il pregiudizio alimentato dagli enti pubblici

 

Parole che escludono

 

di Sergio Bontempelli 

30 gennaio 2015

 

cartello "divieto di sosta ai nomadi"

Quando parlano di rom, gli enti pubblici “dimenticano” il linguaggio giuridico: scrivono in modo impreciso e alimentano i pregiudizi. I risultati di una ricerca

Può sembrare banale dirlo, ma non lo è affatto: il linguaggio giuridico è diverso da quello che usiamo tutti i giorni. Leggi, delibere e ordinanze devono – meglio: dovrebbero – essere scritte in un italiano chiaro, privo di ambiguità, con parole e frasi dal significato univoco (nei limiti del possibile, si intende): solo in questo modo si evitano interpretazioni contrastanti, che a loro volta possono dar spazio agli arbitri dei funzionari pubblici.

Per spiegarci meglio: la persona innamorata che dica «voglio vederti presto» farà felice il proprio partner. Ma se l’Ufficio del Comune promette che la vostra pratica sarà esaminata «presto», vi sentirete presi in giro: presto quando? che significa presto? E infatti le leggi non usano termini così generici: tanto per rimanere nell’esempio, la norma sui procedimenti amministrativi obbliga gli uffici pubblici a concludere le pratiche «entro trenta giorni». «Presto» è ambiguo, vuol dire tutto e non vuol dire nulla; «trenta giorni» è un termine chiaro, che garantisce il cittadino e lo tutela dagli abusi. Ovvio, no?

Gli esperti dicono che il linguaggio giuridico deve essere “rigido ed esplicito”: rigido –privo di ambiguità – nei significati delle parole, ed esplicito, cioè tale da lasciare poco spazio ai non detti, ai sottintesi, alle allusioni. Al contrario, il linguaggio “naturale” (quello che parliamo tutti i giorni) è “elastico” e “implicito”. Questa è – dovrebbe essere – la differenza tra la lingua dei giuristi e quella che usiamo sul tram, al bar o con gli amici.

Quando la burocrazia parla di rom e sinti
Quando parlano di rom e sinti, però, le amministrazioni pubbliche dimenticano le regole del “parlare giuridico”. Si esprimono con termini imprecisi, ambigui e – appunto – “elastici”: fanno allusioni, dicono e non dicono, saltano passaggi logici, si appoggiano a stereotipi di senso comune, alimentano e diffondono pregiudizi. A rivelarlo è una ricerca della Fondazione Michelucci di Firenze e del Centro Creaa dell’Università di Verona: che ha preso in esame 702 documenti, tutti prodotti dalle istituzioni, sia nazionali che locali. Sono state scandagliate leggi, regolamenti, piani, atti, risoluzioni e delibere: testi “ufficiali”, sempre riferiti a rom e sinti. E l’analisi di questa corposa documentazione ha riservato qualche sorpresa.

La lingua del disprezzo
In molti Comuni – spiega ad esempio Leonardo Piasere, uno dei coordinatori della ricerca – si smantellano gli insediamenti rom facendo appello all’«igiene pubblica». In quanto “pubblica”, però, l’igiene dovrebbe riguardare tutti, rom e non rom: e invece, leggendo le ordinanze di sgombero, si nota un frequente disinteresse per le condizioni di salute di chi vive nei campi. Anzi, spesso sono proprio loro, i cosiddetti “zingari”, a rappresentare la “minaccia”, il “problema igienico” da allontanare (nell’interesse, si intende, dei “cittadini”, che per definizione non possono essere rom…).

«Il rischio di contrarre malattie infettive dagli animali», spiega Piasere, «si chiama, in termini tecnici, zoonosi. Ecco, potremmo dire che in molte ordinanze si postula l’esistenza di una ziganosi: il “fattore di rischio” sono proprio loro, i cosiddetti “zigani”, cioè i rom e i sinti. Sono loro a dover essere allontanati, al fine di immunizzare la “società civile”…».

Gli insediamenti “informali” – quelli che la lingua della burocrazia chiama “abusivi” – sono spesso associati al “degrado”, “al deterioramento della vita urbana” e all’immancabile “insicurezza”. Lo rilevano, nei loro contributi, Giuseppe Faso e Virgilio Mosè Carrara Sutour. Si tratta di concetti vaghi, di difficile definizione: chi, e in base a quale criteri, decide che un insediamento “deteriora la vita urbana”? Se voglio oppormi allo sgombero, come faccio a dimostrare che la mia presenza non è un fattore di “degrado”, visto che la parola “degrado” è generica, ambigua, scivolosa?

La de-umanizzazione
Si ha quasi l’impressione che il “degrado” sia rappresentato, in realtà, dagli stessi rom: di nuovo, sono loro ad essere “il problema”. Se, nelle ordinanze sull’igiene, i (cosiddetti) “nomadi” sono descritti come “fattore di rischio”, qui compaiono come “portatori di degrado”. Animali nel primo caso (la “ziganosi”, dicevamo…), rifiuti nel secondo: rom e sinti non sono concepiti come esseri umani a pieno titolo.

La de-umanizzazione dei rom, del resto, ricorre spesso nella lingua burocratica, persino quando le amministrazioni sono impegnate in progetti di inclusione sociale. «In molti provvedimenti», osserva ancora Faso, «non si parla di accoglienza di persone, ma di “etnie rom”. Come se i diritti non fossero per individui e famiglie ma per l’etnia: un fantasma difficile da definire, ma comodo perché sostituisce l’impronunciabile razza». Non solo animali o quasi-animali, non solo rifiuti o quasi-rifiuti, ma anche razze differenti: gli “zingari” sono il paradigma delle non-persone.

Finalità ambigue…
Ci sono poi i testi contraddittori, che affermano una cosa e subito dopo la negano. Così, per esempio, un documento della Regione Toscana parla di «lotta all’esclusione sociale», e aggiunge: «tale da alleggerire la concentrazione di famiglie rom sul territorio». Come sarebbe a dire «tale da»? Se si avvia un percorso contro l’esclusione, si presuppone che si compiano azioni rivolte all’accoglienza: in italiano, il contrario di «esclusione» è, per l’appunto, «inclusione», cioè inserimento sociale. E l’obiettivo di «alleggerire» – quindi di mandare via i rom, come se fossero un peso – si sposa male con questa premessa…

«La verità», spiega Faso, «è che in questa apparente contraddizione c’è un non detto, che può essere riassunto così: “se bisogna combattere l’esclusione, e se i rom, stando vicini, rafforzano i meccanismi di auto-segregazione, allora bisogna fare in modo che non troppe famiglie rom stiano vicine”. Ma è un non detto, appunto, che infrange la regola di esplicitezza del linguaggio giuridico». E che attribuisce agli stessi rom la “colpa” della loro esclusione.

… e contratti farlocchi
La lingua delle amministrazioni pubbliche è fatta insomma di words which exclude, «parole che escludono»: una locuzione che non a caso è stata scelta come titolo della ricerca. Eppure, non si tratta solo di una questione di linguaggio: spesso, a “escludere” sono proprio gli strumenti operativi messi in campo dalle istituzioni.

Ne è un esempio il cosiddetto “contratto di accoglienza”, analizzato da Sabrina Tosi Cambini: si tratta di uno strumento molto diffuso, che molte amministrazioni locali impiegano nei percorsi di inclusione dei rom. Funziona più o meno così: a una famiglia inserita in un progetto – ad esempio, in un alloggio sociale – viene proposta la stipula di un “contratto”, che deve essere firmato dal capofamiglia e – congiuntamente – dal responsabile della pubblica amministrazione.

In apparenza, il contratto stabilisce diritti e doveri di entrambe le parti, in modo paritario. Di solito, l’ente pubblico si impegna a fornire l’alloggio, e a mettere a disposizione un servizio di accompagnamento (cioè un operatore incaricato di assistere il nucleo). Dal canto suo, la famiglia si impegna a «rispettare gli obiettivi del progetto»: vale a dire, a trovare un lavoro, e a rendersi economicamente autonoma. Il punto – spiega Tosi Cambini – è che le parti non sono affatto sullo stesso piano. L’ente pubblico ha risorse, soldi, potere. La famiglia rom vive in una condizione di marginalità, e difficilmente può “negoziare” le clausole proposte: se le vede imporre dall’alto, e deve accettarle se vuole uscire dal “campo nomadi” e mettere piede in una casa.

Non solo: con il “contratto”, la famiglia si impegna a perseguire obiettivi che, spesso, sono al di fuori delle proprie possibilità. Trovare un lavoro è difficile, e non solo per la crisi: è raro che una ditta assuma uno “zingaro”, ed è altrettanto raro che l’abitante di un “campo”, magari non più tanto giovane, riesca a trovare un impiego con le sue sole forze. Il fallimento del “percorso di integrazione” può però venire imputato alla stessa famiglia: «dovevano integrarsi, hanno firmato un contratto, non l’hanno rispettato…».

La lingua del Bar Sport
«A produrre discriminazione», diceva la studiosa Clelia Bartoli in un bel libro uscito due anni fa, «non è solo il contenuto delle norme, ma anche la loro cattiva qualità tecnica». La ricerca words which exclude è un po’ la conferma di questa tesi. L’esclusione sociale dei rom è prodotta anche da istituzioni che non parlano la lingua delle istituzioni. Da amministratori che non scrivono e non pensano da amministratori. E che preferiscono, per loro scelta, esprimersi come ci si esprime al Bar Sport…

Sergio Bontempelli

a proposito della provocazione di Salvini: 10 punti intelligenti di S. Bontempelli

 

Matteo Salvini aggredito in campo rom: le immagini da Bologna

Brutta giornata per Matteo Salvini e alcuni militanti della Lega Nord: in visita al campo nomadi di via Erbosa, a Bologna, i leghisti non hanno avuto neppure la possiiblità di entrare all’interno del campo: poco prima dell’arrivo di Salvini, i militanti già giunti sul posto per chiederne la chiusura, sarebbero stati insultati da alcuni giovani appartenenti ai centri sociali – circa cinquanta -, che li avrebbero invitati ad andarsene.

Quando è arrivato Matteo Salvini, l’attuale segretario della Lega Nord, la sua auto sarebbe stata colpita con calci, pugni e sassate. Alcuni giovani dei centri sociali sarebbero anche saliti sul tetto della macchina e si sarebbero vissuti momenti di grande tensione, tanto che il parabrezza del mezzo è stato spaccato del tutto, come si può vedere dalle foto postate da Salvini su Facebook e Twitter.

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Alla fine Salvini e i suoi hanno deciso di allontanarsi e di non entrare nel campo rom mentre alcuni ragazzi dei centri sociali avrebbero dichiarato che l’auto del segretario si sarebbe fatta largo fra di loro, investendoli di proposito. E la denuncia di quanto accaduto arriva proprio sui social: Matteo Salvini non ha risparmiato dettagli – conditi da immagini e commenti molto duri – su quanto accaduto. L’europarlamentare ha poi ringraziato la città di Bologna, ricordando come poche decine di persone non possano rapresentare tutta una comunità. 

 questi più o meno i fatti: mi piace riportare, per un’utile riflessione su questi, i 10 punti, le ‘dieci cose’ che propone intelligentemente S. Bontempelli non appena essi sono uccessi:

Dieci cose a proposito della violenza (e della macchina di Salvini)

domenica 9 novembre 2014

1) Io sono contrario all’uso della violenza perché la giudico un atto egoistico; solitario; in estrema sintesi un atto da imbecilli perché conduce sempre a risultati contrari all’ideale di partenza (quando l’ideale c’è, perché spesso non c’è neppure quello).

2) Si può discutere se accogliere Salvini in quel modo sia stato intelligente oppure no. Secondo me, ad esempio, è stata una stronzata gigantesca.

3) Quella stronzata ha fatto godere Salvini come un riccio in calore, ben sapendo che quel casino gli è valso più di diecimila manifesti elettorali (e due punti percentuali in più).

4) I ragazzi dei centri sociali sono stati coscientemente investiti dalla macchina di Salvini e solo per un miracolo che ancora non mi spiego non ci sono rimasti sotto.

5) Salvini mente quando dice che la macchina ha accelerato perché gli avevano rotto i vetri. I vetri sono stati rotti dopo per la rabbia di essere stati vittime di una manovra pericolosissima.

6) Qui c’è il mio video sulla giornata di ieri e se non l’avete già visto, guardatelo: http://youmedia.fanpage.it/video/aa/VF5hu-SwH6buFthy.

7) Se la macchina non avesse accelerato cosa sarebbe successo? Questo non si può sapere. Io posso dirvi quello che avrei fatto io: non avrei accelerato. Mai. Neanche se la mia macchina fosse stata circondata da un gruppo di sentinelle in piedi (o di Forza nuova, tanto le due cose spesso coincidono). E non avrei mai accelerato perché la mia automobile, o uno schiaffo che avrei potuto prendere, non valgono la vita di chi mi sta di fronte (neanche se è di un demente di Forza nuova).

8) Io cosa avrei fatto ieri al posto dei ragazzi dei centri sociali? Bella domanda. Forse mi sarei vestito da pagliaccio con le mutande in capo come contraltare a chi davvero è ridicolo ancorché inquietante: Matteo Salvini.
PS. è lo stesso abbigliamento con cui andai al G8 di Genova nel 2001.

9) Spaccare il vetro a una macchina è un atto violento. Essere pagato ventimila euro al mese per fare una passeggiata contro gli ultimi della terra, intorno alle loro baracche, arrivando con un’automobile che costa cinque volte la loro abitazione, è un atto infinitamente più violento. Il secondo non giustifica il primo, per carità, ma avere una scala di valori può essere utile per non trovarsi sempre a dare ragione al più forte solo perché è più facile.

10) Sì, i Rom sono gli ultimi della terra anche se qualcuno di loro ruba oppure si veste strano oppure è insistente, anche molto insistente, nel chiedere l’elemosina. Del resto gli ultimi sono sempre un po’ fastidiosi, come i malati o i bruttissimi, perché ci ricordano l’altra faccia dell’essere umano. Ci ricordano quello che noi non siamo per un caso e quello che loro sono, forse, anche perché noi non facciamo abbastanza perché le cose cambino.

 

 

i rom e gli ‘straccioni’ sono il nostro vero problema?

 

“Zingari”, turisti e gelatai

allontanare gli ‘straccioni’ che ci fanno fare brutta figura e allontanano i turisti dalle nostre città

allontanarli dalle stazioni ferroviarie dove ultimamente, con un gruppetto di rom, si sono resi noiosamente insistenti

come fare? così: a Roma e a Firenze l’accesso alle biglietterie è stato transennato, e i mendicanti sono stati allontanati dalle forze dell’ordine

tutto risolto? tutti felicemente superati i problemi italiani? no!, non sembra che i rom e gli ‘straccioni’ siano il vero problema del nostro paese

la pensa così anche S. Bontempelli che su questo ha scritto un lucido articolo che qui riporto:

 

barriere Le stazioni di Firenze e Roma cacciano i rom per attrarre i turisti. Ma tre gelati nella Capitale costano 42 euro. Da chi e da cosa vanno tutelati i turisti?

«Turisti ostaggio di rom e ladri» (Quotidiano Nazionale, 10 Luglio). «Firenze, assedio ai turisti in stazione» (Corriere della Sera, 7 Luglio). «Barriere anti-rom per salvare i turisti» (Il Giornale, 17 Luglio). A sentire i giornali di questi giorni, le “barriere anti-mendicanti” alla Stazione di Firenze dovrebbero proteggere i tanti visitatori che, soprattutto dall’estero, vengono a trascorrere le loro tranquille vacanze nel nostro Bel Paese.

Che questo sia lo scopo principale dell’iniziativa, lo conferma un comunicato di NTV, l’azienda che gestisce i famosi treni “Italo”: «l’immagine che offriamo alle migliaia di turisti», dice la nota, riferendosi ai mendicanti che chiedono l’elemosina alla stazione, «è una brutta cartolina del nostro Paese». E lo certifica anche il Sindaco di Firenze Dario Nardella, quando afferma che i rom «provocano un grave danno d’immagine alla città».

Insomma: se vogliamo rilanciare l’economia delle nostre città d’arte, se vogliamo valorizzare il patrimonio culturale e artistico del paese, bisognerà prendere iniziative che invitino a visitare l’Italia, che la presentino come un luogo attraente e pulito. E si dovranno, dunque, allontanare gli “straccioni” che ci fanno fare brutta figura nel mondo.

È per questo che la Prefettura, la Questura e il Comune, in accordo con l’azienda che gestisce la stazione ferroviaria, hanno preso il provvedimento che ha fatto tanto discutere: l’accesso alle biglietterie è stato transennato, e i mendicanti sono stati allontanati dalle forze dell’ordine. Ne ha parlato mezza Italia, e non staremo qui a dare per l’ennesima volta la notizia: ci interessa piuttosto soffermarci sull’impatto reale che una cosa del genere può avere sull’economia turistica delle nostre città.

Il turismo in crisi
Partiamo da un dato di fatto: non è un mistero che il turismo in Italia stia vivendo una drammatica fase di crisi. Ce lo dicono le cifre dell’organizzazione mondiale per il turismo (Unwto), che mostrano un crollo spaventoso del settore. Nel 1950 la quota di viaggiatori che sceglievano l’Italia per le loro vacanze era del 19%: nel mondo, dunque, un turista su cinque visitava il nostro paese. La cifra è scesa al 7,7% nel 1970, e al 6,1% nel 1990. Il picco negativo è stato raggiunto l’anno scorso (2013), quando la percentuale è crollata al 4,4%. Siamo passati da un turista su cinque a uno su ventitrè…

Si dirà: colpa della crisi economica. La gente non ha più soldi e viaggia sempre meno. Non è vero. Secondo un recente studio della Coldiretti, nel 2013 l’intera Europa ha registrato un incremento del +5% di flussi rispetto all’anno precedente. E il turismo, a livello globale, è uno dei pochi settori a non essere toccato dalla crisi. Tra l’altro, paesi in gravissima difficoltà economica hanno registrato incrementi significativi nel 2013: la Grecia il +13,2%, il Portogallo +7,1%.

Le ragioni del crollo…
Quali siano le ragioni del crollo, provano a spiegarcelo alcune inchieste dettagliate e ben fatte. Va detto che l’argomento è complesso, e i fattori sono tanti: vediamo di elencarne alcuni. La già citata indagine Coldiretti, ad esempio, ci spiega che l’Italia è la meta più costosa del Mediterraneo: qui da noi, alberghi e ristoranti costano il 10% in più rispetto alla media europea. Sempre a paragone con la media continentale, in Spagna si spende il 9% in meno, in Grecia -12%, Portogallo e Croazia viaggiano attorno a -20%, e così via.

Ma è soprattutto la qualità dell’offerta che lascia a desiderare. In proposito, un recente dossier del Touring Club (ben sintetizzato da Gian Antonio Stella sul Corriere) è letteralmente impietoso: prezzi alti, servizi scadenti e sciatti, scortesia diffusa, scarsa conoscenza delle lingue straniere da parte degli operatori. E poi musei e negozi chiusi nei giorni festivi, poca cultura dell’ospitalità, informazioni non chiare o inaccessibili. Infine, incapacità di innovare l’offerta: «come se tutto ci fosse dovuto», dice Stella, «in quanto “Paese più bello del mondo”». Per non parlare di Pompei che cade a pezzi (e stendiamo un velo pietoso).

… e i bidoni
Per chiudere questo simpatico quadretto, bisogna aggiungere che l’Italia è notoriamente il «paese dei bidoni». Soprattutto nelle città d’arte. Dove – è la notizia di questi giorni – tre gelati possono costare 42 euro (è successo a Roma). Dove un giro in gondola, nella romantica Venezia, può costare al turista straniero il doppio del dovuto (è accaduto pochi mesi fa). Dove per due lattine di coca e un caffè si rischia di spendere venti euro (è accaduto giusto giusto a Firenze, l’anno scorso, e l’ha denunciato lo scrittore Fabio Volo).

Queste cose i turisti le sanno, e grazie a internet e ai social network le notizie girano. Solo qualche anno fa, i quotidiani giapponesi lanciarono una vera e propria campagna contro lo Stivale, accusato di truffe ai danni dei visitatori stranieri, di prezzi insostenibili, di servizi scadenti, insomma delle cose che sappiamo e che sono sotto gli occhi di tutti.

Cosa c’entrano i rom?
Già, ma cosa c’entrano, in tutto questo discorso, gli “zingari”? Qui la faccenda è un po’ complicata, perché per un verso i rom – poveretti – non c’entrano nulla, per un altro verso sono loro i protagonisti di questa storia. Prima di spiegare il perché, partiamo da una domanda: cosa si dovrebbe fare per risollevare dalla crisi il settore turistico?

Come sempre, servirebbero risposte politiche complesse, articolate, multidimensionali. Bisognerebbe investire nella formazione degli operatori, nell’innovazione dell’offerta, nella competitività del sistema. Bisognerebbe aver cura del nostro patrimonio storico e artistico, vera e propria miniera d’oro su cui siamo seduti. Andrebbe avviata una politica dei prezzi che tenga conto dello straordinario valore delle nostre città d’arte, ma anche della ragionevolezza e dell’equità: tre gelati non possono costare 42 euro. E i nostri alberghi non possono essere i più cari del Mediterraneo…

Ma tutto questo è difficile, troppo difficile. Chi amministra la cosa pubblica è abituato a risposte semplici e schematiche, da dare in pasto a giornali e TV. E quindi, invece di avviare una discussione sulla crisi del turismo, si lancia un’iniziativa di sicuro effetto: cacciare gli “zingari”, i mendicanti, gli accattoni, gli “straccioni”. Prendersela con i poveri, si sa, funziona sempre. E non costa nulla.

Intendiamoci. Che molti turisti siano “infastiditi” dalle richieste di elemosina, è assai probabile. Il mendicante che chiede spiccioli alla Stazione non è – da che mondo è mondo – un “problema di sicurezza” (siamo seri, per favore!), ma può essere sicuramente motivo di fastidio: perché ti chiede soldi mentre stai cercando di capire come funziona quella maledetta biglietteria automatica che non ti ha dato il resto, perché magari insiste un po’ troppo, perché per dargli gli spiccioli dovresti cercare nelle tasche e hai altro da fare. O perché ti ripete in modo ossessivo che ha bisogno di denaro, mentre tu di denari ne hai già dati troppi a Trenitalia, al tassista, all’albergatore, al barista, al cameriere…

Insomma, per i mille motivi che sappiamo, un mendicante può essere fastidioso: è, comunque, meno molesto di un gelataio che esige 42 euro per tre coni striminziti. E però, siccome si vogliono “attrarre i turisti” senza irritare troppo i gelatai, la cosa più semplice da fare è prendersela coi soliti noti, i rom (invece che con i gelatai).

Ora, al di là di considerazioni etiche che tanto non ascolta più nessuno, il dubbio è che una strategia del genere non funzioni. Perché, certo, il turista sarà contento di avere i questuanti fuori dai piedi. Ma quando avrà visto i prezzi (e la qualità) dei treni, degli alberghi e dei gelati, è probabile che scappi a gambe levate dall’Italia. Vorrà dire che il prossimo anno gli spiegheremo che anche il gelataio, in fondo in fondo, è “zingaro”. E al prossimo gelato da 42 euro, sgombereremo un altro campo rom.

Sergio Bontempelli

Roma e i rom: si cambia verso?

Sergio Bontempelli ha postato questa ricostruzione dell’incontro tra il sindaco Marino e l’associazione 21 luglio da anni molto coinvolta nel sostenere i diritti dei sinti e i rom in contrapposizione, spesso durissima, con le varie amministrazioni che si succedono e ne far fronte a denunce puntuali e documentate su gesti di razzismo e intolleranza nei loro confronti

personalmente si dice molto soddisfatto per come si è svolto questo incontro, anzi per il fatto stesso che si sia tenuto questo incontro, segno di disponibilità e buona volontà: è il caso di dire: staremo a vedere, o ‘se son rose fioriranno’, lo speriamo molto:

Rom, la “svolta” di Marino

marino

 

L’Associazione 21 Luglio è stata, in questi mesi, una vera e propria spina nel fianco per il primo cittadino della Capitale, Ignazio Marino: il medico prestato alla politica, infatti, è stato più volte accusato di violare le garanzie più elementari delle persone rom e sinte. Cosa che non deve aver fatto piacere a un uomo conosciuto proprio per la sua sensibilità al tema dei diritti civili delle minoranze.

Per il gruppo animato da Carlo Stasolla, però, i ripetuti sgomberi dei campi (diciassette da settembre ad oggi, con una media di uno ogni quindici giorni) sono stati effettuati violando le normative internazionali in materia di diritto all’abitare. E la struttura di accoglienza per rom e sinti di Via Visso, progettata dalla passata amministrazione ma mantenuta in vita dalla giunta Marino, rappresenta – sempre secondo la “21 Luglio” – una forma di segregazione abitativa: un luogo riservato ad un solo gruppo etnico, per di più sprovvisto degli standard minimi di abitabilità e di sicurezza. Le accuse mosse dall’associazione alla Giunta Marino, insomma, sono tutt’altro che tenere.

È per questi  motivi che l’incontro tenutosi Sabato pomeriggio al Campidoglio rappresenta, o può rappresentare, una svolta nelle politiche capitoline in materia di rom. Già, perché il Sindaco ha deciso di parlare faccia a faccia con i suoi “contestatori”, di ascoltarne le ragioni e di capire il loro punto di vista.

Alla Sala delle Bandiere, sabato, c’erano proprio tutti. Ignazio Marino era accompagnato dal vicesindaco Luigi Neri, dal Comandante della Polizia Municipale e da diversi consiglieri comunali. Dal canto suo, la delegazione della 21 Luglio era composta dai dirigenti dell’associazione, ma anche da un nutrito drappello di rom provenienti dai principali campi della città, nonché da esperti del settore: architetti, urbanisti, sociologi, studiosi di “buone pratiche” locali per l’integrazione dei rom e dei sinti.

L’incontro, rigorosamente a porte chiuse, si è protratto per diverse ore, ed ha assunto la forma di un vero e proprio “seminario di studi”: i tecnici della 21 Luglio, muniti di presentazioni powerpoint, hanno illustrato la condizione dei rom e dei sinti nella Capitale, e hanno formulato proposte e ipotesi per il superamento dei “campi nomadi”. E gli amministratori – Sindaco, assessori e consiglieri – hanno preso appunti, hanno ascoltato, hanno fatto domande, chiesto chiarimenti, sollevato obiezioni. Il Campidoglio, insomma, è stato il teatro di una sorta di “lezione universitaria”, con degli “studenti” sicuramente un po’ insoliti…

Circa i contenuti concreti emersi nella discussione, le bocche, all’indomani dell’incontro, sono cucite. Ma la soddisfazione trapela da entrambe le parti. «È stata una riunione molto utile e concreta» – ha dichiarato Marino alle agenzie – «basata su un dialogo aperto e, soprattutto, propositivo. Abbiamo analizzato la situazione dei Rom, Sinti e Camminanti a Roma e ci siamo confrontati sulle buone prassi da mettere in campo, prendendo come esempio gli altri Paesi Europei, per allineare Roma sulla strada dell’integrazione e dell’inclusione sociale nel rispetto dei diritti di tutti e della legalità. Sono convinto che sia l’inizio di un ottimo cammino che faremo insieme per migliorare il volto della città».

Di analogo tenore il commento di Carlo Stasolla: «Siamo soddisfatti che il sindaco Marino voglia iniziare a prendere in mano la cosiddetta “questione rom”. Il nodo centrale resta il superamento dei “campi nomadi” e per questo obiettivo prioritario e urgente occorre l’impegno di tutti, delle autorità locali, dell’associazionismo e delle comunità rom. Adesso alle parole dovranno seguire i fatti e l’Associazione 21 Luglio è pronta a fare la sua parte».

È ancora presto per sapere se questo incontro produrrà effetti concreti nelle scelte del Campidoglio. E del resto, i nodi da sciogliere sono tanti: la “21 Luglio” chiede di superare i campi, di avviare una vera e propria politica abitativa, di sospendere gli sgomberi indiscriminati e senza tutele. In una parola, chiede di voltare pagina rispetto a venti anni di politiche capitoline in materia: non proprio una robetta da niente.

Intanto, però, sembra essersi rotto un tabù. Quasi sempre, le politiche locali in materia di rom e sinti sono promosse senza alcuna consultazione con gli interessati: sono politiche fatte “per” i rom, “sulla pelle” dei rom, in assenza dei rom. Almeno in questo caso, i rom, i sinti, le associazioni hanno trovato ascolto. Vedremo cosa accadrà.

Sergio Bontempelli

risolvere i problemi dei rom … mandandoli via!

Ancora sgomberi a Pisa: due famiglie rom allontanate da Coltano

sembra un vizio non solo di amministrazioni ‘cattive’ di destra insensibili alla valorizzazione e al rispetto delle minoranze  culturali e ai problemi umani spesso legati ad esse perché represse o marginalizzate, ma anche di quelle ‘buone’ che celebrano ‘giornate della memoria’ e che organizzano dibattiti pubblici sui diritti umani e che progettano soluzioni abitative ‘per loro’, magari prescindendo da un ‘loro’ effettivo coinvolgimento essendo il vero motivo degli interventi non i ‘loro bisogni ma la nostra esigenza di operare delle migliorie per darci una buona coscienza ed eliminare le brutture più grosse per esibire una immagine di sé politicamente più accettabile, quando proprio non ci sia sotto, velatamente, un intento di assimilazione presentata come ‘inserimento’ e altre belle parole …

un intervento di ‘moduli abitativi’ per i rom di Coltano, molto pubblicizzato ed elogiato, presentato da molti come un tipo di soluzione ideale per comunità rom (anche se più che a politici o uomini delle istituzioni che poco o nulla conoscono i rom, le loro abitudini, il loro modo di organizzare la vita , è ai rom stessi che andrebbe chiesta una valutazione sulle soluzioni progettate per loro) è stato messo in atto dal comune di Pisa: peccato però che chi non accetta ‘a scatola chiusa’ tale soluzione non trova altra proposta che l’essere mandati via: sta succedendo proprio questo  a due famiglie (qui sotto la solidarietà di chi le conosce molto bene)

Il comunicato di Africa Insieme e Rebeldia e la solidarietà di p. Agostino Rota Martir che ha rischiato lui stesso di essere allontanato

Ci risiamo. Ancora una volta, la politica del Comune sui rom assume un solo e unico volto: quello degli sgomberi. Con un intervento effettuato la scorsa settimana, infatti, la Polizia Municipale ha notificato un’ordinanza di allontanamento a quattro nuclei familiari del campo di Coltano.

Come noto, l’insediamento di Coltano è diviso in due aree: da un lato il “villaggio”, con le famose “casette” assegnate ai rom; dall’altro il “campo”, dove abitano famiglie che non sono rientrate nell’area attrezzata. Da mesi si discute del destino di questa seconda area. Oggi l’amministrazione ha dato la sua risposta: quattro nuclei verranno sgomberati, ma solo a due di questi è stata proposta una dignitosa soluzione abitativa. Le altre famiglie – nelle quali vi sono anche bambini – dovranno allontanarsi. 

Ci risiamo, dunque: l’amministrazione comunale ripropone la consueta strada degli anni passati. Nel frattempo, il mondo intorno a noi è cambiato. L’Italia si è dotata di un programma nazionale denominato “Strategia di Inclusione”, che chiede di interrompere la spirale perversa degli sgomberi, e di avviare progetti di inserimento abitativo.

La Regione Toscana ha creato tavoli di lavoro con gli enti locali per trovare soluzioni abitative e per scongiurare gli sgomberi forzati. Vi sono fondi europei stanziati per progetti validi e innovativi, e già alcune città toscane hanno avuto accesso a questi fondi. Il Comune di Pisa non ha presentato alcun progetto ed è oggi il fanalino di coda delle politiche sociali sui rom, sia a livello regionale che nazionale. 

A pochi chilometri da Coltano, un altro campo – quello della Bigattiera – ha suscitato aspre polemiche nei mesi scorsi. Una mozione del Consiglio Comunale obbligava il Sindaco a ripristinare l’erogazione della luce elettrica e dell’acqua corrente, e a garantire il trasporto scolastico dei bambini [per il testo della mozione e il dibattito in aula si veda l’apposita pagina sul sito del Consiglio Comunale di Pisa]. Oggi, a quasi sei mesi di distanza, nulla si è mosso, e quella comunità continua ad essere priva dei servizi essenziali.

Un recente dossier dell’Associazione 21 Luglio – una delle più note organizzazioni internazionali di tutela dei diritti umani – inserisce Pisa tra le città dove più frequentemente sono violati i diritti dell’infanzia rom. Non è proprio un bel biglietto da visita per un Sindaco che si definisce “amico dell’infanzia”… 

Ancora una volta, ci troviamo a proporre la soluzione più semplice. Si revochi l’ordinanza di sgombero, e si apra un tavolo di lavoro con le famiglie interessate, con la Regione e con le associazioni, per trovare soluzioni condivise e rispettose dei diritti fondamentali. E’ davvero così difficile farlo? 

Africa Insieme / Progetto Rebeldia 

Pisa, 29 Gennaio 2014

bambino rom

 

Le 2 famiglie Rom di Coltano a rischio di allontanamento

La chiusura di uno spazio, quello che rimane del campo Rom di Coltano, può essere una scelta legittima e necessaria e questo compete giustamente al Comune, ma è importante farlo offrendo a chi lo abita delle alternative percorribili, come recita tra l’altro la “Strategia Nazionale d’inclusione dei Rom e Sinti” della Commissione Europea del 2011, sottoscritta anche dal Governo Italiano. 

Le famiglie Rom in questione (di fatto solo 2) in questi ultimi anni si sono trovate a vivere una situazione di emergenza, e forse le colpe sono da ripartire tra le diverse parti in causa e non solo verso i Rom. Sta di fatto che le 2 famiglie Rom hanno dimostrato di saper vivere nel rispetto delle regole fondamentali: ogni giorno accompagnano i loro figli a scuola (non potendo usufruire del servizio scuolabus del campo) e i genitori sono impegnati duramente ogni giorno nella raccolta del ferro per il mantenimento delle loro famiglie. Credo fermamente meritino che gli venga data un’altra chance, il loro allontanamento alla cieca provocherebbe un’ulteriore ferita che si aggiunge ad altre. 

Gli esseri umani non sono da considerarsi degli scarti, ce lo ricorda spesso e in varie occasioni papa Francesco e il suo stile ci entusiasma:

“Al contrario, un abbassamento di dieci punti nelle borse di alcune città, costituisce una tragedia. Uno che muore non è una notizia, ma se si abbassano di dieci punti le borse è una tragedia! Così le persone vengono scartate, come se fossero rifiuti.

Questa “cultura dello scarto” tende a diventare mentalità comune, che contagia tutti.” (5 Giugno 2013) 

Anche il sottoscritto era destinatario della stessa ordinanza di allontanamento dal campo Rom, sono riconoscente all’Assessora Sandra Capuzzi per la sua comprensione, di fatto “graziandomi” offrendomi una alternativa percorribile e condivisa. Auspico che venga offerta anche a queste 2 famiglie Rom la possibilità di definire un percorso condiviso, anche per non aggravare ulteriormente la loro esistenza, soprattutto per il bene dei loro figli, evitando di fatto di sentirsi degli scarti, come dei rifiuti da spazzare via..ne vale veramente la pena? 

don Agostino Rota Martir

 campo Rom di Coltano – 30 gennaio 2014  

gli ‘zingari’ e i nostri stereotipi

 

«Così educata, non sembra proprio zingara»

riproduco qui una bella pagina che nei giorni scorsi Sergio Bontempelli ha pubblicato nel suo sito: il racconto, più o meno, di un’ordinaria giornata nella quale percepiamo e respiriamo in abbondanza le precomprensioni e i pregiudizi o stereotipi attraverso i quali ci rapportiamo agli ‘zingari’ che presumiamo di racchiudere tutti entro precisi atti, comportamenti, atteggiamenti, stili di vita e in base a questi identificarli con certezza, valutarli e condannarli:”I rom, quelli veri e in carne ed ossa, non sono come li immaginiamo. Come dice un mio amico sinto, «se vuoi davvero sapere chi siamo, devi conoscerci uno a uno, perché i sinti non sono tutti uguali». E’ una verità semplice, questa. Ma chissà perché, quando si parla di rom, anche le cose banali diventano complicate da vedere e da capire”

Donna rom che chiede l'elemosina

 

Per un attivista che “si occupa di rom” – come si usa dire – il posto più difficile da frequentare è il bar. Perché se tieni una conferenza, o se entri in una scuola a discutere coi ragazzi, hai tempo e modo di articolare un discorso. Provi a decostruire pregiudizi e stereotipi, e i tuoi uditori ti ascoltano in silenzio. Lo vedi che sono scettici, che non credono a quel che dici: ma almeno ti guardano con il rispetto che si deve all’«esperto».
Al bar no. Al bar, davanti a un cappuccino caldo, tutti sono “esperti”, soprattutto dell’argomento “zingari”. «Te lo dico io, non si integrano, vivono di furti e di illegalità». Le tue statistiche e i tuoi studi non contano nulla. «Puoi raccontarmi quel che ti pare, ma io li conosco, l’altro giorno mi sono entrati in casa e hanno rubato l’argenteria di famiglia…». Stop. Fine del ragionamento.

Come si distingue un rom?
Ecco, fuori dal bar il discorso sull’argenteria sarebbe interessante da approfondire. Ti hanno rubato in casa, e tu hai visto il ladruncolo mentre scappava. Era uno “zingaro”, dici: ma come fai a saperlo? Con quale criterio distingui un rom? Lo riconosci dal colore della pelle, dai tratti somatici, dall’aspetto? Impossibile, perché tra i rom ci sono i biondi, i mori e i castani, c’è chi ha la pelle chiara e chi è più scuretto, chi è alto e chi è basso…
Forse hai riconosciuto il “tipico abbigliamento zingaro”. Magari non era un ladro ma una ladra, e aveva la gonna lunga e colorata… Ora, ammesso (e non concesso) che la gonna lunga sia “tipicamente rom”, non ti viene il sospetto che la ragazza in fuga abbia usato un travestimento per sviare i sospetti? E d’altra parte, se la ladra era davvero rom perché è andata a rubare vestita in modo così riconoscibile?
Forse un buon criterio per identificare un rom potrebbe essere la lingua, ma quanti sono in grado di riconoscere una persona che parla romanes?
Al bar, però, obiezioni del genere non contano. Suonano come i sofismi di uno che ha studiato troppo. «Il ladruncolo era uno zingaro, l’ho visto coi miei occhi, cosa vuoi di più?». Stop. Fine del ragionamento.
Al bar non contano i ragionamenti, contano le storie. E allora proviamo a raccontarla, una storia. E’ una storia vera che mi è accaduta in questi giorni. E che mostra come i pregiudizi condizionino non solo le nostre idee, ma anche le percezioni, quel che “vediamo coi nostri occhi”, quel che ci sembra oggettivo e irrefutabile.

Un viaggio da manager
E’ Martedì, e come sempre vado al lavoro di buon mattino. Oggi però è un giorno speciale, devo uscire dall’ufficio un po’ prima perché parto: mi hanno invitato a tenere un ciclo di seminari proprio sull’argomento rom, a Udine. Per arrivare dalla mia Toscana al lontano Friuli devo fare un percorso lungo e accidentato, con tre cambi di treno: dopo il regionale da Montecatini Terme a Firenze, devo prendere l’Alta Velocità per Venezia-Mestre, quindi di nuovo un regionale che mi porta a Udine.
Armato di pazienza, comincio il mio viaggio sul regionale. Salgo, prendo posto, mi siedo e accendo il computer: devo finire le slide che mi servono per far lezione, e comincio a lavorare. Sono ben vestito (meglio del solito, almeno…), consulto libri e documenti, armeggio col mouse, prendo qualche appunto sull’Ipad e di tanto in tanto rispondo al cellulare: devo avere l’aria di uno quegli odiosissimi manager che lavorano ovunque, sul treno come in ufficio, alla fermata dell’autobus come sulla panchina al parco… Intorno a me noto occhi curiosi che mi scrutano, con un senso di rispetto misto a invidia.

La “zingara” del treno regionale…
Mentre lavoro vedo passare Maria, una ragazza rom romena che conosco di vista: di solito chiede l’elemosina sul treno, e io le do sempre qualcosa. Si avvicina e mi tende la mano per chiedere qualche spicciolo: poi mi riconosce, trasale e sorride. Col mio rumeno un po’ maccheronico le chiedo come sta. Mi dice che nelle ultime settimane la vita è più dura del solito, la questua non “rende” bene e lei non ha i soldi per mangiare.
Può darsi che sia vero, può darsi che sia un modo per strappare qualche spicciolo in più: per me non ha importanza, e le allungo una moneta da due euro. Lei sorride di nuovo, mi ringrazia e si siede un attimo. Continuiamo a parlare del più e del meno, le chiedo se ha programmi per Natale e lei mi dice che, finalmente, passerà le vacanze a casa, in Romania. «Fa freddo laggiù», spiega, «adesso c’è la neve». Poi si alza, saluta e se ne va.
La scenetta non è passata inosservata. I viaggiatori mi guardano attoniti. Prima sembravo un manager indaffarato, ma i manager di solito non parlano con gli zingari. Già, perché Maria sembra proprio una “zingara”: ha l’aspetto trasandato, chiede l’elemosina e porta una gonna lunga e colorata…

… e la strana ragazza sull’Eurostar
Arrivato a Firenze, corro al binario e salgo sul treno Alta Velocità, quello per Venezia. L’ambiente è decisamente diverso: qui non ci sono i pendolari, ma – appunto – i manager indaffarati. Rispondono al telefono e li senti parlare di bilanci, di contratti, di accordi commerciali da perfezionare, di meeting da organizzare. La voce dell’altoparlante invita a gustare le prelibatezze del bar al centro del treno: fuori dal finestrino, le gallerie si alternano ai paesaggi delle montagne toscane. Cullato dal treno, mi addormento.
Dopo poco più di mezzora siamo a Bologna. Sale una ragazza giovanissima e si siede accanto a me. E’ vestita elegante ed è truccata con molta cura. Saluta il fidanzato dal finestrino e gli manda un bacio romantico, uno di quelli “soffiati” sul palmo della mano… Poi, quando il treno riparte, si mette a sfogliare una rivista.
Nel bel mezzo del viaggio le squilla il cellulare. Si mette a conversare al telefono e sento che non è italiana: parla una lingua che non riesco a identificare. Frequentando gli immigrati, mi sono abituato a sentirne tante, di lingue: ovviamente non le capisco, ma sono in grado di distinguere un albanese da uno slavo, un rumeno da un ucraino, un russo da un georgiano. Ma la ragazza proprio no, non capisco da dove viene. La ascolto con attenzione e mi pare di sentire qualche parola in romanes. Però no, non può essere rom: non ne ha l’aspetto, non parla con la tipica gestualità “alla zingara”, non è vestita da rom… E poi, si è mai vista una rom sul treno ad Alta Velocità?

La romnì «invisibile»
Mentre cerco di identificare la provenienza della ragazza, mi squilla il telefono. E’ un amico senegalese che ha problemi con il permesso di soggiorno. Gli fornisco qualche consiglio, poi gli dico di passare al mio ufficio: l’argomento è delicato, ed è bene capire la situazione controllando di persona documenti e carte.
Quando riaggancio mi accorgo che la ragazza mi sta guardando. «Ma tu sei un avvocato?», mi chiede. Le rispondo che no, non sono avvocato, lavoro per i Comuni e mi occupo di permessi di soggiorno. Mi spiega che suo padre ha problemi con i documenti, e mi chiede consigli. Scopro così che la ragazza è macedone. Ma qualcosa non torna.
Conosco bene la lingua macedone. Voglio dire, non la parlo e non la capisco, ma la riconosco quando la sento. E la ragazza no, proprio non parlava macedone. Nei Balcani ci sono consistenti minoranze albanesi, ma lei non parlava neanche albanese. Non riesco a vincere la curiosità, e mi faccio avanti: «ma che lingua era quella al telefono?». La ragazza trasale, ha un momento di imbarazzo e farfuglia: «no, non era macedone… la mia lingua è…». Si ferma un attimo. Si vede che non sa proprio come dirmelo. «Ecco, in casa parliamo una specie di… di lingua sinta…».
«Una specie di lingua sinta» significa che la ragazza parla romanes. E’ una romnì macedone («romnì», per chi non lo sapesse, è il femminile di «rom»). Provo a sciogliere il suo imbarazzo, le dico che ho molti amici rom che vengono proprio dalla Macedonia. Ci mettiamo a parlare, e scopro che la ragazza abita a Bologna, ma il fidanzato è un sinto di Pisa, la mia città. Facciamo amicizia e alla fine ci scambiamo i numeri di telefono. «Se mi sposo a Pisa ti chiamo e vieni alla mia festa di matrimonio».

La morale della favola
La “morale” di questa piccola storiella ci riporta alle conversazioni da bar di cui si parlava prima. Crediamo tutti di sapere chi sono gli “zingari”, e come sono fatti. Chiunque è (crede di essere) in grado di riconoscere un rom, o una romnì. E su questa percezione intuitiva costruiamo i nostri discorsi: «tutti i nomadi chiedono l’elemosina, nessuno lavora» (come se l’elemosina fosse una cosa orribile, e non un lavoro come gli altri: ma questo è un altro discorso, e ci porterebbe lontano…). «Io li ho visti, rubavano i portafogli ai passanti». «Ero sull’autobus e c’era una nomade che non aveva pagato il biglietto: non ce n’è una che rispetti le regole…». E gli esempi potrebbero continuare.
Non pensiamo mai che quel che vediamo è anch’esso frutto di pregiudizi. Non ci viene in mente che il nostro educato vicino di casa, che incontriamo sull’ascensore al mattino, potrebbe essere rom. Sul treno, non ho pensato che la mia “compagna di viaggio”, elegante e ben vestita, era una romnì macedone.
I rom, quelli veri e in carne ed ossa, non sono come li immaginiamo. Come dice un mio amico sinto, «se vuoi davvero sapere chi siamo, devi conoscerci uno a uno, perché i sinti non sono tutti uguali». E’ una verità semplice, questa. Ma chissà perché, quando si parla di rom, anche le cose banali diventano complicate da vedere e da capire.

Sergio Bontempelli

sgombe-rom di S. Bontempelli

 

sgomberom

Anche nei paesi di origine si praticano quotidianamente sgomberi e allontanamenti forzati. La denuncia di Amnesty

 Ruspe in azione: una ditta ha acquistato un terreno per costruirvi un centro commerciale, e le precarie abitazioni che punteggiano l’area devono essere demolite. I mezzi pesanti buttano giù i muri, portano via i detriti e si accaniscono sugli effetti personali degli abitanti.
In quegli alloggi risiedevano stabilmente una trentina di famiglie rom: circa 150 persone, molte delle quali minorenni. Che ora si ritrovano in mezzo a una strada: nessun assistente sociale ha fornito a questa piccola comunità una qualche soluzione alternativa, e il Comune, più volte sollecitato, ha fatto orecchie da mercante.
Potrebbe essere la descrizione di uno dei tanti sgomberi che avvenivano – e avvengono tuttora – in molte città italiane. Potremmo essere a Roma, nei quartieri della periferia capitolina. O a Milano, in qualche terreno occupato dai rom romeni. O ancora a Bologna, nei campi lungo il fiume Reno.
E invece no, non siamo in Italia. Siamo nella capitale dell’Albania, Tirana, nell’area chiamata Rruga Kavaja. I rom sgomberati – tutti albanesi “autoctoni” – sono finiti in mezzo a una strada, nonostante le proteste delle Ong e la denuncia di Amnesty International. Proprio come accadeva – e accade tuttora – in Italia.
Gli sgomberi forzati non sono una peculiarità del Belpaese. E il caso di Rruga Kavaja non è un’eccezione nemmeno nei territori dell’Est Europa, dove i rom sono una minoranza numericamente importante. Amnesty International ha recentemente pubblicato un dettagliato rapporto sul fenomeno degli sgomberi forzati in Romania, paese di origine di molti rom immigrati in Italia (qui il testo).
I romeni più anziani ricordano ancora le folli politiche di Ceausescu, che negli anni ’70 varò il cosiddetto “programma di sistematizzazione”: interi villaggi, soprattutto nelle aree rurali, dovevano essere cancellati, e la popolazione trasferita nelle metropoli, o comunque nelle città più grandi. L’obiettivo era l’urbanizzazione della società rumena e la sparizione dei piccoli borghi di campagna. Secondo alcune stime, furono demoliti almeno 500 villaggi, e migliaia di persone furono costrette a traslocare nei “blocuri”, i casermoni fatiscenti delle periferie urbane.
Quelle vicende appartengono al passato (per fortuna). Eppure, anche oggi la Romania promuove trasferimenti forzati di popolazione: le vittime non sono più i contadini romeni, come ai tempi di Ceaucescu, ma le minoranze etniche. Soprattutto, manco a dirlo, i rom.

Emblematico è il caso di Baia Mare, capoluogo del distretto di Maramureş nella regione storica della Transilvania. Qui, nel sobborgo di Craica – il “quartiere rom” della città – circa 500 persone sono state allontanate con la forza: le loro case sono state demolite dalle ruspe, proprio come accade in Italia, e gli abitanti sono stati trasferiti nell’ex area industriale di Cuprum, all’esterno della cinta urbana.
«Al momento dello sgombero dell’insediamento di Craica», denuncia Amnesty, «gli edifici di Cuprum non vennero adattati ad un uso residenziale. A ciascuna famiglia furono assegnate una o due stanze, senza riscaldamento e con strutture igienico-sanitarie fatiscenti. I servizi igienici erano in comune, e ciascun bagno era condiviso da almeno 20 persone. Non c’erano cucine, e i rom dovevano improvvisare la preparazione dei cibi in camera da letto».
Lo sgombero a Craica è avvenuto in varie tappe, ma il ciclo più intenso di demolizioni e trasferimenti si è registrato tra Maggio e Giugno del 2012: guarda caso, proprio nel periodo della campagna elettorale per le amministrative. Il Sindaco Cătălin Cherecheș, esponente del centro-destra ed ex deputato, doveva farsi rieleggere, e gli “zingari” sono sempre un buon argomento per chi è a caccia di consensi. Il 10 Giugno, gli elettori hanno premiato l’intraprendenza del primo cittadino, regalandogli una rielezione con l’86 dei voti: una percentuale che, se non fossimo in Romania, potremmo definire bulgara…

Secondo dati diffusi recentemente da Amnesty International, in Romania vivono 1 milione e 850.000 rom, che rappresentano l’8,63 per cento della popolazione totale. L’80 per cento vive in condizioni di povertà, e quasi il 60 per cento risiede in “comunità segregate” senza accesso ai servizi pubblici essenziali. Il 23 per cento delle famiglie rom (su una media nazionale del 2 per cento) subisce multiple privazioni relative all’alloggio, tra cui il mancato accesso a fonti d’acqua potabile e a servizi igienico-sanitari.
E’ in questo quadro che va collocato il fenomeno degli sgomberi forzati. Le comunità rom abitano per lo più nei sobborghi poveri delle grandi città, o in villaggi rurali segregati dal contesto circostante. Questi insediamenti esistono da tempo, e molte famiglie vi abitano da decenni (a volte addirittura dal periodo socialista): spesso, però, non hanno titoli di proprietà formalizzati. Così, può accadere che una multinazionale, o un grande proprietario, acquistino un terreno o un villaggio, e i rom da un giorno all’altro diventino “abusivi” da cacciare e allontanare.

Perché è importante tutta questa storia? Perché spesso, in Italia, sentiamo parlare di sgomberi di rom stranieri. E alla domanda “dove vanno le famiglie sgomberate?” segue invariabilmente il ritornello “in Italia sono ospiti, che se ne tornino a casa loro”.
Ecco, è giusto sapere che le discriminazioni esistono ovunque, anche nei paesi di origine. E che “gli zingari” sono considerati stranieri un po’ dappertutto. Anche «a casa loro».

Sergio Bontempelli

aboliamo il reato di clandestinità

 

barbone

 

Corriere Immigrazione rilancia la petizione di Famiglia Cristiana.

Sergio Bontempelli, di Pisa, ne approfitta per intervistare in modo intelligente il direttore del settimanale cattolico Famiglia Cristiana:

Dal pacchetto sicurezza al pacchetto accoglienza. E’ la proposta lanciata proprio in questi giorni dal settimanale cattolico. In redazione ne abbiamo parlato e ci siamo trovati d’accordo sull’opportunità di questa iniziativa. Soprattutto in un momento come questo, in cui della Bossi-Fini e dei suoi obbrobri originali e derivati (il pacchetto sicurezza, per esempio), non si parla più. Abbiamo deciso quindi di sostenerla apertamente, attraverso il giornale, e invitiamo i nostri lettori e sostenitori a fare altrettanto (Corriere Informazione)

Bontempelli intervista don Sciortino:

Come e perché è nata questa iniziativa?
«Da tempo ci occupiamo degli immigrati che arrivano o che vivono nel nostro Paese a fronte di una politica che non sa o non vuole governare questo fenomeno. Anzi, l’ha affrontato nel modo peggiore, affidandolo a una forza politica, la Lega, che ha lucrato consensi elettorali sulla pelle di questi “poveri cristi” la cui unica colpa è d’essere nati nel “posto sbagliato” della terra.
In questi anni, abbiamo contestato leggi e provvedimenti ispirati più dal principio dell’indesiderabilità e dell’esclusione che dell’accoglienza e dell’integrazione, sia pure nel rispetto della legalità e della sicurezza. Gli stranieri, che oggi in Italia sono circa sei milioni, non sono solo una “scomodità” e un problema, sono soprattutto una grande risorsa economica e demografica di cui l’Italia non può fare a meno. Basterebbe adottare una politica più umana, più civile e, per chi crede, anche più cristiana».

C’è un nesso c’è tra questa iniziativa e la visita del Papa a Lampedusa?
«E’ significativo che il primo viaggio dopo la sua elezione papa Francesco abbia voluto farlo a Lampedusa, “periferia geografica e dell’esistenza”, dove arrivano migliaia di immigrati in cerca di speranza e futuro per sé stessi e le loro famiglie, fuggendo da guerre, persecuzioni, fame e carestie.
Papa Francesco ha voluto richiamare l’attenzione del mondo su questo immenso dramma, scuotere le coscienze sulle tante vittime (più di ventimila), che hanno trovato la morte nella traversata del Mediterraneo sulle carrette del mare. La sua denuncia sulla “globalizzazione dell’indifferenza” che ha “anestetizzato le coscienze” ci ha spinti a sollecitare, ancora una volta, l’opinione pubblica sul reato di clandestinità, perché sia abolito, ma anche su tutta la legislazione sull’immigrazione perché sia rivista, a cominciare dai ricongiungimenti familiari e dal riconoscimento della cittadinanza ai bambini nati e cresciuti sul nostro territorio, che sono già “italiani di fatto” e che solo una politica miope non vuole riconoscere».

Sul sito di Famiglia Cristiana sono indicati cinque validi motivi per abolire il reato di clandestinità. Uno di questi è «l’inumanità» del reato. Non le sembra un’espressione molto forte? Perché avete scelto di utilizzarla?
«Un fenomeno così complesso come l’immigrazione lo si affronta solo a partire da un principio semplice ma fondamentale: gli immigrati sono esseri umani come noi, con uguali diritti e doveri. La dignità della persona e l’uguaglianza di tutti gli esseri umani sono a fondamento della civile convivenza tra i popoli. Il mondo è una sola famiglia umana. Non possiamo discriminare nessuno in base al colore della pelle, della provenienza e del credo religioso.
Per questo non è giusto che una semplice condizione, senza che si sia commessa alcuna azione delittuosa, venga considerata un reato. Oltre tutto, prima di ogni respingimento, occorrerebbe sempre verificare chi ha diritto all’asilo umanitario e allo status di rifugiato, secondo le convenzioni internazionali che l’Italia ha firmato. Cosa che non sempre è stata fatta».

Il reato di clandestinità era stato introdotto per contenere l’immigrazione irregolare. Ma l’obiettivo non è stato raggiunto…
«Intanto vorrei ricordare che tanti nostri connazionali sono entrati in molti Paesi da clandestini prima d’essere regolarizzati. Noi abbiamo la memoria corta e dimentichiamo che un tempo gli “albanesi” o i “marocchini” eravamo noi italiani, e che da quando, nel secolo scorso, è cominciato il massiccio fenomeno migratorio, abbiamo mandato nel mondo milioni di nostri connazionali.
Il reato di clandestinità, inoltre, risponde a una logica solo di paura e di difesa, che non servono per affrontare in modo civile e solidale l’immigrazione. Sulla paura non si costruisce nulla di buono. Per ragioni politiche, in Italia si sono enfatizzate come gravissime emergenze sbarchi o ingressi di clandestini che in altre nazioni hanno affrontato e risolto con meno clamore. Vedi la Germania con i profughi delle guerre balcaniche.
I risultati del reato di clandestinità sono stati un fallimento: sono calate le espulsioni; è quasi impossibile chiedere il pagamento dell’ammenda da cinquemila a diecimila euro a poveracci entrati illegalmente nel Paese; si sono per lo più intasati i tribunali dei giudici di pace cui compete l’espulsione.
Va rivisto tutto. Il “pacchetto sicurezza” di Maroni, che chiedeva più cattiveria contro gli immigrati, va sostituito con il “pacchetto accoglienza”, con norme più umane e civili. Non dimentichiamo che diversi provvedimenti del “pacchetto sicurezza” sono stati dichiarati illegittimi o bocciati dalla Corte costituzionale e dalla Corte di giustizia dell’Unione europea».

Un’obiezione “classica” a queste posizioni è che, abolendo il reato di clandestinità, si rischia di incoraggiare flussi incontrollati di irregolari.
«Governare il fenomeno migratorio vuol dire anche intervenire e agire nei Paesi da cui partono questi flussi di disperati. Questi non lasciano i loro Paesi e le loro famiglie, rischiando spesso la vita, per fare un viaggio di piacere. Fuggono dalla miseria, dalla fame o da guerre. Un dato, questo, che spesso ci sfugge. Una più equa distribuzione delle risorse nel mondo, una più efficace cooperazione internazionale globalizzerebbero la solidarietà e la giustizia, piuttosto che l’egoismo. Altrimenti, come ricordava Paolo VI, «i popoli della fame verranno sempre a bussare alle nostre porte, alle porte del mondo dell’opulenza», e non ci saranno barriere, muri e vedette in mare che potranno fermarli e respingere».

Un’altra obiezione molto diffusa si potrebbe riassumere così: «se gli immigrati vogliono venire in Italia, lo facciano rispettando le regole». Gli irregolari, invece, entrano e soggiornano in violazione delle leggi. Monsignor Francesco Montenegro, sul sito di Famiglia Cristiana, dice invece che «essere clandestini non è una colpa». Come stanno le cose, a suo parere?
«Non si può trasformare un illecito o un’irregolarità in una colpa e in un reato. Lo dice non solo monsignor Montenegro, ma anche la Corte costituzionale che afferma che non si può punire penalmente lo straniero che si trova in “estremo stato di indigenza”. Certo, le leggi vanno rispettate, ma vanno anche riviste soprattutto se sono ispirate dal principio dell’indesiderabilità e non dell’accoglienza. Noi consideriamo gli stranieri solo come una “forza lavoro” necessaria per lo sviluppo e la crescita del nostro Paese, ma ignoriamo che hanno una loro storia personale e familiare. Vorremmo sfruttarli a “costo zero” per accrescere il nostro benessere. Ci servono ma non li vogliamo. Così rendiamo loro difficile la vita con una serie di provvedimenti xenofobi e discriminatori. E questo non è da Paese civile.

«La visita di papa Francesco a Lampedusa ha messo a nudo l’indifferenza se non l’ostilità della nostra politica nei confronti degli immigrati e del loro dramma. Indirettamente è stata una denuncia di tanti provvedimenti xenofobi. Il grido del Papa «mai più morti, per favore, nel mare» è stato una sferzata contro i respingimenti e la scarsa umanità con cui si affronta questo dramma.
Dalla destra politica si sono levate delle critiche, come la bacchettata dell’onorevole Cicchitto che ha detto al Papa di pensare a celebrare la Messa e pregare, perché governare è compito dei politici. Mi ha molto meravigliato il silenzio dei cattolici di destra che non hanno speso una sola parola a difesa del Papa. Eppure, gli stessi Lupi, Gelmini, Mauro, Formigoni… – tanto per fare qualche nome – sono più che solerti ogni volta che si tratta di correre in difesa del loro padre-padrone Berlusconi. Evidentemente, la disciplina di partito conta più del Vangelo e delle parole di verità e di misericordia. Una sudditanza vergognosa: da ciò è scaturita l’indignazione».

Che reazioni sta suscitando la campagna?
«Ha avuto un impatto molto positivo. Hanno aderito e continuano a farlo molte persone, gruppi e movimenti, cattolici e non. Speriamo di coinvolgerne ancora di più».

Come si può contribuire alla campagna? Cosa possono fare associazioni, volontari, parrocchie o singoli cittadini?
«Si può contribuire alla nostra iniziativa intanto firmando l’appello sul sito famigliacristiana.it e poi rilanciando la petizione anche tramite Facebook e Twitter invitando amici, gruppi e conoscenti a fare altrettanto. Più se ne parla e più firme raccogliamo, più possibilità abbiamo per abolire il reato di clandestinità e rivedere la legislazione sugli immigrati».

Sergio Bontempelli

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