quale teologia per una vera liberazione: 50 anni di ‘Concilium’ e 50 anni del Cocilio Vaticano secondo

lotte per un mondo più inclusivo

Lungo i cammini della liberazione. Le gioie e le speranze di una teologia declinata al futuro

lungo i cammini della liberazione

le gioie e le speranze di una teologia declinata al futuro

 
 da: Adista Documenti n° 16 del 30/04/2016

Il suo primo numero la rivista internazionale di teologia Concilium lo ha pubblicato nel 1965 prima ancora della conclusione del Vaticano II, con la lucida consapevolezza – come evidenziano i teologi brasiliani Maria Clara Bingemer e Luiz Carlos Susinnell’editoriale del numero, il primo del 2016, che celebra il «duplice giubileo» – che, «per una Chiesa che si rinnovava in modo così radicale», fosse «necessaria una teologia ugualmente rinnovata». E non ci sono davvero dubbi che la rivista sia stata «una delle espressioni più qualificate di questo rinnovamento teologico».

Chiamata dunque a celebrare il doppio appuntamento, quello del cinquantesimo anniversario del Concilio, con tutto ciò che questo ha comportato per la vita della Chiesa, e quello del suo cinquantesimo compleanno, la rivista aveva organizzato, nel maggio del 2015, alla Pontificia Università Cattolica di Rio de Janeiro, un grande convegno internazionale, sul tema “Cammini di liberazione: gioie e speranze per il futuro”. Titolo, questo, che, oltre a recuperare «la bella e felice» espressione iniziale della Costituzione pastorale Gaudium et spes, voleva indicare la necessità non solo e non tanto di fare memoria di un evento passato, per quanto straordinaria sia stata la sua importanza per la Chiesa, quanto piuttosto, spiegano Bingemer e Susin, di «riscattare tutto il potenziale di innovazione e di appello che questa espressione conteneva, puntando al futuro» e dunque di domandarsi come quell’avvenimento «continui a invitarci a guardare avanti, attenti alle domande e alle inquietudini delle nuove generazioni e disposti a una fedele creatività nel tentativo di rispondere a esse». Con la convinzione, espressa dal teologo Jon Sobrino nel suo intervento, che «vi sono eventi passati che seppelliscono la storia e catene che la imprigionano. E vi sono eventi passati che liberano la storia dalle catene, come molle che spingono in avanti».

Non sorprende allora come, raccogliendo in questo primo numero del 2016, il cui titolo riprende esattamente quello del convegno, le riflessioni tenute a Rio de Janeiro nel maggio del 2015, la rivista Concilium dimostri nella maniera più chiara come la teologia da essa elaborata nel corso di questi cinquant’anni abbia «sempre seguito da vicino i cambiamenti epocali avvenuti nella cultura e l’avvento di nuovi paradigmi che hanno orientato l’intelligenza della fede verso inevitabili trasformazioni». Trasformazioni che, come evidenzia nel suo intervento André Torres Queiruga,portano con sé sfide di enorme portata, a cominciare da quella «lanciata al pensiero religioso dalla Modernità con la scoperta dell’autonomia». Una questione di fronte a cui la teologia si rivela ad oggi piuttosto impreparata, non avendo ancora trovato parole che presentino le questioni religiose «che ci interessano realmente» in maniera «davvero significativa, al di là della semplice ripetizione di formule o di concetti che non parlano affatto o dicono molto poco». Basti pensare, spiega il teologo spagnolo, a quanto sia difficile parlare, «in un ambiente mediamente critico», di questioni come la Trinità, o di Gesù Cristo, del male, della preghiera e di molti altri temi che costituiscono il nucleo del messaggio cristiano.

O, ancora, la sfida – su cui pone l’accento Luiz Carlos Susin – rappresentata dal «dialogo con le culture contemporanee in un mondo più complesso», tenendo presente il principio per cui “il tutto è più grande della somma delle parti”. Cosicché, se ha naturalmente senso la raccomandazione di Lev Tolstoj – «se vuoi essere universale, comincia a verniciare il tuo villaggio» – è vero anche, però, che «l’orizzonte ultimo, di futuro, di speranza e di ispirazione anche per la teologia, quando vernicia il villaggio», l’orizzonte «che guidi quindi il lavoro locale e incarnato», non può che essere «il tutto più grande, la visione basata su un vasto orizzonte». E, secondo Susin, «il più ampio orizzonte e contesto culturale e pratico nel quale dovremo fissare la nostra attenzione» è quello ecologico, quello del futuro della Terra e della vita sulla Terra. Un futuro comune che può essere assicurato, conclude Susin, solo dall’ospitalità, intesa come anima della religione, come sua ragione d’essere; l’unica che può «portare salvezza», tanto più nelle condizioni attuali di pluralismo e migrazione: quell’ospitalità che «apre alla famiglia umana e a tutti gli esseri viventi, anche a fratello lupo di san Francesco».  

Deriva da qui, secondo il teologo indiano Felix Wilfred, la necessità per la teologia di diventare «umile nel mezzo della situazione di crisi che l’umanità sta affrontando» e di cooperare con svariate altre forze, focalizzandosi «sugli elementi essenziali». Perché proprio come, di fronte alla casa in fiamme, si ha il tempo di salvare solo le cose fondamentali, così, «quando l’umanità e la natura sono in crisi profonda e immerse nella diseguaglianza e nell’esclusione, abbiamo bisogno di elaborare delle teologie, sia nel Nord che nel Sud del mondo, che si occupino esplicitamente della situazione di crisi dell’umanità e del creato». Una sfida che, per la teologia, presuppone anche la disponibilità, come sottolinea la teologa tedesca Regina Ammicht Quinn, a lasciarsi interpellare e «interrompere» da dubbi e domande, da inquietudini e provocazioni.

di seguito alcuni stralci della riflessione di Wilfred
 da: Adista Documenti n° 16 del 30/04/2016

 

L’intera vita è un viaggio; così anche la liberazione. Eguaglianza e inclusione sono i due occhi della liberazione; sono anche i mezzi per valutare la distanza che abbiamo percorso sulla strada della libertà: maggiori sono l’eguaglianza e l’inclusione, più grande è la liberazione. L’assenza di eguaglianza e di inclusione implicherebbe un mondo di crescente violenza e di crescenti contraddizioni. (…)

Nel mondo in via di globalizzazione il neoliberismo e il capitalismo avanzato, come grandi metanarrazioni, pervadono e controllano – sia come prassi che come ideologia – tutti gli ambiti della vita. L’umanità e la natura hanno bisogno di essere progressivamente liberate dalla loro morsa. (…). In questo cammino di lotta e di liberazione (…) da parte di donne e uomini di ogni nazione, le religioni e le teologie potrebbero svolgere un ruolo importante, con tutte le loro risorse.

Il ruolo della teologia si pone nel contesto della lotta per l’eguaglianza e l’inclusione ispirate dalla compassione e dalla solidarietà. Sulle orme di Gesù, una teologia genuina affronterà le questioni pressanti che toccano l’umanità e la natura, e intreccerà con questi temi la questione di Dio, dal momento che l’umano, il divino e l’universo sono inestricabilmente interconnessi a formare un unico mistero. (…).

UNA TEOLOGIA FOCALIZZATA SUGLI ELEMENTI ESSENZIALI

Senza un contatto diretto con la realtà; la teologia rischia la propria credibilità, per quanto brillantemente possa spiegare gli assunti dottrinali in riferimento alla Scrittura e alla tradizione. È necessario che la teologia diventi umile nel mezzo della situazione di crisi che l’umanità sta affrontando e sia pronta a cooperare con svariate altre forze. In un mondo segnato dalla frammentazione – della conoscenza, del sé, della comunità, dell’economia, della politica ecc. – la teologia, credo, potrebbe offrire un qualche senso di speranza. Una teologia correttamente orientata (…) possiede il potenziale per una visione olistica e mistica e per un approccio integrale. Questo è ciò che si richiede oggi per rispondere alla diseguaglianza e all’esclusione, all’oppressione e all’ingiustizia.

Quando la casa ha preso fuoco, si ha il tempo di salvare solo le cose essenziali. Quando l’umanità e la natura sono in crisi profonda e immerse nella diseguaglianza e nell’esclusione, abbiamo bisogno di elaborare delle teologie – sia nel Nord che nel Sud del mondo – che si occupino esplicitamente della situazione di crisi dell’umanitå e del creato. La teologia è tenuta a rispondere e ha una responsabilità nei confronti dell’umanità e della creazione di Dio. Può essere interessante compiere studi sulla verginità di Maria e fare sottili distinzioni teologiche tra la verginità ante partum, in partu, post partum ecc. Può essere stimolante discutere sul riavvicinamento tra i protestanti e i cattolici in merito alla interpretazione della dottrina della giustificazione. Ma tali interessi dottrinali che hanno impegnato e continuano a impegnare tanta attenzione del mondo teologico, devono retrocedere in secondo piano di fronte alla vastità dei problemi che l’umanità sta affrontando: problemi di diseguaglianza, esclusione, violazione della dignità e dei diritti umani, violenza, guerra, oppressione delle donne e discriminazione nei loro confronti, questioni ambientali. Purtroppo, un’ampia parte della teologia odierna – anche tra i teologi che asseriscono di trarre ispirazione dal Vaticano II  – è spesso evasiva sulla questione della povertà, della diseguaglianza e dell’esclusione.

Questi teologi spesso si perdono nelle discussioni se il Vaticano II sia in continuità con la tradizione o rappresenti una rottura e focalizzano la loro attenzione su minuzie esegetiche nell’ermeneutica dei testi conciliari. Una teologia che si limitasse a spiegare e a interpretare gli aspetti dottrinali del cristianesimo e il suo sistema simbolico non renderebbe un buon servizio all’umanità. La teologia ha bisogno di puntare il suo sguardo sul mondo e di cercare di rispondere alle questioni cruciali che gli esseri umani individualmente e collettivamente trovano proprio al centro della loro esistenza.

Vi è un grande divario fra la teologia classicista e l’empirica esperienza della vita quotidiana e delle sue lotte. Dio ha identificato il sé di Dio con l’umanità (verbum caro factum est). Giustamente, dunque, Nicolò Cusano ci ricorda che Dio è un cerchio infinito il cui centro è dovunque e la cui circonferenza non è da nessuna parte. Esiliare Dio e il prossimo dall’orizzonte dell’economia per perseguire un egoismo e un individualismo grossolani costituisce la più grande sfida da affrontare per la teologia odierna. Se il sabato (…) rappresenta un’interruzione, una pausa per pensare al tutto in vista di una trasformazione creativa, allora il ruolo della teologia sarebbe quello di promuovere la pratica del sabato in ogni campo della vita umana, personale e collettiva. Ciò significherà aiutare a connettere ogni frammento con il tutto; connettere ogni giorno con il giorno che non avrà fine.

Per seguire l’umanità nel suo cammino di liberazione, la teologia ha bisogno di attuare una riallocazione del sacro, rispetto agli spazi e agli oggetti tradizionalmente venerati; ha bisogno di nutrire rispetto per l’intera creazione e per tutte le forme di vita, dal filo d’erba agli esseri umani. Una delle intuizioni fondamentali della Bibbia è che la qualità di una comunità si misura dal modo in cui si prende cura dei suoi membri più deboli e più vulnerabili, e per tutto questo l’eguaglianza e la giustizia sono essenziali e centrali. Tale visione ricorre nell’intero corpus della tradizione biblica, in cui l’idolatria e l’ingiustizia sono interconnesse. Infatti, abbandonare il Signore ha provocato ingiustizia e diseguaglianza nella società; e, inversamente, l’ingiustizia sociale ha allontanato dal Signore e ha portato agli idoli.

A sua volta, l’esclusione è diametralmente opposta alle dinamiche di interdipendenza che ci vengono presentate nella Genesi dal racconto della creazione. Nella creazione Dio connette tutte le creature fra loro in armonia; la creazione, tuttavia, conferisce a ogni creatura anche la propria peculiarità, unicità e identità. Quando l’esclusione viene messa in pratica come assimilazione dell’altro, nega la legittima diversità e pluralità. Ciò che Dio ha esercitato nella creazione dovrebbe caratterizzare anche le comunità umane. Qui sta un compito importante per la teologia: quello di contribuire a creare comunità senza esclusione, comunità che rispettino le differenze e la pluralità. Ed è un compito di importanza cruciale in questi tempi in cui il sistema economico imperante è diventato una forza di divisione e di conflitto fra comunità.

La liberazione e il perseguimento dell’eguaglianza e dell’inclusione saranno ispirati da un nuovo senso del sacro e nutriti dalla profonda fede di Gesù. In un mondo che ha sacralizzato la gerarchia e il potere, che ha coltivato la diseguaglianza e praticato l’esclusione, Gesù ha difeso e propugnato la dignità di ogni essere umano come nuovo tempio di Dio: l’esclusione dei poveri dalla conoscenza, dalla libertà, dalla dignità, dalla partecipazione e dalla comunità era il vero sacrilegio. I vangeli ci dicono che Gesù era più interessato alle sofferenze e alle privazioni degli esseri umani che al peccato. Purtroppo, la soteriologia cristiana giunse a essere costruita intorno al peccato e non sugli aspetti più importanti delle azioni di Gesù per il bene (salus) di esseri umani e comunità. La visione gesuana della liberazione era radicata nell’esperienza del divino inteso come un Dio compassionevole e solidale con l’umanità sofferente. L’esperienza della sofferenza, della povertà, delle privazioni e dell’asservimento degli esseri umani lo toccava profondamente. La compassione e la solidarietà gli sgorgavano dall’intimo, dalle viscere. Una teologia che segue le orme di Gesù incorporerà la sua visione, la sua passione e la sua prassi. Come Gesù, metterà in discussione quello che viene accettato come lampante e fuori di ogni dubbio.

FECONDAZIONE INCROCIATA DI TEOLOGIE

C’è stato un tempo in cui le questioni teologiche venivano impostate in Occidente e coloro che venivano dall’Asia, dall’Africa, dall’America Latina e dall’Oceania potevano dare un senso alla teologia solo nella misura in cui partecipavano dei dibattiti teologici di matrice occidentale. Oggi, la teologia occidentale, salvo alcune lodevoli eccezioni, è alle prese con una profonda crisi. I suoi approcci teologici pretenziosi e altisonanti si pongono in netto contrasto con la realtà effettiva di un cristianesimo occidentale logoro, dal quale i fedeli si allontanano in massa. Sembra esserci ben poca corrispondenza fra questa teologia e la situazione sul campo. La teologia occidentale dominante mi appare come un esercizio intellettuale per chi ha tempo libero, svincolata dalle problematiche urgenti dell’umanità e della natura. Ci si comincia a chiedere a chi sia rivolta questa teologia, e cui bono – cioè: a chi giova? Porrò la questione in maniera chiara e semplice: la teologia europea non ha futuro se non è disposta ad avviare un dialogo serio con le teologie emergenti in diverse parti del mondo, sulla base dell’esperienza di oppressione, di sofferenza, di diseguaglianza e di esclusione. (…).

CONCLUSIONE

Il cammino di liberazione è distribuito su molti deserti che devono essere attraversati con grande speranza. Sono i movimenti di resistenza in tutto il mondo contro la diseguaglianza e il rifiuto di abbattere l’esclusione a offrire speranza per il futuro. Questa resistenza è portata avanti da vari movimenti sociali, globali e locali. Sono oggi la coscienza del mondo e incarnano l’etica nella pratica.

In questo cammino di lotta e di liberazione, che deve essere intrapreso nella speranza congiuntamente da donne e uomini di ogni nazione, un giusto tipo di teologia potrebbe avere un ruolo molto significativo. Si potrebbe chiedere: “Che cosa si intende con giusto tipo di teologia?”. Risponderò ricordando una parabola di Buddha di 2.500 anni fa: la parabola della freccia avvelenata. Un uomo era stato colpito da una freccia mentre stava attraversando una foresta. Mentre i suoi amici e i suoi parenti si stavano dando da fare per aiutarlo, egli non volle in alcun modo che la freccia gli fosse tolta finché non gli fosse ben chiaro chi era stata la persona che lo aveva preso di mira con il dardo, quale fosse il suo nome, la sua età, il suo villaggio, la sua corporatura, la lunghezza dell’arco che aveva usato. E insistette nel voler sapere se le penne della freccia utilizzata fossero quelle di un avvoltoio, di una cicogna, di un falco o di un pavone! Questa parabola era una tagliente critica di Buddha contro l’alta casta dei brahmini del suo tempo, con la loro teologia piena di astruse speculazioni metafisiche, gravemente fallimentari dal punto di vista pratico. Buddha invitava ogni persona a rispondere alla sofferenza e all’oppressione con karuna (compassione e misericordia) e senza indugio. Nei suoi insegnamenti, Buddha sostenne l’eguaglianza di ogni uomo e di ogni donna senza distinzione, in virtù del fatto che ognuno è egualmente capace di illuminazione. Spezzò la stratificazione sociale delle caste che escludeva delle persone. Tuttavia, quando gli fu chiesto di Dio, Buddha tacque. L’enigmatico silenzio di Buddha costituisce in sé un grande tema.

Cinquecento anni dopo Buddha, Gesù si è identificato con l’umanità sofferente. Quello che colpisce è che Gesù ha rotto il silenzio di Buddha. Gesù ha aperto la sua bocca per parlare di un Dio, un Dio Padre-e-Madre profondamente coinvolto nella vita degli esseri umani e nelle loro sofferenze. Questo Dio non è una realtà alienante, ma un Dio compassionevole, misericordioso e solidale, che tratta con eguaglianza tutti i suoi figli e le sue figlie. Abbiamo così un grande messaggio di speranza per continuare a lottare per l’eguaglianza e l’inclusione e per proseguire sul cammino delle lotte per la liberazione, in questi tempi in cui la vita umana e la convivenza sono minacciate dal mercato liberista e dal suo modello di sviluppo. Una teologia sensibile alla questione dell’ineguaglianza e dell’esclusione nel nostro mondo odierno ha il compito liberatore di desacralizzare il “vitello d’oro” del libero mercato. La teologia cercherà costantemente di intrecciare la questione di Dio con i problerni epocali che affliggono l’umanità e di fornire una visione che si basi sull’unità di fondo del mistero dell’umano, del divino e dell’universo.

i 50 anni della rivista teologica ‘Concilium’

 

 

«Concilium», 50 anni agli avamposti”

di Filippo Rizzi
 
in maggio convegno a Rio de Janeiro

Sacra Scrittura, teologia morale e dogmatica, diritto canonico, liturgia, spiritualità e storia della Chiesa. Sfogliando l’immensa bibliografia della rivista «Concilium» sono queste le voci più ricorrenti e gli argomenti finiti più volentieri nel focus del periodico internazionale. Temi e questioni cruciali che vanno dalla teologia dei diritti umani alle «vie del cristianesimo in Africa», alla cruciale teologia della liberazione in America Latina… In questi 50 anni tante le firme di autori autorevoli – teologi e no – ospitate dalla rivista (edita in 7 lingue e con una comunità redazionale composta da circa 300 teologi): da Gustavo Gutierrez a Jon Sobrino, dai domenicani parigini Claude Geffré e Marie-Dominique Chenu al gesuita Cristoph Théobald, dallo storico Giuseppe Alberigo al teologo ortodosso Olivier Clément, fino al «teologo della speranza» Jürgen Moltmann. Senza dimenticare il grande esegeta dell’«École Biblique» Pierre Benoit. «Alla rivista hanno dato il loro contributo anche scrittori non necessariamente teologi – spiega Rosino Gibellini –, come il pedagogista brasiliano Paulo Freire o i filosofi francesi Paul Ricoeur ed Emmanuel Lévinas. Una tradizione culturale da potenziare». L’anniversario del 2015 aiuterà anche a ripartire del programma iniziale della rivista che – come recita l’editoriale del gennaio 1965 – è costruita sul «fondamento del Vaticano II». «Il 50° anniversario – spiega il presidente della Fondazione Concilium Felix Wilfred – verrà celebrato a maggio con una conferenza internazionale a Rio de Janeiro. C’è molto interesse attorno a questo appuntamento soprattutto tra le Chiese di nuova cristianità, per la forma di teologia e cultura dell’incontro portata avanti da Concilium»

«Concilium tenta di essere un radar, che prolunga nella mutazione contemporanea la grande tradizione teologica. La teologia è sempre in ricerca. Ciò è importante nel momento in cui siamo aggrediti da tanti problemi nuovi»

 

Queste parole quasi dal sapore profetico ma anche programmatico di uno dei padri nobili della Nouvelle théologie, il domenicano francese Yves-Marie Congar, fotografano ancora oggi l’attualità della rivista internazionale di teologia Concilium, che questo giovedì varcherà il 50° anno di vita. Fu infatti il 15 gennaio 1965 (pochi mesi prima della chiusura del Vaticano II, avvenuta l’8 dicembre di quell’anno) che, dopo un lungo travaglio redazionale, comparve il primo numero – consegnato per l’occasione a tutti i padri conciliari – della pubblicazione che avrebbe rappresentato una bussola di orientamento per la teologia post-conciliare e non solo. Tra i collaboratori di quell’esordio figurava anche il teologo Joseph Ratzinger e futuro papa Benedetto XVI, autore del saggio «Le implicazioni pastorali della dottrina della collegialità dei vescovi».

Eppure, nel corso della sua lunga vita, Concilium è sempre stata percepita all’interno del complesso arcipelago della teologica cattolica come «di rottura» rispetto alla più tradizionale pubblicazione Communio, nata nel 1972; per certuni addirittura un contraltare rispetto al periodico di stampo conservatore Renovatio, voluto dal cardinale Giuseppe Siri, mentre per altri era il fedele erede degli insegnamenti del Vaticano II (come enunciava del resto l’editoriale programmatico del 1965 «Una nuova rivista di teologia. Perché e per chi?» di Karl Rahner e Edward Schillebeeckx).

Il traguardo del mezzo secolo viene ora letto con grande carico di speranza e di gratitudine dal «padre nobile» dell’edizione italiana, il teologo Rosino Gibellini: «I primi teologi ad aggregarsi furono proprio il domenicano Schillebeeckx di Nimega e il gesuita Rahner di Innsbruck – rivela lo studioso piamartino – e due giovani teologi di lingua tedesca: Hans Küng di Tubinga e Johann Baptist Metz di Münster. Sono questi i fondatori di Concilium, cui si devono aggiungere l’editore Paul Brand e l’amministratore presidente Anton von den Boogaard».

 

Padre Gibellini nel suo articolato ragionamento rievoca l’importanza di questa rivista («alla cui stesura partecipano oggi un ugual numero di collaboratori e collaboratrici»), che ha sempre cercato di dialogare con i lontani, di «leggere i segni dei tempi», di affrontare temi scottanti come l’ecologia, l’ecumenismo, il ruolo delle donne all’interno del cattolicesimo, il Terzo mondo, e di dare ampio spazio a tutto ciò che proviene dalla teologia extraeuropea.

Uno sguardo verso l’Asia e le Chiese giovani confermato dalla scelta di trasferire la sede centrale di Concilium da Nimega (Olanda) a Madras in India. «Il fatto stesso che la rivista abbia scelto come sede di riferimento un Paese in via di sviluppo è un chiaro messaggio del viaggio compiuto attraverso dei confini e dei legami – spiega da Madras il teologo indiano e presidente della Fondazione Concilium, Felix Wilfred –. Si è trattato di una scelta strategica alla luce anche del fatto che l’asse della cristianità si è spostato verso Sud, dove è vivace pur in mezzo a molte difficoltà, mentre vediamo una situazione completamente diversa in Europa e nel Nord America, dove le chiese si stanno svuotando».

E aggiunge un particolare: «La rivista vuole rimanere fedele al suo grande passato e ai padri fondatori, ma contemporaneamente desidera tenere aperto un varco di dialogo nel campo del pluralismo religioso come sua istanza primaria, tramite anche una visione teologica che vada oltre la cosiddetta sua matrice di origine “euro-americana”. Per questo è divenuto per noi di primaria importanza dare più voce al nuovo cristianesimo presente in Africa, Asia e Oceania. Una strategia editoriale che ci pare in linea con l’impronta pastorale di papa Francesco e del suo sguardo sul mondo. Tutto questo si presenta per noi come una sfida a costruire una nuova identità in risposta anche ai tempi che cambiano».

Una rivista teologica d’avanguardia in cui è sempre stato vivo il dibattito, il confronto tra i saperi, ma che forse è divenuta – per sua stessa ammissione e anche per la forza capillare del suo think thank di esperti – «un movimento nella Chiesa?» (come si interrogava in un famoso editoriale del 1992 il teologo domenicano Jean Pierre Jossua). «Sicuramente – rileva Elio Guerriero, direttore per tanti anni dell’edizione italiana di Communio – è stata una pubblicazione che ci ha aiutato a capire il fermento che stava dietro al Vaticano II.

Ci ha offerto tanti strumenti per capire il valore di quell’assise ecumenica. Ha aiutato ad esempio molti studiosi a capire il valore della teologia nera o i segni di fecondità che provenivano dalla teologia studiata e interpretata dalle donne. Proprio per la sua diversità da Communio in un contesto di pluralismo, ha rappresentato una voce diversa all’interno della Chiesa; complementare ma non rivale, per celebrare con note diverse quella “verità sinfonica” tanto amata dal teologo svizzero Hans Urs von Balthasar».

Guerriero ritorna con la mente anche alla nascita di Communio, al circolo di teologi (molti dei quali provenienti dall’esperienza di Concilium) come Joseph Ratzinger e Henri de Lubac, a cui si aggiunsero Hans Urs von Balthasar e Louis Bouyer, e ai motivi che spinsero alla genesi di quella pubblicazione nel lontano 1972: «Mi hanno sempre colpito le parole che in questi ultimi anni ci ha indirizzato Joseph Ratzinger, le esortazioni cioè ad avere il “coraggio di andare avanti” e di parlare con chiarezza e senza infingimenti pensando solo al futuro e al bene della Chiesa.Ed è lo stesso coraggio che mi sento di indirizzare a Concilium, andando oltre i piccoli campanilismi che ci dividono o le polemiche clericali, ad esempio su quale ruolo attribuire alle donne nella Chiesa». E aggiunge un particolare: «Credo che uno degli aspetti su cui investire di più, proprio alla luce degli insegnamenti del Concilio, sia il recupero dell’universale vocazione alla santità della Chiesa: uno dei tratti essenziali del Vaticano II e più ribaditi da padri conciliari. Ma quest’aspetto è scomparso prestissimo dai dibattiti teologici».
Concilium ha dunque un ruolo di pungolo nei confronti della teologia contemporanea, proiettato verso il futuro «senza vergognarsi del suo passato», come direbbe Karl Rahner, e continuando ad «assolvere il proprio compito opportune et importune»…«Credo e spero che questo anniversario – è la riflessione finale di Gibellini – aiuti tutti a ritornare alla radici fondative della rivista, cattolica con apertura ecumenica. La nostra pubblicazione non intende, come spesso si pensa, essere “di rottura”, ma espressione di una new catholicity, di una “nuova cattolicità” che rispetta le differenze e le accoglie in un orizzonte ampiamente ecumenico. Il filo rosso del nostro progetto è quello di sempre: continuare a convivere senza rivalità e tratti polemici con le altre riviste all’insegna di una “responsabilità reciproca e condivisa” nei confronti della causa del Vangelo nel mondo».

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