lo ‘stile’ del cristiano – l’umanità ospitale

l’umanesimo dell’ospitalità

La Facoltà teologica dell’Italia centrale, che ha sede nel capoluogo toscano, ha ospitato il 23 novembre l’incontro «Umiltà, disinteresse, beatitudine. Rileggere il Convegno ecclesiale di Firenze», convegno svoltosi quattro anni fa e durante il quale, era il 10 novembre 2015, Francesco intervenne con un fondamentale discorso. In esso il Papa parlò fra l’altro di “umiltà, disinteresse, beatitudine”, presentandoli come tre tratti da prendere in considerazione per una esaustiva meditazione sul nuovo umanesimo cristiano (tema dell’assise):
«Questi tratti dicono qualcosa anche alla Chiesa italiana che oggi si riunisce per camminare insieme in un esempio di sinodalità. 
Ci dicono — sottolineò — che non dobbiamo essere ossessionati dal “potere”, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa».
Aperto dai saluti del presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Gualtiero Bassetti, l’incontro ha visto al centro del dibattito la relazione del padre gesuita Christoph Theobald, docente di teologia fondamentale e di dogmatica al Centre Sèvres di Parigi.
Stralci del suo intervento dal titolo
«Il cristianesimo come stile. Per un nuovo umanesimo» (L’Osservatore Romano del 26 novembre 2019)
di Christoph Theobald
Nel suo incontro con i partecipanti al quinto Convegno nazionale della Chiesa italiana, quattro anni fa, nella cattedrale di Santa Maria del Fiore, Papa Francesco ha evocato un nuovo umanesimo, che aveva già auspicato davanti al Consiglio d’Europa l’anno precedente. Verosimilmente il primo umanesimo, che ha generato l’antropocentrismo occidentale, ha bisogno di essere rivisitato. Pur conservando sempre viva la memoria dei valori che ha generato e delle loro istituzionalizzazioni politiche — diritti dell’uomo, libertà, uguaglianza e fraternità, così come le nostre costituzioni democratiche — dobbiamo anche interrogarci sulle terribili perversioni che si sono prodotte nella sua zona d’influenza, e sulla crescente incapacità delle nostre società europee a porvi rimedio.
Sullo sfondo di queste paralisi si situa un vero «cambiamento epocale» — «non un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca», si legge nel discorso del Papa — cambiamento che non si è fermato davanti alle porte della Chiesa e che si manifesta oggi in una crisi sistemica di quest’ultima: la pedocriminalità è senz’altro in primo piano, ma i cambiamenti delle modalità di appartenenza alla Chiesa, o più ancora le prese di distanza rispetto a essa sono ben precedenti, senza parlare delle difficoltà della comunità cristiana a far risuonare il Vangelo, in modo che esso possa raggiungere il cuore della gente. Da qui l’invito costante del Santo Padre a una riforma della Chiesa a partire dal «centro della fede», il kèrigma o il Vangelo, come dice in questo stesso discorso; una riforma che corrisponda al «cambiamento d’epoca» al quale assistiamo e che porti a inventare un nuovo stile di vita cristiana nel mondo contemporaneo e una nuova maniera di esservi presenti; stile o maniera di cui il fondamento e l’effetto potranno essere colti dai nostri contemporanei come un nuovo umanesimo.
Teniamo presente la struttura triangolare che emerge dai differenti poli che sono stati appena evocati e che, in ragione della loro articolazione più o meno appropriata, conferiscono alla tradizione cristiana la sua mobilità interiore e la aprono alla creatività umana: il Vangelo di Dio, quale s’incarna nell’itinerario di Cristo Gesù, l’Ecce homo; i suoi destinatari, cioè il contesto in cui bisogna annunciarlo, ovvero le nostre «Galilee» di oggi; e la Chiesa che lo annuncia, popolo di Dio doppiamente «decentrato» e quindi, da un lato, in ascolto del Vangelo e, dall’altro, pronto a captare le aspirazioni e le inquietudini che si esprimono nelle nostre società. Bisogna cominciare da queste ultime per scorgervi dei «segni dei tempi», per potersi interrogare in seguito sul Vangelo di Dio e sulla maniera ecclesiale di renderlo «presente», di renderlo presente in seno alle nostre culture contemporanee, precisamente nella forma di un nuovo umanesimo.
Sono l’autenticità o concordanza con se stesso, l’ospitalità o empatia con l’altro, e la libertà rispetto alla morte o dono di sé che caratterizzano la «santità» di Gesù Cristo, il suo “stile” unico. Quanti entrano in questo spazio di ospitalità del Nazareno e fanno liberamente riferimento a lui quale «Santo di Dio» sono chiamati ad adottare il suo modo di “stilizzazione”. Essi non mancheranno di confessare la loro incapacità a seguire il suo slancio d’incondizionato fino alla fine, a riconoscere dunque al tempo stesso l’unica santità di Dio e del suo Unigenito. Eppure, il loro senso stilistico rivela loro altresì che la “dismisura” nascosta nell’esistenza di Gesù Cristo è — effetto della sua grazia — “a misura” di innumerevoli misure, cosicché quella di ciascuno di noi diventa per ciò stesso «incomparabile».
Si sarà compreso il radicamento profondo di questo stile nella nostra umanità, che si trova inevitabilmente di fronte alla distinzione tra l’“a casa mia” o “a casa nostra” (lo spazio d’intimità di cui abbiamo tutti bisogno per vivere) e un “altrove” che è altro (lo spazio d’altri, l’“a casa sua” o “a casa loro”). Ciò che presuppone delle frontiere e delle barriere di ogni tipo, pone la domanda: come attraversarle? E suggerisce l’esito dell’ospitalità. Parlare di santità ospitale o di ospitalità santa lascia dunque trasparire il versante umanistico del Vangelo di Dio, questi “luoghi” in seno alle nostre società e sul nostro pianeta in cui, nelle nostre etiche umane e nelle nostre condizioni spesso difficili, può emergere ciò che rientra in una gratuità incondizionata e in una libertà propriamente teologale. Ritroviamo così i tre «sentimenti» evocati da Papa Francesco, all’inizio del suo discorso di Firenze, per presentare certi tratti di questo nuovo umanesimo cristiano: l’umiltà, il disinteresse e la beatitudine. I primi due si riferiscono all’esortazione che, nell’apostolo Paolo, precede l’inno cristologico della Lettera ai Filippesi; l’inno del periplo di Cristo Gesù, che il Papa introduce in partenza per orientare il comportamento dei cristiani, invitandoli a contemplare il suo volto: «Il volto di un Dio “svuotato”, che ha assunto la condizione di servo, umiliato e obbediente fino alla morte (Filippesi, 2, 7)». Si tratta di «attitudini» relazionali o ospitali: «Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria — conosciamo bene questi impulsi profondi — ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso», cosa che è alla base del gesto ospitale. «Senza cercare il proprio interesse, ma anche quello degli altri», questo ne rappresenta la condizione elementare (ibidem, 2, 3-5).
Umiltà e uscita dal narcisismo autoreferenziale, queste due caratteristiche della santità ospitale sono infine coronate da un terzo sentimento, la beatitudine: cioè una felicità, acquisita su un cammino segnato dalle «beatitudini», ma ricompensato dalla gioia, come quella, vorrei aggiungere, che nasce nel momento in cui Zaccheo accoglie Gesù nella sua casa. Papa Francesco ha esplicitato questi tratti dell’umanesimo cristiano nella sua esortazione apostolica Gaudete et exsultate (cfr. Matteo, 5, 12) in cui ritroviamo non soltanto le due grandi tentazioni che minacciano lo stile cristiano, il pelagianesimo e lo gnosticismo, ma anche un lungo commento alle beatitudini. Già nel suo discorso fiorentino parla della «parte più umile della nostra gente» in cui «c’è molto di questa beatitudine: è quella di chi conosce la ricchezza della solidarietà, del condividere anche il poco che si possiede»; potremmo aggiungere la beatitudine che emerge dalle nostre esperienze di ospitalità, particolarmente frequenti negli ambienti popolari. Gaudete et exsultate prolunga questo interesse per ciò che accade nella penombra di ogni vita quotidiana, parlando dei «santi della porta accanto».
Si potrebbe pensare che queste tre «attitudini» riguardino soltanto la comunità cristiana; è quanto sembra valere per la Lettera ai Filippesi. Nel suo discorso di Firenze, però, Papa Francesco dice esplicitamente: «Una Chiesa che presenta questi tre tratti — umiltà, disinteresse, beatitudine — è una Chiesa che sa riconoscere l’azione del Signore nel mondo, nella cultura, nella vita quotidiana della gente». Tocchiamo qui un aspetto fondamentale dell’insegnamento pontificio, che non milita soltanto in favore di un «umanesimo cristiano», ma vede già nascere, in seno alle nostre società, un «nuovo umanesimo», o, per dire le cose diversamente, non si accontenta di una Chiesa che offre ospitalità a tutti, ma la invita anche a rendere «presente» il Vangelo di Dio in seno alla cultura, rendendosi essa stessa «presente» in essa e domandandovi ospitalità.
Un nuovo umanesimo come impulso intimo della nostra cultura non si crea tutto d’un tratto e in maniera volontaristica. Il Vangelo non può mai essere reso presente al modo di un “impianto”: sarebbe aggiungere violenza alla violenza che già attraversa le nostre culture, e che vi produce delle isole ideologiche di tensione, di fronte alla crisi di fiducia che vivono gli individui e l’intera società. La maniera di Cristo Gesù in Galilea è, piuttosto, l’offerta gratuita di un’ospitalità quotidiana e, più ancora, la richiesta umile e disinteressata di ospitalità, confidando nel fatto che la fiducia genera fiducia e libera le forze creatrici del faccia a faccia, segno discreto della presenza dello Spirito.
Molteplici campi della nostra vita quotidiana e della cultura contemporanea possono così essere irrigati dalla «presenza» del Vangelo. Un primo terreno sono i nostri spazi di socializzazione umana; un secondo, il nesso inestricabile tra la nostra inospitalità rispetto agli esclusi e il rifiuto dell’ospitalità che silenziosamente continua a offrirci la nostra Terra. Una «presenza» gratuita dei cristiani presso i loro concittadini può avere un impatto importante sul clima globale della società e ripristinare la fiducia. Bisogna però tener presente che la fiducia viene generata in gruppi relativamente ridotti, che essa è chiamata a maturare nell’incontro con l’altro e grazie alla possibilità di esercitare la sua ragione critica negli scambi, nei dibattiti, per quanto aspri, e nella deliberazione comune. Nessuna parola ecclesiale, lasciata cadere “dall’alto”, può suscitare questa fiducia. Come sul piano individuale, la fiducia si genera al tempo stesso dall’esterno e dall’interno dei corpi sociali e delle loro istituzioni. Donde la necessità di una presenza ospitale dei «discepoli-missionari» nelle loro famiglie, nelle scuole e istituti di formazione, nella vita associativa e politica. Vi si trovano allo stesso titolo di tutti i genitori, educatori, attori sociali e politici: sarà la loro credibilità a guadagnare la convinzione, e probabilmente la loro gioia, non di essere stati coronati un giorno dal successo, ma di vedere le nostre società e istituzioni ritrovare fiducia in se stesse e nella loro capacità di affrontare collettivamente un futuro incerto.
Se i cristiani possono avere una qualche leadership nella nuova cultura nascente, è nell’ambito di questa scoperta eminentemente spirituale: offrendo ospitalità a tutti e a ciascuno, domandandola in seno alla società, invece di comportarsi in essa come in una terra conquistata, e soprattutto dando accesso all’esperienza di un’ospitalità che ci precede e alla quale dobbiamo la vita, cioè quella della Terra. Diventare consapevoli che la Terra è donata alle generazioni che la abitano attualmente, a quelle che ci hanno preceduto come a quelle che non sono ancora nate, è acconsentire a una vera e propria metamorfosi, un modo di accostarsi al mistero della Resurrezione, se non addirittura di «Dio» come Resurrezione. La fiducia assume allora i tratti della speranza, di quella «speranza contro ogni speranza» che si manifesta nella capacità o nella forza di donare gratuitamente ciò che abbiamo ereditato gratuitamente.
Il cambiamento epocale che si produce davanti ai nostri occhi ci obbliga a interrogarci nuovamente sull’identità della nostra fede. Esprimerla in termini di stile è un modo per prendere sul serio quanto il Vaticano II ha potuto dire della «presenza» pastorale e missionaria dei cristiani in seno alla società. Se, al momento del concilio, si parlava ancora di umanesimo cristiano, la posta in gioco attuale è rendere più largamente accessibile un nuovo umanesimo, umanesimo non solo attento all’unicità degli itinerari umani, ma anche alla convivenza in seno alle nostre società e all’avvenire della vita umana sul nostro pianeta, l’offerta e la domanda di ospitalità essendo ciò che collega questi tre ambiti: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli» (Ebrei, 13, 2).
Mi pare che, nell’esercizio di questo ministero, la Chiesa abbia una risorsa notevole che bisogna, infine, rimettere al centro della nostra assemblea, senza dimenticare ciò che è stato detto sul cristianesimo come stile: la Bibbia, al tempo stesso classico della cultura europea, che permette di decodificare il nostro patrimonio, e sacre Scritture che custodiscono la Parola di Dio, per chi ha orecchi per ascoltare. In virtù di entrambi questi aspetti, essa può riunire i cristiani, coloro che lo sono a modo loro e molti altri ancora, permettendo a tutti di entrare in una scuola di umanità da cui potrà nascere, ne sono convinto, un nuovo umanesimo europeo.



il cristianesimo avrà un futuro in Europa? la grande crisi del cristianesimo in epoca di secolarizzazione

il futuro del cristianesimo in Europa

Christoph Theobald

Si può pensare a un futuro del cristianesimo in Europa solo se si ha ben chiara la crisi della Chiesa. Gettare lo sguardo al futuro significa sicuramente ben più di una semplice gestione della crisi, ma presuppone che apprendiamo qualcosa dalla crisi attuale

Analisi storico-sociologiche in merito alla nostra situazione circolano da tempo. Personalmente, sono più familiare con le indagini sul tema in lingua francese e con gli studi europei sui valori.

La novità, però, risiede nel fatto che oggi anche coloro che hanno responsabilità nella Chiesa ammettono che stiamo attraversando una crisi sistemica e che molti credenti, duramente scossi nella loro fiducia a motivo della pedo-criminalità tra le gerarchie ecclesiali, oramai ne parlano apertamente.

Tuttavia, non è facile analizzare questa crisi che esiste già da lungo tempo. Essa si propone a diversi livelli e vi è il pericolo che gli aspetti oggi più visibili (lo scandalo degli abusi, il loro occultamento, il clericalismo e la sacralizzazione del ministero) finiscano col nascondere tutti gli altri.

Al di sotto di questa superficie si annuncia una condizione di minoranza delle comunità cristiane che non viene percepita e accolta come un’opportunità dai credenti e dal clero, e quindi non viene elaborata in maniera positiva. E se ci si chiede quali siano le ragioni di tutto ciò, ci si imbatte inevitabilmente nella difficoltà che la tradizione cristiana ha nel raggiungere la vita quotidiana degli uomini e delle donne. Una difficoltà, questa, che spinge i sociologi a parlare di «ex-culturazione» del cristianesimo in Europa.

In questo contributo procedo muovendomi secondo tre temi. Inizio con la condizione di minoranza dei cristiani nell’Europa occidentale, passo poi ad analizzare il rapporto fra Vangelo e vita quotidiana, e infine vorrei dire qualcosa sulla crisi sistemica della Chiesa.

Chiesa in diaspora
Mi sembra che Karl Rahner, in maniera profetica, abbia già detto tutto l’essenziale sulla nostra condizione odierna di minoranza in un testo del 1954: «Il cristianesimo (anche se in misura diversa) è ovunque nel mondo e sulla terra in diaspora. Nella sua realtà è dappertutto, numericamente, una minoranza; non ha di fatto un ruolo guida che gli permetta di imporre con potenza il suo sigillo degli ideali cristiani sul tempo.

La Chiesa della diaspora, sociologicamente, ha il carattere di una “setta” (rispetto alla Chiesa popolare di massa a cui appartiene già sempre ogni cosa, e che si presenta sociologicamente di fronte alla singola persona non come qualcosa fatto e portato da lei, ma come ciò che è presente in maniera del tutto indipendente da essa). Con i vantaggi di questo dato di fatto e con il dovere di dover superare sempre di nuovo i pericoli legati a esso» (SW 10, 260-265).

Il concetto di diaspora è sociologico e contrassegna gruppi religiosi, nazionali, culturali o etnici di persone che si trovano all’estero/esterno, dopo che essi hanno abbandonato la loro patria tradizionale e, nel frattempo, si ritrovano disseminati in varie parti del mondo. Per molti secoli, questo termine è stato riferito unicamente all’esilio del popolo ebreo; ma, a partire dal XIX secolo, esso è stato ampliato anche in senso sociologico.

Se si utilizza il concetto di diaspora in riferimento alle Chiese cristiane, allora bisogna relativizzare l’idea di un paese di origine e di una «terra santa». Il sepolcro è vuoto e da allora, per il cristianesimo (a differenza dell’ebraismo), non c’è più alcuna regione del mondo che abbia un carattere sacro. La Galilea diventa «Galilea delle genti», «Galilea di tutte le nazioni in cui si realizza la Signoria di Dio».

Secondo Karl Rahner, la nostra condizione di diaspora ha il carattere di una «necessità» teologica – nel senso evangelico del «Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (Lc 24,26). Con il sorgere di una situazione planetaria e di globalizzazione del cristianesimo, il principio della vita cristiana «nel mondo, ma non del mondo» si deve concretizzare in altro modo. Nel corso del Medioevo e nel secondo millennio della storia umana, questo principio si incarnò tra la cristianità, da un lato, e il resto del mondo, dall’altro.

Il pericolo della condizione di minoranza
Oggi, ma a dire il vero già dagli inizi della modernità, questo principio cristiano «nel mondo, ma non del mondo» si concretizza all’interno di ogni paese – con tutte le resistenze prodotte da questa forma di vita escatologica.

Per dirla con le parole di Rahner: «Nel momento in cui inizia a diventare Chiesa di tutti i pagani, la Chiesa incomincia anche a essere ovunque tra i pagani». Rahner rimanda così alla questione decisiva di questa condizione di minoranza che rientra nella prospettiva storico-salvifica: ossia, il rischio della setta. Un cattolicesimo di minoranza può diventare una setta (tra molte altre); ma può diventare anche una significativa comunità missionaria.

A questo punto decisivo possiamo già gettare uno sguardo sul futuro del cristianesimo in Europa. Dipende dalle nostre comunità e dalle forme cristiane di socializzazione se, nel prossimo futuro, saremo condannati a vivere un’esistenza settaria irrilevante, oppure se riusciremo a diventare una significativa minoranza missionaria all’interno delle nostre società europee.

Questo presuppone, però, un processo individuale e collettivo di consapevolezza e di conversione: il futuro non appartiene a un cristianesimo che si riproduce da sé (e alle strategie pastorali legate a questa concezione). Il cristianesimo di oggi e di domani è un «cristianesimo di scelta», che si edifica sulla persuasione interiore dei fedeli. Solo se la condizione di minoranza, o diaspora, viene assunta con pacatezza e tranquillità (il che vuol dire non con indifferenza, o in maniera aggressiva o stravolta), ossia se si tratta di una libera scelta (perché corrisponde al “deve” divino), si può allora chiedere come il cristianesimo possa far fronte al rischio di diventare una setta, così che esso possa invece diventare missionario. E questo nel senso inteso da papa Francesco nel primo capitolo della Evangelii gaudium, quando parla di una «riconfigurazione missionaria della Chiesa».

Siamo così giunti alla questione decisiva del rapporto del Vangelo con la vita quotidiana degli uomini e delle donne.

Riguadagnare il rilievo del Vangelo per la vita quotidiana
La tesi sociologica dell’«ex-culturazione», di cui abbiamo già fatto cenno, rimanda ai profondi fossati esistenti tra le esperienze quotidiane dei nostri contemporanei e l’annuncio ecclesiastico, centrato sulla liturgia, della Chiesa.

Un futuro del cristianesimo in Europa è però possibile solo se e quando questi fossati verranno superati, senza rinnegare il carattere escatologico della forma cristiana del vivere.

Questo presuppone che i cristiani stessi percepiscano e rispettino le dimensioni «spirituali» profonde dei loro contemporanei. La condizione di diaspora del cristianesimo nelle nostre regioni non significa affatto la scomparsa di ogni «spiritualità» intorno a lui. Al contrario. L’indebolimento delle istanze regolative ecclesiali, sociali e politiche, osservato dai sociologi, permette l’emergere e il divenire visibile di nuove correnti «religiose» o «spirituali».

E anche se si prescinde da ciò, diventa oggi palese che non è possibile una vita senza una fede elementare nel fatto che vale la pena di vivere, o quanto meno merita di andare avanti a vivere. La «fede» è così un fenomeno originariamente antropologico (1), non necessariamente religioso; che emerge nella nostra «apertura» e «vulnerabilità» (2).

Essa prende la forma di un’interrogazione sull’«orientamento» nel mondo della nostra vita e di una domanda sul «senso» della nostra esistenza, anticipandone l’intero senza potervi disporre (3).

«Fede» si dà a vedere laddove tale indisponibilità del «senso» e dell’«intero» non viene accantonata e liquidata come qualcosa di non interessante (categoria dell’indifferenza) o viene lasciata in balìa di un’indecisione agnostica.

La fede elementare
Chiediamoci dapprima come sorge tale fede «antropologica». Nonostante tutta la routine che caratterizza la nostra quotidianità, essa rimane però esposta a tutta una serie di «interruzioni» che ci ricordano il quadro complessivo delle correlazioni della nostra vita, e richiedono una fede elementare nella vita stessa.

Tutto questo accade sempre in un contesto evenemenziale di incontri e rapporti, nel quale l’altro gioca un ruolo particolare. Un ruolo in cui l’altro rispetta la competenza ermeneutica di «chiunque» e, in molti casi, la deve addirittura attivare.

Le «interruzioni» del quotidiano, nelle quali dobbiamo sempre mettere all’opera la nostra fede nella vita, si possono ricondurre a tre momenti decisivi.

Il primo sono le «crisi» (più o meno pesanti) che si vivono tra le singole fasi psico-fisiche o le diverse tappe delle nostre storie di vita, quando un precario equilibrio raggiunto mostra il suo limite e bisogna trovarne un altro. Si tratta di uno sbilanciamento relativo tra due stati di relativo equilibrio. Questa è la definizione medica della «crisi», che rende possibile un incremento della vita o una nuova, ma che può anche rivelarsi fatale.

Il secondo momento è collegato ai progetti aperti al futuro che portiamo avanti, talvolta con passione profonda, nel corso della nostra storia di vita: trovare un lavoro, costruire rapporti, trovare un appartamento o costruire una casa, fare sport o pianificare una vacanza.

Mentre viviamo le fasi biologiche della nostra esistenza in maniera sostanzialmente passiva, ma poi possiamo – fino a un certo punto – integrarle nella nostra storia di vita, i nostri piani e progetti dipendono invece dalla nostra stessa immaginazione. Ma anche in questo ambito vi sono delle «interruzioni». Non solo il fallimento di un progetto, ma anche la sua riuscita, oppure l’accadere di qualcosa che supera ogni nostra attesa – come la nascita di un figlio.

In molti modi le «interruzioni» dei nostri piani sono particolarmente complesse, perché la loro realizzazione implica una qualche forma di collaborazione, e noi molto spesso siamo «invischiati» nei progetti di altre persone. Si sviluppano delle strategie, ma si dà inizio anche a forme di agire comunicativo così che l’altro non sia uno strumento funzionale al mio progetto, ma sia possibile superare le incomprensioni e la potenziale violenza che si annidano nei nostri rapporti.

Il terzo momento è rappresentato da quei molteplici, piccoli o grandi eventi che «interrompono» il corso della nostra vita. Un incontro, innamorarsi (la lingua francese rimarca il carattere evenemenziale dell’innamoramento quando lo esprime con «on tombe amoureux» – si cade nella condizione di essere innamorati), una realizzazione, essere coinvolti in un incidente, fare tombola, e così via. Detta in breve: si tratta dei molti avvenimenti occasionali che, non di rado, danno una piega inaspettata alle nostre storie di vita.

Il quotidiano interrotto e l’irruzione inattesa
L’uniformità quotidiana, con i suoi riti e le sue abitudini, passa dunque attraverso una serie di «interruzioni» nelle quali, non di rado, la propria vita o quella di un’altro si rivela inaspettatamente come una totalità. Si tratta di situazioni di apertura o di rivelazione. In inglese si parla delle cosiddette disclosure situations.

Con esse si intendono «momenti», o frammenti di tempo più o meno lunghi, che fanno vedere la nostra vita, come attraverso una finestra, nel suo essere un tessuto indisponibile di connessioni e rapporti. La morte e la nascita, ossia i due dati limite di ogni vita, si annunciano in questi momenti improvvisi di apertura e ci ricordano che abbiamo solo una vita. Non scelta, ma destinata, questa sola vita mi viene ogni volta di nuovo offerta in scelta in queste situazioni. Certo, possiamo lasciarci scorrere addosso questi momenti come se nulla fosse. Ma, allo stesso modo, possiamo consegnarci a essi senza riserve e senza volontà di disporvi.

Riconosciamo che questa consegna non è affatto qualcosa di scontato; soprattutto quando le «interruzioni» o le «situazioni di rivelazione» hanno un carattere negativo e danno un tono drammatico alla nostra domanda sul senso: vale la pena davvero di vivere? Di andare avanti con la vita? La vita data/inferta è in grado di mantenere la sua promessa? Il mero impulso di sopravvivenza non basta in questi casi. Riconoscere questo fatto fa diventare visibile la «profondità dell’esistenza» e rende possibile il sorgere di una «fede elementare nella vita».

Quest’ultima nasce quando in queste «situazioni di rivelazione» il Vangelo viene reso percepibile: si tratta della nuova, e sempre di nuovo nuova notizia di un radicale essere-buono (Eu-angellion) che, davanti al male e al dolore presenti nel mondo, non può essere annunciata da nessuno in proprio nome. Solo colui che chiamiamo «Dio» la può, infatti, garantire. Ma se essa viene annunciata in quanto tale, allora il fossato tra l’annuncio di Gesù e la vita quotidiana dei nostri contemporanei viene improvvisamente colmato.

Generati alla fede elementare
Sono sempre gli altri che generano in noi questo atto necessario alla vita che è la fede elementare, senza però poterlo porre al nostro posto. Qui entra in gioco l’ospitalità: dapprima quella dei nostri genitori, ma anche l’ospitalità di altre figure nelle nostre personali storie di vita – e, così almeno speriamo –, anche lo spazio ospitale della Chiesa.

Non si tratta mai di strategie che perseguono un interesse, ma di una pura «presenza» (parousia), di un semplice essere-qui. Nella consapevolezza che questa presenza umana è necessaria alla vita, ma che essa non può mai sostituire la fede elementare dell’altro. Entra così in gioco la credibilità dello stare l’uno di fronte all’altro.

Tutte le strategie sono insufficienti, solo la gratuità (e si sente risuonare il termine grazia) rende possibile la fede (anche quella biblico-cristiana) e mai necessaria. Infatti, questo atto così fragile e minacciato, nel cuore della nostra vulnerabilità, quando accade è qualcosa come un «miracolo» che ci «sorprende» (se solo abbiamo un po’ allenato il nostro senso per la fede). La fede accade dove non ce lo saremmo mai aspettati.

Due modi di fede
A questo punto diventa necessario fare una differenziazione tra due diversi modi di fede: la fede «elementare» nella vita, senza la quale l’esistenza umana è impossibile (anche se essa non si genera mai automaticamente), e la fede in Cristo dei cristiani. Il primo modo di fede non conosce né il rapporto tra il «maestro» e i/le «discepoli/e», e neanche un’esplicita relazione con Dio.

La fede in Cristo implica tre caratteristiche specifiche: 1) un’effettiva sequela di Gesù; 2) con e in Gesù, l’accesso all’abissale intimità con Dio, lo spazio della gratuità abitato dallo Spirito Santo; 3) una disposizione diaconale di fondo. Nessuno viene battezzato per se stesso.

Fede in Cristo e conformità con lui fanno dei cristiani dei «discepoli missionari» – così il nuovo concetto di papa Francesco. Il «discepolo missionario» è a servizio della fede elementare nella vita di molti dei suoi contemporanei. Egli mette in esercizio oggi, nei suoi ambiti di vita e secondo le condizioni odierne, quel servizio e dedizione all’umano che Gesù ha praticato in Galilea verso i suoi contemporanei.

Mi sembra opportuno tornare sul titolo di questo contributo – «Il futuro del cristianesimo in Europa» –. Non si tratta solo del futuro della Chiesa, ma del futuro di una Chiesa a servizio dei nostri contemporanei. È chiaro che «cristianesimo» qui non deve essere identificato con «Chiesa», poiché noi come Chiesa dobbiamo tenere sempre conto dell’agire, che ci precede, dello Spirito nelle dimensioni profonde della vita quotidiana dei nostri contemporanei.

La distinzione fra «fede elementare nella vita» e sequela di Cristo può essere fatta risalire ai sinottici e anche a Giovanni. Accanto ai discepoli e alle discepole vi sono molti simpatizzanti di Gesù. Sono figure individualizzate, come ad esempio l’emorroissa o la donna siro-fenicia. Figure che sentono soltanto la parola di conferma di Gesù: «Figlia mia, la tua fede ti ha salvata» (Mc 5,34).

Non siamo di fronte a un vuoto spirituale
Proprio questa distinzione, che potrebbe essere spiegata e precisata ulteriormente con una serie di esempi, ci rende avvertiti del fatto che noi cristiani della diaspora non ci troviamo davanti a un vuoto «spirituale», ma che, come Gesù in Galilea, abbiamo a che fare con le dimensioni profonde della singolare avventura umana di molti nostri contemporanei.

E quanto è stato detto sulla fede elementare dei nostri contemporanei si lascia trasporre anche alle nostre società secolari, la cui tenuta si basa anch’essa su una fiducia elementare.

Questo significa però che non possiamo limitare l’annuncio alla liturgia e alla catechesi, ma dobbiamo sviluppare una pedagogia dell’incontro e del «colloquio spirituale» nel grigiore del quotidiano. Nel nostro ambito ecclesiale, questo richiede una profonda trasformazione della nostra consapevolezza e una conversione di fondo, poiché molto spesso siamo ancora fissati quasi esclusivamente sulla liturgia e sulle celebrazioni para-liturgiche all’interno del nostro spazio ecclesiale; e solo raramente viviamo i nostri incontri quotidiani come «discepoli missionari».

Ampliare le aree di contatto con la società
La crisi sistemica di cui parlavamo all’inizio è quella che riguarda la forma estensiva e coestensiva della Chiesa latina, scaturita dalla riforma dell’XI e del XII secolo, con un’unica liturgia internazionale, con un clero unitario internazionale e un catechismo unico internazionale. In questa forma della Chiesa le situazioni locali e singolari degli uomini hanno un carattere del tutto secondario, fino all’irrilevanza.

I principi mediante i quali può nascere un’altra Chiesa come Chiesa di Chiese, la cui forma corrisponda sia alla cultura globalizzata sia alle culture locali, sono stati in parte formulati dal Concilio Vaticano II, e devono essere sviluppati oggi ulteriormente nel senso espresso da papa Francesco (si vedano i suoi quattro principi in Evangelii gaudium).

Una Chiesa che nasce dalla passione per il Vangelo
Concluderei con alcune brevi osservazioni in merito. La Chiesa presuppone una passione per il Vangelo di Dio. Un Vangelo che si destina a tutti gli uomini e le donne, ma che può essere udito da ogni persona solo a suo modo. Questa passione, che viene da Cristo e ci è comunicata nel battesimo, rappresenta la base della fondamentale uguaglianza di tutti i cristiani e le cristiane. Papa Francesco parla, infatti, di «discepoli e discepole missionari/e».

Questa passione per il Vangelo di Dio implica contemporaneamente un interesse ardente e gratuito per la vita quotidiana dei nostri contemporanei e per la loro «fede elementare». Insieme alla passione per il Vangelo, questo interesse rappresenta la base del servizio di Gesù in Galilea da realizzare nell’oggi delle nostre società.

Verso una Chiesa in stato nascente
La fine della «cultura parrocchiale» deve essere letta come il principio di una possibile Chiesa e parrocchia intese come comunità di comunità. In primo luogo, si tratta di adattare l’edificazione della comunità cristiana allo spazio e al territorio in cui i nostri contemporanei vivono il loro quotidiano.

Questo porta a una pluralizzazione delle forme: nelle nostre metropoli, nelle complesse periferie cittadine, nelle piccole città, nelle zone rurali – non è più possibile avere una forma che vale dappertutto.

D’altro lato, dobbiamo imparare anche ad adattarci all’esistenza nomadica di molti nostri contemporanei.

Inoltre, bisogna tenere conto del fatto che i modelli di socializzazione sono oggi molteplici e, con essi, anche le forme di appartenenza e gli schemi temporali dell’esistenza umana.

Quello che ci sta davanti è un compito che possiamo realizzare come Chiesa solo se entriamo in un processo permanente di ecclesiogenesi: edificare la Chiesa su ciò che è effettivamente dato, ossia essere Chiesa in cammino e quindi missionaria.

Questo è possibile solo se impariamo ad agire sinodalmente a tutti i livelli, fidandoci del sensus fidei fidelium. Il che implica anche un cambiamento di prospettiva per ciò che concerne il ministero nella Chiesa.

Di quale ministero e servizio presbiterale e diaconale abbiamo bisogno, quali ministeri sono necessari, affinché le nostre «parrocchie» e «comunità» possano venire trasformate dall’auto-riproduzione di un cristianesimo parentale a un cristianesimo di scelta in cui tutti sono discepoli e discepole missionari?