il commento al vangelo della domenica

verso Dio e verso il prossimo: due facce dello stesso amore
 «Amerai il Signore tuo Dio… Amerai il tuo prossimo come te stesso»

il commento al vangelo della trentunesima domenica (4 novembre) del tempo ordinario:
 di Enzo Pacini cappellano del carcere di Prato

Mc 12,28-34

In quel tempo si avvicinò a Gesù uno degli scribi che li aveva uditi discutere e, visto come aveva ben risposto a loro, gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi». Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.

La liturgia di questa domenica ci presenta, attraverso il dialogo di Gesù con la scriba (Mc 12,28-34), il primo e più grande dei comandamenti, frutto di una lettura autorevole della legge di Mosè (Dt 6,2-6; 1a lettura) da parte del Messia, una lettura accolta e sottoscritta pienamente dal suo interlocutore. Non doveva infatti suonare affatto strana ai suoi orecchi, visto che questo comandamento risuona nella preghiera quotidiana recitata da ogni israelita, lo «Shemà Israel». Ma, come sappiamo, Gesù non è semplicemente un esegeta, uno studioso appartenente a una qualche corrente dottrinale, egli è colui che rivela dimensioni inaspettate del rapporto di fede, che riesprime in un quadro nuovo elementi della tradizione. Infatti non si tratta solo di sottolineare la plausibilità di questa affermazione; verrebbe infatti da dire: «è logico che amare Dio è più importante di tutto, non è una grande scoperta!», e invece lo è per diversi motivi.

Innanzitutto l’affermazione dello scriba per cui amare Dio val più di tutti gli olocausti e i sacrifici potrebbe sollevare qualche problema: ma gli olocausti e i sacrifici, ovvero il culto, la liturgia, non sono modalità per amare Dio? Non sono gesti di dedizione e adorazione? Non è questa la differenza fra Caino e Abele, dove quest’ultimo offre a Dio un sacrificio a lui gradito (Cf. Gen 4,1-6)? Certo è vero che anche il culto può inaridirsi nelle secche del rubricismo, anche i profeti lo sottolineano con forza: «Che m’importa dei vostri sacrifici senza numero?… Smettete di presentare offerte inutili…non posso sopportare delitto e solennità» (Is 1,11-13). Ciò non toglie che il fascino del rito stia proprio lì, nel codificare un rapporto, entrare in un modello precostituito senza stare troppo a domandarsi quale sia il contenuto personale che esso dovrebbe veicolare.

Diventa perciò fondamentale l’inserimento compiuto da Gesù Cristo di una seconda parte nell’annuncio del primo comandamento, quella riguardante l’amore del prossimo. Non si tratta di un’aggiunta posticcia ma della traduzione esistenziale (diremmo oggi) dell’amore verso Dio. Anche qui Cristo non inventa nulla prende pari pari il comandamento dal libro del Levitico (cf. Lv 19,18), ma lo incastra in modo indissolubile nell’altro, rendendolo una sorta di test di autenticità di tutto. Non credo, affermando questo, di peccare di «orizzontalismo» (come si diceva qualche anno fa): anche Giovanni afferma che «chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20). E del resto Gesù stesso si oppone decisamente ai cultori dei diritti di Dio a spese del prossimo: «se uno dichiara al padre o alla madre: è Korbàn, cioè offerta sacra, quello che ti sarebbe dovuto da me, non gli permettete più di fare nulla» (Mc 7,11-12), e anche «se ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti» (Mt 5,23). E’ vero che il secolarismo può aver prodotto diversi guai rendendo difficile la comprensione della «grammatica della fede» ma è molto rischioso reagire ad esso ricercando una sacralità rassicurante.

In fondo, come dice la seconda lettura (Eb 7,23-28), la fragilità del celebrante e della sua comunità è inscritta nel profondo di ciascuno, di modo che non possa esserci nessun vanto, ma solo la ricerca di un cammino di comunione e sintonia con Cristo.

fonte:/www.toscanaoggi.it/




gli italiani non vogliono né l’indulto né l’amnistia

FOTO REPERTORIO DI CARCERI PER VOTO SU INDULTO
Indulto e amnistia contrari sette italiani su dieci

Per Silvio Berlusconi spunta l’ipotesi di uno sconto a metà

Gli italiani non vogliono né l’indulto né l’amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l’elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell’elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di “salvacondotto ” non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4.

Se su amnistia e indulto nel Paese le idee sono piuttosto chiare, in Parlamento sembra meno. Nel Palazzo si discute ma il nodo è sempre e solo uno: Silvio Berlusconi. Il punto di domanda è: deve il Cav rientrare tra i beneficiari di un’eventuale decisione?
Come scrive Giovanni Bianconi su il Corriere tutto dipenderà da come sarà scritta la legge. Un testo c’è, è Il ddl Manconi Compagna che prevede espressamente che Berlusconi venga escluso sia dall’amnistia che dall’indulto. Perché la frode fiscale non è compresa nei reati cancellati e perché la riduzione della pena viene esclusa per coloro che hanno usufruito di quella sancita con la legge del 2006.

Certo è che un disegno del genere non piacerebbe per nulla al Pdl e difficilmente passerebbe visto che per votare una legge del genere ci vogliono i voti dei due terzi del parlamento. Anche su questo – scrive sempre Bianconi – una soluzione potrebbe arrivare dagli indulti varati in passato, nei quali era stabilito che chi avesse già goduto di un provvedimento precedente potesse accedere a uno sconto pari alla metà di quello previsto dalla nuova legge. Nel caso del Cav – conclude Roncone – se l’indulto fosse due anni a lui verrebbe applicato per uno e ciò basterebbe a cancellare anche la pena residua.

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la vergogna delle nostre carceri

nel bicchiere

le nostre carceri fanno vergogna, ci fanno vergogna, sono condannate anche dalla comunità europea: cosa fare, come evitare solo riforme epidermiche e affrontare una vera riforma strutturale è diventato un dibattito ormai pubblico, cavalcato politicamente soprattutto da chi è sempre stato sordo a queste problematiche e soprattutto ai problemi e alle sofferenze dei poveri diavoli

FOTO REPERTORIO DI CARCERI PER VOTO SU INDULTO

uno stimolo alla corretta riflessione è contenuto ne l’ ‘amaca’ odierna di M. Serra:

Nel dibattito molto emotivo sulla condizione carceraria non si capisce perché siano usati l’uno contro l’altro due argomenti ugualmente inoppugnabili come la certezza della pena e l’utilità/umanità della stessa. Un Paese che apre le sue carceri perché non è in grado di averne a misura di Costituzione, e si vergogna delle decrepite galere dove stipa i detenuti, non è un Paese serio. Indulto e amnistia, quand’anche servano (e servono) a far scendere la febbre delle carceri, e ad alleviare sofferenze, hanno il difetto “politico” di sembrare un espediente tanto quanto i giustamente detestati condoni edilizi e fiscali. In questo senso credo abbia ragione Matteo Renzi quando eccepisce sull’indulto. Lo avrà anche fatto per ragioni elettorali, ma il problema c’è e non vederlo vale a credere che basti, ogni tanto, un breve sussulto di unanime pietismo per affrontare una piaga strutturale, e considerata con giusta severità dall’Europa. All’orribile colpa di mantenere reclusi anche imputati non ancora passati in giudizio definitivo, o poveri cristi ingabbiati per reati minori, lo Stato somma quella, non meno grave, di non provvedere alla salute, alla dignità, ai diritti di chi sta in carcere anche per giusta pena. È facile commuoversi per gli innocenti in carcere, il problema vero è che bisogna commuoversi per i colpevoli.

Da La Repubblica del 15/10/2013.