papa Francesco è il papa che Lutero avrebbe voluto 500 anni fa

 

Lettera a papa Francesco. Il papa che Lutero avrebbe voluto

lettera a papa Francesco

il papa che Lutero avrebbe voluto

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 35 del 14/10/2017

Caro papa Francesco

lo sai, il 2017 è un anno importante per i luterani. In molti siamo elettrizzati nel commemorare l’audacia di un monaco agostiniano del XVI secolo, che il 31 ottobre 1517 affisse le sue 95 tesi al portone della cattedrale di Wittemberg. Le dita volano sulla tastiera per celebrare o discutere in modo febbrile contributi e punti deboli di Martin Lutero. Io, però – “marinata” nel luteranesimo americano per quasi tutta la vita – mi trovo a scrivere a te, il capo della Chiesa cattolica.

Forse è un momento particolare per le lettere degli ammiratori luterani. Eppure,

da quando sei diventato vescovo di Roma nel 2013, sono sempre più convinta che sei il papa che Lutero avrebbe voluto 500 anni fa.

Ecco quattro motivi.

1. Ci aiuti a vedere Cristo nel prossimo. 

Lutero ha sempre insistito sull’“amore per il prossimo” come nodo decisivo per amare Cristo e rispondere a un mondo che fa del male. Identificava il prossimo nel sofferente, chiunque esso fosse. Inveiva contro il disprezzo del povero e dell’affamato. Invocava la creazione di una cassa comunale per l’assistenza sociale. Aborriva le pratiche dell’usura e la vendita delle indulgenze.

Una volta hai detto: «Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!», e hai dato al mondo innumerevoli esempi di una Chiesa del genere. Il tuo primo viaggio pastorale fuori Roma è stato per incontrare i migranti che fuggivano dalla povertà e dalla violenza. Hai lavato i piedi a musulmani, a donne, a detenuti. Hai fatto installare bagni e docce in Vaticano per coloro che vivono per le strade di Roma. Dopo il tuo discorso storico del 2015 a una seduta congiunta del Congresso Usa, hai pranzato non con l’élite di Washington, ma con gli ospiti di un centro per senzatetto.

2. Ci aiuti a vedere Dio nella creazione.

Lutero amava la vita nelle sue forme variegate e affascinanti: le sue acque vivificanti, le sue creature, i paesaggi. Nei suoi scritti faceva continuamente riferimento alla creazione e alla vita quotidiana. Assaporava il piacere di condividere il cibo, il vino e la conversazione, connettendo questa sorta di comunione con il sacramento. In breve, Lutero individuava il divino “in, con e sotto” tutto il creato.

Tu hai scelto il nome di Francesco d’Assisi, che amava la Terra e tutte le sue creature. La tua prima enciclica, Laudato Si’, mette a nudo il fatto che il cambiamento climatico aggrava ogni altro male sociale e la crudele ironia per cui coloro che meno contribuiscono al degrado della nostra casa comune ne stanno pagando il prezzo più alto. Ci chiedi di affrontare non solo queste dure realtà del pianeta, ma anche le parti di noi che non vorremmo vedere: egoismo, indifferenza e intenzionale ignoranza.

Ma la Laudato si’ esprime anche una profonda speranza. Hai scritto: «Essendo [l’essere umano] stato creato per amare, in mezzo ai suoi limiti germogliano inevitabilmente gesti di generosità, solidarietà e cura» (n. 58). Il cuore della storia cristiana è in un richiamo profetico a una nuova vita, una resurrezione che non riguarda semplicemente la salvezza delle anime, ma atti concreti che restaurino e rinnovino la vita qui ed ora. Significa scongelare i nostri cuori e aprirli all’esterno in un autentico amore di sé, del prossimo, del pianeta e di Dio.

3. Coniughi umiltà e audacia.

Lutero accusava la Chiesa di papa Leone X di essere “gonfia” di superbia opulenta e di avidità. Lo faceva infuriare vedere chierici ordinati abusare della fiducia, delle risorse finanziarie, della fede e del timore del loro gregge. Voleva profondamente che i cristiani, ordinati e laici, comprendessero che siamo paradossalmente liberi in Cristo e allo stesso tempo chiamati a essere “servi di tutti”.

La tua testimonianza nel mondo è di grande umiltà, a partire dalla decisione di vivere in un semplice appartamento invece che nel palazzo apostolico. Non hai paura di chiedere scusa. Comprendi la visione di Lutero per cui l’essere umano è allo stesso tempo santo e peccatore, che ogni persona è sempre sia amata sia incompleta, capace di esprimere grazia e riconciliazione ma sempre bisognosa di riconciliazione e perdono.

Allo stesso tempo sei una rockstar. Sei apparso sulla copertina di Rolling Stone e sei stato nominato da Time “persona dell’anno”. Come Lutero, hai raggiunto la fama internazionale in una cultura dell’immagine e utilizzi strategicamente le sue tecnologie. Lutero usava Facebook e Snapchat dei suoi tempi: incisioni su legno, stampa, affissione pubblica di documenti. Attraverso interviste a braccio e conferenze stampa, Twitter e programmi di divulgazione, tu fai uso della tua posizione privilegiata per focalizzare la nostra attenzione su temi che spesso vogliamo evitare: disuguaglianza inaccettabile, fame cronica, abusi dei diritti umani, devastazioni della guerra.

4. Ispiri una speranza e un’azione creativa.

Lutero non aveva intenzione di rompere con la Chiesa cattolica, ma la sua fiera oratoria e il suo esempio audace innescarono un movimento e un rinnovamento della fede che non riuscì a anticipare pienamente né a contenere. La sua traduzione della Bibbia in tedesco la rese disponibile al pubblico per la prima volta e i suoi inni contribuirono ad accrescerne la partecipazione più piena alla liturgia. Il suo humour e la sua passione attirarono la gente in un’azione coraggiosa e in una comunità creativa.

Anche tu sei fonte di ispirazione per molti nel pianeta. Nella parola e nell’azione rendi quanto mai chiaro che ciascuno ha un contributo da offrire. Insieme, abbiamo molto da fare: scienziati, capi religiosi, manager, artisti, ingegneri, insegnanti, imprenditori, avvocati, teologi, politici. Ora è il momento per noi di essere, come direbbe Lutero, “il sacerdozio di tutti i credenti” (e, aggiungo io, dei non credenti).

Tu sei fonte di ispirazione per me, papa Francesco. Mi aiuti a trovare il coraggio di vivere con uno scopo. Quindi, con coraggio, chiudo questa lettera con una fervente richiesta: che tu preghi per gli Stati Uniti e il mondo in questi tempi tumultuosi e confusi, che troviamo la nostra strada con il minimo danno a noi stessi e agli altri. Ti chiedo di pregare senza sosta perché l’umanità si svegli ascoltando la miriade di grida della creazione per fare in tempo qualcosa di significativo.

Dio ti benedica, Santo Padre. Sappi che prego con e per te.

* Aana Marie Vigen è membro della Chiesa evangelica luterana in america, è docente associata di Etica sociale cristiana presso la Loyola University Chicago. Articolo apparso su “America magazine” (19/9). Testo originale: https://www.americamagazine.org/faith/2017/09/19/lutherans-love-letter-pope-francis

 




caro papa Francesco, questa volta ti scriviamo anche noi …

caro papa Francesco,

siamo un gruppetto di persone, composto da laici, religiosi e sacerdoti, che si è praticamente formato attraverso l’amicizia con i Rom e Sinti, una lunga amicizia frutto di frequentazioni e di vita vissuta dentro i loro campi.

In effetti i Sinti e i Rom sono stati i protagonisti del nostro incontro di fede e del cammino che stiamo portando avanti ancora nella Chiesa. Anche per questo, siamo molto riconoscenti ai Rom, perché è l’amicizia con loro che dà senso e arricchimento alla nostra esperienza.

A vario titolo siamo stati un’espressione dell’UNPReS (Ufficio Nazionale Pastorale Rom e Sinti) della Migrantes, fino a quando, per una riforma infelice si è demandato alle diocesi, non solo la responsabilità pastorale, il che è più che giusto, ma si è abolito l’ufficio nazionale che sensibilizzava e richiamava l’attenzione su questo ambito, che aveva il compito di preparare specificamente gli operatori pastorali e far sorgere una pastorale specifica e coordinata a livello nazionale, anche questo legame si è in parte affievolito. Ci dispiace che questo lungo cammino di Chiesa si stia disperdendo, anche se rimane ancora il legame con le nostre Chiese e comunità di appartenenza che ci fa sentire inviati a vivere, annunciare e scoprire la bellezza del Vangelo con questo popolo che vive in gran parte nelle periferie e ai margini delle nostre città. Un tempo ci piaceva definirci come la “Chiesa che vive in carovana”.

Vorremmo scriverti tante cose, innanzitutto la simpatia che nutriamo verso di te, la tua parola e il tuo stile ci fa sentire in comunione e giustificano il nostro stare dentro e a fianco la vita dei Rom e Sinti.

Ci siamo interrogati varie volte sull’utilità di scrivere queste nostre impressioni. A distanza di qualche mese abbiamo deciso di farlo e di diffondere questo nostro scritto, nella speranza che possa essere compreso e accolto.papa4

Quello che ci spinge a scriverti, con spirito fraterno, è il discorso che hai tenuto all’udienza con i Rom e Sinti in occasione dell’anniversario del pellegrinaggio a Pomezia di cinquant’anni fa. Pure noi eravamo presenti all’udienza e agli appuntamenti dei giorni precedenti e uno di noi ha partecipato anche a quello di Pomezia.papa7

Sostanzialmente noi, nelle parole che hai rivolto ai Sinti e Rom non abbiamo ritrovato lo Spirito di quel cammino pluridecennale di una Chiesa (sia pur piccola e fragile) che vive a contatto con questo popolo. Una Chiesa che con uno sguardo di Fede, cerca e trova anche in questo popolo, il riflesso del Volto Misericordioso di Dio. Siamo convinti che la loro vita continua ad essere per noi un “luogo teologico”, dal quale veniamo anche noi “evangelizzati” da loro. E’ possibile “vivere il Vangelo con i piedi dentro queste periferie”, che in genere sono i campi Rom-Sinti. Lo stupore nello scoprire che c’è anche un “magistero” che fiorisce dalle periferie, da chi vive al margine della società. Non a distanza ma da dentro: condividendo, accompagnando e custodendo amicizie, percorsi anche difficili, ma vissuti insieme. La nostra “missione” non è tanto quella di organizzare progetti, nemmeno quella di volerli integrare nei nostri schemi o di porci come risolutori del “problema Rom”, anche per il fatto che per noi questo popolo non è affatto un ‘problema’, come lo è per i più, ma un’opportunità umana e spirituale. Desideriamo semplicemente essere una “presenza ponte” capace di accogliere, di bene-dire, di comprendere punti di vista diversi dai nostri e di raccogliere con cura e attenzione la voce dello Spirito che sussurra, attraverso le vite dei Sinti e Rom, il Suo Magistero. papa3

Alcuni di noi vivono ancora dentro dei campi Rom, c’è anche chi ha speso la sua vita in questi “mondi di mondi”, imparando a conoscerli e ad amarli per come sono, con i loro difetti e le loro ricchezze.

Condividendo la loro vita, ha significato per ognuno di noi dei cambiamenti, graduali ma arricchenti, non sempre facili o scontati. Siamo riconoscenti a loro perché ci hanno permesso di entrare nelle loro vite, ci siamo lasciati accompagnare da loro e questa fiducia ci ha permesso di vedere e leggere la realtà con occhi diversi, fino a scoprire, quasi con stupore e meraviglia che anche “il punto di vista” di chi vive nelle carovane, nelle baracche dei campi merita attenzione, rispetto e ascolto. Siamo testimoni di perle di Vangelo, nascoste nelle loro esistenze, che nonostante il disprezzo e il pregiudizio di cui sono spesso vittime brillano e illuminano dando senso anche alle nostre vite. Ma per notare questa loro ricchezza, è importante spogliarsi dei pregiudizi presenti e radicati nella maggioranza, e che purtroppo non mancano neanche in chi li avvicina a fin di bene. L’abbassamento può avvenire a condizione di saper perdere le nostre rigidità mentali, sociali e religiose. La condizione, almeno per noi è “stare dentro” questo mondo. Non può certo avvenire a distanza. A distanza le cose si vedono sfocate, notiamo solo quello che a noi disturba, difficile percepire le sfumature o i suoi contorni, si rischia di non comprendere in profondità la realtà, le sue dinamiche.papa2

Scusaci se te lo diciamo con franchezza, il tuo discorso rivolto ai Sinti e Rom ci è sembrato un pò distante, perché abbiamo sentito riproporre più o meno gli stessi schemi della maggioranza che osserva le cose a distanza, spesso si limita fare discorsi moralistici: dovete cambiare, scuola, minori, legalità, integrazione..ma senza accompagnamento, senza abbassamento. In altre occasioni e contesti, invece sei riuscito a immergerti, capire le situazioni e fare una lettura altra, coraggiosa e non per niente scontata. Ecco questa lettura “altra” ci è sembrata assente nel tuo intervento, eppure il cammino della Chiesa che vive in carovana, da Pomezia ad oggi, ci ha reso sensibili a questa lettura altra e alta.

I campi Rom e Sinti sono quelle ‘periferie’ di cui ci parli e solleciti la Chiesa a prestare attenzione e ascolto.

E’ un’immagine che ci piace tanto, stimolante ed arricchente: per noi i campi Rom sono un “luogo teologico” da contemplare innanzitutto, perché sovente “lo Spirito Santo precede l’arrivo e l’azione dei missionari” ( Evangeli Nuntiandi).

Sì certo, siamo ben consapevoli delle difficoltà, delle ferite che ci sono all’interno, come ci sono, in modi diversi, in ogni gruppo sociale; alcune sono ben visibili, altre più nascoste e spesso passano inosservate, inascoltate. Contempliamo e celebriamo la vita, fatta di resistenze, di attenzione, di lotta, di fatiche, di paure, di violenza, di prevaricazioni, di riconciliazioni, di gioie, di attaccamento alla vita, nonostante tutto, di sogni e di delusioni.. Come tutte le periferie, sono spazi dove il bello e il brutto convivono insieme, si attraversano, si contagiano, ma per noi rimangono spazi di Vita, perché riconosciamo che anche nei loro campi, ci sono manifestazioni di vita buona. Quasi mai questo emerge, si fa risaltare invece solo ciò che è brutto, si sottolinea esclusivamente la devianza o il maltrattamento di pochissimi. Eppure, questa periferia, la vita dei Rom, ha qualcosa da insegnare nella Chiesa e con essa alla società. Così è successo a noi.Presidente-Museveni_Papa-Francesco

Tempo fa hai usato l’immagine (bellissima!) del pastore con l’odore delle pecore. L’abbiamo sentita adatta alla nostra esperienza , calzante con la nostra vita a fianco dei Rom e Sinti. Il loro “odore” è anche un po’ il nostro, e il nostro si è trasmesso un po’ a loro e spesso questo disturba non pochi, sia dentro la Chiesa che nella società. C’è chi vorrebbe spruzzare del deodorante sulle pecore, per coprire il loro odore, e renderlo simile al nostro presunto profumo, più presentabile ai nostri occhi (nasi).
Sono molti oggi che avvicinano queste periferie dei Rom con in mano i “deodoranti”, sentendosi incaricati, inviati a decidere cosa devono fare, cosa devono cambiare, decretando anche i tempi e le modalità. Quasi sempre ciò avviene sulle loro teste, senza alcun coinvolgimento e partecipazione dei diretti interessati. La nostra esperienza invece, proprio perché cerchiamo di contemplare la vita che pulsa nei campi, ci dice che i Sinti e Rom sanno cosa è il meglio per il loro futuro, quali strade intraprendere e cosa cambiare.
Vediamo il rischio che non pochi si avvicinino alle periferie solo perché sono colpiti dal degrado, animati solo della volontà di voler cambiare gli altri attraverso i loro occhi; molti si avvicinano, entrano anche nei campi, ma fanno fatica ad accompagnare, ad abbassarsi e sedersi a mani vuote nelle loro esistenze per comprenderle meglio. E’ triste questo: non trovare la strada per saper riconoscere i valori che l’altro ci può comunicare.

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Un’ultima nota riguarda il silenzio di una triste realtà che coinvolge migliaia di Rom in Italia e non solo, senz’altro toccava la maggioranza di quelli che erano presenti all’udienza: la realtà degli sgomberi e il suo uso politico. Ci saremmo aspettati almeno un accenno di condanna per il fatto che, sull’altare della sicurezza e del consenso elettorale, vengono scartati interi nuclei famigliari, buttati per strada e abbandonati a se stessi, privati dei loro diritti riconosciuti anche dalla Legge: tanto sono “zingari”!

Viviamo in città che costruiscono torri, centri commerciali, fanno affari immobiliari ma abbandonano una parte di sé ai margini, nelle periferie. Quanto fa male sentire che gli insediamenti poveri sono emarginati o, peggio ancora, che li si vuole sradicare! Sono crudeli le immagini degli sgomberi forzati, delle gru che demoliscono baracche, immagini tanto simili a quelle della guerra. E questo si vede oggi.”

(papa Francesco ai movimenti popolari dell’America Latina)

Caro Papa Francesco ti abbracciamo forte, sappi che la nostra fiducia in te non è per nulla scalfita, ma ci preme farti conoscere anche questo lungo e arricchente cammino pastorale che stiamo portando avanti, anche grazie ai Sinti e Rom che ci accolgono e sostengono con la loro fiduciosa amicizia.

Ti auguriamo ogni bene e mentre ti chiediamo la benedizione del Signore, sappi che preghiamo per te, insieme a tanti Sinti e Rom che ti ammirano e ti guardano con amicizia.

suor Carla  e suor Rita Viberti (campo Rom Torino)

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p. Luciano Meli (Lucca)

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don Piero Gabella (Brescia)

Piero Gabella

don Agostino Rota Martir (campo Rom Pisa)

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Marcello  Palagi  e Franca Felici (Carrara – Avenza)

Marcello e Franca

Marzo 2016




una lettera a papa Francesco da parte di 600 ergastolani

caro papa: c’è speranza anche per noi?

seicento ergastolani italiani scrivono al Papa in vista del Giubileo straordinario della Misericordia, denunciando che il carcere a vita “è disumano”. L’iniziativa è stata presa dall’ergastolano Giovanni Lentini, 41 anni, un calabrese di Crotone, che sta scontando la pena per omicidio a Fossombrone

 insieme a Lentini, hanno apposto la firma centinaia di persone, detenute in diversi carceri della Penisola, sul cui certificato appare il “12/12/9999” come fine pena: praticamente mai

la lettera, con le adesioni raccolte con l’aiuto di un altro ergastolano, Carmelo Musumeci, è stata recapitata a papa Francesco, che ha risposto tramite l’ispettore generale dei cappellani del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, don Virgilio Balducci. Il sacerdote, rivolgendosi al cappellano di Fossombrone, don Guido Spadoni, ha così scritto: “Testimonia a Giovanni Lentini che papa Francesco prega per lui, perché la giustizia migliori, anche per lui sarà possibile gustare la misericordia del Padre

Nella lettera i carcerati esprimono tutta la loro amarezza:

Neanche se riuscissimo a sopravvivere per altri cinquant’anni e quindi per i prossimi Giubilei – scrivono  – potremmo avere la possibilità di partecipare personalmente all’indulgenza plenaria poiché siamo condannati ad una pena perpetua. La cosa peggiore è che nelle condizioni in cui ci troviamo non possiamo offrire opere meritorie per ottenere l’indulgenza, ma nonostante i nostri limiti, le nostre debolezze, vogliamo partecipare seppure a distanza a questo evento straordinario inviandoti questo nostro scritto, questa nostra preghiera”. 

Gli ergastolani concludono con un appello:

Santo Padre –  scrivono – auspichiamo che nell’anno del Giubileo, tu possa rinnovare l’invito agli uomini del potere affinché aboliscano questa pena assurda che si espande anche a chi ci sta vicino, i nostri figli e i nostri familiari. Secondo noi non esiste un male maggiore ed un male minore, uno da punire ed uno no. Il male è male, è una caduta, un distacco dall’amore divino, tutti cadiamo in un modo o in un altro. La cosa più importante però è riuscire a rialzarci con la certezza che siamo già stati salvati da Cristo”. 

 




caro papa, ci sono discriminazioni nella chiesa

due omo

 

 

 

 

Salva la mia vocazione

di Benjamin Brenkert

  Caro Francesco,

da quando sei papa, il tuo impegno contro la povertà ha risvegliato la coscienza del mondo sui mali della globalizzazione, del capitalismo, del materialismo. Molti ora comprendono che la povertà è un peccato strutturale e un male sociale. Attraverso le tue dichiarazioni, hai ridestato l’interesse dei cattolici e dei non cattolici, dei credenti e degli atei. Il mondo guarda a te come a un pastore, un uomo colmo della gioia del Vangelo.

Eppure, mentre ti sei concentrato sulla povertà fisica e materiale, i membri della mia comunità – lesbiche, gay, bisessuali, transgender e queer – si sono sentiti trascurati. Restano ai margini, vivendo vite spiritualmente povere. Alcuni hanno bisogno della voce di cardinali, come Walter Kasper, che dicano loro che Dio li ama. Altri sanno che Dio li ama, ma la leadership della Chiesa li respinge definendo la loro condotta disordinata e priva di orientamento. La tua profetica domanda – “Chi sono io per giudicare?” – incoraggia le persone ad avere un atteggiamento non giudicante verso i membri della comunità lgbtq. Ma non giudicare non basta, specialmente quando Gesù ci dice di essere come il buon samaritano e di fare come lui.

papa-francesco

Ma chi sono io per scriverti?

Gay dichiarato, ho passato gli ultimi 10 anni della mia vita nella Compagnia di Gesù. Sono pieno di gratitudine per questo periodo. Ho amato il fatto di essere un gesuita, un figlio di Ignazio di Loyola.

In luglio però ho lasciato la Compagnia. In coscienza, io, gay dichiarato, non posso più proseguire il cammino sacerdotale in una Chiesa in cui persone gay e lesbiche sono licenziate dal proprio posto di lavoro. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata il caso della donna lesbica sposata, ministro della giustizia sociale, licenziata da una parrocchia gesuita a Kansas City.

Questa emarginazione è contraria a quello che molte persone hanno chiamato “effetto Francesco”. Questi licenziamenti contraddicono l’enfasi con cui hai trattato la questione dello sradicamento della povertà, perché la disoccupazione avvicina uomini e donne alla povertà fisica e materiale. Licenziare qualcuno a causa della sua sessualità è discriminazione. È ingiusto, specialmente considerando che molte istituzioni cattoliche hanno adottato clausole antidiscriminatorie in termini di pari opportunità lavorative, in accordo con leggi federali, statali e locali che proibiscono discriminazioni lavorative basate su razza, origini, età, genere, religione, disabilità, stato civile, orientamento sessuale, status di veterani o di ex detenuti.

Nella lettera con la quale ho comunicato al provinciale la mia decisione ho sottolineato che l’ingiustizia nei confronti delle persone lgbtq contraddice il Vangelo. Inoltre, ho fatto presente che a farmi mettere in discussione la mia appartenenza alla Chiesa è stata la mancanza di reazione da parte della Chiesa a quelle legislazioni anti-gay approvate in Paesi come Uganda e Russia. Mentre prego per ciò che mi ha portato a lasciare la Compagnia di Gesù – l’ingiustizia nei confronti delle persone lgbtq nella Chiesa – continuo a pronunciare l’invocazione di Sant’Ignazio: «Ricevi, Signore, l’intera mia libertà. Ricevi la memoria, l’intelletto, la volontà tutta. Quanto possiedo, tu me l’hai dato; tutto io ti restituisco e rimetto interamente al governo della tua volontà. Dammi solo il tuo amore e la tua grazia ed io sono ricco abbastanza, né domando altro».

Prego che Dio continui a darmi la grazia di adempiere ai miei voti, di rispondere alle necessità del nostro mondo, a una realtà incarnata che ha bisogno di una Chiesa ecumenica capace di rispondere ai bisogni sia fisici che spirituali del povero, come si legge in Matteo 25. Vorrei non essere più un outsider o un emarginato. Eppure, a me, uomo apertamente gay, è stato detto dai miei superiori di concentrarmi su altre questioni pastorali. Perché?

Come gay, ho voluto essere ordinato perché ho sentito che Dio mi chiamava al sacerdozio. Dall’età di 15 anni ho pregato per comprendere tutto questo. Ho pregato non per scappare ma per essere trovato. Ogni volta che direttori spirituali e superiori hanno testato i miei più profondi desideri, mi hanno trovato orientato e non disordinato, disponibile al sacerdozio per buone e sante ragioni.

Da quando ho cominciato il noviziato, Dio mi ha aiutato a conoscere me stesso, a vedere me stesso come un uomo gay pienamente sereno e integrato. Nel corso del tempo, ho capito che avevo doni da offrire come ministro sensibile, empatico, gioioso, amorevole, orante, colto. Mi sento un sacerdote, nonostante la mia umanità e fragilità.

Papa Francesco, con la mia vocazione che evolve, continuo a sentirmi prete. Ti scrivo affinché tu possa aiutarmi a salvare la mia vocazione, qualunque sarà la sua forma in futuro. Ti chiedo di incaricare la Conferenza episcopale degli Stati Uniti di far sì che le istituzioni cattoliche non licenzino i cattolici lgbtq. Ti chiedo di pronunciarti contro le leggi che criminalizzano e opprimono le persone lgbtq nel mondo. Queste azioni porterebbero vera linfa alla tua frase: “Chi sono io per giudicare?”.

Mentre continuo la mia transizione alla condizione di laico, mi viene in mente che, come ogni gesuita, sono “un peccatore chiamato a essere compagno di Gesù come lo fu sant’Ignazio di Loyola”. E come molti miei fratelli gesuiti nel mondo, gay o etero, continuo a riflettere sulle tre principali questioni della preghiera dei gesuiti: “Cosa ho fatto per Gesù? Cosa sto facendo per Gesù? Cosa farò per Gesù?”. E per questo sono pieno di gratitudine.

Come ex gesuita, so che al cuore degli esercizi spirituali di Sant’Ignazio c’è l’incontro con Dio, gli altri e se stessi. Questo incontro avviene in un modo dinamico che attinge ai nostri desideri umani e divini di relazione e di amore. In breve, è un pellegrinaggio che pone Gesù al centro della vita. Questo pellegrinaggio è aperto a omosessuali ed eterosessuali. Gesù a tutti disse di essere buoni samaritani, di fare come lui.

Con amore e affetto

 

 

 




aiuto, papa Francesco, sono gay: non voglio sentirmi ‘fuori posto e fuori casa’

due omo

così grida un ragazzo gay che al momento della elezione di papa Francesco ha pianto come per un’intuizione di un “graduale percorso di apertura e avvicinamento alla questione omosessuale” del nuovo papa

vive da 29 anni “una serena e felice vita di coppia” e però sente di non essere accolto da una chiesa che lo fa sentire ‘fuori posto e fuori di casa’ e chiede perciò al papa  “una nuova pastorale per le famiglie che includa tutti”

vede troppo spesso le persone omosessuali  descritte come un obbrobrio, come una minaccia per la società, come un pericolo pubblico di “attentato alla famiglia”: “chi ci accoglierà? chi si prenderà cura di noi? … come la parrocchia potrà tornare casa per noi?”:

Caro papa Francesco,

ti confesso che dal momento della tua elezione ho sentito veramente lo Spirito soffiare. Non sapevo chi fossi, non avevo mai sentito prima il tuo nome, eppure ho pianto.  Ho pianto perché inspiegabilmente mi sono sentito dopo tanto tempo a casa, pur non avendo alcun elemento razionale che giustificasse questo sentimento.  Sono gay, e vivo da quasi 29 anni una felice e serena vita di coppia. E sto seguendo con grandissima speranza il tuo graduale percorso di apertura e avvicinamento alla questione omosessuale. Lo hai fatto sin da quella prima intervista, di ritorno da Rio, in cui quel “Chi sono io per giudicare un gay?” è risuonato sorprendente nella sua disarmante semplicità. Decenni di catechismo e magistero consolidati sulla questione omosessuale sono apparsi improvvisamente schiacciati sotto il peso dell’essere forse norme più scritte guardando a noi con gli occhi della legge che con gli occhi del cuore.  Fino ad oggi io e Dario abbiamo dovuto camminare in solitudine, inventandoci dal nulla cosa potesse essere una vita di coppia, non avendo alcun riferimento a disposizione, noi che ci siamo innamorati a metà degli anni ’80.  Abbiamo vissuto nascosti per oltre 15 anni, prima di capire ed accettare la bellezza e la fedeltà della nostra storia d’amore e smettere di temere tutto e tutti: la famiglia, gli amici, financo Dio di cui abbiamo finalmente riconquistato l’immagine di Padre spazzando via quella di Giudice. Finora, è vero, non si è ancora concretizzato un reale cambiamento. Le tue parole di accoglienza, apertura non hanno generato un nuovo catechismo, una nuova pastorale per le famiglie che includa tutti e non faccia sentire nessuno “fuori posto e fuori di casa”. Ma alcune cose, lette dall’interno e con il linguaggio e le modalità della chiesa cattolica, non possono che prefigurare l’inizio di un percorso: qualche mese fa è stato inviato a tutte le diocesi del mondo un questionario con l’obiettivo di raccogliere stimoli per il Sinodo straordinario sulla famiglia  dell’ottobre 2014. Per la prima volta, credo nella storia della chiesa cattolica, su un suo documento ufficiale è presente, nero su bianco, la dicitura “unioni di persone dello stesso sesso”, e si chiede quale attenzione pastorale sia necessario avere per queste unioni e addirittura per i bambini eventualmente adottati. Ecco, nominare le cose significa per me inaugurare, superando i principi, una nuova stagione animata da un desiderio reale di confronto. Finora, infatti, negli ambiti comunitari, nelle parrocchie, nei cammini di fede, l’omosessualità è stata trattata solamente come categoria morale o come problematica sociale. I ragazzi e le ragazze omosessuali si sono trovati, quindi, a vivere nel silenzio più assoluto la loro condizione, ad impiegare moltissime risorse personali a nascondere una parte importantissima della loro esistenza, a controllare tutto ciò che avveniva dentro loro, fuori loro. Insomma a comprimere la loro vita invece che ad espanderla, privati di tutta quella “normalità” (innamorarsi, condividere con gli amici il proprio innamoramento, sognare una persona, immaginarsi insieme, …) che costituisce parte integrante del percorso di crescita di un essere umano, e che alimenta quello slancio progettuale che dovrebbe essere appannaggio di tutti.

Dio ama gli omosessuali

Ho letto ieri che sembra tu ti stia accingendo a studiare le unioni gay. Ne sono contento. Finalmente sembra che siano stati presi in carico i nostri appelli, fatti a moltissime diocesi, e anche a te direttamente,  dai vari gruppi di gay credenti italiani (tra cui anche quello di cui faccio parte, Nuova Proposta) di conoscere in prima persona le nostre vite, le nostre storie. Non ti nascondo che negli anni passati neanche io (che pure ho fatto un cammino lungo per arrivare ad una serena esistenza in coppia) sono stato immune da un certo scoramento, sorto nel constatare che posto per noi nelle comunità cristiane non c’era. Non ce n’era soprattutto nel momento in cui ci si sarebbe dovuti presentare in coppia o, in alcuni casi, anche come genitori. Perché è proprio l’unione tra due persone dello stesso sesso che non esiste per le comunità cattoliche, a causa, purtroppo, di una terribile battaglia ideologica che si sta consumando a scapito delle esistenze di tante persone. Vedo “sentinelle in piedi” protestare contro la proposta di legge contro l’omofobia (che dovrebbe proteggere le persone dal bullismo, dalla violenza e dal dileggio. Vedo gruppi definirsi cattolici ed armarsi per combattere il pericolo dell’attentato alla famiglia che proverrebbe da due persone dello stesso sesso che decidono di amarsi senza nascondersi e, pertanto, richiedere alla società di cui fanno parte di condividere diritti e doveri come qualunque altra coppia. Vedo le persone omosessuali descritte come un obbrobrio, come una minaccia per la società. Le nostre vite di coppia, le nostre famiglie, con e senza figli, esistono già oggi, adesso. Non sono una minaccia che viene da un ipotetico futuro. Mi chiedo, come un figlio farebbe con un padre e facendo riferimento alla cura pastorale che deve essere dedicata ad ogni essere umano e declinata per la sua specifica esistenza: chi ci accoglierà? Chi si prenderà cura di noi? Potremmo avere anche noi bisogno di sostegno fraterno e spirituale dalla parrocchia, quella che per tanti anni abbiamo considerato una seconda casa? E parlando dei tanti figli di coppie omosessuali:  non devono anch’essi poter contare su un ambiente accogliente, in grado di sostenerli nel loro percorso di crescita spirituale e umana? Come la parrocchia potrà tornare ad essere casa per noi e per i nostri bambini? La speranza che soffia in me credo sia fortemente animata dallo Spirito. Spero in un cammino serio di confronto, di approfondimento senza pregiudizio. Spero in un sinodo che produca, nel 2015 una pastorale finalmente inclusiva e che porti “Tutti dentro!” come ci hai tu stesso ricordato in una delle tue omelie mattutine. Spero anche tu voglia, in questo percorso di conoscenza, incontrare alcuni di noi, omosessuali, transessuali, singoli o in coppia, con figli o senza figli, per contemplare insieme come il disegno di Dio possa essere creativo nel generare Bellezza nell’esistenza di ciascuno di noi e  ’interno della propria specificità.

 

 

 




caro papa … un settimanale cattolico non ci sta!

Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

un settimanale cattolico americano scrive al papa per dirgli chiaramente che sugli abusi sessuali proprio non ci siamo

 

caro papa Francesco, siamo molto toccati, come tutti nel mondo, dal tuo approccio pastorale e umano e dall’attenzione nei confronti di coloro che stanno ai margini della società, ma sul tema degli abusi non ci siamo proprio. Questo il succo di una lunga lettera aperta al papa che lo staff del settimanale cattolico statunitense National Catholic Reporter ha pubblicato a mo’ di editoriale il 6 marzo scorso

 di fronte alle altissime aspettative che il papa ha suscitato nel suo primo anno di pontificato, «per un senso di urgenza estrema» occorre sollevare, afferma il settimanale, la questione degli abusi sessuali

credo anch’io che su questo si possa e si debba fare ancora di più:

verità nascoste

Nell’intervista a Ferruccio De Bortoli, pubblicata sul Corriere della Sera il 5 marzo scorso, il papa afferma che gli abusi sessuali lasciano «ferite profondissime» e che «le statistiche sul fenomeno della violenza sui bambini sono impressionanti, ma mostrano anche con chiarezza che la grande maggioranza degli abusi avviene in ambiente familiare e di vicinato». «La Chiesa cattolica – è ancora papa Francesco a parlare – è forse l’unica istituzione pubblica ad essersi mossa con trasparenza e responsabilità. Nessun altro ha fatto di più. Eppure la Chiesa è la sola ad essere attaccata».

«Queste affermazioni – sostiene il settimanale americano, che ha cominciato a parlare di abusi dal 1985 – contengono una certa verità, ma nascondono anche verità più difficili». L’altra faccia della medaglia è che «nessun’altra istituzione sulla Terra ha avuto i mezzi o la volontà di nascondere questi crimini tanto a lungo. La realtà è che, mentre i casi di abusi su minori sono orrendi, lo scandalo più ampio e più persistente consiste nel numero di vescovi e cardinali che hanno nascosto questo peccato, hanno pagato alle vittime somme enormi di denaro perché tacessero e hanno rifiutato di riferire persino ai loro colleghi vescovi e preti i problemi potenziali derivanti dal trasferimento dei preti problematici». Insomma, se la Chiesa ha messo in atto misure che, sì, probabilmente funzioneranno per prevenire abusi nel futuro, «per decenni le gerarchie della Chiesa hanno negato l’esistenza del problema, hanno mentito sul numero delle persone coinvolte e hanno lottato, a un costo elevatissimo, perché non emergessero le dimensioni del problema». E nessuno di costoro sta pagando. Se oggi la Chiesa sta facendo di più di qualsiasi altra istituzione per proteggere i bambini, scrive l’National Catholic Reporter, «è solo grazie all’enorme pressione pubblica esercitata dalle vittime e da altri nella Chiesa che chiedono verità».

le oscure “periferie” della Chiesa

In questo senso, le persone che stanno ai margini di cui parla il papa sono proprio le vittime degli abusi, persone ferite profondamente nella loro vita e dalla Chiesa, la comunità che avrebbe dovuto offrire loro il massimo bene spirituale. E allora, «di tutte le periferie del mondo che hanno bisogno di attenzione, nessuno ha più bisogno della sua attenzione più urgentemente di coloro le cui vite sono state sconvolte da preti pedofili», scrive la direzione del National Catholic Reporter. Alla luce di questo, «papa Francesco, la esortiamo a incontrare le vittime degli abusi», il prossimo Giovedì Santo, con una celebrazione di riconciliazione dedicata alle vittime degli abusi sessuali perpetrati da membri del clero: «Ascolti le loro storie. Lavi i loro piedi».

un film già visto

Analoghe riflessioni, con un tono molto duro, quelle del canonista statunitense p. Tom Doyle – difensore delle vittime della violanza sessuale e co-autore del primo rapporto sugli abusi nel 1986 – ospitate sullo stesso Ncr il 6 marzo scorso: papa Francesco ha stupito e incoraggiato, ma riguardo alle sfide più gravi e ai problemi più profondi della Chiesa, «non ha fatto quasi nulla». I suoi commenti nell’intervista del Corriere della Sera evidenziano «che sta usando lo stesso copione stanco e irrilevante che i vescovi hanno consumato negli ultimi anni». Lo scandalo degli abusi, scrive Doyle, è di una tale gravità che fa impallidire tutti gli altri, compresi quelli, pure sensazionali, legati alla finanza e al riciclaggio di denaro: questi sono poca cosa di fronte «alla menzogna, alla manipolazione e alla risposta senza pietà alle vittime che hanno contraddistinto la questione degli abusi fin da quando è diventata di pubblico dominio». Adesso, dall’elezione di Francesco «un anno è passato e i suoi passi sono stati minimi»: ha reso l’abuso sessuale un crimine nello Stato del Vaticano, «un passo così insignificante da renderlo quasi comico». Non ha fatto dichiarazioni solenni o informali sul tema e ha fatto ben poco contro i vescovi che hanno coperto i loro preti: se ha laicizzato il vescovo ausiliare mons. Gabino Miranda di Ayacucho, Perù, accusato di pedofilia, «che ne è dei vescovi che hanno continuato a proteggere i colpevoli e a punire vittime innocenti incoraggiando tattiche brutali nei tribunali?», si chiede p. Doyle.

solo fiumi di parole?

Certo, c’è il recente annuncio della prossima creazione di una commissione di esperti sugli abusi, «ma finora non è stato fatto nulla»: «Il papa non ha bisogno di un’altra commissione e di più esperti che elaborino ancora più rapporti con espressioni di condanna ancora più forti. Commissioni del genere affronterebbero lo scandalo degli abusi nella prospettiva delle esigenze della Chiesa istituzionale, con lo scopo primario del recupero della sua credibilità»: «finora è stato sempre così, e continuare a farlo in questo modo è una regressione». Ciò di cui c’è autentica necessità è invece la cura pastorale, il benessere spirituale delle vittime e, alla luce di questo, «l’unica categoria di risposta accettabile è l’azione. Basta coi segreti. Basta con le negazioni. Basta con gli autoelogi e soprattutto con la tolleranza di vescovi che hanno speso milioni di dollari e di euro donati per tutelarsi a spese delle vittime». E riprendendo la frase dell’intervista in cui il papa attribuisce alla Chiesa trasparenza e responsabilità, afferma che si tratta di un copione «che andava abbandonato anni fa»: «Purtroppo, Santo Padre, la Chiesa cattolica non si è mossa con trasparenza e responsabilità, ha fatto esattamente il contrario». E anche il «coraggio» dimostrato da papa Benedetto XVI nell’affrontare la questione, non è altro che un insieme di «misure burocratiche, ma nessuna azione decisiva è stata intrapresa per dare speranza alle vittime».

contro l’Onu solo arroganza

L’ultimo capitolo della riflessione di Doyle riguarda la denuncia da parte delle Nazioni Unite sulla colpevolezza del Vaticano nello scandalo. «Il Vaticano ha reagito con la sua solita arroganza ottusa, accusando il comitato dell’Onu di non capire come funziona la Chiesa e di interferire con sacre questioni dottrinali. Il punto è, invece, che il comitato aveva proprio capito come funziona il sistema vaticano». A far parte della commissione vaticana neocostituita, perciò, dovrebbero essere proprio le vittime e le conclusioni del rapporto del comitato Onu dovrebbe esserne l’oggetto; «non vescovi e cardinali che sono stati parte del problema e che non possono essere parte della soluzione». In conclusione, in questa fase, la cosa migliore che la gerarchia istituzionale può fare è seguire un sempre valido consiglio tattico militare: «O fai da guida, o segui, o ti togli di mezzo».

(a cura di ludovica eugenio di ‘finesettimana’)




caro papa …

 

 

lettera a papa Francesco di don Vitaliano

caro papa, la vera indifferenza è quella della chiesa

Santo Padre,

quando alcuni anni fa alle porte della mia canonica bussò un gruppo di immigrati clandestini, non mi ero mai occupato di migranti, ma decisi di ospitarli e farmi carico della loro situazione. In nome del Vangelo non me la sono sentita di dare un’elemosina di circostanza per liberarmene. E come me anche la mia comunità parrocchiale. Ospitavamo gli immigrati nelle aule del catechismo. E, forse, per i bambini del catechismo è stata la più bella esperienza di catechesi concreta, vissuta. Anche quella volta il mio vescovo di allora mi rimproverò e nessuno del presbiterio mi difese.

Nello stesso periodo insieme a pochissimi confratelli e ai famigerati “no global”, affittammo una nave, andammo in Albania e cercammo di portare in Italia il maggior numero di albanesi; nel tragitto anche noi lanciammo una corona di fiori per ricordare i morti di un barcone affondato la notte di Natale. Se non volevamo più piangere i morti – ci dicemmo – conveniva andare noi a prenderli prima che si imbarcassero su pericolose carrette del mare. Anche allora né la Cei, né i partiti e i governi che si spacciano per cristiani, mossero un dito quando ci bloccarono, al ritorno, nel porto di Brindisi. Gli esempi di tragedie di immigrati, dell’omertà della maggior parte dei cattolici e della denuncia inascoltata di pochi, potrebbero essere tanti.

Per anni ho guardato i telegiornali e letto i quotidiani con grande sofferenza e rabbia, anche se con una non spenta speranza di sentire la voce forte e rappresentativa dei vertici della Chiesa italiana che finalmente facesse diventare scelte concrete le bellissime parole dei documenti ufficiali: quando non accogliamo i migranti, spranghiamo la porta a Gesù Cristo presente, vivo e vero nel povero, per trastullarci con l’adorazione eucaristica e le processioni del Corpus Domini, con un’ostia fin troppo asettica che non ci contamina le mani come le carni del povero. Perciò ho seguito con emozione in tv la tua visita a Lampedusa. Mai avrei immaginato che un papa potesse fare un gesto del genere. Ma anche se sono certo della tua sincerità, non mi fido di chi ti circonda: gli stessi che non hanno mai denunciato ciò che tu stai denunciando, gli stessi che hanno fatto arrivare “Pietro” troppo tardi a Lampedusa. Anch’io mi sono posto con te le domande: «Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo? Chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle?». E sono d’accordo con te quando dici: «Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del “patire con”: la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere!». Per la verità nella società di cui parli c’è una minoranza, forse una maggioranza silenziosa, che sa ancora piangere per e con chi è colpito dall’ingiustizia; ci sono tanti testardi che non si rassegnano al pensiero unico e cercano di opporsi alla peggiore globalizzazione e all’indifferenza; tra questi, tanti fedeli laici, alcune suore e preti, pochissimi vescovi.

Santo Padre, accettare fino in fondo il Vangelo di Nostro Signore e l’insegnamento della Chiesa dovrebbe portare proprio noi cristiani a denunciare fermamente l’imperante ondata di razzismo, ponendoci di fronte ad un dissidio inconciliabile: all’impossibilità, cioè, di rispettare le leggi dello Stato che si ergono come muro ad arginare la massa dei disperati che preme. Perciò, per non ridurre il tuo grandissimo gesto a qualcosa di stravagante, ti chiedo di far capire anche ai vescovi che una presa di posizione forte della Chiesa Italiana in merito alla questione è inderogabile, una voce levata alta che faccia capire senza equivoci da che parte i cattolici, laici e gerarchia, stanno e devono stare. La storia procede anche senza di noi: le migrazioni sono inarrestabili ed è una forma di grande miopia storica cercare di opporsi a questo fenomeno.