dei diritti umani fondamentali di ogni uomo, soprattutto di chi non se li trova riconosciuti, cioè dei più poveri e dei più emarginati. E questo richiede nei più ricchi e privilegiati – popoli, gruppi, individui – la volontà di saper rinunciare a qualcosa dei propri privilegi, economici e politici, a vantaggio di chi non può goderne.

È illusorio, se non addirittura ipocrita, affermare che la rivendicazione di una libertà sempre più assoluta intende dare la possibilità di far godere domani ai diseredati i privilegi di cui oggi alcuni godono, quando è ben chiaro che il tipo di benessere e di potere dei privilegiati di oggi esige la povertà e la dipendenza degli altri!

È matematicamente impossibile che tutti giungano non solo al livello più alto, ma a un livello comunque confortevole, dal momento che lo stile di vita dei più fortunati, dei «soprasviluppati», è possibile solo se ci sono dei poveri, dei «sottosviluppati» che lavorano a basso costo, senza poter far riconoscere le loro esigenze.

Paolo VI nell’Enciclica «Populorum Progressio», mentre proclamava che il nuovo nome della pace è appunto «lo sviluppo (progressio) dei popoli», precisava che non è cristiano, anzi è antievangelico un sistema basato sul profitto e sulla libertà incontrollata, che diventa poi la libertà di chi può, pagata dalla dipendenza di chi non può.

I poveri nel contrasto fra le ideologie

I ricchi – diceva Paolo VI – diventano sempre più ricchi, e i poveri sempre più poveri. Soltanto se i ricchi e i privilegiati (e non solo nel denaro, ma nel potere, nella cultura, nelle capacità organizzative) sanno limitare la loro superiorità, se sanno metterla al servizio dei più poveri e dei più diseredati, solo allora si cammina verso un mondo di giustizia e di pace.

Il pericolo più grande è quello di esasperare le contrapposizioni ideologiche; così, più che approfondire e chiarificare le proprie verità, si cerca di strumentalizzare gli errori altrui. Così l’ individualismo nasconde gli egoismi e gli sfruttamenti del capitalismo più spinto sotto l’esigenza di combattere il comunismo; così questo giustifica il soffocamento delle libertà individuali con l’esigenza di contrastare l’imperialismo capitalista, che soffoca e umilia i popoli più poveri. Così ogni critica al riarmo occidentale verrà tacciata di appoggio dato alla Russia, o ci si guarderà dal criticare la Russia per non fare il gioco dell’America… Chi ne va di mezzo è l’uomo concreto, sono i popoli, soprattutto i più poveri, soverchiati dal contrasto tra le ideologie e le superpotenze.

La «rivoluzione copernicana del Concilio

Occorre saper cogliere, con acutezza e onestà, all’interno di ogni ideologia, quanto essa ha intuito e compiuto a vantaggio dell’umanità, per superarne poi i limiti e le chiusure, aprendosi ad arricchimenti e a collaborazioni. Già nell’«Octogesima adveniens» del 1971 Paolo VI indicava nel superamento delle ideologie uno dei compiti più urgenti dell’uomo di oggi, e una delle condizioni più efficaci per il cammino della pace!

Questo vale anche per ol cristiano, sempre tentato di assolutizzare anche sul piano politico e sociale le sue intuizioni religiose. E la Chiesa stessa è chiamata a realizzare quella che ai tempi del Concilio venne chiamata «rivoluzione copernicana» e che ha trovato appunto nella «Pacem in terris» e nella «Gaudium et spes» i suoi momenti più alti e suggestivi. Copernico persuase il mondo che non era il sole a girare intorno alla terra (come diceva Tolomeo) bensì la terra intorno al sole; cosi oggi la Chiesa è sollecitata ad applicare a sé l’insegnamento di Gesù (Marco 2,27): «Non è l’uomo fatto per il sabato», cioè per ogni istituzione positiva, inclusa la Chiesa, «ma il sabato è stato fatto per l’uomo».

Ovunque ci sono germi di verità e di salvezza

Nella concezione medioevale, elaborata in un mondo tutto cristiano, la Chiesa era vista come unica strada per la salvezza, applicando così anche fisicamente l’antico detto: «Al di fuori della Chiesa non c’è salvezza». Di qui il rifiuto di chi era fuori della Chiesa, e le condanne per quanti uscivano da essa, e soprattutto per quanti inducevano altri a uscirne. Gli eccessi dell’Inquisizione trovano qui la loro motivazione culturale.

I tempi moderni, che hanno posto la Chiesa di fronte a mondi estranei a essa, l’hanno portata a rendersi conto dei valori che ci sono in altre religioni e sistemi di vita. Essa è stata così indotta a ripensare alla propria visione del mondo e a ritrovare (in accordo del resto con l’antica teologia orientale) il senso più pieno dell’Incarnazione, come elevazione soprannaturale del mondo e quindi come sorgente di salvezza per ogni uomo «di buona volontà». C’è, è vero, la triste realtà del peccato, che essa deve richiamare e aiutare a superare sul piano individuale e sul piano sociale; ma è dato riconoscere ovunque germi di verità e di salvezza.

Questo ha portato a guardare l’uomo e le sue conquiste con occhio nuovo, valutando il bene e il male, soprattutto sul piano sociale, non secondo il favore o l’ostilità data all’istituzione ecclesiale (o magari, come avveniva nei secoli passati, secondo le alleanze e le avversioni allo Stato Pontificio), ma avendo come punto di riferimento l’uomo concreto: tutto ciò che rispetta e favorisce l’uomo è positivo; tutto ciò che lo svaluta, lo opprime, lo emargina, è negativo.

Le guerre di religione e le alleanze con gli oppressori dell’uomo trovano qui la loro definitiva condanna.

La non violenza

Contro ogni violenza

La guerra è violenza, è rinunciare a utilizzare la ragione e il confronto per affidare alla forza la soluzione dei problemi: non indica dunque chi ha più ragione, ma chi ha più forza. Anche quando ci si difende da una violenza subita, in fondo si vince una violenza con un’altra violenza. Non sempre la storia, almeno a breve scadenza, dimostra che chi ha ragione vince.

Se poi entriamo nell’ ottica evangelica, che elimina la stessa categoria di «nemico» e che impone di non resistere alla violenza contrapponendole mezzi non violenti, dobbiamo concludere che la norma del cristiano dovrebbe essere sempre la non violenza. E questa sempre più appare come l’unico ideale valido per ogni uomo, in un tempo in cui la violenza sempre più sfrenata rende intollerabile la vita interna delle nazioni, e a livello planetario fa balenare l’eventualità della distruzione dell’intera umanità.

San Paolo, che si è raccomandato: «Non rendete a nessuno male per male… Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male» (Romani 12,17.21), aggiunge subito (ivi 13,4) l’esortazione a temere l’autorità «perché non invano essa porta la spada»; e indica così che si può tollerare solo la violenza di chi è preposto a garantire il bene e a condannare il male (in questa luce l’unico esercito moralmente ammissibile sarebbe quello dell’Onu!).

Occorre dunque rivendicare il primato assoluto della non violenza. Non violenza non indica solo astensione dall’uso attivo della violenza (soprattutto della violenza fisica inferta ad altri, con impedimento forzato dei movimenti, con percosse, torture, ferite, tanto più con l’uccisione): indica anche rifiuto della violenza altrui, della stessa violenza che leggi o comportamenti ingiusti impongono al popolo. Questa reazione viene fatta con mezzi non violenti (come dichiarazioni, dimostrazioni pubbliche, marce, boicottaggi economici e commerciali ecc.); ma non sarebbe autentica non violenza se non comportasse un impegno attivo per denunciare e contrastare le violenze in atto.

L’esempio di Gesù e dei santi

Il primo esempio di non violenza è quello di Gesù, che denunciò le ingiustizie e i soprusi ma rifiutò di usare la forza (la cacciata dei venditori dal tempio fu un gesto simbolico, con una « sferza di cordicelle », compiuto soprattutto rovesciando i tavoli e i banchi: vedi Giovanni 2,15). Anzi rimproverò Pietro, che nel tentativo di difenderlo aveva tagliato un orecchio a Malco, con una motivazione generale: «Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada, periranno di spada» (Matteo 26,52).

Proprio per la sua non violenza attiva Gesù fu ucciso: il Vangelo ripete spesso che la decisione di farlo morire veniva ribadita dopo i suoi discorsi di denuncia o i suoi gesti di protesta.

I primi cristiani, come s’è detto, resistettero in modo non violento alle leggi oppressive della coscienza, e per questo molti subirono il martirio. Dopo Costantino la guerra venne giustificata, e la violenza legittimata almeno entro certi limiti.

Solo i santi la richiamarono con l’insegnamento e con l’esempio: si pensi a san Francesco che passa le linee crociate e si presenta inerme al sultano per parlargli di Gesù, o che ottiene che l’indulgenza plenaria, cioè la liberazione da tutte le pene dovute per i peccati commessi, fino allora concessa solo a chi combatteva in Crociata, fosse invece concessa a chi pregava nella Cappella della Porziuncola. Ed è lo stesso Francesco che chiede ai Terziari, cioè ai laici che vogliono vivere nello spirito evangelico, di non portare armi.

La non violenza nel mondo d’oggi

In tempi recenti chi ha propugnato la non violenza è stato Gandhi, che è riuscito a ottenere l’indipendenza dell’India senza spargere sangue ma coinvolgendo tutti i compatrioti nella resistenza al dominio politico ed economico dell’Inghilterra. Anche lui ha pagato col suo sangue l’ideale della non violenza. Così come l’hanno pagato Martin Luther King, il pastore protestante pioniere della rivendicazione non violenta dei diritti dei negri d’America, e mons. Romero, fattosi portavoce dei poveri di El Salvador contro la violenza omicida dei dominatori politici ed economici.

La non violenza, che pure nella sua ispirazione coincide col messaggio evangelico, trova più facilmente il consenso dei giovani, mentre chi più ha vissuto finisce spesso col ritenere che solo una violenza ben ordinata possa debellare le forze del disordine e del male. La stessa teologia cattolica ammetteva che, in casi veramente eccezionali, risultasse lecito uccidere il tiranno (e forse così si spiega perché tanti alti ufficiali cattolici presero parte al complotto, poi fallito, che tentò di uccidere Hitler nel 1944).

Un’applicazione di questo principio si avrebbe nella legittimazione comune delle guerre di liberazione da oppressori esterni o interni. Lo stesso mons. Romero, del resto, mentre condannava la violenza del governo e quella della rivoluzione, riconosceva peraltro di non poter mettere sullo stesso piano la violenza che vuol difendere a tutti i costi privilegi ingiusti e quella dell’esasperazione di chi non vede altro mezzo per raggiungere libertà e dignità umana.

Un risvolto della non violenza (o della violenza) è la facilità con cui anche i cristiani legittimano la pena di morte, che ha un carattere vendicativo, non certo correttivo (nemmeno porta a diminuire i delitti!), e che va rifiutata, priva com’è di una vera giustificazione morale.

L’obiezione di coscienza al servizio militare

Un caso tipico di testimonianza non violenta è dato dall’obiezione di coscienza al servizio militare. Questo atteggiamento di scelta non violenta stimolerà l’inventiva nella scelta del modo più efficace per bloccare la corsa al riarmo. Infatti la scelta del riarmo progressivo è una forma di inerzia e di pigrizia mentale, favorita se non imposta da chi ha interessi economici di vario tipo.

Una rivista americana suggeriva ad esempio che certe impennate allarmistiche del governo americano, impegnato nella crescita di armamenti, non solo fossero determinate, com’è ovvio, dai costruttori d’armi, bensì anche dai fornitori di grano, timorosi che una prolungata distensione permettesse all’Urss di rallentare il suo impegno di armamento, e di dedicarsi maggiormente all’agricoltura, sottraendosi così alla dipendenza dai rifornimenti americani!

Questa sensibilità e questa volontà devono impegnare a fare passi concreti verso il disarmo. E se il disarmo unilaterale può sembrare un eroismo difficile e problematico, un avvio unilaterale al disarmo costituisce invece una prova di buona volontà e di fiducia indispensabile per indurre l’avversario a gesti altrettanto concreti di disarmo. È irrisorio pensare che la volontà di essere i più forti per trattare non induca l’avversario a giustificarsi con lo stesso principio.

Quando ci si trova in un comune pericolo e si giudica che l’avversario sia imprudente, non è facendo propria la sua imprudenza che si potrà sperare di rendere più ragionevole la situazione, ma cercando di imporre lo stile della propria prudenza.

Perciò è manifestazione tipica e convincente di non violenza l’obiezione di coscienza al servizio militare, in particolare alla guerra nucleare.

Il servizio civile

Quest’ultima specificazione non indica… simpatia per la guerra convenzionale (fatta cioè con armi non nucleari): vuole solo indicare che se ci sono situazioni in cui l’uso delle armi convenzionali può essere tollerato, ad esempio per le forze di polizia o per forze militari mondiali (dell’Onu) con compiti di polizia internazionale, nessuna giustificazione morale può essere ammessa per l’uso di armi nucleari.

La comunità cristiana ha saputo andare controcorrente difendendo la vita prima del suo nascere e chiedendo per coerenza l’obiezione di coscienza ai medici e a tutti i collaboratori contro ogni interruzione volontaria della gravidanza. Per coerenza essa dovrebbe con chiarezza e coraggio farsi carico di questa non meno urgente difesa della vita, incoraggiando l’obiezione di coscienza al servizio militare, imponendola poi in assoluto per qualunque collaborazione agli armamenti nucleari.

Per evitare che tale gesto possa esser visto come evasione di un contributo attivo alla vita della comunità, dovrà essere legato al servizio civile e inserito in sollecitazioni efficaci al volontariato, sia entro le strutture pubbliche (come gli ospedali o le carceri), sia in organismi di specifica testimonianza evangelica e cristiana.

La Chiesa e l’obiezione di coscienza

L’incoraggiamento all’ obiezione di coscienza in realtà era considerato un tempo sovversivo, proprio perché, contestando il servizio militare, sembrava denigrare il concetto di patria, storicamente unito alla realtà delle guerre. Basti ricordare le vicende di don Milani, portato in tribunale anche da settori ecclesiastici per aver parlato di obiezione di coscienza nel libretto “L’obbedienza non è più una virtù“.

Lo stesso Magistero della Chiesa ha subìto un’evoluzione evidente. Ne parlò per primo il Concilio, che timidamente chiese comprensione e tolleranza ai governi Gaudium et spes n. 80); ma si era nel 1965, e alcuni temevano che incoraggiamenti più aperti apparissero come un boicottaggio dell’impegno militare americano in Vietnam. L’Enciclica di Paolo VI Populorum progressio nel 1967 riconobbe esplicitamente la bontà di quella posizione, mentre il Documento Conclusivo del Sinodo dei vescovi nel 1971 addirittura la incoraggiò, indicandola come espressione significativa dello spirito non violento del cristiano.

La Caritas italiana si fa ora promotrice dell’ obiezione di coscienza non solo al servizio militare (insistendo sul servizio civile), ma perfino dell’obiezione fiscale, a quella parte cioè di tasse che corrisponde alla costruzione di armamenti.

4. L’IMPEGNO PER LA PACE

Il cristiano si rende conto che dovrebbe riflettere maggiormente su questi problemi alla luce della Parola di Dio e dei segni dei tempi. Proprio tutt’e due insieme. Perché se da una parte i segni dei tempi, cioè le situazioni storiche e i problemi concreti, da soli, potrebbero indurre o a esasperazione e sfiducia o ad affrontare il problema in modo unilaterale o egoistico, dall’altra la Parola di Dio accolta in modo astratto o evasivo può condurre a rinchiudersi in considerazioni puramente individuali o intimistiche.

La stessa Parola di Dio del resto non è fatta di enunciazioni teoriche: è una storia di salvezza che noi dobbiamo rivivere nella nostra vita concreta, nella storia della nostra società.

Educare alla pace

Nella Chiesa e nella scuola

Occorre educarsi alla pace, con realismo e con coraggio. In questo la comunità cristiana deve offrire un aiuto collegando la Parola di Dio con la vita e con la storia. Le omelie dovrebbero avere questa rilevanza attuale; e le riflessioni comunitarie sulla Bibbia, moltiplicate e favorite all’ interno della Chiesa, dovrebbero aiutare a questa concreta e costante incarnazione della Parola di Dio nella vita e nella storia.

Di qui dovrebbe svilupparsi una cura costante per educare alla pace e alla non violenza le nostre comunità; a cominciare dai più giovani, che dovrebbero essere aiutati a non considerare la violenza come garanzia di successo, individuale o collettivo.

Si tratterà, ad esempio, di curare che la stessa vita, delle famiglie non privilegi la violenza e l’ira; si tratterà di controllare i giocattoli-armi per i nostri piccoli, evitando che il loro divertimento diventi imitazione o esaltazione delle violenze e delle guerre dei grandi, mentre purtroppo le pellicole e i fumetti «per bambini» spesso presentano la forza e la prepotenza come premessa e condizione di dominio e di vittoria.

Così l’insegnamento della storia non dovrà ridurla a una successione di guerre e di prepotenze che premiano i più forti e i meno coscienziosi, quanto piuttosto dovrà far emergere il faticoso cammino dei valori più positivi, appunto lo «sviluppo dei popoli», nonostante le prepotenze e le ingiustizie dei più forti.

Nella società, con fiducia

Questo dovrebbe essere continuato attraverso un’ accurata e prolungata diffusione di queste convinzioni nell’ opinione pubblica attraverso ogni mezzo di comunicazione sociale, moltiplicando iniziative che portino a sensibilizzare il maggior numero possibile di persone alle tematiche della pace e della giustizia. Anche per controbilanciare il bombardamento fatto dai mezzi normali di comunicazione sociale, troppo spesso strumentalizzati a dichiarazioni verbali di pace (chi dirà mai di volere la guerra?), ma in realtà sobillatori più o meno consapevoli dei sentimenti che alimentano contrapposizioni ed esclusioni, tensioni e guerre.

Educare alla pace è soprattutto incoraggiare a impegnarsi per la pace. Di fronte al «buon senso» che suggerisce di avviarsi alla pace preparando la guerra, o di fronte allo scoraggiamento di chi ritiene il mondo ormai totalmente sulla china inevitabile della guerra, il cristiano deve animare se stesso e gli altri con la virtù della speranza.

Sperare è confidare che ci sono nel mondo forze di bene più forti di quelle del male: basta saperle suscitare e sostenere. C’è la forza dello Spirito di Dio che dev’essere riconosciuta e accolta; e c’è la forza dello spirito umano, se appena sa aprirsi alla chiamata di Dio a saper andare controcorrente, a qualunque costo.

Credere all’utopia della pace

E c’è il conforto della storia. Quando si sente dire che la pace è un’utopia, e si intende dire che è qualcosa di irreale, di inesistente, bisogna invece precisare che l’utopia è sì irraggiungibile, ma non perché irreale, ma perché molto elevata. E che perciò bisogna tentare di raggiungerla. Anche se non la si raggiungerà mai pienamente, l’avvicinarsi a essa è già conquista e progresso.

Penso agli ideali che san Paolo indicava ai Galati, nel testo citato (3,28): «In Cristo Gesù non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna». Erano utopie in ambiente di esclusivismo ebraico, di maschilismo spinto, di economia selvaggia (le «leggi dell’economia» di allora dicevano che il mondo non poteva andare avanti senza gli schiavi!). Eppure qualcuno ha creduto in quelle utopie, si è impegnato, ha sofferto, talora qualcuno è morto (e non sempre sono stati i cristiani in prima fila!). E quella che ieri era un’utopia oggi sta diventando realtà, nell’indipendenza dei popoli e nella parità delle razze, nell’affermazione piena della donna, nella dignità e nella promozione di tutte le categorie sociali.

Se la pace è un’utopia, il cristiano deve impegnarsi in prima fila, correndo tutti i rischi, da quello della strumentalizzazione a quello dell’emarginazione. Perché il suo contributo sia efficace e riconosciuto, e sia un messaggio di speranza nel mondo.

Testimoniare la pace

Nella coerenza della vita

La pace è un nodo centrale del messaggio evangelico, è un momento significativo della solidarietà umana e cristiana. Ogni cristiano dovrà perciò fare quanto sta in lui per far progredire l’idea e la realtà della pace.

E poiché ci si rende conto di quanto sia difficile un impegno isolato, è quanto mai conveniente che si affronti questo cammino in gruppo. Si potrà così dare una dimensione specifica di pace a qualche momento di attività della comunità di cui si fa parte; o si sceglierà qualche gruppo o movimento particolarmente impegnato sul tema della pace per parteciparvi, o quantomeno per informarsi di quanto si può fare a questo proposito.

Occorrerà poi con coerenza portare avanti il discorso della pace, in tutti i suoi aspetti di promozione della giustizia e di scelta dei poveri, proprio perché esso non rimanga una velleità o un «buon pensiero», valido solo a tranquillizzare la coscienza.

Anche nell’esercizio della professione e negli impegni di lavoro occorrerà saper riflettere e applicare le deduzioni raggiunte. Così non si potrà continuare a sfruttate il dipendente, a evadere la legge o il fisco, non si potrà indulgere a moltiplicare introiti o lavoro straordinario, contribuendo così all’emarginazione e alla disoccupazione, radici di tensioni e di disagio sociale.

La «scelta dei poveri» diventa così, per chi ha un livello di vita elevato e anche per chi pensa esclusivamente al suo lavoro, un concreto punto di riferimento per valutare se veramente amiamo la pace. Solo se cerchiamo di creare la pace nella famiglia e nella scuola, di costruire la giustizia nel lavoro e nella società, allora sarà sincero l’impegno di ricerca e di sollecitazione per un cammino di pace tra i popoli.

La testimonianza della comunità cristiana

In particolare nel servizio civile come alternativa al servizio militare i giovani testimonieranno che il servizio alla patria non è tanto (o soltanto) quello di una «difesa» in armi (problematica fra l’altro sotto tanti punti di vista, compreso quello della scarsa formazione umana e democratica vigente in alcune caserme), quanto un mettersi a disposizione effettiva dei settori più emarginati della collettività nazionale, pagando in proprio – anche con l’aggiunta di alcuni mesi in più di servizio – in un modo altamente educativo e autenticamente popolare com’è quello non violento.

La comunità cristiana dovrà contribuire al cammino della pace, presentando i motivi profondi che lo sollecitano e lo orientano, e incoraggiando i singoli cristiani a un impegno effettivo e generoso. Penso ad esempio come il tema e le prospettive della pace dovrebbero entrare più spesso nelle omelie e nelle esortazioni ecclesiali.

Certo, v’è il pericolo di fraintendimenti e di strumentalizzazioni; ma ho già ricordato come lo stesso non parlare possa venire frainteso e strumentalizzato. Sarà strumentalizzato dai potenti e dai dominatori, che lo presenteranno come un motivo di appoggio alla conservazione del loro dominio; e sarà frainteso dai subordinati e dagli oppressi, che lo interpreteranno come una scelta fatta contro di loro da una Chiesa connivente con i potenti, o quanto meno timorosa di perderne gli appoggi o di provocarne l’opposizione. Come ho già detto, tacere quando un violento sfrutta, umilia, opprime un povero (e tanto più se lo fa atteggiandosi a difensore del cristianesimo!) è praticamente schierarsi con il violento contro il povero!

Abbattere il muro delle divisioni

Abbiamo ricordato che la pace è la riconciliazione tra gli uomini e tra i popoli (Efesini2,14), e che ai muri etnici da abbattere (tra ebreo e non ebreo, ma anche tra bianco e di colore, tra uomo del Nord e uomo del Sud), vanno aggiunti i muri biologici (quello tra uomo e donna, ma anche tra sano e malato, tra normale e impedito), e quelli sociali (come tra libero e schiavo, ma in genere tra ricco e povero).

La comunità cristiana dovrà dare testimonianza di riconciliazione e di tolleranza, di uguaglianza e di simpatia reciproca, all’interno come all’esterno. L’accettazione e la collaborazione tra cristiani di diversa estrazione e sensibilità, tra i vari gruppi e movimenti che fioriscono nella Chiesa, e tra questi e le strutture ecclesiali tradizionali, in primo luogo le parrocchie (e viceversa, dalle strutture ai gruppi e ai settori!), diventano così espressione e contributo di pace.

Le divisioni sono un grande pericolo, sempre presente nella Chiesa come in ogni società umana: già Paolo raccomandava ai Corinzi (Prima Corinzi 1,12) che non le accentuassero («io sono di Paolo», «io invece di Apollo», «e io di Cefa») fin quasi a dimenticare che chi è morto per tutti e ha salvato tutti è stato lui, solo lui, Gesù Cristo. Lui è la nostra pace, la pace di tutti, che fa non solo di due popoli ma di tutti gli uomini una cosa sola (anzi in Efesini 2,18 dice «una sola persona»). Non ha efficacia una predicazione di pace fatta da chi non sa nemmeno vivere e collaborare in pace col suo fratello nella fede!

La pace attraverso la sofferenza e il coraggio

Certo, per portare la pace, Cristo ha patito ed è morto: la Lettera agli Efesini (che abbiamo già citato: vedi 2, II) precisa che è con la sua morte che Gesù ha abbattuto il muro delle divisioni; e il cristiano sa che, per essere discepolo di Cristo, per essere operatore di pace, egli deve prendere ogni giorno la sua croce, e che la croce è soprattutto accettare, sopportare, riconciliare gli altri!

Il cristiano guarda allora ai grandi santi, che sono stati predicatori e portatori di pace soprattutto attraverso una vita di dedizione e di sacrificio, di rinuncia alle sicurezze e ai consensi del mondo. Il cristiano pensa a quanti hanno sfidato la morte con consapevolezza umana e cristiana, per portare la società a situazioni di maggiore giustizia, di non violenza, di pace.

E pensa non solo ai grandi non violenti che abbiamo ricordato (Gandhi, Martin Luther King, Oscar Romero), ma altresì a tanti nostri contemporanei, uomini della politica e della magistratura, dei servizi d’ordine o uomini della strada, che si sanno minacciati di morte se continueranno a compiere con coscienza e con coraggio il loro dovere, se approfondiranno le inchieste, se denunceranno speculazioni e soprusi, e che accettano la sfida per contribuire a ridare giustizia e fiducia alla società, per essere concreti operatori di pace…

La risurrezione della società, la pace del mondo passa attraverso la sofferenza e il coraggio di tanti uomini che, lo sappiano o no, si trovano così uniti alla passione di Cristo, che sola distrugge i muri delle divisioni e delle inimicizie e può portare così la pace nel mondo.

Pregare per la pace

Ascoltare Dio

Infine, il cristiano deve dare alla pace l’apporto della preghiera. Se lo cito per ultimo non è perché lo ritenga l’apporto meno determinante: il cristiano sa che è il contributo più grande che egli può dare alla pace del mondo, anzi che egli «deve» dare, proprio perché è un suo contributo specifico. Lo noto per ultimo, dopo gli altri, perché la considerazione degli altri apporti contribuirà a dare alla preghiera l’ orientamento più vero e completo.

In realtà la preghiera ci mette di fronte a Dio e alla sua Parola, e ci conferma dunque che la mancanza di pace nasce dal peccato: le prime pagine della Bibbia pongono chiaramente come conseguenza del rifiuto a Dio sia il dominio dell’uomo sulla donna (Adamo su Eva), sia l’invidia e l’odio spinti fino all’omicidio (Caino e Abele), sia l’incomprensione e la divisione tra i popoli (torre di Babele).

«Padre nostro» dei costruttori della pace

A questo punto della riflessione quando ripeteremo il Padre Nostro – preghiera fondamentale del cristiano, preghiera del costruttore di pace – ci sarà più facile, chiedendo al Signore che «ci liberi dal male», pensare ai mali della società, che derivano appunto dai peccati «sociali». Sono sociali i peccati dei singoli verso gli altri e la società, come appunto non «farsi prossimo», quindi non fare il possibile perché gli altri abbiano da mangiare, abbiano il lavoro e la casa, siano curati e amati; ma lo è anche il partecipare fattivamente o anche solo senza protestare alle ingiustizie e alle oppressioni di collettività su altre, siano esse gruppi, categorie sociali, popoli.

E quando chiederemo che « venga il regno di Dio», ci renderemo conto di chiedere un mondo di coscienza e di libertà, di solidarietà e di pace, al quale dobbiamo attivamente contribuire perché questa è la «volontà di Dio».

E riaffermeremo la nostra convinzione nel significato profondo, individuale ma anche sociale, della riconciliazione, mentre ripeteremo a noi stessi che la riconciliazione con i fratelli è condizione per ottenere la riconciliazione con Dio («e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori»).

La Madonna, maestra di pace

Quando poi ci rivolgeremo alla Madonna per invocarla «regina della pace» – della pace del cuore e di quella delle nostre famiglie, ma altresì della pace sociale e della pace nel mondo – non potremo dimenticare che proprio Maria, cantando il Magnificat, annunciò un mondo in cui Dio «ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore, ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi» (Luca 1,51 e seguenti).

Una illuminata e autentica devozione mariana ci impegna dunque a rinnovare la nostra mentalità, spesso così chiusa e inerte, per coinvolgerci in una partecipazione alla costruzione di un mondo più giusto e più fraterno, nella difesa e nella « promozione» dei più poveri, degli oppressi, dei diseredati. Perché questa è la condizione per un cammino autentico di pace, che è appunto «riconciliazione», cioè superamento delle discriminazioni e delle ingiustizie.

L’Eucaristia, comunione con Dio e i fratelli

La preghiera peraltro trova il suo centro e il suo modello nell’Eucaristia, che è, come dice il Concilio, « sorgente e culmine della vita cristiana», e quindi tanto più della preghiera cristiana (Sacrosanctum Concilium n. 10).

La Parola di Dio ci illustra chiaramente che se l’Eucaristia è il momento più alto della comunione con Dio, essa è anche la verifica più esigente della comunione con i fratelli. Ci basti ricordare l’apostolo san Giovanni: lui, il teologo, il mistico, fu talmente preoccupato di questa «verità» dell’Eucaristia, che, giunto nel suo Vangelo al momento di raccontarne l’istituzione, ha tralasciato di parlare del pane e del vino trasformati nel corpo e nel sangue di Cristo, per descrivere invece la lavanda dei piedi fatta da Gesù come gesto di servizio, con il comando: «Anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (13,14-15).

Ha voluto così richiamare ai cristiani suoi contemporanei – forse già tentati di ridurre l’Eucaristia a un culto esteriore o quanto meno a un culto distaccato dalla vita concreta, quasi un alibi di fronte alle difficoltà e al peso della vita sociale – che essa non è «vera» se non ci mette in atteggiamento di riconciliazione e di servizio.

Qui più che mai vanno riprese le parole così inequivocabili di Gesù (Matteo 5,23): «Se stai per fare l’offerta all’altare e ti viene in mente che tuo fratello ha qualcosa contro di te, va prima a riconciliarti, poi torna a fare la tua offerta…». Solo se porta a un atteggiamento di conversione e di servizio, solo allora l’Eucaristia è davvero «memoriale» (cioè ricordo attuale e attivo) di Gesù che muore e risorge per perdonare e salvare.

Essere fedeli al Vangelo nella vita

Occorre che i cristiani si rendano consapevoli di questi aspetti essenziali della religiosità, cominciando appunto col dare un atteggiamento concreto, «storico» alle loro preghiere e alle loro Eucaristie, aiutati in questo da un adeguato stile delle omelie e delle preghiere dei fedeli. E comprenderanno così che bisogna essere fedeli al Vangelo nella vita, e coraggiosi nella sfida alla mentalità corrente fatta di corsa al successo, alla ricchezza, al potere, vera radice delle tensioni e delle ostilità che – a livello di popoli alimentano le guerre.

Il cristiano scopre così che la sua vocazione cristiana è vocazione alla pace, a essere costruttore di pace. E che per seguire Gesù deve prendere ogni giorno su di sé questo impegno – che è croce, anche se croce esaltante – perché solo così può essere veramente suo discepolo.

Una preghiera individuale mai chiusa su se stessa e sugli interessi esclusivamente privati, una preghiera comunitaria sempre autenticamente illuminata dalla Parola di Dio e concretamente aperta alla solidarietà verso tutti i fratelli, soprattutto i più poveri, costituisce una sicura garanzia e il più efficace contributo del cristiano per la pace del mondo.

i primi novant’anni di mons. Bettazzi

 

 

Bettazzi

per i suoi novant’anni (molto ben portati, peraltro) il quotidiano ‘Avvenire’ gli dedica un’intervista nella quale ribadisce le sue aperture della chiesa allo spirito del concilio vaticano secondo cui egli, giovanissimo vescovo, ha preso parte:

Bettazzi: «Il Concilio, un già e non ancora»

Per i suoi primi novant’anni, che compie martedì prossimo, non ha previsto niente di particola­re. «La festa l’abbiamo fatta, per i cin­quant’anni di episcopato, lo scorso 4 ottobre a Bologna e il 6 ottobre ad I­vrea ». Monsignor Luigi Bettazzi, ve­scovo emerito di Ivrea, storico presi­dente di Pax Christi (il suo impegno di «costruttore di pace» è al centro del re­cente volume di Alberto Vitali, Luigi Bettazzi, Paoline, 158 pagine, 15 euro), ha una vitalità invidiabile. «Dal set­tembre 2012, ho già tenuto 189 confe­renze sul Concilio. La centonovante­sima prossimamente in Lombardia». Ha viaggiato in Italia, ma anche in Al­bania, Georgia, Germania e Tanzania. «Se mi chiamano – spiega – è per sen­tire una parola d’incoraggiamento al­l’accoglienza del Concilio».

 

Don Luigi, in famiglia eravate sette fratelli, cosa impensabile oggi. Quan­to ha inciso in lei il fatto di vivere in una famiglia numerosa?

«Eravamo in tanti, ma quella di avere tanti figli fu una delle grazie che mia madre chiese prima di sposarsi. Io? Forse ho imparato a essere sottomes­so ». Sottomesso lei? Sta scherzando… «No, ho sempre chiesto il permesso prima di fare qualche cosa. Anche per la famosa assemblea sul Vietnam, nel 1973. E quando con altri volevamo proporci come ostaggi alla Br in cam­bio di Aldo Moro, ci fu proibito, e non facemmo nulla».

 

Intanto a 40 anni era già vescovo. Dif­ficile che accada oggi, quando un qua­rantenne viene guardato come fosse ancora un “bambino”.

«Vescovo ausiliare a Bologna. Sotto­messo, sia pure con un uomo mite e timido come il cardinale Lercaro…».

 

E giovanissimo partecipò al Concilio.

Siamo rimasti in molti pochi in Italia (gli altri sono i cardinali Angelini e Ca­nestri, i vescovi Leonardo e Nicolosi più l’allora abate di San Paolo Fuori le Mura, Franzoni) e 32 in tutto il mon­do, i dati sono aggiornati a fine mar­zo. Ne muoiono una ventina all’anno, di “reduci”…».

 

Che cosa è stato sicuramente realiz­zato, del Concilio, e che cosa invece resta da fare?

«Il Concilio è un “già e non ancora”. Ad esempio, la Parola di Dio si legge di più, ma non è ancora fondamentale nella vita di tanti cristiani. La liturgia è più partecipata ma tutt’altro che compiuta. La collegialità è cresciuta ma non abbastanza, e i fedeli laici con­tano ancora pochissimo. Certo, è un segnale positivo il gruppo di otto car­dinali che papa Francesco ha voluto accanto a sé».

 

Lei è uno dei tanti mancini costretto a scrivere e a stare a tavola usando la destra. C’è qualcos’altro che fu “co­stretto” a fare di malavoglia?

«Il vescovo! Quando Lercaro me lo chiese, obiettai che avevo scarsa e­sperienza pastorale, ero un insegnan­te, solo per poco tempo parroco. “Pos­so rifiutare?”, domandai. “Solo in due casi potresti – replicò Lercaro – se hai ammazzato qualcuno o hai dei figli”. E io: “Quanto tempo mi dà?”. Finii con l’accettare».

 

Nella Chiesa lei è stato protagonista di confronti molto franchi, a volte per­fino aspri. Ne ricorda uno tutto som­mato finito bene, tra fratelli, di idee diverse ma che si stimano?

«Da presidente di Pax Christi assume­vo posizioni “insolite”. Sul Vietnam. O sull’obiezione di coscienza: era il 1971 e mi guardavano come un marziano. Adesso è data per scontata. Sulla Let­tera a Berlinguer , il patriarca Luciani scrisse cose severe. Ci “chiarimmo” quasi casualmente, incrociandoci al­la stazione di Terontola alla volta di As­sisi. Accettò di fare il viaggio con me in seconda classe, e mi chiese di “non tur­bare la fede della gente”».

 

Lei è uno dei firmatari della “Lettera dei 500 padri”, pochi giorni prima del­la chiusura del Concilio, in cui assu­mevate impegni molto rigorosi, tutti nel segno della povertà. Papa France­sco sta facendo molte cose simili…

«Fa quello che faceva a Buenos Aires. Spero vivamente che il suo stile si diffonda. D’altronde l’ha detto: quel che deve fare lo farà in fretta, subito. E quando sentirà le forze venir meno, sono convinto che anche lui lascerà il posto a un altro».

 

Di che cosa la Chiesa cattolica do­vrebbe liberarsi?

«Dovrebbe modificare la sua struttu­ra, e mi sembra che proprio questo ab­bia chiesto Francesco. Ad esempio, se il presidente della Cei non è scelto dai vescovi ma dal Papa, è solo al Papa che dovrà rispondere, e a quel punto il dia­logo e il confronto potrebbero anche diventare difficili. Non è colpa di nes­suno, sia chiaro. È lo statuto da modi­ficare. Poi c’è ancora troppo clericali­smo. E se lo scrive perfino Sviderco­schi nel suo recente Il ritorno dei cle­rici… Infine i movimenti: molto effi­caci, dovrebbero insieme sforzarsi di aprirsi».

 

E dove la Chiesa dovrebbe indirizza­re innanzitutto le proprie energie?

«In questo momento, contro la corru­zione! Lo hanno ricordato anche il Pa­pa e Bagnasco. Peggio d’ogni peccato, essa rovina l’anima e il tessuto socia­le. Se non la estirpi, sarà impossibile costruire la solidarietà, che per me è il vero principio non negoziabile, sul quale si fondano la tutela della vita e la promozione della famiglia e del la­voro ».

 

Giochiamo con la fantasia. Quale pro­posta voterebbe con entusiasmo a un’assemblea della Cei?

«Qualsiasi proposta contribuisse a da­re più spazio e rilievo alla collabora­zione dei laici, a ogni livello, compre­si i giovani. Non basta dir loro che co­sa devono fare, occorre saper cogliere le spinte di rinnovamento che sorgo­no dal popolo di Dio. Noi pastori ab­biamo l’ultima parola; ma sarà l’ulti­ma se ce ne saranno state altre prima».

 

C’è qualcosa che non rifarebbe?

«Ho sempre rimpianto di non essere partito missionario. E poi avrei voluto potermi impegnare di più in parroc­chia ».

 

E qualcosa di cui invece va partico­larmente orgoglioso?

«Fui così ingenuo da accettare la no­mina a presidente di Pax Christi. Pri­ma di me avevano rifiutato in cinque. Ma ciò che più mi ha riempito il cuo­re sono le parole degli alcuni che mi hanno detto: “La ringrazio perché se sono ancora nella Chiesa è per lei”».

 

Per che cosa le piacerebbe essere ri­cordato?

«Per la fede nel Signore, l’amore alla Chiesa e la fiducia negli uomini di buo­na volontà».

“Avvenire” 23.11.2013 Umberto Folena

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