«Don Milani è un uomo in lotta per il povero: non certo perché il povero diventi ricco, ma perché diventi un uomo libero, uno che conquisti da sé la sua libertà. Perciò egli vuole restituire ai poveri la parola»
D.M.Turoldo
La scelta dei poveri non rappresenta una delle tante sensibilità del cristiano ma è il segno concreto ed inequivocabile della conversione. Se non scegliamo i poveri significa semplicemente che Dio deve ancora fare irruzione nella nostra vita. Magari abbiamo sentito parlare di Lui ma senza farne esperienza(1). C’è scritto nel Vangelo e nel resto della Sacra Scrittura, ma noi non leggiamo né il Vangelo né il resto della Sacra Scrittura(2). Ci accontentiamo del foglietto della domenica e delle interpretazioni disincarnate, asettiche, di routine spendibili in tutte le epoche storiche ed in ogni luogo della terra. Per comprendere la nostra relazione con Dio ci affidiamo ai professionisti spirituali come ci si affida al commercialista per le pratiche fiscali a all’avvocato per le fondamentali questioni condominiali: tipo il colore degli zerbini. Certo li scegliamo accuratamente gli esperti cioè ci rivolgiamo a quelli in grado di raggiungere i nostri obiettivi: pagare meno tasse possibile, imporre qualcosa agli altri condòmini e continuare a servire Mammona da cattolici praticanti. È una delega in bianco: siamo disposti a pagare qualsiasi compenso od elemosina purché collaborino alla nostra scalata sociale. Evitiamo accuratamente quelli che ci parlano di coscienza sociale, di responsabilità, di condivisione dei beni materiali con gli ultimi sia innocenti sia colpevoli. Meglio quelli che giustificano l’accumulo e il consumismo purché sia fatto per la propria famigliola.
I profeti infatti infastidiscono, rompono l’inconfessabile idillio tra trono e altare. Utilizzano un linguaggio duro, scorretto(3) per chi opprime direttamente o collaborando ma non lo ammette. Occorre attendere che muoiano (naturalmente o meno), poi far passare un po’ di tempo per disinnescare la potenzialità sovversiva del loro messaggio e recuperarli, in una fase storica successiva, alla narrazione funzionale alle strutture e relative gerarchie. Ecco perché di solito i profeti subiscono una doppia violenza: in vita (fisica o psicologica) e nella memoria (strumentalizzando e standardizzando la testimonianza). Due esempi per tutti: Oscar Romero e Don Milani.
(1) “Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono” (Giobbe 42,5)
(2)“A chi dunque paragonerò gli uomini di questa generazione, a chi sono simili? Sono simili a quei bambini che stando in piazza gridano gli uni agli altri: Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato; vi abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!” (Vangelo di Luca 7, 31-32)
(3) Ci vuole una parola dura ,affilata, che spezzi e ferisca, cioè una parola concreta[…] La famiglia cristiana dell’operaio e del contadino ha bisogno di un prete povero, giusto, onesto, distaccato dal danaro e dalla potenza, dal Governo, capace di dir pane al pane senza prudenza, senza educazione, senza pietà, senza tatto, senza politica, così come sapevano fare i profeti o Giovanni il Battista. (Don Lorenzo Milani, Lettere di Don Lorenzo Milani, Priore di Barbiana, a cura di Michele Gesualdi, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo-Milano 2007, p.103)
La scelta dei poveri non rappresenta una delle tante sensibilità del cristiano ma è il segno concreto ed inequivocabile della conversione. Se non scegliamo i poveri significa semplicemente che Dio deve ancora fare irruzione nella nostra vita. Magari abbiamo sentito parlare di Lui ma senza farne esperienza(1)
C’è scritto nel Vangelo e nel resto della Sacra Scrittura, ma noi non leggiamo né il Vangelo né il resto della Sacra Scrittura(2). Ci accontentiamo del foglietto della domenica e delle interpretazioni disincarnate, asettiche, di routine spendibili in tutte le epoche storiche ed in ogni luogo della terra. Per comprendere la nostra relazione con Dio ci affidiamo ai professionisti spirituali come ci si affida al commercialista per le pratiche fiscali a all’avvocato per le fondamentali questioni condominiali: tipo il colore degli zerbini. Certo li scegliamo accuratamente gli esperti cioè ci rivolgiamo a quelli in grado di raggiungere i nostri obiettivi: pagare meno tasse possibile, imporre qualcosa agli altri condòmini e continuare a servire Mammona da cattolici praticanti. È una delega in bianco: siamo disposti a pagare qualsiasi compenso od elemosina purché collaborino alla nostra scalata sociale. Evitiamo accuratamente quelli che ci parlano di coscienza sociale, di responsabilità, di condivisione dei beni materiali con gli ultimi sia innocenti sia colpevoli. Meglio quelli che giustificano l’accumulo e il consumismo purché sia fatto per la propria famigliola. I profeti infatti infastidiscono, rompono l’inconfessabile idillio tra trono e altare. Utilizzano un linguaggio duro, scorretto(3) per chi opprime direttamente o collaborando ma non lo ammette. Occorre attendere che muoiano (naturalmente o meno), poi far passare un po’ di tempo per disinnescare la potenzialità sovversiva del loro messaggio e recuperarli, in una fase storica successiva, alla narrazione funzionale alle strutture e relative gerarchie. Ecco perché di solito i profeti subiscono una doppia violenza: in vita (fisica o psicologica) e nella memoria (strumentalizzando e standardizzando la testimonianza). Due esempi per tutti: Oscar Romero e Don Milani.
(1) “Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono” (Giobbe 42,5)
(2)“A chi dunque paragonerò gli uomini di questa generazione, a chi sono simili? Sono simili a quei bambini che stando in piazza gridano gli uni agli altri: Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato; vi abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!” (Vangelo di Luca 7, 31-32)
(3) Ci vuole una parola dura ,affilata, che spezzi e ferisca, cioè una parola concreta[…] La famiglia cristiana dell’operaio e del contadino ha bisogno di un prete povero, giusto, onesto, distaccato dal danaro e dalla potenza, dal Governo, capace di dir pane al pane senza prudenza, senza educazione, senza pietà, senza tatto, senza politica, così come sapevano fare i profeti o Giovanni il Battista. (Don Lorenzo Milani, Lettere di Don Lorenzo Milani, Priore di Barbiana, a cura di Michele Gesualdi, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo-Milano 2007, p.103)
a volte anche i cardinali si lasciano convertire … quando si mettono alla scuola dei poveri e degli ultimi
il cardinale Tagle
gli ultimi sono stati i miei insegnanti
intervista a Luis Tagle, a cura di Monica Mondo in “Avvenire” del 4 dicembre 2016
è un giovane cardinale, guida la diocesi più grande dell’Asia, cucina benissimo, ama i libri gialli e il canto, ha una voce da tenore. Luis Antonio Gokim Tagle, arcivescovo di Manila, è un raffinato teologo, presidente di Caritas internationalis. Abbiamo imparato a conoscere il suo sorriso, spesso accanto a papa Francesco, che gli è amico
Sorride perché è felice, sorridere e far sorridere è missione del cristiano?
La felicità non è solo un’emozione, ma una condizione spirituale: la gioia che la fede porta a noi. E la gioia è una missione che dobbiamo condividere: la Chiesa ha ricevuto la missione di annunciare una bella notizia, cioè che il Signore ha trionfato sul peccato e la morte.
In questi giorni è in libreria in Italia un libro di cui è autore, “Ho imparato dagli ultimi”, edito dalla Emi.
Che cosa significa concretamente?
Ho imparato dagli ultimi in senso ampio, per avere non solo una sapienza mondana, ma anche una saggezza spirituale. Mi ricordo un Natale di quando ero seminarista, ho celebrato con una comunità di poveri. Il giorno prima avevano ricevuto l’ordine di lasciare il terreno perché non era loro. Durante la preghiera del Padre Nostro una donna mi ha detto: «È facile dire Padre Nostro per voi, perché quando voi tornate a casa siete sicuri che c’è pane, riso e cibo. Per noi poveri, la preghiera è una fatica e una lotta contro l’incredulità. È un atto di fede dire “Padre Nostro”». Un esempio semplice per cui mi chiedo chi sia stato l’insegnante, il professore di fede, e chi l’allievo. Questa donna per me è stata il mio insegnante.
Lei è presidente della Caritas, spesso definita erroneamente un ente benefico. Perché si resta ancorati a una visione più assistenziale o emergenziale?
La Caritas è la portavoce della Chiesa e con parole attive dell’amore del Signore. È ben conosciuta come agenzia di aiuto umanitaria, ma c’è una campagna contro le radici della povertà e della sofferenza. La parola “avvocato” Gesù la usa per sé e pure per lo Spirito Santo paraclito, qualcuno che parla per gli altri, qualcuno che è accanto degli altri e che sapendo la condizione alza la voce per farla sentire. La Caritas è un’ambasciatrice di giustizia e di pace. Una metropoli, tanto più in Asia, è luogo di forti contraddizioni. La globalizzazione pone modelli di vita irraggiungibili, ma aiuta anche ad appianare le differenze.
Lei ha detto però che «con la globalizzazione c’è il rischio di escludere Dio dall’orizzonte della società, e svilire l’identità della Chiesa».
Il tipo di globalizzazione che abbiamo sperimentato in questi decenni non è solo finanziaria ed economica, ma anche culturale, di valori. Ci sono “valori” che nascondono la fede o la presenza del Signore e sono penetrati tra i confini delle generazioni e delle nazioni. Sviliscono l’identità della Chiesa, specialmente attraverso i social media, il cinema e le canzoni: qui la presenza della fede e di una comunità credente è quasi abbandonata. Anche in un contesto un po’ religioso come quello delle Filippine, per i giovani, i più vulnerabili, queste suggestioni sono molto forti: nella scuola si insegna catechesi, ma radio e cinema promuovono un messaggio contrario.
Che famiglia è la sua? Una famiglia in cui ha respirato la fede da piccolo?
La mia è una famiglia normale, ordinaria. I miei genitori erano impiegati di banca, dove si sono incontrati. Una famiglia molto semplice, ci siamo concentrati sulle cose essenziali: famiglia, chiesa, fede, scuola, lavoro. La nostra vita circolava su questi punti.
Perché ha scelto il sacerdozio? Voleva fare il medico: sono entrambi segni di una passione per l’uomo?
Come giovane ho partecipato a un progetto giovanile della parrocchia, in cui mio padre mi ha forzato a entrare. E ha fatto bene! In questo gruppo ho incontrato grandi personaggi e specialmente un grande prete che mi ha stupito col suo atteggiamento verso la vita. Aveva impensati talenti e mi sono chiesto perché un uomo così avesse “scartato” la sua vita e quale fosse il senso di questo “scarto”. Per me è stata l’ispirazione: ho scoperto che si trattava di un dono, un atto di donazione e non di scarto. La mia famiglia e questi modelli di missione mi hanno ispirato.
Lei da giovane si è innamorato della teologia, tanto da approfondire in America i suoi studi, per diventare a 40 anni parte della Commissione teologica internazionale, per volontà di Giovanni Paolo II. Ma contemporaneamente faceva volontariato dalle suore di Madre Teresa. C’è una teologia dei poveri, una sapienza che nessuno studioso può raggiungere?
Credo che ci sia una sapienza dei poveri. Ho imparato la teologia non come professione o specialità, ma come una realtà viva, una parola su Dio. È dire Dio con un senso profondo che nasce dalle viscere della sofferenza: i poveri. È stata una grazia scoprire la comunità delle Missionarie della Carità a Washington Dc, mentre scrivevo la tesi di dottorato. La mattina ero in mezzo ai libri e al pomeriggio avevo un contatto diretto con le persone che per me sono quasi sacramento della presenza del Signore. A questo proposito la pietà, la religiosità popolare, molto vissuta nel suo Paese, non è solo folclore, come spesso si pensa. La fede popolare è sbagliato vederla solo come folclore: nella mia esperienza e cioè nel mio paese, la trasmissione della fede in un modo semplice accade attraverso la religiosità popolare. Certamente c’è il rischio di sentimentalismo e superstizione, però è un ricco campo di evangelizzazione. Troviamo in questo ambito la presenza dello Spirito Santo.
Lei è cresciuto in anni durissimi di dittatura, ma la posizione della Chiesa è stata chiara.
Io devo dire che nei primi anni della dittatura alcuni vescovi e molti filippini che avevano influenza nella società credevano che la “dittatura”, con l’imposizione della disciplina, fosse utile, giusta. Pian piano, però, abbiamo scoperto che non era così, era anzi come rubare i diritti e il futuro alla gente del Paese. Anche oggi la Chiesa deve difendere l’uomo, dall’aborto e dalla difesa della legalità con mezzi drastici e inaccettabili. Al centro della Dottrina sociale della Chiesa c’è una visione e un’eredità grande: la dignità di ogni persona umana, qualunque essa sia, piccola o grande, colpevole o sbagliata. È figlio o figlia di Dio, mio fratello o mia sorella. I vescovi filippini hanno fatto una scelta di campo anche sulla controversa questione della riapertura delle centrali nucleari. Le Filippine sono un Paese ferito da tanti terremoti, tifoni e altre catastrofi naturali. Dobbiamo essere realistici e cooperare a questa missione, di custodire il Creato e anche i poveri, perché i soldi bisogna prima usarli per loro.
Il ricordo più forte del viaggio del Papa nelle Filippine?
La memoria più toccante per me è stato l’incontro con il padre di una ragazza morta proprio in quei giorni. A Takloba venne un tifone e durante la Messa una ragazza volontaria della Caritas è morta sul colpo perché un’impalcatura è crollata su di lei. Il giorno seguente il Papa ha incontrato il padre di questa ragazza. È stato un incontro intimo di due padri. Io ho fatto da traduttore per il Papa, e il padre ha detto: «Santo Padre, prima della sua venuta avevo deciso di non partecipare alle Messe e agli incontri perché sono anziano e non mi piace partecipare agli incontri. Però, la mia unica figlia è morta e mi ha dato la grazia di incontrare il Santo Padre». Il Papa si è stupito della fede profonda di quest’uomo. È bello vedere un padre che insegna la profondità della fede al Santo Padre e io sono un testimone di questo incontro sacro.
Che amico è per lei papa Francesco? Lo conosceva anche prima? È cambiato?
È la stessa persona, uguale. Anzi devo stare attento a quel che faccio, perché sono abituato a parlare con lui come prima e mi devo ricordare che è il Papa. Non cambia nulla però perché lui mi ripete: «Sono Bergoglio!». Sa bene che l’avevano messa tra i papabili nel 2013. Sono i giornalisti che parlano così e non gli elettori.
In Italia la presenza dei cattolici filippini è significativa quanto a numeri e a integrazione. Quale apporto danno alla Chiesa italiana?
Giovanni Paolo II ha dato la risposta giusta anni fa in una Giornata mondiale dei migranti, quando mandò un messaggio alla comunità filippina a Roma. Diceva: «Voi siete qui a Roma, in Italia, per cercare posti di lavoro, per le vostre famiglie nelle Filippine. È una bella cosa lavorare per le proprie famiglie. Voi non avete solo trovato posti di lavoro qui in Italia, ma una missione: portare la semplicità della fede filippina nelle case degli italiani, ai bambini e ai ragazzi». Per i filippini migranti, la seconda casa familiare è la parrocchia. L’anno scorso il cardinale Angelo Scola mi ha invitato a Milano per conferenze e una Messa nel Duomo di Milano con la comunità filippina: erano ventimila. Il cerimoniere mi ha detto: «Ecco il futuro della Chiesa a Milano». Gli risposi: «Non solo il futuro, ma anche il presente».
È vero allora che è l’Asia il futuro della Chiesa?
C’è futuro per la Chiesa in Asia, anche per tutta la sofferenza, la povertà e la testimonianza nelle persecuzioni che sono segno di speranza. Voglio credere che in questa situazione pur drammatica c’è il seme del futuro. Lei ama cantare e ha una bellissima voce, ma non ha mai studiato canto. Da bambino ho sentito tanta musica da mia mamma e da tutta la famiglia. Non sono “tifoso” della musica ma ne ho un grande amore. Non sono andato a scuola di canto, mi è naturale.
Lei ha ricevuto dalle mani del Papa la Lettera apostolica «Misericordia et misera» che ha chiuso l’Anno Santo della misericordia.
Devo dire che è stata una sorpresa per me. Sono stato informato durante la processione all’inizio della Messa che il Papa mi avrebbe consegnato la Lettera, come rappresentante delle grandi città del mondo, per evangelizzare. È una bella Lettera non per chiudere l’Anno della misericordia, ma per continuare una cultura di misericordia
. Che cosa pensa delle sottili o palesi contestazioni al Papa dall’interno della Chiesa?
Penso che il Vangelo porta una verità sconveniente e scandalosa. Come peccatori siamo contenti nella nostra zona di comfort, non vogliamo parole che ci disturbano. La città di Manila, le sue piaghe. Sono tanti i problemi, ma per me la povertà è il più grande. La Chiesa cerca vie per avvicinarsi ai poveri, non solo per trovare soluzioni: la Chiesa non è un governo o uno Stato parallelo. Lo scopo è la vicinanza, anche per testimoniare un amore che è sempre presente.
Perché ama tanto i libri gialli, i polizieschi?
I libri gialli sono un esercizio della verità tramite i segni: insegnano a leggere i segni dei tempi, per questo sono preziosi. Mi piace tantissimo Agatha Christie o Sherlock Holmes, ma ora purtroppo mi manca il tempo… Se dovesse esprimere il suo desiderio più grande… Vorrei che noi, non solo come Chiesa ma come umanità, continuassimo a cercare le porte aperte nelle ferite del mondo. Per me le ferite dei poveri e di coloro che soffrono sono come porte sante in cui entrare. Gesù risorto ha detto ai discepoli, specialmente a Tommaso : «Vieni e tocca le mie ferite». Si chiude la porta di San Pietro, ma le ferite rimangono aperte per entrare nella via di Gesù.
L’autorità personale verso la gente è una grande e forse pesante responsabilità?
Essere cardinale è una grande responsabilità, ma è anche una chiamata all’umiltà. Io credo che Gesù è il Salvatore, non sono io! Gesù non ha bisogno di un altro salvatore, per questo con calma e tranquillità posso professare “Io Credo in Gesù Salvatore”, facendo quello che posso, e il resto a Lui.
la battaglia di Panikkar LE RELIGIONI DEVONO ATTUARE UN AMPIO PROCESSO DI RINNOVAMENTO
1. Le religioni sono chiamate a convertirsi e non a essere propagatrici di inviti alla conversione. Il compito che ci proponiamo è nientemeno che la conversione delle religioni. Le religioni sono considerate il veicolo e lo strumento della conversione dell’uomo, ma esse stesse hanno periodicamente bisogno di convertirsi al proprio carattere e fine religioso. La conversione delle religioni è necessaria soprattutto quando esse progressivamente mostrano di scordare la propria origine (che è anche la meta cui tendono) votandosi all’imposizione di affermazioni dogmatiche, al rafforzamento identitario di appartenenza, al consolidamento di strutture istituzionali: il momento storico che stiamo vivendo evidenzia che ci troviamo in questi frangenti e che le religioni meritano in larga misura la cattiva fama di cui godono.
2. Le religioni non hanno il monopolio della religione, del senso religioso della vita. La conversione delle religioni è possibile perché le religioni non hanno il monopolio della religione: ciò che chiamiamo atteggiamento religioso è un’istanza dell’uomo, dello spirito umano di cui le religioni sono uno dei possibili sostegni e veicoli. E bene dunque cominciare chiarendo che cosa intendiamo per religione nel nostro contesto. Le possibili ricostruzioni etimologiche della parola religione indicano il significato di raccogliere, «rilegare». Questa funzione si manifesta e prende forma a vari livelli: ricostituire l’unità dinamica di corpo, mente, spirito, ricollegare gli uni con gli altri, io e tu, riconnettere l’Uomo con la Natura, ripristinare il contatto con il Mistero, ricondurre l’umano sulla soglia dell’oltre. La religione è una funzione della libertà, in quanto lega, riconnettendo, e slega, sciogliendo i vincoli che bloccano.
3. L’identità non è ideologica, ma simbolica. Distinguo identità da identificazione, intendendo con identità la scoperta di quello che ciascuno di noi è in maniera unica e non ripetibile né duplicabile, il volto di ciascuno che si svela nell’incontro senza pregiudizi con l’altro, e per identificazione il riferimento di appartenenza che può dare sostegno e sicurezza ma anche sostituire il proprio volto autentico con una maschera predeterminata. Il dialogo religioso non è un confronto di dottrine, ma usa piuttosto il linguaggio del simbolo. Mentre la dottrina si basa sul riferimento «oggettivo» dell’ideologia che la sostiene, il simbolo non è oggettivo, ma relazionale: è la relazione fra il simbolo stesso e ciò che è simbolizzato a costituirne la forza espressiva, il simbolo, per essere efficace, necessita del credo nel simbolo stesso: un simbolo in cui non si crede non rappresenta più ciò che simbolizza, ma è un semplice segno convenzionale. Il simbolo non si può dunque assolutizzare, ma è il principio del pluralismo e il linguaggio della mistica. Pluralismo significa che c’è una pluralità di significati, ognuno dei quali permette di accedere al riferimento simbolizzato (per esempio molte tradizioni religiose utilizzano la stella del mattino come simbolo della luce chiara che appare, stabilendo nel contempo con quel simbolo diverse modalità interpretative). Quando la religione perde il proprio lato mistico, tende a diventare ideologia e il linguaggio con cui si esprime da simbolico diventa logico. Mentre il linguaggio simbolico è plurale e relazionale, il linguaggio logico è univoco e autoreferenziale.
4. Si deve ricercare non l’unità delle religioni, ma una armonia tra di loro. Il fine cui tendiamo non è l’unità delle religioni, ma la loro armonia. Non si tratta di elaborare una religione onnicomprensiva, ma di creare relazioni armoniche basate sul reciproco riconoscimento. Ma non solo. Il cammino religioso, se è autentico e sincero, dimostra a chi lo percorre, quale che sia il suo riferimento, che la fede è un rischio: il rischio di affidarsi completamente a qualcosa la cui certezza non si basa su alcuna garanzia. Se la fede fosse certificabile da una qualsiasi garanzia, negherebbe se stessa in quanto fede, cioè abbandono fiducioso e totale, un salto senza paracadute in cui tutto è in gioco. Implica dunque un rapporto con l’insicurezza, in termini di valutazione del rischio. La fede è certa, non è una probabilità, e nello stesso tempo non è dell’ordine della certezza garantita. L’ossessione per la certezza, che le nostre società moderne alimentano, ci conduce alla paranoia della sicurezza. La fede non può essere usata come uno scudo o come un’arma, ma implica apertura e disponibilità.
LE RELIGIONI DEVONO FARE REVISIONE CRITICA INDIVIDUANDO GLI ELEMENTI CHE HANNO BISOGNO DI CAMBIAMENTO
Desidero inoltre sottolineare la necessità di un passo ulteriore, difficile ma inderogabile: si tratta di porre, prima a se stessi e poi agli altri, le domande sgradevoli. Far emergere l’ombra che è all’interno della propria tradizione religiosa, perché senza questa operazione critica è troppo alto il rischio dell’autoreferenzialità e dell’autosoddisfazione. Le religioni, come si è detto all’inizio, hanno bisogno di conversione, di trasformazione. Non ci può essere autentica trasformazione senza una profonda revisione critica: le religioni, anche quelle «rivelate» sono elaborazioni che non sfuggono alla legge del mutamento: bisogna dunque identificare quali sono gli elementi che oggi necessitano di un’opera di trasformazione, perché non sono più in sintonia con la trasformazione della sensibilità umana. E, questa, l’opera più difficile perché si tende a prendere rifugio nella visione e dottrina religiosa, la quale ha invece anche la funzione di stanarci dalle nostre sicurezze e dalle nostre egocentriche convinzioni: a nostra volta dobbiamo «stanare» la nostra religione perché ritrovi la propria funzione liberatrice. La religione è un processo e non un patrimonio di dottrine e insegnamenti immodificabili: in quanto processo deve essere adatto ai tempi in cui si manifesta. Lo spirito della religione è proprio quello di cogliere il rapporto fra l’ideale e la realtà, fra il qui e l’oltre: essere adatto ai tempi non vuol dire adattarsi alle circostanze in modo pragmatico e opportunista, ma sapere rinnovare il proprio linguaggio, la propria sensibilità, la propria pratica di vita. Il rapporto fra tradizione e realtà è quanto mai importante in tempi come quelli in cui stiamo vivendo, nei quali si fa sempre più evidente che gli schemi di riferimento validi fino a ieri oggi non sono più attuali e il rischio di irrigidimento per paura della novità è sempre più forte in tutte le tradizioni religiose e nelle gerarchie che esse esprimono. Il tema della trasformazione è dunque ineludibile e complesso.
Temi di riflessione:
1. Non dobbiamo assolutizzare la nostra stessa religione Il processo religioso non consiste nel ridurre tutto al proprio riferimento religioso, come fosse uno schema in cui far entrare la realtà per poterla interpretare. Se da un lato è importante, nel fornire la propria testimonianza, riferire ciò che si dice alla propria religione, passando la propria esperienza al vaglio della tradizione cui ciascuno fa riferimento, d’altro lato è altrettanto importante un atteggiamento mistico, che consiste nel non usare le proprie categorie religiose come filtro per comprendere l’altro: capire l’altro senza usare la propria religione come paradigma interpretativo. Ancora una volta qui sta la differenza fra relatività e relativismo: non si tratta di mettere tutto sullo stesso piano in maniera neutra, ma di vedere la relatività di tutte le posizioni senza assolutizzarne una in particolare, a cominciare dalla propria.
2. Il dialogo non significa abbandonare la propria religione, ma non nascondersi dietro di essa. La distinzione fra identità e identificazione è di vitale importanza. Spesso è proprio grazie all’incontro con l’altro che atteggiamenti inautentici vengono smascherati dallo specchio in cui siamo obbligati a osservarci con gli occhi dell’altro, con cui l’altro ci vede.
3. Il dialogo è un processo, non un esercizio di giustapposizione Questo è facile a dirsi, quasi ovvio, ma assai difficile da mettere in pratica. La deriva di un sincretismo di comodo è sempre in agguato. Il dialogo è un processo dagli esiti imprevedibili, ma non è mai una mistura confusa di elementi.
4. Per un dialogo autentico non c’è bisogno di alcun minimo comun denominatore. Anzi, la diversità è radicale e tale deve essere: è proprio la radicalità della diversità a rendere significativo il dialogo e l’incontro. Lo scopo non è quello di riassorbire le differenze in un’idea singola in cui i dialoganti si riconoscano più o meno esattamente. Non si tratta di elaborare universali culturali cui tutti debbano prima o poi far riferimento, ma semmai di rifarsi a un’invariante umana che ciascuno elabora in maniera differente. Non esiste una religione universale, né è auspicabile ricercarla; non possiamo non ravvisare, invece, una religiosità umana, una religiosità propria dell’Uomo, che si nutre di differenze che necessitano di dialogare fra loro sulla base di quell’istanza comune. Il dialogo è ontico, perché si riferisce e si indirizza alla nuda realtà, che però si può indicare e trovare solo per mezzo di un’ermeneutica ontologica.
5. Tre corollari si rivelano indispensabili a) Un’autentica conoscenza della religione altrui è desiderabile; se lo sforzo di conoscenza è autentico, l’altro, magari sorpreso, deve potersi riconoscere nella descrizione che io faccio di lui, e a sua volta correggerla: il dialogo avanza; b) il dialogo è un processo di conversione continua: si tratta di un processo religioso e non di una tecnica volta a ottenere un qualche risultato; c) l’atmosfera del dialogo è quella dell’amore, della conoscenza basata sull’amore.
(R. Panikkar, La religione, il mondo e il corpo)
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