i cambiamenti che attende la nostra chiesa

una chiesa per il futuro: questioni e segnali

di Francesco Cosentino

vangelo chiesa

Sono gli eventi quotidiani di un tempo che cambia continuamente a riportare a galla, di tanto in tanto, l’evidente crisi della fede che segna il vissuto delle nostre società occidentali, insieme al diffuso sentimento di indifferenza religiosa e di distanza dall’istituzione ecclesiale che si respira ormai in mezzo a noi.

Come brace sotto la cenere, però, emerge anche la forza del Vangelo, anche se lo fa con lo stile che gli è proprio: sotto traccia, con la mitezza di un fiume carsico che scorre lento, nella forma del lievito e del seme. E si tratta di spunti, di stimoli e di riflessioni che vengono a inquietare il perbenismo della nostra religiosità innocua, per darci la sveglia.

Viene da chiedersi se l’agenda della vita ecclesiale – in Italia e altrove – sia ancora in tempo ad accogliere questo anelito di rinnovamento e di riforma che sale dal cuore della vita della Chiesa e che papa Francesco stimola e traghetta con determinazione. Ma intanto siamo qui, e vale la pena soffermarci su alcune questioni e su alcuni segnali.

Fine della cristianità

Ce ne sono molte di questioni ma, per offrire una visione sintetica, possono essere raggruppate in due tesi di fondo: la fine della cristianità e la scarsa recezione del Concilio Vaticano II.

La cristianità è finita. In ordine tempo, uno degli ultimi ad affermarlo è il filosofo Massimo Borghesi, che analizza con grande lucidità la diffidenza nei confronti del pontificato di Francesco, quella della destra neoconservatrice ma anche quella di settori più progressisti.

Di certo, l’antico mondo culturale nel quale la religione abitava a pieno titolo, plasmando la coscienza personale e collettiva e influenzando le istituzioni e le forme del vivere sociale, è definitivamente tramontato. Se Nietzsche ne fu precursore con l’annuncio de «la morte di Dio» ne La Gaia Scienza, non sono mancati anche in ambito teologico riflessioni di notevole spessore sul tema.

La novità degli ultimi tempi è rappresentata però dalla figura e dal magistero di papa Francesco che, già con Evangelii gaudium, ispira e invita a un cambio di paradigma: da un cristianesimo della resistenza a un cristianesimo dell’immaginazione. Infatti, chi presuppone un mondo, una società e un tessuto familiare e sociale ancora cristiani, di fatto resiste: pensa che, in fondo, la Chiesa e la sua pastorale abbiano bisogno solo di qualche ritocco estetico e di qualche aggiustamento formale, senza mettere in discussione le strutture e le forme del credere ecclesiale.

Papa Francesco ha un altro paradigma: una Chiesa e una pastorale audaci per una «nuova immaginazione del possibile». Lo ha indicato dall’inizio, parlando di conversione pastorale in chiave missionaria ma, a quanto pare, ampi settori della vita ecclesiale non si preoccupano di accogliere Evangelii gaudium e di farne un’ermeneutica per il rinnovamento pastorale.

Un Concilio non ancora recepito

Il Concilio Vaticano II non è stato ancora recepito. Può darsi che una tale affermazioni appaia generica e superficiale, oppure viziata da una visione polarizzata e ideologica. Al netto di questo, però, il problema rimane. Serena Noceti ne ha scritto su Concilium, affermando che Evangelii gaudium ci provoca a misurarci con la nuova visione ecclesiologica emersa nel Concilio Vaticano II: il superamento dell’eurocentrismo e la «decentralizzazione» istituzionale necessaria all’evangelizzazione e alla missione.

Ciò impone non solo dei ritocchi, ma una riforma strutturale: e – afferma la Noceti – non basta cambiare le idee o le norme, ma «deve essere ridisegnata la forma relazionale e promosso un cambiamento nell’istituzionalizzazione delle relazioni ecclesiali». Non si può sottovalutare, cioè, il livello delle strutture sociali e relazionali della Chiesa, con annesse le forme di governo e la gestione del «potere».

E su questo, è inutile girarci intorno: abbiamo il coraggio profetico di Francesco, tante buone intenzioni, ma due grandi zavorre, il clericalismo e il maschilismo. Una normativa «a imbuto» che, anche nelle questioni di vita ecclesiale e perfino in quelle di competenza laicale, pone al vertice della piramide solo chi ha il sacramento dell’ordine, con grave danno che ricade anche sui preti stessi.

E ciò produce a catena, anche quando ciò non è direttamente imputabile all’intenzione dei singoli (e proprio per questo invoca una riforma strutturale), due questioni che continuano a penalizzare di non molto la vita della Chiesa e l’immagine che offre di se stessa alla società odierna: l’esclusione dei laici e quella delle donne.

Presenza ecclesiale

Alcuni segnali non mancano e sono piccole luci nella notte dell’universo ecclesiale attuale, utili per immaginare senza paura la Chiesa del futuro.

Un primo spunto ci è offerto dalla lettera dell’arcivescovo di Torino, mons. Roberto Repole (cf. qui su Settimana News), che lascia ben intravedere uno stile e una forma di Chiesa diocesana su cui ci si vuole incamminare. L’obiettivo di fondo contiene già un elemento decisivo: ripensare la presenza ecclesiale sul territorio.

Repole afferma che occorre «prendere sempre più profondamente coscienza che la nostra società non è più “normalmente cristiana”. Eppure, noi siamo ancora strutturati – a partire dalle nostre parrocchie – nell’implicito che tutti siano cristiani».

Ne deriva un serio ostacolo all’evangelizzazione e alla missione della Chiesa che l’arcivescovo descrive con straordinaria chiarezza: nella convinzione di trovarci nel mondo «cristiano» di prima, a diversi livelli investiamo risorse in attività pastorali tradizionali che ci sembra non portino frutto, «laddove si tratterebbe di osare qualche percorso nuovo», investendo altrove.

Da qui le domande, che in realtà dovrebbero impegnare tutta la Chiesa italiana, specialmente in tempo di Sinodo:

«Dobbiamo continuare a mantenere semplicemente tutte le infinite strutture di cui beneficiamo (locali, case, chiese, oratori…) anche se invece che servire a vivere una vita cristiana ed ecclesiale autentica ed essere degli strumenti per l’evangelizzazione costituiscono un peso insopportabile…? Possiamo continuare a mantenere tutte le parrocchie, immaginando che vi si svolga tutto quello che vi si svolgeva nel passato, chiedendo ad un prete che invece di essere parroco di una comunità lo sia di diverse, senza però cambiare nulla? Come si può immaginare, facendo così, che i preti possano vivere una vita serena, possano trovare il tempo per coltivare la preghiera e la lettura e offrire un servizio qualificato, possano trovare la giusta serenità per incontrare le persone…?».

La sfida è lanciata: c’è urgenza di «ipotizzare modi nuovi di essere Chiesa nel territorio, di avanzare proposte per “cammini sperimentali”». Ciò è possibile solo nella corresponsabilità ecclesiale. Fino a che restiamo nell’imbuto di cui sopra – con il prete e i preti al vertice di tutto, solitari condottieri di una carovana di esecutori passivi – si potrà sperimentare ben poco.

Ministero inclusivo

Illuminante, in tal senso, un altro contributo di questi giorni, scritto da Assunta Steccanella. Pensando alla Chiesa di oggi e di domani, alcune divagazioni attorno alle nuove nomine e ai trasferimenti dei preti: di ciascun «don» si dice che è stato nominato qualcosa ma anche qualcos’altro. E in questo «anche» si dice tutto: «spazi da abitare, sempre più persone da curare, sempre più cose da fare, concentrate nelle mani di un numero sempre minore di soggetti, più precisamente preti».

E – finalmente una lettura che sia anche compassionevole e non solo giudicante – «la moltiplicazione dei loro incarichi, che non rallenta, li espone, quando bene, all’impossibilità di essere pastori come vorrebbero, costretti come sono a correre di qua e di là, trascurando molte cose o agendo in modo affrettato; quando va molto bene, li sottopone a un serio rischio di bornout».

Questa pastorale non ha futuro, a meno che non si dia a questo «anche» un significato diverso: «Don S. mantiene l’incarico di direttore… anche i tre ministri istituiti – la lettrice N., l’accolito P., il catechista R. – saranno corresponsabili per la vita della parrocchia». E l’autrice continua con altri esempi, immaginando altre nomine diocesane e parrocchiali in cui un prete viene nominato, ma «insieme a»: un «anche» che diventa finalmente inclusivo di ministri istituiti, catechisti, famiglie suore, laiche e laici.

Viene quasi da chiedersi, col cardinal Martini: come mai la Chiesa non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio?




il vangelo postula il continuo cambiamento delle strutture ingiuste della società

trasformare la società

«La realtà della dimensione sociale del peccato esige una conversione personale che si traduca nella lotta per la trasformazione sociale delle strutture peccaminose»

T. Mifsud

 

Ci hanno convinto dell’immodificabilità della realtà e di conseguenza della distanza di Dio dalla storia dell’uomo. Se cerchiamo la semplice sopravvivenza materiale conviene certamente prendere atto dell’esistente e adeguarsi. Si tratterà di scegliersi il posto migliore a discapito di un nostro simile trasformato in nemico. Dovremo, è vero, sopportare la fatica di difenderlo ma la legge e le armi di solito vengono in soccorso di chi sceglie il compromesso con il regime dell’iniquità. Si diventa come loro, infatti il potere ha la capacità di convincere l’uomo che il cinismo sia necessario per proteggere la propria vita e quella dei familiari. Diventiamo dei cani rabbiosi e accettiamo un criminale come padrone che ci tiene al guinzaglio in cambio di qualcosa nella ciotola. Il Vangelo predica invece che l’uomo non si realizza nella sopravvivenza, nel lasciare le cose come stanno, ma nella trasformazione della realtà*.

L’attuale assetto sociale è il frutto di logiche economico-finanziarie che rappresentano tutto il male possibile per l’uomo. Il Vangelo vive in esilio, ai margini, nelle minoranze, nei luoghi dove abitano le vittime di quelle scelte e di quei compromessi, fuori dagli spazi istituzionali, convenzionali ed ufficiali. Il Vangelo attende qualcuno che sia disposto a perdere la vita ossia la reputazione, l’approvazione di quelli che contano, l’immagine di plastica, per esistere, al contrario, secondo l’immagine autentica che Dio non impone ma che costruisce insieme a noi. Una società che si muove agli ordini del Capitale non può considerarsi cristiana anche se abitata da milioni di persone che si definiscono cristiane. Non basta una definizione per determinare la realtà che parla di oppressione e ingiustizia piuttosto che di compassione e di comunità. Di conseguenza occorrerebbe modificare la terminologia scegliendo tra: capitalisti, competitivi, selettivi, emarginatori, speculatori, indifferenti etc. Altrimenti la parola cristiano risulta o comica o ipocrita.

* “L’evangelizzazione deve calare profondamente nel cuore dell’uomo e dei popoli; perciò la sua dinamica tende alla conversione personale e alla trasformazione sociale”.

(Documento di Puebla, 362)




undici preti di Colonia chiedono cambiamenti nella chiesa – «sette orientamenti per il futuro» della Chiesa

“nella Chiesa o si cambia o si muore”

le proposte di undici preti di Colonia

 
da: Adista Notizie n° 4 del 28/01/2017

Sono solo 11 i preti dell’arcidiocesi di Colonia che hanno elaborato e firmato una lettera su «sette orientamenti per il futuro» della Chiesa, ma è significativo che appartengano a quella generazione di sacerdoti che ha iniziato lo studio della teologia nel 1961 ed è stata ordinata a partire dal 1967, quella che porta dentro di sé l’impronta di Giovanni XXIII e del Concilio Vaticano II. Undici sacerdoti che non si sono mai persi di vista («ci siamo incontrati di solito una volta al mese, abbiamo fatto insieme esercizi, corsi di formazione e viaggi»), hanno maturato un comune sentire, anche su temi di difficile condivisione nella comunità presbiterale quali il sacerdozio alle donne e il celibato sacerdotale per scelta. Ora, a 50 anni dall’ordinazione del primo prete, vogliono celebrare «la messa di ringraziamento nella Maxkirche di Düsseldorf, dove siamo stati ordinati diaconi». Aggiungendovi però la proposta di una road map per i giorni a venire che è al contempo uno sguardo deluso sul passato («ci sentivamo parte di un’avanguardia di una cristianità in rinnovamento. Purtroppo, più tardi, sono man mano aumentate le paure negli uomini di Chiesa, sia a Roma sia anche nella diocesi di Colonia») e sul presente («Il nuovo entusiasmo per il vangelo che papa Francesco vuole risvegliare con la parola-guida misericordia, sembra essere avvincente solo per pochi, finora. Questo può rendere rassegnati e stanchi»). Non si può che constatare che «la questione Dio» non ha «più nessuna importanza per molte persone nel nostro Paese»; che la “timidezza” dei cristiani «nella nostra società, nella cultura, nella politica e nell’economia» non lascia trasparire «la forza che potrebbe venire da Gesù Cristo» e che la partecipazione liturgica è deficitaria e occasionale.

Sette proposte per rivitalizzare la fede

Il primo dei sette punti indicati dai sacerdoti è la necessità di «una lingua che oggi nell’annuncio del messaggio biblico sia di nuovo comprensibile. La lingua della Bibbia deve essere messa più chiaramente in relazione alle nostre esperienze e alle nostre immagini linguistiche. Si tratta di entrare in dialogo con essa».

«Riteniamo importante – seguitano – incoraggiare le gerarchie della Chiesa a valorizzare i doni dello spirito degli uomini e delle donne e non di imbrigliarli con leggi canoniche». Ma c’è anche «urgente bisogno di coraggiosi tentativi nella questione dell’ammissione all’ordinazione. A nostro avviso non ha alcun senso continuare a pregare lo Spirito Santo di mandarci vocazioni presbiterali, e al contempo escludere tutte le donne da queste cariche».

Come anche, continuano, «abbiamo bisogno di coraggio e di fiducia sul fatto che il Signore è molto al di sopra delle nostre controversie confessionali. La partecipazione all’eucaristia e alla cena del Signore non può che essere affidata alla responsabilità dei cristiani battezzati».

La «pianificazione pastorale» deve cambiare di orientamento: «Le parrocchie molto estese sono, da ogni punto di vista, una cosa intollerabile: i fenomeni di crescente anonimizzazione e isolamento presenti nella società vengono in questo modo ulteriormente incrementati nella Chiesa, invece di essere contrastati. Bisogna che la Chiesa ci sia e che parli localmente».

E allora servono «luoghi per le comunità che fanno esperienza di fede, e cioè la Chiesa con il centro della parrocchia. La morte della parrocchia non è assolutamente preprogrammata se i fedeli in loco ci sono e vivono lì».

C’è un ultima questione dolorosa cui, sostengono gli 11 sacerdoti, occorre porre rimedio: «vogliamo parlare dell’esperienza della solitudine. Invecchiando da single, la solitudine, allora imposta per motivi di “mansione”, ora dopo 50 anni di missione, la sentiamo talvolta molto chiaramente. Il celibato, in una vita comunitaria in convento, può liberare grandi forze; invece, il “modello dell’uomo da solo” porta quest’uomo ripetutamente ad un isolamento sterile e/o un inutile eccesso di lavoro. Raramente libera una sorgente spirituale nella pastorale. Non è un caso che molti di noi hanno assunto, ma non scelto, questa forma di vita clericale solo per poter essere preti. Perfino nella Bibbia non ci sono le parole a sostegno di una legge della Chiesa in merito. Motivo di riflessione può essere una citazione della Scrittura, stimolo per una revisione a favore della vita e della comunità: “Bisogna dunque che il vescovo sia irreprensibile, marito di una sola donna…” (1Tim 3,2)».

Prima della «paura»

I firmatari sono

Wolfgang Bretschneider, Hans Otto Bussalb, Gerhard Dane, Franz Decker, Günter Fessler, Willi Hoffsümmer, Winfried Jansen, Fritz Reinery, Josef Ring, Josef Rottländer, Heinz Schmidt.

Quando lamentano la «paura» emersa anche nella loro arcidiocesi nell’era wojtyliana, il pensiero va a quell’atto (forse l’ultimo) di contestazione che fu, nel 1989, la “Dichiarazione di Colonia” (v. Adista n. 11/1989) e che fu isterilito dalla “sordità” della cupola romana e dalla “normalizzazione” sistematicamente agita da Giovanni Paolo II. La “Dichiarazione” criticava la politica vaticana delle nomine episcopali e l’atteggiamento della Curia romana verso la libertà di ricerca. Il gruppo che la lanciò comprendeva i maggiori teologi tedeschi dell’epoca, tutti figli dell’era e del dettato conciliari:

Hans Kung e Norbert Greinacher; i teologi morali Franz Boeckle, Alfons Auer e Johannes Gruendl; Heinrich Fries, Herbert Haag, Friedhelm Hengsbach, Dietmar Mieth; la teologa Catharina Halkes; Edward Schillebeecks.