i vescovi brasiliani denunciano con coraggio il ‘reato di povertà’ alle Olimpiadi

Giochi di Rio

la Chiesa non tace e denuncia

di Luca Rolandi

in “La Stampa-Vatican Insider” del 7 agosto 2016rio

 

Si parte. La 31esima Olimpiade dell’era moderna si inaugura a Rio e al mondo olimpico sono arrivati gli auguri di papa Francesco: «Agli atleti di #Rio2016! Siate sempre messaggeri di fraternità e di genuino spirito sportivo». Papa Francesco ricorda, reduce da Cracovia, i giorni di Copacabana, il suo primo bagno di folla con i giovani di tutto il mondo ed è ben consapevole della forza di aggregazione e fratellanza dello sport. Se le Olimpiadi dovrebbero sempre rappresentare incontro, relazioni, lealtà e competizione, la Chiesa, quella brasiliana in prima linea, non dimentica tutto ciò che intorno all’evento resta ai margini. Migliaia di persone in povertà, sfruttate e senza speranza. La Chiesa brasiliana e i Giochi di Rio La Chiesa brasiliana è ovviamente mobilitata da tempo. Tanti vescovi condividono riflessioni sull’importanza dello sport nella promozione di alcuni valori. Sono stati organizzati eventi e iniziative per chiedere di mettere a tema, nei giorni delle Olimpiadi, l’esclusione sociale, la lotta al traffico di esseri umani, al lavoro schiavo e allo sfruttamento. Un centro interreligioso con luoghi di culto per cristiani, musulmani, ebrei, buddisti e indù è stato già costruito nel villaggio olimpico che ospita 10mila atleti, una collaborazione tra Comitato olimpico internazionale e arcidiocesi di Rio de Janeiro. Sul sito della Diocesi carioca è anche ospitata la piattaforma Meu lugar no Rio per tutti coloro che vorranno mettersi a disposizione come volontari o aprire le porte di casa all’accoglienza durante i Giochi. La Chiesa locale è impegnata in un momento importante di testimonianza ed evangelizzazione. Centinaia di giovani, formati dalla Comunità do caos à gloria, andranno a parlare del Vangelo ai turisti durante i weekend.

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La vergogna delle Favelas e il reato di povertà

La povertà è stata dichiarata un reato.

Dal settembre 2015 le famose spiagge di Ipanema e Copacabana di Rio sono proibite ai ragazzini delle favelas. Basta non avere le scarpe o essere vestiti in malo modo per essere bloccati e arrestati da un cordone di agenti mentre il Parlamento brasiliano vorrebbe abbassare a 16 anni l’età in cui si può essere processati come adulti. La presenza di minori – spesso autori di assalti, furti, scippi e altri reati – è vista come una minaccia al Paese, che vorrebbe mostrarsi «pulito» e in grado di garantire tranquillità e sicurezza a turisti e tifosi durante le Olimpiadi. La polizia ammette la morte violenta di molti minori, ma sostiene di aver risposto al fuoco di gruppi criminali o dice che molti minori muoiono nel fuoco incrociato tra bande, poi è la polizia a mettere la pistola accanto o in mano al cadavere di un ragazzo. Nei primi sei mesi del 2015 gli agenti hanno ucciso nello Stato di Rio de Janeiro 347 persone, di cui 170 nella città capitale dello Stato; il 75% delle vittime aveva tra i 15 e i 29 anni; otto su dieci erano afroamericani. L’Unicef parla di 10.500 bambini e adolescenti assassinati in un anno, il doppio rispetto al 1992. In media c’è un minore ucciso ogni ora, 28 al giorno. Non tutti sono vittime della polizia, delle bande, degli squadroni della morte. Molti muoiono durante episodi di criminalità. La lotta alla povertà durante le presidenze di Lula e di Rousseff ha fatto uscire dalla povertà oltre 50 milioni di persone, ma quella brasiliana rimane una società violenta, come quella statunitense. E la polizia brasiliana gode di una sostanziale immunità, come quella a stelle e strisce.favela

La «Convenzione per i diritti dell’Infanzia», adottata nel 1990, aveva fatto del Brasile un paese-guida in America Latina. Oggi non più. Al di là dei minori assassinati c’è il fenomeno dei bambini e ragazzi scomparsi: si teme che molti siano stati uccisi. Don Renato Chiera, fondatore nel 1986 della Casa do meñor São Miguel arcanjo, comunità per bambini di strada alla periferia di Rio, parla di quattrocento alla settimana, cioè ogni 15 minuti un minore sparisce nel nulla, e in maggioranza sono abitanti delle favelas e sono neri. La Chiesa e le organizzazioni cattoliche – come ricorda in un colloquio don Chiera con don Pier Giuseppe Accornero, sono da sempre in prima linea in questo settore, anche per la loro esperienza plurisecolare in difesa dei minori abbandonati o a rischio. La Chiesa cerca anzitutto di sensibilizzare le comunità e la rete capillare delle organizzazioni cattoliche; si oppone all’abbassamento della soglia di punibilità a 16 anni; ritiene che i minori, anche se reclutati dalle bande, siano più vittime che carnefici, prodotti da una società violenta. Un impegno ecclesiale che si concretizza nelle periferie Impegnata nella «Pastoral da criança, pastorale dell’infanzia», la Chiesa è presente in 3.821 municipi del Brasile e si occupa direttamente di circa 1.100.000 bambini tra i 3 e i 6 anni. Vi lavorano 198mila volontari – di cui l’88% sono donne – che evitano ogni forma di discriminazione e di proselitismo. «Bisogna lottare con ogni mezzo contro l’infamia del traffico degli esseri umani e la diffusa cultura edonistica e mercantile, che incoraggiano lo sfruttamento sistematico della dignità e dei diritti delle persone». A nome di papa Francesco, l’arcivescovo Bernardito Auza, capo della missione della Santa Sede alla Conferenza delle Nazioni Unite per eliminare la tratta dei bambini dei giovani, denuncia ancora una volta «questo cancro sociale». Una battaglia che la Chiesa – attraverso le parole dei papi e l’impegno concreto delle istituzioni cattoliche – porta avanti incessantemente per contrastare «la tratta delle persone, il lavoro forzato e la moderna schiavitù». È un’infamia che soggioga 2 milioni di minori al mondo. La conferenza organizzata al «Palazzo di vetro» di New York valuta cosa si sta facendo e cosa non si sta facendo, e cosa deve essere fatto per liberare bambini e ragazzi dalla schiavitù e raggiungere l’obiettivo nell’«Agenda» Onu, che obbliga la comunità internazionale entro il 2030 a porre fine all’abuso, allo sfruttamento, al traffico e a tutte le violenze e torture contro i bambini.

i vescovi brasiliani ammettono l’appoggio alla dittatura

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LA CHIESA BRASILIANA AMMETTE:
ALCUNI VESCOVI APPOGGIARONO LA DITTATURA

«Se è vero che, all’inizio, alcuni settori della Chiesa appoggiarono le mobilitazioni che si tradussero nella cosiddetta “rivoluzione” [così fu chiamato il colpo di Stato del ‘64] al fine di combattere il comunismo, è anche vero che la Chiesa non tacque appena si rese conto dei metodi usati dai nuovi detentori del potere che non rispettavano la dignità della persona e i suoi diritti»
Tale ammissione di connivenza è contenuta nella “Dichiarazione per i tempi nuovi di libertà e democrazia” emessa dalla Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb) nel 50° anniversario del colpo di Stato che originò, il 1° aprile del 1964, una dittatura durata 21 anni.

Nel testo, i firmatari – il presidente della Cnbb, card. Raymundo Damasceno Assis, il vicepresidente, dom José Belisário da Silva, e il segretario, dom Leonardo Ulrich Steiner – motivano innanzitutto la Dichiarazione: «Raccontare i tempi del regime d’eccezione – affermano –  ha senso in quanto ci porta a comprendere l’errore storico del golpe, ad ammettere che non a tutto è stato posto rimedio e ad allertare le generazioni post-dittatura perché si mantengano sempre attive nella difesa dello Stato democratico di Diritto». E descrivono la situazione dalla quale non tutti i vescovi seppero prendere le dovute distanze: «Si stabilì una spirale di violenza con la pratica della tortura, la soppressione della libertà di espressione, la censura della stampa, la decadenza dei politici; furono instaurate la paura e il terrore. In nome del progresso, che non si realizzò, diversi popoli furono espulsi dalle loro terre e altri decimati. Molti i morti che non poterono essere seppelliti dai loro familiari». E «ancora oggi molte ombre coprono la verità sui 21 anni che ridussero il Brasile ad un Paese di dolore e lacrime. Ci aiuta a pagare questo debito storico con le vittime del regime la Commissione Nazionale della Verità», istituita nel maggio del 2012, «il cui obiettivo è far luce, senza revanscismi né vendette, su quello che è rimasto nascosto negli abissi della dittatura».

Un orrore cui hanno posto fine «quanti hanno creduto e lottato per il ritorno alla democrazia, alcuni con il sacrificio della loro vita», e grazie ai quali «viviamo tempi nuovi, respiriamo l’aria della libertà e della democrazia». E tuttavia, sottolinea la Dichiarazione, «è necessario superare l’ingiustizia, la disuguaglianza sociale, la violenza, la corruzione, la non credibilità della politica, il non rispetto dei diritti umani, la tortura… La democrazia – mettono in guardia dal vertice dell’episcopato brasiliano – esige la partecipazione costante di tutti». Da parte sua, «fedele alla sua missione evangelizzatrice, la Cnbb riafferma l’impegno per la difesa di una democrazia partecipativa e feconda di giustizia sociale per tutti» e «chiama la società brasiliana ad essere protagonista di una nuova storia, libera dalla paura e forte nella speranza».
Verità, “dovere di solidarietà”

Anche la Commissione Nazionale della Verità, in una nota del 31 marzo, ha voluto ricordare i 50 anni dall’inizio della dittatura, «un regime autoritario che disprezzava i diritti umani; nel quale i diritti sociali di molti erano ignorati e oppositori e dissidenti erano sistematicamente perseguitati con la perdita dei diritti politici, la detenzione arbitraria, la prigione, l’esilio; e dove la tortura, gli omicidi, le scomparse forzate di persone erano regolarmente utilizzati contro quanti insorgevano». In questo cinquantenario, «la Commissione Nazionale della Verità vuole rendere omaggio a queste vittime e riaffermare la sua determinazione a costruire con gli altri un Brasile sempre più democratico e più giusto».

La Cnv è nata, ricorda la nota, «con l’obiettivo di esaminare e chiarire le gravi violazioni dei diritti umani praticate in quel periodo», e poggia «sulla convinzione che la verità storica ha come fine non solo l’affermazione della giustizia, ma anche l’avvio alla riconciliazione nazionale». «Nella certezza – aggiunge infine l’organismo – che il chiarimento circostanziato e l’accertamento della responsabilità dei casi di tortura, morte, scomparsa forzata, occultamento di cadavere, nonché l’identificazione di locali, istituzioni e circostanze relazionate alle gravi violazioni dei diritti umani costituiscano un dovere elementare di solidarietà sociale e un imperativo di decenza reclamati dalla dignità del nostro Paese».

eletta cucuzza su Adista

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