C.C.I.T.2017 – Madrid relazione di Cristina Simonelli

Il canto di tutti: la colonna sonora della nostra vita

Gracias a la vida que me ha dado tanto
me ha dado la risa y me ha dado el llanto
así yo distingo dicha de quebranto
los dos materiales que forman mi canto
y el canto de ustedes que es el mismo canto
y el canto de todos que es mi propio canto
Gracias a la vida, gracias a la vida….1

spagnolo nel testo, traduzione in nota

Parlare della musica è un po’ come parlare della nostra vita, che ha un ritmo, sempre: quello del cuore e del respiro – materno nella gestazione e nell’allattamento e anche certo quello proprio, finché ce n’è un briciolo. Questo ritmo conosce forme elementari e per questo profondissime, come le cantilene e le ninne nanne, e le espressioni di affetto, le manifestazioni di gioia e anche i lamenti di dolore. Si può così vedere come questa musicalità sia personale sì ma non individuale, perché nasce comunque in una relazione e in uno scambio, tra persone e con il creato. Tale dimensione relazionale è ancora più forte poi nelle forme elaborate, che hanno anche una connotazione collettiva e culturale. Non è un caso se abbiamo iniziato questa riflessione con una strofa di Gracias a la vida, canto inciso a Santiago del Cile nel 1965 da Violeta Parra Sandoval in relazione a una situazione personale, ma diventato poi una sorta di inno alla pace e alla dignità dei popoli, prima in Argentina (fu cantato da Mercedes Sosa) per poi raggiungere fama internazionale grazie alla voce e all’impegno di Joan Baez negli anni ’70. La gioia e il dolore nelle loro forme più alte diventano canto e il canto di ognuno può diventare canto di tutti e per tutti.

Con queste chiavi seguiamo un breve percorso biblico e pastorale, per provare poi a mettere in parola la nostra esperienza di «persone rom e non/rom» nell’ottica dell’espressione musicale, in senso antropologico e culturale e non certo in quello banale del folclore.

      1. Hai mutato il mio lamento in danza

Hai mutato il mio lamento in danza,

la mia veste di sacco in abito di gioia,

perché il mio cuore ti possa cantare inni senza posa

Signore, mio Dio, ti loderò per sempre

(Sal 30,12-13)

E’ chiaro per tutti come la Scrittura porti con sé moltissime attestazioni sia di canto/musica, nel senso personale e relazionale appena segnalato, che del suo uso collettivo e anche specificamente cultuale, a esprimere il dolore e la lode, la benedizione per la vita ricevuta e l’invocazione per la sua pienezza, non solo dei singoli ma del Popolo e, infine, di tutti e di ognuno. Se non mancano elementi musicali in tutta la raccolta biblica – si pensi ad esempio alla profetessa Miriam che guida il canto e la danza dopo il passaggio del mare in Esodo 15– ma certo spicca l’importanza in questo senso del Salterio, che è, fra l’altro, un “microcosmo musicale”. Il Salmo 30, del quale alcuni versetti danno il titolo a questo paragrafo e sono riportati sopra, porta con sé dimensioni personali profonde: in primo piano c’è il lamento di dolore per una malattia grave e il canto di gioia per la guarigione, per il mondo che si apre nuovamente. Grazie a questa concretezza fisica è potuto diventare anche il canto politico per una sconfitta evitata e l’inno religioso per la morte che si apre alla risurrezione.

Il biblista italiano Gianfranco Ravasi, ora cardinale, così descrive in generale il mondo musicale del salterio attraverso il vertice della raccolta, che è il Salmo 150:

L’ultimo carme del salterio, il 150, è una specie di sinfonia a cui è convocata tutta l’orchestra del tempio con i suoi strumenti (vv. 3-5), ma a cui si associa anche il filo musicale che nasce da ogni essere: cielo e terra, dimora infinita di Dio e sua residenza terrestre (= tempio) si uniscono verticalmente in un alleluia cosmico. Il corno (ŝofar) e la tromba sacerdotale, il nebel, cioè l’arpa, e il kinnor, la lira […] strumenti a corda e a fiato, strumenti noti dei professionisti e altri di cui oggi si fatica a ricostruire la effettiva forma, si uniscono al mizmor (cioè salmeggiare, termine che deriva il suo significato dal gesto di toccare le corde) e alla danza, al grido gioioso, o all’urlo della vittoria, in un quadro in cui non manca il dialogo antifonale fra coro e solista2.

Anche il nuovo Testamento conosce molte forme di Inni, che ad esempio nell’Apocalisse assumono anche tutto lo spessore di una liturgia, con diversi soggetti che intervengono e si rispondono. Sarebbe lungo poi ricordare le molte forme con cui questo è stato vissuto e interpretato, riporto solo, per la sua originalità, uno stralcio di uno scritto “apocrifo” che descrive una danza pasquale di Cristo:

Il tutto partecipa alla danza. Amen. Colui che non danza ignora ciò che è accaduto. Amen. […] Non ho casa e ho delle case. Amen. Non ho luogo e ho dei luoghi. Amen Lampada sono io per te che mi vedi. Amen. Specchio sono io per te che mi comprendi. Amen. Porta sono io per te che bussi. Amen. Via sono io per te che sei viandante. Amen. Rispondi ora alla mia danza, vedi te stesso in me che parlo[…] Tu che danzi, comprendi ciò ch’io faccio3

Tutto il mistero pasquale dunque viene espresso e insieme sperimentato in una musicalità che diventa anche danza. Anche al di là di questo testo particolare, è significativo – e sarà utile per la seconda parte della nostra riflessione – ricordare anche che di fatto non conosciamo con sicurezza quale fosse la musica dei salmi, così come degli inni più antichi extra biblici, anche se molti se ne sono posti alla ricerca: essa dunque oggi esiste solo nelle molteplici forme in cui è stata interpretata, riespressa, contaminata e dunque vissuta.

Nella sua forma collettiva, spesso organizzata e dunque ordinata e condivisa sia nella forma che nel significato, la musica diventa festa. Anche con l’aiuto degli studiosi di antropologia culturale, il mondo della teologia e della spiritualità ne ha maggiormente compreso l’importanza:

La riscoperta della dimensione festiva costituisce uno dei maggiori segni indicatori della capacità di memoria e di celebrazione dell’esistenza umana e del suo mistero nella storia di un popolo. Partecipare ad una festa significa rievocare insieme il suo messaggio ideale e impegnarsi a realizzarlo. Il fare festa diventa per una comunità un atto unificante, capace di coniugare simbolicamente nei segni posti, il passato, il presente e il futuro (Giuseppe De Virgilio)4

Dobbiamo infatti riconoscere che se oggi nessuno studioso della Bibbia negherebbe questa dimensione, non sempre il concreto atteggiamento pastorale è capace di vivere con serenità e carattere evangelico questa realtà.

2. Nella gioia del Vangelo

Ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua. Però riconosco che la gioia non si vive allo stesso modo in tutte la tappe e circostanze della vita, a volte molto dure. Si adatta e si trasforma, e sempre rimane almeno come uno spiraglio di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto (Evangelii Gaudium n. 6)

Quando dalla considerazione della Scrittura ci spostiamo a prendere in esame gli atteggiamenti pastorali, rischiamo sempre di essere molto generici. In questo caso ci aiuta però il magistero di Papa Francesco, molto attento a questi aspetti. Il testo che abbiamo appena letto è dell’Esortazione Apostolica da lui stesso più volte indicata come programmatica del pontificato e di questa stagione ecclesiale. Il passo è giustamente noto, perché si collega non solo al titolo generale (la gioia del Vangelo, ben diversa dalla lugubre comunicazione che a volte ci ha contraddistinto), ma anche alle tentazioni pastorali: in sintesi si può dire che la “faccia da Quaresima” che non conosce Pasqua non è affatto una virtù, bensì una malattia dello spirito, quella che si chiamava anche “accidia”, che si mostra come sfiducia negli altri e mancanza di speranza, ma denota carenza di fede e di carità, infine, di umanità. Spesso è il confronto con la diversità a permettere che questo sintomo emerga con forza devastante: allora sono, a turno, i giovani che appaiono disastrosi, le donne che rovesciano l’ordine stabilito, gli “altri” nel senso di stranieri e migranti, ma anche delle popolazioni da sempre presenti in contesti maggioritari, come le famiglie tzigane a sembrare portatori di trasgressione e disagio.

Anche il cammino sinodale ha indicato rischi analoghi ed ha rappresentato una risorsa di conversione pastorale. Averlo percorso:

significa aver dato prova della vivacità della Chiesa Cattolica, che non ha paura di scuotere le coscienze anestetizzate o di sporcarsi le mani discutendo animatamente e francamente sulla famiglia.

Significa aver cercato di guardare e di leggere la realtà, anzi le realtà, di oggi con gli occhi di Dio, per accendere e illuminare con la fiamma della fede i cuori degli uomini, in un momento storico di scoraggiamento e di crisi sociale, economica, morale e di prevalente negatività.

Significa aver testimoniato a tutti che il Vangelo rimane per la Chiesa la fonte viva di eterna novità, contro chi vuole “indottrinarlo” in pietre morte da scagliare contro gli altri.

Significa anche aver spogliato i cuori chiusi che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa, o dietro le buone intenzioni, per sedersi sulla cattedra di Mosè e giudicare, qualche volta con superiorità e superficialità, i casi difficili e le famiglie ferite.

Significa aver affermato che la Chiesa è Chiesa dei poveri in spirito e dei peccatori in ricerca del perdono e non solo dei giusti e dei santi, anzi dei giusti e dei santi quando si sentono poveri e peccatori.5

Una condizione anestetizzata, incapace di riconoscere il dolore e la gioia, la festa e il lutto di chi incontra, è spesso sintomo della incapacità di riconoscere i propri sentimenti, in quella che potrebbe essere indicata come “alessitimia”, termine che indica un disturbo della sfera emotiva, connotato dalla difficoltà di incapacità di percepire, riconoscere ed esprimere gli stati emotivi, propri e degli altri. Non basta una buona volontà singola per uscirne, abbiamo necessità di un lavoro collettivo: sinodale in termini ecclesiali, o politico e culturale in termini laici. Questi nostri incontri e lo “spirito del CCIT” possono contribuire a questo percorso di consapevolezza e di conversione pastorale, fatta anche attraverso gli occhi, i suoni, i riti “degli altri”.

3. Le musiche tzigane come ingegneria culturale e legame sociale

«La musica è il collante che unisce le persone umane […] la libertà e il soffio che consente di andare all’incontro degli altri nel mondo (Toni Gatlif) 6

Il film di Toni Gatlif, Latcho Drom, rappresenta oggi per noi, in questo nostro Incontro ben più di una conferenza. Mostra in sequenze filmiche quello che tutti sappiamo per esperienza e su cui vogliamo anche riflettere: quello che vale per ogni cultura ha un valore singolare per alcune. In questo caso l’espressione musicale è molto importante nella vita romani (tzigana) nelle molte differenze così come nelle dimensioni comuni. Così importante che, appunto, il regista riesce a indicare gli itinerari e le soste di tali popolazioni seguendone le musiche e le danze, dall’India alla Spagna, le feste e i lutti, gli incontri più o meno autentici.

Alcune sue forme sono così note e fondamentali per la cultura europea da farne parte in maniera inseparabile: le musiche ungheresi, cui si ispirò fra gli altri Franz Liszt e il Cante Flamenco in primo luogo, ma anche la musica dei Lautari rumeni, riuniti in gruppi denominati Taraf (composti di violino, fisarmonica, cimbalom – strumento di origine ungherese costituito da una serie di corde metalliche suonate con bacchette di legno – clarinetto o sassofono, più recentemente anche chitarra), e le composizioni balcaniche. Ma si deve ricordare anche la musica del nordafrica, in cui ad esempio emergono gli “Gypsy of the Nile” e i “Moroccan Gypsies”, con Sidi Mimoun e Ben Souda, o le forme legate alle tarantelle (danze popolari) del sud Italia. Alcuni nomi hanno tale risonanza da uscire anche da registri strettamente etnici, come quello del jazzista Django Reinhardt, di Manitas de Plata (= Ricardo Baliardo, Montpellier 2014), del complesso dei Gipsy Kings o di Goran Bregović.

Pensare di renderne anche solo minimamente ragione qui sarebbe altrettanto arrogante che pensare di aver parlato in maniera sufficiente della musica nella Scrittura. Senza contare che quello che a noi interessa non sono soltanto i grandi nomi, bensì la trama della vita quotidiana, della nostra comune esperienza, che si esprime in forme meno alte ma ugualmente artistiche, come pure nella semplice abitudine di ascoltare musica prodotta da altri, facendone però in certo senso la colonna sonora della nostra vita. L’ottica che vogliamo assumere è piuttosto un’altra: si usa dire che le differenze fra questi tipi di musiche sono tali e tante da lasciare sullo sfondo le somiglianze, che pure si potrebbero raccogliere nella frequenza di cambi di registro, nella capacità di seguire il ritmo come nel blues, nella prorompente improvvisazione come nel jazz. Infatti:

Ciò che distanzia questi artisti dalle lontane origini comuni sembra maggiore di ciò che li avvicina. Eppure nei numerosi stili che si sono venuti a creare si possono riconoscere vari elementi in comune, prima fra tutte la pratica molto frequente dell’improvvisazione, con rapidi cambi di tempo, ritmi assai sostenuti, talvolta note lunghe e appassionate, un alto grado di virtuosismo, una forte sensibilità quasi sentimentale e una ricca “ornamentazione”, fatta di cesellature e arabeschi. Talvolta, inoltre, le esecuzioni vengono arricchite da suoni prodotti con qualsiasi mezzo si abbia a disposizione, dalla percussione di una vecchia lattina al battito di mani (Francesca Ferrando).

Di fatto qui vogliamo sottolineare in maniera particolare proprio le differenze, perché sono il segno di quella che, seguendo Leonardo Piasere, possiamo indicare come “ingegneria culturale” degli zingari, categoria sintetica [politetica7] che si riferisce con uno stigma negativo a gruppi dalle diverse autodenominazioni, la più frequente delle quali è Rom. Infatti «le reti di famiglie rom nascono nella storia e sono il prodotto di innumerevoli microsituazioni in continua evoluzione»8, caratterizzate dalla dispersione in un contesto diverso, rispetto al quale sono in continuo scambio culturale. Questa interazione prevede l’assunzione di elementi di vario tipo, che vengono adottati, riadattati, in parte conservati e in parte trasformati: questa è appunto l’idea e la pratica della “ingegneria culturale”. Tale pratica culturale riguarda tutti gli aspetti della vita, dalla lingua all’uso dei new media e perfino gli aspetti religiosi: non c’è motivo dunque di dubitare che riguardi anche la musica, che anzi ne diventa un prezioso indicatore, un luogo in cui si può fare concreta esperienza di questo mondo vitale di scambio. E’ in fondo la stessa cosa che si è detto per i Salmi, che cioè non vivono nell’archeologia irraggiungibile di un suono puro, ma nella contaminazione plurale delle molte esecuzioni.

Per questo motivo possiamo lasciare, pur senza sottovalutarlo, il mondo dei nomi famosi e dei complessi diffusi sul web, per consentire ad ognuno di andare alla propria esperienza. Io stessa riporto alcuni miei ricordi, per invitare così ognuno a fare lo stesso. Sono momenti a volte ridicoli, spesso drammatici, in ogni caso tanto comuni e altrettanto particolari. Ricordo innanzi tutto un amico con alcuni disagi fisici, Rom italiano di origine slovena, che aveva acquistato con tuttoil denaro che aveva uno stereo di dimensioni notevoli, come erano tali strumenti negli anni ’80/90. Finiti i soldi, si trattava di portarlo a casa, che era distante, e dunque con un taxi percorse 150 km, finché arrivato presso la famiglia del fratello, candidamente, disse che si doveva pagare l’autista. Dopo lo sconcerto, il pagamento e certo un po’ di rabbia… fu acceso lo strumento e tutta la famiglia iniziò a ballare un mondo diverso possibile!

Altri momenti musicali che non posso dimenticare sono quelli funebri: il suono del violino dell’anziano Sinto che onorava così tra le lacrime la sepoltura della moglie, le musiche contrastanti delle bande musicali che, secondo un uso appreso da alcune regioni italiane come la laica Emilia, accompagnano la via che porta al cimitero, alternando musiche felici, magari amate dal defunto, ad altre tristi, consentendo così l’espressione dell’affetto e del cordoglio.

Infine, un’esperienza di altro tipo, ma estremamente significativa: in un paese italiano a forte densità di politiche e discorsi xenofobi, particolarmente accesi nei confronti degli “zingari”, si tenne pochi anni or sono un concerto di Goran Bregović, cui ebbi occasione di assistere. La maggior parte dei brani, lo comprendevo molto bene, erano in romanes, le musiche erano quelle balcaniche, tipico esempio di mixage e contaminazione di suoni. Bregović non spiegava, non faceva discorsi di bontà e integrazione, semplicemente suonava e cantava insieme al suo complesso: tutti i partecipanti, xenofobi o meno che fossero, in visibilio, saltavano, ballavano, applaudivano!!

Soprattutto l’ultimo esempio consente una riflessione: come ha efficacemente mostrato Daniele Todesco in un suo studio sul pregiudizio positivo9, ogni forma di sterotipia è un modo di allontanare gli uni dagli altri. Certo i pregiudizi negativi sono pessimi, ma forse più scoperti ed evidenti. Anche quelli positivi, che rendono in maniera iperbolica e irreale le caratteristiche che dipingono hanno una propria perniciosità e sono anche più subdoli. Anche l’idea dello zingaro musicista romantico e della Carmen ballerina irresistibile possono assumere questa funzione, che è in fondo di distanziamento e occultamento. Da questo rischio può non essere esente l’azione sociale e la pratica pastorale: esserne consapevoli può essere il primo modo per evitarlo. Tuttavia questo rischio è presente, ma non è l’unico aspetto: la musica, come si è visto, rappresenta per più aspetti l’espressione e la realizzazione di un legame sociale. All’interno dei gruppi familiari e interfamiliari che la vivono, nella rete amicale come in quella che ha segnato la vita mia e della mia comunità, ma anche nel contesto più largo nel quale le comunità tzigane dimorano o nomadizzano. Questo è già di per sé parte della forma musicale interattiva e contaminata, mixata e riespressa che come abbiamo visto è una caratteristica costante attraverso le molteplici differenze. Ed è evidente fino alla ironia più sottile nell’esempio dei giovani xenofobi che ballano sfrenati musiche Rom.

4 Gli occhi degli altri: la conversione del “principio di distinzione”

In quel giorno ci sarà una strada dall’Egitto verso l’Assiria; l’Assiro andrà in Egitto e l’Egiziano in Assiria; gli Egiziani serviranno il Signore insieme con gli Assiri. In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti: «Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità (Isaia 19, 23-25).

Come negli Incontri del CCIT ci siamo più volte detti, ci troviamo costantemente a dover negoziare fra due principi che si fronteggiano: stiamo, sia a livello di azione sociale/politica/culturale che di pratica religiosa, tra il timore della “etnicizzazione” [=riduzione di tutte le questioni ad un unico registro, quello etnico] e quello della omologazione, cioè tra il rischio di rendere tutto speciale, tutto etnico – costrizione e identificazione a cui ognuno di noi giustamente reagisce! – e quello, opposto, di non saper riconoscere niente di culturalmente valido e positivo al mondo tzigano. Il difetto, mi sembra sta proprio in una visione rigidamente binaria: o bianco o nero, o.. niente!

Mi sembra che potrebbe aiutarci in questa riflessione un suggerimento di Jan Assmann, un egittologo che, avvicinandosi alla figura di Mosè, protagonista dell’Esodo biblico, ma, appunto “straniero necessario”, egiziano ed ebreo a un tempo. Assmann parla come di “distinzione mosaica”per indicare la forma di identitarismo esclusivo cui dà vita quel particolare monoteismo. La questione, così come si deposita nella memoria culturale e religiosa del Libro biblico e della sua memoria attualizzata, nasce da un pasticcio etnico, da un disprezzo che era diventato sottomissione e schiavitù. Ad esso ha reagito un uomo/tipo, meticcio e appartenente alle due culture, quella maggioritaria e dominante e quella minoritaria e sottomessa. La storia che ne trae origine è segnata, appunto, dall’esclusivismo: un Dio, un popolo, una Legge, diversi e separati da tutti gli altri. Tuttavia, come lo stesso Assmann segnala, in quella narrazione plurale (=la raccolta biblica) e nelle tradizioni viventi che vi si riferiscono, c’è anche un’altra possibilità ed è quella di convertire la distinzione/separata in differenza/accogliente. In Assmann questo si concretizza nell’idea di conversione del monoteismo:

Solo come religio duplex, vale a dire come una religione a due piani, che ha imparato a concepirsi come una tra le molteplici e a guardarsi con gli occhi degli altri, e che nondimeno non ha perso di vista il Dio nascosto o la verità nascosta come punto di fuga comune a tutte le religioni, la religione stessa può trovare un posto nel nostro mondo globalizzato10

Nello stesso senso – e anche se lo studioso utilizza qui comunque una categoria binaria, attraverso l’idea di “duplice” – si potrebbe pensare a una forma di conversione dell’identità di distinzione, convocata a conversione non nel senso del suo annullamento ma in quello della sua forma di legame solidale e inclusivo11.

Lo scenario geopolitico nel quale infatti oggi viviamo – e viviamo dunque la nostra fede – è quanto mai complesso e violento e resiste ad ogni semplificazione. Anche la Scrittura non fa sconti sulla durezza dei conflitti a diversi livelli, e oggi abbiamo forse maggior lucidità di un tempo per leggere anche le pagine dure, se, ad esempio, anche l’esortazione post-sinodale Amoris laetitia può parlare di un sentiero di sofferenza e di sangue che attraversa molte pagine della Bibbia, a partire dalla violenza fratricida di Caino su Abele (AL n.20). Guerre e rumori di guerre, ingiustizie strutturali, violenza sui deboli, fra cui le donne anche nella famiglie dei patriarchi e del re Davide e di conseguenza fughe, deportazioni, esilio e esodo di popoli: non manca nulla. Guardando anche quelle pagine, troviamo spesso in esse delle perle che sono preziose, perché non nascono in contesti romantici, ma nel cuore delle contraddizioni e dei conflitti. Tale è un breve oracolo, la cui importanza accolgo tramite una lettura a suo tempo fornitane da Piero Stefani. Si trova in un contesto defatigante e certo non incoraggiante, denominato – ed è tutto un programma – “oracoli contro i popoli stranieri”, che occupa nell’attuale disposizione di Isaia i capitoli 13-23. I vaticini – parte nella forma di predizione post/evento dai toni apocalittici, parte nella forma della imprecazione, sono raggruppati come in Amos 1-2; e Geremia, in cui occupano i capp 46-51 (nel testo masoretico, collocati dopo il 25 nei LXX) e Ezechiele 25-32. La loro iterazione, sia pure con alcune differenze, da una parte li colloca in un genere letterario diffuso, che non riguarda solo la scrittura ebraica, li fa diventare stile. I “popoli”sono tutti i confinanti nonché i nemici tradizionali – Egitto, Assiria, Filistei – e alcuni altro, tra cui Etiopi e Arabi.. Ripeto la perla che si apre e cambio lo scenario radicalmente:

In quel giorno ci sarà una strada dall’Egitto verso l’Assiria; l’Assiro andrà in Egitto e l’Egiziano in Assiria; gli Egiziani serviranno il Signore insieme con gli Assiri. In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti: «Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità (Isaia 19, 23-25).

E’ una profezia messianica, in fondo, come quella secondo cui il lupo dormirà con l’agnello e le armi diverranno strumenti di lavoro, che si applica però ai nemici tradizionali di Israele. Non sarà sfuggito,inoltre, che ai due popoli vengono applicati i titoli riservati al popolo eletto: l’egiziano è ammi, mio popolo, e l’Assiro “opera delle sue mani”.

Che resta di Israele?: non solo non ha i titoli consueti, ma diventa addirittura “terzo”. Si può però vedere come questa terzietà, se così si può dire, che sembra anti/identitaria, in realtà compie la sua più propria ragion d’essere: è benedizione, altro nome di shalom. Israele qui non “perde” niente, anzi… la sua identità è berakah, benedizione, “in mezzo alla terra”. Quella conversione dell’identità di cui si è appena detto sopra.

La musica, nel senso in cui l’abbiamo considerata, può partecipare a questa conversione e diventare soglia (threshold english; seuil; umbral) per molti accessi. Consente infatti di affacciarsi all’esperienza della gioia e del dolore, della festa e del lutto. Consente di stare sulla soglia della casa e della festa dell’Altro, imparando da questo spostamento a esprimere i propri sentimenti, a pronunciare le proprie lodi, a cambiare la propria vita. Consente, ancora, di stare sulla soglia delle interazioni culturali: certo evitando gli ostacoli delle maschere che possono nasconderci gli uni agli altri, ma aprendo vie inedite di incontro, proprio là magari dove i conflitti sono più aspri. Come si esprime infatti mettendo in relazione contesti e elementi diversi, così può aprire vie di incontro e benedizione, senza moralismi ma con profonda eticità.

Infine, come nel salmo 30, la soglia che fa sperimentare è anche quella radicale, in cui la vita si apre nel suo Oltre, quella del gemito dello Spirito (Rm 8) che attraversa le parole e fa sì che il canto di ognuno diventi il canto di tutti e di tutte le cose: Gracias a la vida.

Cristina SImonelli

1Grazie alla vita che mi ha dato tanto

Mi ha dato il riso e mi ha dato il pianto

Così io distinguo la felicità dal rimpianto

I due materiali che formano il mio canto

E la vostra canzone che è il mio stesso canto

E la canzone di tutti che è il mio proprio canto

Grazie alla vita che mi ha dato tanto

2Gianfrano Ravasi, Il libro dei salmi. Commento e attualizzazione, Vol I,, EDB, Bologna 1985, pg 28: la seconda parte della citazione è una mia sintesi del suo scritto.

3Atti di Giovanni, 94-96. Scritto apocrifo, che tuttavia conserva elementi innici e liturgici interessanti

4La festa costituisce comunque un momento particolarmente privilegiato anche in senso religioso: chiamando l’uomo ad uscire da se stesso e dal proprio quadro ordinario di esistenza, lo apre in maniera nuova all’esperienza del sacro, del divino, della fede. In questo senso, la festa fa parte delle ricchezze più preziose della nostra umanità” (AA. VV., Riscoperta della festa, Roma 1991, 27).

5http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/october/documents/papa-francesco_20151024_sinodo-conclusione-lavori.html

7Leonardo Piasere, I rom d’Europa. Una storia moderna, Laterza, Roma-Bari 2004, 3;15. «Ci sono almeno due modi di guardare e descrivere i rom e gli altri gruppi detti “zingari”. Il primo ruota attorno ai concetti di integrazione anomia, anche quando tali termini non sono apertamente pronunciati. […]. Il secondo considera il rapporto tra rom e non zingari come fortemente radicato nel continuum spazio-temporale della modernità europea e come suo momento strutturale profondo» (ibidem,VII).

8Piasere, I rom d’Europa, 89.Questo paragrafo riprende le osservazioni dell’intero capitolo Le concezioni del mondo, 89-105.

9Daniele Todesco, Le maschere dei pregiudizi: l’innocenza perduta dei pregiudizi positivi. Una categoria esemplare: gli zingari, Quaderno Migrantes, Roma 2004.

10Jan Assmann, Monoteismo e distinzione mosaica, Morcelliana, Brescia 2015, 20.

11Hans Küng, Teologia in cammino. Un’autobiografia spirituale, Mondadori, Milano 1987, 269ss

messaggio del Vaticano al CCIT 2017 a Madrid

CCIT 2017 Madrid

 

Dal Vaticano. 10 aprile 2017

DICASTERIUM AD INTEGRAM HUMANAM PROGRESS1ONEM FOVENDAM

Messaggio di S.Em. Cardinale Peter K. A. Turkson Prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale ai Partecipanti all’Incontro Annuale del Comite Catholique International pour les Tsiganes (CCIT) (Guadarrama, Spagna, 21-23 aprile 2017)

Reverendo e caro Padre Dumas,

Cari fratelli e sorelle,
Mi è  gradito rivolgere cordiale saluto a tutti voi riuniti net consueto Incontro annuale del Comitato Cattolico Internazionale per gli Zingari. Esprimo parole di stima e di riconoscenza per la generosity e l’impegno con cui vi dedicate al servizio delle popolazioni rom, sinti e altri gruppi gitani. Nel corso della riunione vi dedicherete alto studio del tema La musica nella vita, tra festa e legame sociale. Questo argomento si riferisce a uno degli aspetti essenziali della vita dei rom, la musica. Il tema invita anche a una riflessione sul ruolo che la musica ricopre nel processo d’integrazione del popolo gitano.

Voi, cari amici, che condividete lo stile di vita dei rom sperimentate quotidianamente come la musica perinea la loro esistenza e plasma la loro identity. Attraverso la musica le varie etnie gitane raccontano momenti importanti della loro vita, narrano la bellezza della natura e, soprattutto, svelano ii desiderio di amare e di essere amati. Considerando la loro storia, sarebbe interessante vedere come la musica gitana si a evoluta nel corso degli anni, in che modo ha influenzato la vita dei popoli gitani e come ha modellato le loro relazioni con altri popoli ed etnie. Una cosa e certa: nelle sue varie manifestazioni, la musica gitana e stata sempre apprezzata e ammirata per la ricchezza delle espressioni sonore e per le melodie, e non ha mai trovato barriere culturali, linguistiche o religiose. Nel tempo, ha detto loro Papa Benedetto XVI, ricevendo i rom in udienza privata l’undici giugno 2011. “avete creato una cultura dalle espressioni significative, come la musica e il canto, che hanno arricchito l’Europa”. Infatti, la musica gitana e penetrata nel folklore dei popoli ospitali, contribuendo allo sviluppo di gruppi strumentali e di alcune forme musicali come it flamenco spagnolo. Musica, canti, danze e costumi gitani hanno marcato le feste popolari di tutti i tempi. Per quasi mille anni, le etnie gitane che vivono in Europa hanno ispirato non soltanto grandi compositors quali Brahms, Liszt o Bizet, pittori e poeti, ma soprattutto l’arte popolare. II flamenco, il violino e la fisarmonica sono diventati simboli distintivi del popolo gitano. ma si deve evitare che popolo rom venga identificato soltanto con musica e danza. La musica gitana porta in se valori fondamentali dell’essere gitano: l’amore per la famiglia, per gli anziani, la difesa della vita.

La musica è un fattore importante nello sviluppo integrale della personalità, aiuta a sviluppare i sentimenti e l’immaginazione, è creatrice di gioia e bellezza. E necessario sfruttare tutte le possibilità della musica gitana per potenziare il protagonismo del popolo rom nella sua promozione umana, sociale, culturale e religiosa, ma soprattutto nello sviluppo integrale di ogni membro della comunità gitana, cominciando dai bambini e dai giovani, fino agli adulti. Finché subirà discriminazione e oppressione, fino a quando non avrà accesso ai fondamentali servizi sociali, finché sarà calpestata la dignità anche soltanto di uno di loro, non si potrà parlare di sviluppo integrale. Tutto questo esige anche un serio impegno del popolo gitano, la volontà di avvicinare le nuove generazioni all’istruzione e all’educazione professionale. La musica è uno dei mezzi di educazione che favorisce creazione di una convivenza pacifica e solidale. Se a volte le popolazioni rom sono emarginate e rigettate dalla società, al contrario la loro arte di far festa è molto apprezzata; anche se molti di loro vivono il dramma di accoglienza negata e di rigetto, la loro musica e la loro arte sono dei fattori che diminuiscono tensioni sociali.
Momenti particolari di integrazione sociale e di omaggio alla cultura e arte gitana, sono i Festiva! di Musica e di Cultura Rom organizzati in vari Paesi europei. Mentre da una parte assecondano l’integrazione all’interno della minoranza rom, rendendola consapevole del proprio valore culturale e della propria originalità specifica, dall’altra, questi offrono occasioni per intrecciare relazioni interpersonali e sociali che aiutano a prevenire i conflitti e a promuovere la tolleranza e il rispetto nello spirito dei valori della democrazia e della libertà. La musica gitana è una musica della collettività; nasce nella comunità, la definisce e ne determina le tradizioni, l’identità e la cultura. Come parte integrante dell’esistenza, la musica ricopre un ruolo fondamentale nel dialogo intergenerazionale. Il canto e le ballate trasmettono alle nuove generazioni la storia e il patrimonio culturale della propria etnia. Nel pensiero teologico di Papa Benedetto XVI, tre sono i luoghi in cui scaturisce la musica: l’esperienza dell’amore, l’esperienza della tristezza e del dolore, e l’incontro con il divino, con Dio stesso¹. La musica e il canto trovano le sue fondamenta nella Sacra Scrittura e sin dall’inizio hanno accompagnato la preghiera della Chiesa. I Salmi, cantati in ogni liturgia, esprimono i vari sentimenti delle creature verso il Creatore e sono veri inni di lode al Signore. Con essi pregava Gesù e la sua Madre. Il “Magnificat” è un inno per eccellenza di esaltazione e di gratitudine al Dio Creatore. Con Salmi anche la Chiesa canta e prega, come insegnava Sant’Agostino “Il cantare è proprio di chi ama” (Sermo 336,1: PL 38,1472). Spetta a voi, cari operatori pastorali, scoprire modi affinché la musica gitana trovi spazio nella liturgia e sia un’espressione sincera del vero incontro tra l’uomo e il suo Creatore.
Cari amici, voi che accompagnate le varie etnie gitane nel loro percorso verso la partecipazione legittima e doverosa nei diritti e nei doveri della società e della Chiesa, siate come una madre con cuore aperto², siate una Chiesa “in uscita” che giunge le periferie umane. Questi giorni vi serviranno per rallentare il passo e mettervi in atteggiamento di ascolto e di contemplazione dei valori, delle gioie e dei dolori dei nostri fratelli e sorelle gitani. Auspico per tutti voi la pienezza dello Spirito Santo e imploro la benedizione di Dio per tutti voi, le vostre comunità e le vostre famiglie.


1.BENEDETTO XVI, Discorso in occasione della Consegna di Dottorato honoris causa dalla Pontificia Università “Giovanni Paolo II” e dall’Accademia Musicale di Cracovia, Castel Gandolfo, 4 luglio 2015.

2 Cfr. PAPA FRANCESCO, Evangelii Gaudiztm, V, 46.

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