i 90 anni di Casaldaliga (e la vendetta contro di lui)

Pedro Casaldáliga, la «speranza indignata»

Pedro Casaldáliga, la «speranza indignata»

 da: Adista Documenti n° 3 del 26/01/2019

 «Alla mia età, tutto rientra in una preghiera», aveva affermato in un suo messaggio del 2005 il profeta, poeta, mistico e vescovo dei poveri dom Pedro Casaldáliga. E ora che di anni ne ha quasi 91 e che “fratello Parkinson” ha lasciato segni profondi sul suo corpo, la preghiera in cui rientra la sua vita si esprime solo con gesti, con sguardi, con strette di mano, come riferisce la sua amica antropologa Maria Júlia Gomes Andrade, coordinatrice del Movimento pela Soberania Popular na Mineração, che è andato a trovarlo alla fine del 2018, «dopo quasi 16 anni dalla mia prima visita in quella terra ». Eppure, malgrado l’età e lo stadio avanzato della sua malattia, dom Pedro è ancora, nella desolante situazione in cui si è smarrito il Brasile, una figura scomoda. Non a caso, come raccontano all’antropologa gli amici di dom Pedro, quando, alla vigilia del primo turno delle elezioni, viene organizzato a São Félix do Araguaia un «corteo di macchine» a favore di Jair Bolsonaro, i simpatizzanti dell’esponente neofascista, passando davanti alla casa del vecchio vescovo, si scatenano con i clacson e lanciano urla dalle automobili. «Una sorta di vendetta contro Pedro e contro tutto ciò che egli rappresenta».

 

Qui sotto l’articolo di Maria Júlia Gomes Andrade sui 90 anni di vita del vescovo «dedicati alla resistenza contro il capitale e alla difesa dei poveri», pubblicato su Brasil de Fato il 19 dicembre

 

«Per riposare / io voglio solo/ questa croce di legno / come pioggia e sole / questi tre metri di terra / e la Resurrezione!»

(da Cemitério do Sertão, di dom Pedro Casaldáliga)

Circa vent’anni fa dom Pedro Casaldáliga celebrò una messa nel giorno dei defunti in uno dei cimiteri di São Félix do Araguaia, nel Mato Grosso. Alla fine, alla presenza del popolo e degli operatori di pastorale, disse: «Voglio che tutti voi ascoltiate attentamente, perché intendo parlare di qualcosa di molto serio: è qui che io voglio essere sepolto ». Il “qui” era ciò che il popolo della regione definisce come “Cimitero Karajá”, dove sono stati seppelliti molti indigeni e altrettanti lavoratori che provenivano da luoghi diversi e che erano sfruttati nelle fazendas dedite all’allevamento del bestiame. Il luogo dove trovava sepoltura la gente più umile di quella terra. Il cimitero dei più poveri.

Tra le cose che più colpirono dom Pedro quando giunse in questa regione del Mato Grosso nel 1968 c’era la situazione dei “peões”, i braccianti che emigravano da vari Stati nell’illusione che le loro condizioni di vita sarebbero migliorate con il lavoro nelle grandi fazendas. Chi li reclutava faceva loro tante promesse, ma già durante il viaggio e poi durante il loro lavoro molti debiti venivano loro imposti. La maledizione della schiavitù per debito. E le fughe venivano duramente represse, secondo la tradizione di tagliare le orecchie dei lavoratori che cercavano di sottrarsi a quel martirio. La situazione dei piccoli contadini e dei diversi popoli indigeni della regione non era molto diversa in questa terra caratterizzata durante la dittatura militare dalla maggiore concentrazione fondiaria. Nella Lettera Pastorale del 1971, “Una Chiesa dell’Amazzonia in conflitto con il latifondo e l’emarginazione sociale”, Pedro esprime una forte denuncia contro tutte queste situazioni legate a una regione dalla disuguaglianza così profonda, schierando la Chiesa – la neonata Prelazia di São Félix do Araguaia – dalla parte dei più poveri: «Tutti noi – vescovo, preti, suore, laici impegnati – siamo qui, tra l’Araguaia e lo Xingu, in questo mondo, reale e concreto, emarginato e accusatore, che ho presentato sommariamente. Se non rendiamo possibile l’incarnazione salvifica di Cristo in questo ambiente nel quale siamo stati mandati, significa che rinneghiamo la nostra Fede, ci vergogniamo del Vangelo e tradiamo i diritti e la speranza in agonia di questa gente che è anch’essa popolo di Dio: i sertanejos, i contadini, i braccianti; questo pezzo brasiliano dell’Amazzonia. Poiché ci troviamo qui, qui dobbiamo impegnarci. Chiaramente. Fino alla fine (c’è solamente una prova sincera, definitiva, dell’amore, secondo la parola e l’esempio di Cristo). Non vogliamo fare gli eroi. Né intendiamo dare lezioni a nessuno. Chiediamo soltanto la comprensione militante di coloro che condividono con noi la stessa Speranza».

Sono tornata a São Félix alla fine del 2018, dopo quasi 16 anni dalla mia prima visita in quella terra. Prima di tutto, per vedere Pedro. Durante quei giorni, facendo una ricerca nel monumentale Archivio della Prelazia, ho trovato uno scambio di messaggi con João Pedro Stédile, per il zione. Una di queste e-mail portava la data del 24 dicembre del 2002, e Pedro rispondeva a João Pedro scrivendo che non avrebbe potuto partecipare al Forum Sociale Mondiale del 2003, né alla presentazione del giornale Brasil de Fato che si sarebbe svolta durante quell’incontro. Aveva già un viaggio fissato per quel mese a Roma. E Pedro disse all’amico del Movimento dei Senza Terra: «Ci sono molte aspettative riguardo al governo Lula. Nessuno dubita sull’onestà del nostro compagno, ma siamo in molti a interrogarci con ansia sulle alleanze e sulle concessioni. Sarà un tempo nuovo di autocritica serena, ma libera. La Terra e tutta la sua problematica definirà in buona parte le sfide dell’alimentazione, dell’impiego, dell’alleggerimento delle città, della graduale correzione delle disuguaglianze sociali.

Il latifondo continua a essere il nemico numero uno!». Il latifondo continuava a essere al centro delle preoccupazioni di Pedro, 34 anni dopo il suo arrivo in Brasile. Pedro ha sempre riflettuto profondamente sul fatto che i cambiamenti strutturali non sarebbero avvenuti soltanto con un risultato elettorale in grado di spostare l’asse più a sinistra. Ma che i più grandi cambiamenti sarebbero dovuti venire dalla coscienza e dall’organizzazione del popolo. E la vita pastorale, per Pedro, passava fortemente per un contributo all’organizzazione del popolo nella sua lotta per i diritti, in questa regione del Mato Grosso in cui aveva scelto di vivere.

Eppure, a São Félix do Araguaia e nella regione, i sostenitori del presidente eletto, in queste elezioni presidenziali del 2018 spoliticizzate e manipolate, hanno letto tutta questa storia segnata da una grande profondità di riflessione e di azione politica come la storia di un “vescovo petista”. Un vescovo petista che deve essere ancora combattuto.

Durante questo viaggio alcuni operatori di pastorale della Prelazia mi hanno raccontato l’episodio del corteo di macchine pro-Bolsonaro. Alla vigilia del primo turno delle elezioni era stato organizzato un enorme corteo di macchine a favore di questo candidato, e le auto suonavano il clacson con più forza quando passavano davanti alla casa del vecchio vescovo. Molti gridavano dalle automobili. Una sorta di vendetta contro Pedro e contro tutto ciò che egli rappresenta, hanno pensato le persone della casa. Ma, riflettendo bene, e ricordando tutte le storie di questa Chiesa militante, una così radicata polarizzazione non è una novità in questa regione. In realtà di questo tipo soltanto i codardi non prendono posizione. E Pedro è ancora una figura scomoda, e molto. Cos’è che Pedro potrebbe dirci – e come potrebbe aiutarci a riflettere – su questa tempesta che si è abbattuta sul Brasile? Certamente direbbe molte cose. Una volta, in un mio articolo, definii Pedro come “la speranza indignata”. E leggendo durante questa visita lettere su lettere che Pedro scambiava con amici personali e con persone di Chiese e di movimenti di tutto il mondo, mi sono resa conto di quanto la parola “speranza” fosse comune in questi carteggi. Forse allora non è un caso che una delle canzoni preferite di Pedro sia “Sonho impossível”: “Sognare un altro sogno impossibile, lottare quando è facile cedere, vincere il nemico invincibile, dire no quando la regola è vendersi”. Una canzone che egli chiedeva sempre all’avvocata e operatrice di pastorale Zezé di cantare a cappella, con la sua bella voce, nelle attività della Prelazia.

E il vescovo Pedro, come viene chiamato in città, continua a stare qui. Il forte progredire del “Fratello Parkison” con cui convive da circa 20 anni lascia segni profondi. Anche i 90 anni (quasi 91!). Non si esprime più con l’antica profusione di parole e scritti, sempre tanto incisivi. E questa è certamente una grande sofferenza. Ma Pedro riesce a comunicare in altri modi, con gesti e sguardi, e ci stringe forte le mani e ci dà la benedizione con le sue. Sappiamo che è lì, che è Pedro, e che ci riconosce. E tratta bene chiunque arrivi in casa, che sia gente della città che viene a trovarlo, indigeni karajá (Iny) o persone che vengono in visita da lontano.

E la sua casa continua anche ad offrire un rifugio ai karajá che sono di passaggio per São Félix, provenienti da uno dei diversi villaggi che esistono nell’Isola del Bananal, dall’altro lato del Rio Araguaia. Sanno che lì troveranno un bicchiere di acqua fresca, che potranno contare su un luogo in cui riposare dai loro giri in città. E sanno che sempre verrà offerto loro un piatto di cibo all’ora di pranzo. Sono stata cinque giorni a São Félix e, durante tutto questo breve periodo, sono passati da lì alcuni iny, in maggioranza provenienti dal villaggio Santa Izabel, quello più vicino alla città. Durante il penultimo giorno, è arrivato in casa un giovane iny che non si sentiva bene. Sembrava provare un forte dolore e diceva di aver vomitato sangue. Siamo riusciti a parlare con la responsabile del distretto di salute indigena regionale, che ha mandato un’automobile a prenderlo. Quel giovane indigeno sapeva che avrebbe trovato un rifugio in quella casa, con il “popolo del vescovo Pedro”.

Nell’epigrafe di questo articolo appare soltanto la prima parte del componimento Cemitério do Sertão. Ma la poesia di Pedro continua: “Ma per vivere / io voglio già avere / la parte che mi spetta / nel suo latifondo / che la terra non è sua / dottor Nessuno. / Ma per vivere / terra e libertà / io devo avere”. La lotta di Pedro e della sua Chiesa militante è sempre stata per la giustizia e per la vita. Pedro è lotta. Pedro è ispirazione.

Pedro è esempio. E la malattia e la vecchiaia di Pedro non devono essere interpretate solamente come sofferenza. Devono suscitare in noi una «profonda riflessione sul significato di 90 anni di vita dedicati alla resistenza contro il capitale e alla difesa dei poveri», secondo le parole della docente e militante mineira Maria José Silva. E che, per tutte e tutti noi, si possa incontrare ispirazione in dom Pedro Casaldáliga per i tempi difficili che il nostro Paese attraversa e attraverserà. Che la speranza attiva e indignata ci guidi!

 




L. Boff definisce spaventosa e diabolica la figura di Bolsonaro

Brasile. Sotto il regno del diabolico

Brasile

sotto il regno del diabolico

 da: Adista Segni Nuovi n° 41 del 01/12/2018

Stiamo vivendo tempi politicamente e socialmente drammatici. Non abbiamo mai visto nella nostra storia odio e rabbia così diffusi, soprattutto attraverso i social-media. È stato eletto presidente una figura spaventosa (Jair Bolsonaro) che ha incarnato la dimensione dell’ombra e del represso del nostro passato. Ha contagiato molti dei suoi elettori. Questa figura è riuscita a tirar fuori il diabolico (che separa e divide) – che accompagna sempre il simbolico (che unisce e riunisce) – in modo così travolgente che il diabolico ha inondato la coscienza di molti e indebolito il simbolico al punto di dividere famiglie, far rompere con gli amici e liberare violenza verbale e fisica. In particolare, tale violenza è indirizzata contro minoranze politiche, che sono in realtà maggioranze numeriche, come la popolazione nera, gli indigeni, i quilombolas e persone di diverso orientamento sessuale.

Abbiamo bisogno di un leader o di un insieme di leader con un carisma capace di pacificare, di portare pace e armonia sociale: una persona di sintesi. Questi non sarà il presidente eletto, poiché manca di tutte queste caratteristiche. E in più, rafforza la dimensione dell’ombra, che è presente in tutti noi, ma che tutti noi controlliamo per civiltà, etica, morale e religione sotto l’egida della dimensione della luce. Gli antropologi ci insegnano che tutti siamo contemporaneamente sapiens e demens, o, nel linguaggio di Freud, siamo attraversati dal principio di vita (eros) e dal principio di morte (thanatos).

La sfida di ogni persona e di ogni società è fare in modo che queste energie, che non possono essere negate, si mantengano in equilibrio, ma sotto l’egemonia del sapiens e del principio di vita, altrimenti ci divoreremmo l’un l’altro.

Attualmente nel nostro Paese abbiamo perso questo punto di equilibrio. Se vogliamo vivere e costruire una società minimamente umana, dobbiamo rafforzare la forza della positività contrastando la forza della negatività. È urgente scoprire la luce, la tolleranza, la solidarietà, la cura e l’amore della verità che sono radicati nella nostra essenza umana. Come farlo?

I sapienti di umanità, senza dimenticare la saggezza dei popoli originari, ci testimoniano che esiste una sola via, quella ben formulata dal poverello di Assisi quando cantava: dove c’è odio porto amore, dove c’è discordia porto unione, dove c’è oscurità porto luce e dove c’è errore porto verità.

Soprattutto la verità è stata sequestrata dall’ex capitano (Bolsonaro), in un discorso di minacce e di odio – contrariamente allo spirito di Gesù – in cui ha trasformato la verità in una spaventosa menzogna e ingiuria. Qui si adattano i versi del grande poeta spagnolo António Machado:

«La tua verità, no: la verità. E vieni con me a cercarla. La tua tienila per te». La vera verità deve legarci e non separarci, perché nessuno ne ha il possesso esclusivo. Tutti noi partecipiamo di essa, in un modo o nell’altro, senza possederla.

A un ampio fronte politico in difesa della democrazia e dei diritti sociali, dobbiamo aggiungere un altro ampio fronte, di tutte le tendenze politiche, ideologiche e spirituali, attorno ai valori, in grado di tirarci fuori dalla crisi attuale.

Questo è importante: dobbiamo usare quegli strumenti che loro non possono mai usare: come l’amore, la solidarietà, la fraternità, il diritto di ognuno di possedere un pezzettino di Terra, della Casa Comune che Dio ha assegnato a tutti; di coltivare la com-passione con i sofferenti, il rispetto, la comprensione, la rinuncia a ogni spirito di vendetta; il diritto ad essere felici e alla verità trasparente. Come diritti fondamentali valgono le tre “t” (tierra, techo, trabajo) di papa Francesco: terra, casa, lavoro.

Dobbiamo attrarre i fedeli delle Chiese pentecostali attraverso questi valori, che sono anche evangelici, contro i loro pastori che sono veri lupi. Si renderanno conto che questi valori umanizzano e avvicinano al vero Dio che è al di sopra e all’interno di tutti, ma il cui vero nome è amore e misericordia, e non le minacce dell’inferno; e i fedeli si libereranno dalla schiavitù di un discorso che guarda più alla tasca delle persone che al bene delle loro anime.

L’odio non si vince con più odio, né la violenza con ancora più violenza. Solo le mani che si intrecciano con altre mani, solo le spalle che si offrono ai deboli, solo l’amore incondizionato ci permetteranno di creare, secondo le parole dell’ingiustamente odiato Paulo Freire, una società meno infelice dove non sia così difficile l’amore.

Ecco il segreto che farebbe del Brasile una grande nazione dei tropici, che potrebbe aiutare, nell’irrefrenabile processo di globalizzazione, a guadagnare un volto umano, gioviale, allegro, ospitale, tollerante e fraterno.

* Leonardo Boff è filosofo, teologo e scrittore, autore di numerosi saggi, tra i quali La preghiera di San Francesco: un messaggio di pace per il mondo attuale, Voices 2009.

* * Sant’Agostino e il diavolo, dipinto di Michael Pacher (olio su tavola, 1471-1475 ca.); foto [ritagliata] tratta da it.m.wikipedia.org, immagine originale e licenza – fonte: The Yorck Project