il commento al vangelo della domenica

PURO SILENZIO

il commento di E. Ronchi al vangelo della domenica del Corpus Domini

 

Mc 14,12-16.22-26

​Oggi, Corpus Domini, non è la festa dei tabernacoli aperti o degli ostensori dorati da venerare.
Che cosa celebriamo?
Cristo che si dona? Neppure questo è sufficiente. La festa di oggi è ancora un passo avanti.
Io che faccio la comunione?
Non basta.
E’ Lui che viene a fare comunione con noi. E’ Lui in cammino.
Lui che percorre i cieli, Lui felice di vedermi, Lui che non chiede agli apostoli e a me di venerare quel Pane, ma dice molto di più: ‘io voglio stare nelle tue mani come dono, e nella tua bocca come pane, sangue, cellula, pensiero di te.
Tua vita’. Vuole perdersi dentro noi come lievito dentro il pane, come pane dentro il corpo.

La prima parola è: prendete. Gesù parla sempre con verbi poveri, semplici, diretti: prendete, ascoltate, venite, andate, partite; “corpo e sangue”. Ignote quelle mezze parole ambigue che permettono ai potenti o ai furbi di consolidare il loro predominio.
Gesù è così radicalmente uomo, anche nel linguaggio, da raggiungere Dio e da comunicarlo attraverso le radici, attraverso gesti comuni a tutti.

Prendete. Qui è il miracolo, il batticuore, lo scopo: per essere trasformati. Quello che sconvolge, è ciò che accade nel discepolo più ancora di ciò che accade nel pane.
Allora mangiare e bere Cristo è molto più che fare la comunione, è “farci comunione”. Che Leone Magno sintetizza così: prendere il corpo e il sangue di Cristo tende a trasformarci in ciò che riceviamo.
Dio in me, il mio cuore lo assorbe, lui assorbe il mio cuore, e diventiamo una cosa sola.

A che serve un Dio come pane chiuso nel tabernacolo, da esporre di tanto in tanto alla venerazione e all’incenso?
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue “ha” la vita eterna. Adesso! Non “avrà”, come una specie di futuro tfr.
La vita eterna è già qui, libera e autentica, e fa cose che meritano di non morire, con Gesù che dice: prendete il mio corpo, tutta la mia umanità, il mio modo di piangere e ridere, di sedermi alla tavola di Zaccheo, di Levi, e a casa tua.

Ma noi di cosa nutriamo anima e pensieri? Di generosità, bellezza, profondità?
O ci saziamo di intolleranze, miopie dello spirito, paure di tutto?
Se accogliamo pensieri degradati, ci faranno come loro; se accogliamo pensieri di vangelo, ci faranno creature di bellezza.

Alla Messa ecco per noi un piccolo pane bianco che non ha sapore, che è puro e profondissimo silenzio.
Dono lieve come un’ala.
Ma accade qualcosa che i padri orientali chiamano deificazione (theosis), parola che fa tremare. Un pezzo di Dio in me perché io diventi un pezzetto di Dio nel mondo.

Finita la religione dei riti e degli obblighi, ecco la religione del corpo a corpo con Dio, la religione del tu per tu con Lui, che prima che io dica: “ho fame”, mi dice: “Prendete e mangiate”.

Mi ha cercato, mi ha atteso e si dona, e io posso solo accoglierlo e ringraziare.

il commento al vangelo della domenica

condividere il pane significa moltiplicare il pane

   il commento di E, Bianchi al vangelo della domenica del Corpus Domini, anno C
Lc 9,11b-17
 

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli:  ¹²In quel tempo Gesù ¹¹accolse le folle e prese a parlare loro del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure. ¹²Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta». ¹³Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». ¹⁴C’erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». ¹⁵Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. ¹⁶Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. ¹⁷Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.

Dopo la festa della Triunità di Dio, celebriamo oggi un’altra festa “dogmatica”, sorta a difesa della dottrina, per ricordare la verità dell’eucaristia voluta da Gesù come memoriale nella vita della chiesa fino alla sua venuta gloriosa. Ogni domenica celebriamo l’eucaristia, ma la chiesa ci chiede anche di confessare e adorare questo mistero inesauribile in un giorno particolare (il giovedì della II settimana dopo Pentecoste per la chiesa universale, la II domenica dopo Pentecoste in Italia). Facciamo dunque obbedienza e commentiamo mediante un’esegesi liturgica il brano evangelico proposto dal Messale italiano. 

Il cosiddetto racconto della “moltiplicazione dei pani” è attestato per ben sei volte nei vangeli (due in Marco e in Matteo, una in Luca e in Giovanni), il che ci dice come quell’evento fosse ritenuto di particolare importanza nella vita di Gesù. Nel vangelo secondo Luca, Gesù invia i suoi discepoli ad annunciare la venuta del regno di Dio e a guarire i malati (cf. Lc 9,2), mostrando che la missione affidatagli da Dio con la discesa su di lui dello Spirito santo (cf. Lc 3,21-22), rivelata nella sinagoga di Nazaret (cf. Lc 4,18-19), era da lui estesa anche alla sua comunità. Compiuta questa missione, i discepoli fanno ritorno da Gesù e gli raccontano la loro esperienza, quanto cioè avevano fatto e detto in obbedienza al suo comando. 

Gesù allora li prende con sé, portandoli in disparte per un ritiro, in un luogo vicino alla città di Betsaida (cf. Lc 9,10). Ma le folle, saputo dove Gesù si era ritirato, lo seguono ostinatamente (cf. Lc 9,11a). Ed ecco che Gesù le accoglie: aveva cercato un luogo di silenzio, solitudine e riposo per i discepoli tornati dalla missione e per sé, ma di fronte a quella gente che lo cerca, che viene a lui e lo segue, Gesù con grande capacità di misericordia la accoglie. È lo stile di Gesù, stile ospitale, stile che non allontana né dichiara estraneo nessuno. 

Queste persone vogliono ascoltarlo, sentono che egli può dare loro fiducia e liberarle, guarirle dai loro mali e dai pesi che gravano sulle loro vite, e Gesù senza risparmiarsi annuncia loro il regno di Dio, le cura e le guarisce. Questa è la sua vita, la vita di un servo di Dio, di un annunciatore di una parola affidatagli da Dio. 

Giunge però la sera, il sole tramonta, la luce declina, e i Dodici discepoli entrano in ansia. Dicono dunque a Gesù: “Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta!”. La loro richiesta è all’insegna della saggezza umana, nasce da uno sguardo realistico, eppure Gesù non approva quella possibilità razionale, ma chiede loro: “Voi stessi date loro da mangiare”. Con questo comando li esorta a entrare nella dinamica della fede, che è avere fiducia, mettere in movimento quella fiducia che è presente in ogni cuore e che Gesù sa ravvivare. Ma i discepoli non comprendono e insistono nel porre di fronte a Gesù la loro povertà: hanno solo cinque pani e due pesci, un cibo sufficiente solo per loro! 

Ecco allora che Gesù prende l’iniziativa: ordina di far sedere tutta quella gente ad aiuola, a gruppi di cinquanta, perché non si tratta solo di sfamarsi, ma di vivere un banchetto, una vera e propria cena, nell’ora in cui il sole tramonta. Poi davanti a tutti prende i pani e i pesci, alza gli occhi al cielo, come azione di preghiera al Padre, benedice Dio e spezza i pani, presentandoli ai discepoli perché li servano, come a tavola, a quella gente. È un banchetto, il cibo è abbondante e viene condiviso da tutti. Quelli che conoscevano la profezia di Israele, si accorgono che è accaduto un prodigio che già il profeta Eliseo aveva fatto in tempo di carestia, nutrendo il popolo affamato a partire dalla condivisione di pochi pani d’orzo (cf. 2Re 4,42-44). Lo stesso compie Gesù, e dopo il suo gesto avanza una quantità di cibo ancora maggiore: dodici ceste. Nel cuore dei discepoli e di alcuni dei presenti sorge così la convinzione che Gesù è profeta ben più di Elia e di Eliseo, è profeta anche più di Mosè, che nel deserto aveva dato da mangiare manna al popolo uscito dall’Egitto (cf. Es 16). 

Ma qui viene spontaneo chiedersi: cosa significa questo evento? Normalmente si parla di “moltiplicazione” dei pani, ma nel racconto non c’è questo termine. Dunque? Dovremmo dire che c’è stata condivisione del pane, c’è stato lo spezzare il pane, e questo gesto è fonte di cibo abbondante per tutti. In tal modo comprendiamo come ci sia qui una prefigurazione di ciò che Gesù farà a Gerusalemme la sera dell’ultima cena: “Prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: ‘Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me’” (Lc 22,19). Lo stesso gesto è ripetuto da Gesù risorto sulla strada verso Emmaus, di fronte ai due discepoli. Anche in quel caso, al declinare del giorno, invitato dai due a restare con loro (cf. Lc 24,29), “quando fu a tavola, prese il pane, pronunciò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro” (Lc 24,30). Tre episodi che recano lo stesso messaggio: le folle, la gente, il mondo ha fame del regno di Dio, e Gesù, che ne è il messaggero e lo incarna, sazia questa fame con la condivisione del cibo, con lo spezzare il suo corpo, la sua vita, offerta a tutti. 

Ecco il mistero eucaristico nella sua essenza: non lasciamoci abbagliare da tante e varie dottrine eucaristiche, ma accogliamo il mistero nella sua semplicità. Cristo si dà a noi ed è cibo abbondante per tutti; una volta spezzato (sulla croce), si dà alla chiesa, a noi, a tutti coloro che lo cercano e tentano di seguirlo, a tutti quelli che hanno fame e sete della sua parola e desiderano condividere la sua vita. Se è vero che la dinamica dello spezzare il pane e del condividerlo trova nella celebrazione della cena eucaristica, nella liturgia santissima, un adempimento, essa però è anche paradigma di condivisione del nostro cibo materiale, il pane di ogni giorno. L’eucaristia non è solo banchetto del cielo, tavola del corpo e del sangue del Signore, ma vuole essere magistero per le nostre tavole quotidiane, dove il cibo è abbondante ma non è condiviso con quanti hanno fame e ne sono privi. Per questo, se alla nostra eucaristia non partecipano i poveri, se non c’è condivisione del cibo con chi non ne ha, allora anche la celebrazione eucaristica è vuota, perché le manca l’essenziale. Non è più la cena del Signore, bensì una scena rituale che soddisfa le anime dei devoti, ma in profondità è una grave menomazione del segno voluto da Gesù per la sua chiesa! La tavola del corpo del Signore sempre dev’essere tavola della parola del Signore e, insieme, tavola della condivisione con i bisognosi. 

Con la condivisone dei pani e dei pesci insieme alle folle Gesù inaugura un nuovo spazio relazionale tra gli umani: quello della comunione nella differenza, perché le differenze non sono abolite ma affermate senza che, d’altra parte, ne patisca la relazione segnata da fraternità, solidarietà, condivisione. Sì, dobbiamo confessarlo: nella chiesa si è persa quest’intelligenza eucaristica propria dei primi cristiani e dei padri della chiesa, vi è stato un divorzio tra la messa come rito e la condivisione del pane con i poveri! E se nel mondo esiste la fame, se i poveri sono accanto a noi e l’eucaristia non ha per loro conseguenze concrete, allora la nostra eucaristia appare solo scena religiosa e – come direbbe Paolo – “il nostro non è più un mangiare la cena del Signore” (cf. 1Cor 11,20). 

Proprio davanti all’eucaristia cantiamo l’inno che afferma: “Et antiquum documentum novo cedat ritui” (“l’antico rito ceda il posto alla nuova liturgia”), ma in realtà restiamo ingabbiati nei riti e non riusciamo a celebrare il “rito cristiano”, “il culto secondo la Parola” (loghikè latreía: Rm 12,1), che è offerta in sacrificio dei nostri corpi a Dio attraverso il servizio dei poveri e l’amore fraterno vissuto “fino all’estremo” (Gv 13,1).

il commento al vangelo della domenica

il flusso della vita divina nelle nostre vene


Il flusso della vita divina nelle nostre vene
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della domenica del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo – Anno B
Il primo giorno degli azzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”» […]

Prendete, questo è il mio corpo. Nei Vangeli Gesù parla sempre con verbi poveri, semplici, diretti: prendete, ascoltate, venite, andate, partite; corpo e sangue. Ignote quelle mezze parole la cui ambiguità permette ai potenti o ai furbi di consolidare il loro predominio. Gesù è così radicalmente uomo, anche nel linguaggio, da raggiungere Dio e da comunicarlo attraverso le radici, attraverso gesti comuni a tutti. Seguiamo la successione esatta delle parole così come riportata dal Vangelo di Marco: prendete, questo è il mio corpo… Al primo posto quel verbo, nitido e preciso come un gesto concreto, come mani che si aprono e si tendono. Gesù non chiede agli apostoli di adorare, contemplare, venerare quel pane spezzato, chiede molto di più: “io voglio essere preso dalle tue mani come dono, stare nella tua bocca come pane, nell’intimo tuo come sangue, farmi cellula, respiro, pensiero di te. Tua vita”. Qui è il miracolo, il batticuore, lo scopo: prendete. Per diventare ciò che ricevete. Quello che sconvolge sta in ciò che accade nel discepolo più ancora che in ciò che accade nel pane e nel vino: lui vuole che nelle nostre vene scorra il flusso caldo della sua vita, che nel cuore metta radici il suo coraggio, che ci incamminiamo a vivere l’esistenza umana come l’ha vissuta lui. Dio in me, il mio cuore lo assorbe, lui assorbe il mio cuore, e diventiamo una cosa sola, una stessa vocazione: non andarcene da questo mondo senza essere diventati pezzo di pane buono per la fame e la gioia e la forza di qualcuno. Dio si è fatto uomo per questo, perché l’uomo si faccia come Dio. Gesù ha dato ai suoi due comandi semplici, li ha raddoppiati, e in ogni Eucaristia noi li riascoltiamo: prendete e mangiate, prendete e bevete. A che serve un Pane, un Dio, chiuso nel tabernacolo, da esporre di tanto in tanto alla venerazione e all’incenso? Gesù non è venuto nel mondo per creare nuove liturgie. Ma figli liberi e amanti. Vivi della sua vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Corpo e sangue indicano l’intera sua esistenza, la sua vicenda umana, le sue mani di carpentiere con il profumo del legno e il foro dei chiodi, le sue lacrime, le sue passioni, la polvere delle strade, i piedi intrisi di nardo e poi di sangue, e la casa che si riempie di profumo e parole che sanno di cielo. Lui dimora in me e io in lui, le persone, quando amano, dicono le stesse cose: vieni a vivere nella mia casa, la mia casa è la tua casa. Dio lo dice a noi. Prima che io dica: “ho fame”, lui ha detto: “voglio essere con te”. Mi ha cercato, mi attende e si dona. Un Dio così non si merita: lo si deve solo accogliere e lasciarsi amare.
(Letture: Esodo 24,3-8; Salmo 115; Lettera agli Ebrei 9,11-15; Marco 14,12-16.22-26)

il commento al vangelo della domenica

con il suo «pane vivo» il Signore vive in noi

il commento di Ermes Ronchi  al vangelo della domenica del Corpus Domini (14 giugno 2020); 

In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo (…) Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

Nella sinagoga di Cafarnao, il discorso più dirompente di Gesù: mangiate la mia carne e bevete il mio sangue. Un invito che sconcerta amici e avversari, che Gesù ostinatamente ribadisce per otto volte, incidendone la motivazione sempre più chiara: per vivere, semplicemente vivere, per vivere davvero. È l’incalzante convinzione di Gesù di possedere qualcosa che cambia la direzione della vita. Mentre la nostra esperienza attesta che la vita scivola inesorabile verso la morte, Gesù capovolge questo piano inclinato mostrando che la nostra vita scivola verso Dio. Anzi, che è la vita di Dio a scorrere, a entrare, a perdersi dentro la nostra. Qui è racchiusa la genialità del cristianesimo: Dio viene dentro le sue creature, come lievito dentro il pane, come pane dentro il corpo, come corpo dentro l’abbraccio. Dentro l’amore. Il nostro pensiero corre all’Eucaristia. È lì la risposta? Ma a Cafarnao Gesù non sta indicando un rito liturgico; lui non è venuto nel mondo per inventare liturgie, ma fratelli liberi e amanti. Gesù sta parlando della grande liturgia dell’esistenza, di persona, realtà e storia. Le parole «carne», «sangue», «pane di cielo» indicano l’intera sua esistenza, la sua vicenda umana e divina, le sue mani di carpentiere con il profumo del legno, le sue lacrime, le sue passioni, la polvere delle strade, i piedi intrisi di nardo, e la casa che si riempie di profumo e di amicizia. E Dio in ogni fibra. E poi come accoglieva, come liberava, come piangeva, come abbracciava. Libero come nessuno mai, capace di amare come nessuno prima. Allora il suo invito incalzante significa: mangia e bevi ogni goccia e ogni fibra di me. Prendi la mia vita come misura alta del vivere, come lievito del tuo pane, seme della tua spiga, sangue delle tue vene, allora conoscerai cos’è vivere davvero. Cristo vuole che nelle nostre vene scorra il flusso caldo della sua vita, che nel cuore metta radici il suo coraggio, perché ci incamminiamo a vivere l’esistenza come l’ha vissuta lui. Dio si è fatto uomo perché ogni uomo si faccia come Dio. E allora vivi due vite, la tua e quella di Cristo, è lui che ti fa capace di cose che non pensavi, cose che meritano di non morire, gesti capaci di attraversare il tempo, la morte e l’eternità: una vita che non va perduta mai e che non finisce mai.
Mangiate di me! Parole che mi sorprendono ogni volta, come una dichiarazione d’amore. «Voglio stare nelle tue mani come dono, nella tua bocca come pane, nell’intimo tuo come sangue; farmi cellula, respiro, pensiero di te. Tua vita». Qui è il miracolo, il batticuore, lo stupore: Dio in me, il mio cuore lo assorbe, lui assorbe il mio cuore, e diventiamo una cosa sola.
(Letture: Deuteronòmio 8,2-3.14b-16a; Salmo 147; 1 Corìnzi 10,16-17; Giovanni 6,51-58)

il commento al vangelo della domenica


la tavola del Signore è sempre tavola per l’affamato 
il commento di E. Bianchi al vangelo della domenica del ‘corpus domini’ (23 giugno 2019):

Lc 9,11b-17

In quel tempo, Gesù accolse le folle e prese a parlare loro del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure. Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta». Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente».C’erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.

Dopo la festa della Triunità di Dio, celebriamo oggi un’altra festa “dogmatica”, sorta a difesa della dottrina, per ricordare la verità dell’eucaristia voluta da Gesù come memoriale nella vita della chiesa fino alla sua venuta gloriosa. Ogni domenica celebriamo l’eucaristia, ma la chiesa ci chiede anche di confessare e adorare questo mistero inesauribile in un giorno particolare (il giovedì della II settimana dopo Pentecoste per la chiesa universale, la II domenica dopo Pentecoste in Italia). Facciamo dunque obbedienza e commentiamo mediante un’esegesi liturgica il brano evangelico proposto dal Messale italiano.

Il cosiddetto racconto della “moltiplicazione dei pani” è attestato per ben sei volte nei vangeli (due in Marco e in Matteo, una in Luca e in Giovanni), il che ci dice come quell’evento fosse ritenuto di particolare importanza nella vita di Gesù. Nel vangelo secondo Luca, Gesù invia i suoi discepoli ad annunciare la venuta del regno di Dio e a guarire i malati (cf. Lc 9,2), mostrando che la missione affidatagli da Dio con la discesa su di lui dello Spirito santo (cf. Lc 3,21-22), rivelata nella sinagoga di Nazaret (cf. Lc 4,18-19), era da lui estesa anche alla sua comunità. Compiuta questa missione, i discepoli fanno ritorno da Gesù e gli raccontano la loro esperienza, quanto cioè avevano fatto e detto in obbedienza al suo comando.

Gesù allora li prende con sé, portandoli in disparte per un ritiro, in un luogo vicino alla città di Betsaida (cf. Lc 9,10). Ma le folle, saputo dove Gesù si era ritirato, lo seguono ostinatamente (cf. Lc 9,11a). Ed ecco che Gesù le accoglie: aveva cercato un luogo di silenzio, solitudine e riposo per i discepoli tornati dalla missione e per sé, ma di fronte a quella gente che lo cerca, che viene a lui e lo segue, Gesù con grande capacità di misericordia la accoglie. È lo stile di Gesù, stile ospitale, stile che non allontana né dichiara estraneo nessuno. Queste persone vogliono ascoltarlo, sentono che egli può dare loro fiducia e liberarle, guarirle dai loro mali e dai pesi che gravano sulle loro vite, e Gesù senza risparmiarsi annuncia loro il regno di Dio, le cura e le guarisce. Questa è la sua vita, la vita di un servo di Dio, di un annunciatore di una parola affidagli da Dio.

Giunge però la sera, il sole tramonta, la luce declina, e i Dodici discepoli entrano in ansia. Dicono dunque a Gesù: “Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta!”. La loro richiesta è all’insegna della saggezza umana, nasce da uno sguardo realistico, eppure Gesù non approva quella possibilità razionale, ma chiede loro: “Voi stessi date loro da mangiare”. Con questo comando li esorta a entrare nella dinamica della fede, che è avere fiducia, mettere in movimento quella fiducia che è presente in ogni cuore e che Gesù sa ravvivare. Ma i discepoli non comprendono e insistono nel porre di fronte a Gesù la loro povertà: hanno solo cinque pani e due pesci, un cibo sufficiente solo per loro!

Ecco allora che Gesù prende l’iniziativa: ordina di far sedere tutta quella gente ad aiuola, a gruppi di cinquanta, perché non si tratta solo di sfamarsi, ma di vivere un banchetto, una vera e propria cena, nell’ora in cui il sole tramonta. Poi davanti a tutti prende i pani e i pesci, alza gli occhi al cielo, come azione di preghiera al Padre, benedice Dio e spezza i pani, presentandoli ai discepoli perché li servano, come a tavola, a quella gente. È un banchetto, il cibo è abbondante e viene condiviso da tutti. Quelli che conoscevano la profezia di Israele, si accorgono che è accaduto un prodigio che già il profeta Eliseo aveva fatto in tempo di carestia, nutrendo il popolo affamato a partire dalla condivisione di pochi pani d’orzo (cf. 2Re 4,42-44). Lo stesso compie Gesù, e dopo il suo gesto avanza una quantità di cibo ancora maggiore: dodici ceste. Nel cuore dei discepoli e di alcuni dei presenti sorge così la convinzione che Gesù è profeta ben più di Elia e di Eliseo, è profeta anche più di Mosè, che nel deserto aveva dato da mangiare manna al popolo uscito dall’Egitto (cf. Es 16).

Ma qui viene spontaneo chiedersi: cosa significa questo evento? Normalmente si parla di “moltiplicazione” dei pani, ma nel racconto non c’è questo termine. Dunque? Dovremmo dire che c’è stata condivisione del pane, c’è stato lo spezzare il pane, e questo gesto è fonte di cibo abbondante per tutti. In tal modo comprendiamo come ci sia qui una prefigurazione di ciò che Gesù farà a Gerusalemme la sera dell’ultima cena: “Prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: ‘Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me’” (Lc 22,19). Lo stesso gesto è ripetuto da Gesù risorto sulla strada verso Emmaus, di fronte ai due discepoli. Anche in quel caso, al declinare del giorno, invitato dai due a restare con loro (cf. Lc 24,29), “quando fu a tavola, prese il pane, pronunciò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro” (Lc 24,30). Tre episodi che recano lo stesso messaggio: le folle, la gente, il mondo ha fame del regno di Dio, e Gesù, che ne è il messaggero e lo incarna, sazia questa fame con la condivisione del cibo, con lo spezzare il suo corpo, la sua vita, offerta a tutti.

Ecco il mistero eucaristico nella sua essenza: non lasciamoci abbagliare da tante e varie dottrine eucaristiche, ma accogliamo il mistero nella sua semplicità. Cristo si dà a noi ed è cibo abbondante per tutti; una volta spezzato (sulla croce), si dà alla chiesa, a noi, a tutti coloro che lo cercano e tentano di seguirlo, a tutti quelli che hanno fame e sete della sua parola e desiderano condividere la sua vita. Se è vero che la dinamica dello spezzare il pane e del condividerlo trova nella celebrazione della cena eucaristica, nella liturgia santissima, un adempimento, essa però è anche paradigma di condivisione del nostro cibo materiale, il pane di ogni giorno. L’eucaristia non è solo banchetto del cielo, tavola del corpo e del sangue del Signore, ma vuole essere magistero per le nostre tavole quotidiane, dove il cibo è abbondante ma non è condiviso con quanti hanno fame e ne sono privi. Per questo, se alla nostra eucaristia non partecipano i poveri, se non c’è condivisione del cibo con chi non ne ha, allora anche la celebrazione eucaristica è vuota, perché le manca l’essenziale. Non è più la cena del Signore, bensì una scena rituale che soddisfa le anime dei devoti, ma in profondità è una grave menomazione del segno voluto da Gesù per la sua chiesa! La tavola del corpo del Signore sempre dev’essere tavola della parola del Signore e, insieme, tavola della condivisione con i bisognosi.

Con la condivisone dei pani e dei pesci insieme alle folle Gesù inaugura un nuovo spazio relazionale tra gli umani: quello della comunione nella differenza, perché le differenze non sono abolite ma affermate senza che, d’altra parte, ne patisca la relazione segnata da fraternità, solidarietà, condivisione. Sì, dobbiamo confessarlo: nella chiesa si è persa quest’intelligenza eucaristica propria dei primi cristiani e dei padri della chiesa, vi è stato un divorzio tra la messa come rito e la condivisione del pane con i poveri! E se nel mondo esiste la fame, se i poveri sono accanto a noi e l’eucaristia non ha per loro conseguenze concrete, allora la nostra eucaristia appare solo scena religiosa e – come direbbe Paolo – “il nostro non è più un mangiare la cena del Signore” (cf. 1Cor 11,20).

Proprio davanti all’eucaristia cantiamo l’inno che afferma: “Et antiquum documentum novo cedat ritui” (“l’antico rito ceda il posto alla nuova liturgia”), ma in realtà restiamo ingabbiati nei riti e non riusciamo a celebrare il “rito cristiano”, “il culto secondo la Parola” (loghikè latreía: Rm 12,1), che è offerta in sacrificio dei nostri corpi a Dio attraverso il servizio dei poveri e l’amore fraterno vissuto “fino all’estremo” (Gv 13,1).

il commento al vangelo della domenica

 

 


📖 il dono di tutta la vita di Gesù 
3 giugno 2018 
Santissimo Corpo e Sangue di Cristo 
Commento al Vangelo 
di ENZO BIANCHI 


Mc 14,12-16.22-26

12 In quel tempo il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». 13Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. 14Là dove entrerà, dite al padrone di casa: «Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?». 15Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». 16I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua. 22E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». 23Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. 24E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. 25In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio». 26Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

Questa festa dell’Eucaristia, o del Corpo del Signore (Messale di Pio V), o solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Messale di Paolo VI), come la solennità della Triunità di Dio celebrata domenica scorsa è tardiva. Infatti, è stata istituita nel XIII secolo, e nel secolo seguente ha faticato a imporsi in occidente, restando invece sempre sconosciuta nella tradizione ortodossa. L’intenzione della chiesa è quella di proporre, fuori del santissimo triduo pasquale, la contemplazione, l’adorazione e la celebrazione del mistero eucaristico del quale viene fatto memoria il giovedì santo, in coena Domini. Quanto al brano evangelico scelto, il messale italiano in questa annata B propone la lettura del racconto dell’ultima cena nel vangelo secondo Marco, che ora cerchiamo di accogliere come parola del Signore.

Prima del suo arresto e della sua morte in croce, Gesù ha voluto celebrare la Pasqua con i suoi discepoli, e proprio per questo durante il suo ultimo soggiorno a Gerusalemme, nel primo giorno della festa dei pani azzimi, invia due suoi discepoli affinché preparino l’occorrente per la cena pasquale. Gesù sa di essere braccato, di non potersi fidare neppure di tutti i suoi discepoli, perché uno l’ha ormai tradito (cf. Mc 14,10-11), dunque predispone ogni cosa perché quella cena pasquale possa avvenire, ma agisce con molta circospezione, come se non volesse che si sappia dove la celebrerà.

Per questo i due discepoli da lui inviati devono incontrare un uomo che porta una brocca d’acqua (cosa insolita, perché erano le donne a svolgere tale operazione, ma questo è il segno convenuto), devono seguirlo fino a una casa, dove costui indicherà loro la “camera alta”, la sala al piano superiore già arredata e pronta, in cui predisporre tutto per la cena pasquale. Occorre infatti preparare il pane, il vino, l’agnello, le erbe amare, per ricordare in un pasto – come prevedeva la Legge (cf. Es 12) – l’uscita di Israele dall’Egitto, la liberazione dalla schiavitù, la nascita del popolo appartenente al Signore. E così, in obbedienza all’ordine dato da Gesù con autorità e gravità ai due discepoli inviati, tutto è preparato per quella celebrazione pasquale, per quell’ora solenne, per quell’ora ultima di Gesù con i suoi discepoli, per quell’ora nella quale la Pasqua dell’agnello diventerà la Pasqua di Gesù.

E quando Gesù siede a tavola per la cena, compie dei gesti e dice alcune parole sul pane e sul vino, dando origine alla celebrazione della nuova alleanza con la sua comunità. Di questa scena abbiamo quattro racconti, tre nei vangeli sinottici (cf. Mc 14,22-25; Mt 26,26-29; Lc 22,18-20) e uno, il più antico, nella Prima lettera ai Corinzi (cf. 1Cor 11,23-25): racconti che riportano parole tra loro un po’ diverse, a testimonianza di come non si tratti di formule magiche da ripetersi tali e quali, ma di parole che manifestano l’intenzione di Gesù e spiegano i suoi gesti. Le prime comunità cristiane, dunque, volendo restare fedeli all’intenzione di Gesù, hanno ridetto le sue parole, hanno ripreso i suoi gesti, e da allora la cena del Signore è sempre e dovunque celebrata nelle chiese.

Innanzitutto Gesù compie un’azione rituale: prende il pane azzimo che è sulla tavola del seder pasquale, pronuncia la benedizione a Dio per quel dono, quindi lo spezza e lo porge ai discepoli. Prendere il pane, spezzarlo e darlo è un gesto quotidiano fatto da chi presiede la tavola, ma Gesù lo compie con un’intensità e con una forza che lo rendono carico di significato, ne fanno un gesto che si imprime nella mente e nel cuore dei commensali di quella cena pasquale. Gesù assume l’atteggiamento e la parola della Sapienza di Dio che parla e invita al banchetto (cf. Pr 9,1-6), fa sue le parole del profeta che chiama al pasto dell’alleanza eterna (cf. Is 55,1-3), e offre come cibo la sua vita, il suo corpo, se stesso! Vi è in questo gesto e in queste parole di Gesù il suo donarsi fino all’estremo, perché egli ha amato e ama fino al dono della sua vita (cf. Gv 13,1). Di fronte a questa azione i discepoli furono certamente scossi e solo dopo la morte e resurrezione di Gesù compresero ciò che non avevano potuto dimenticare.

Non si dimentichi inoltre che il gesto dello spezzare il pane già nei profeti indicava il condividere il pane con i poveri, i bisognosi e gli affamati (cf. Is 58,7), esprimendo in tal modo una condivisione di ciò che fa vivere, che manifesta la comunione tra tutti quelli che mangiano lo stesso pane. Ecco perché il primo nome dato all’Eucaristia dai discepoli e dai cristiani delle origini è “frazione del pane” (cf. Lc 24,35; At 2,42; 20,7; Didaché 9,3). Quanto alle parole che accompagnano il gesto – “Prendete, questo è il mio corpo” –, esse vogliono significare che Gesù consegna e dona la sua intera vita ai discepoli i quali, mangiando quel pane, si fanno partecipi della sua vita spesa e consegnata per amore, “fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,8). In questo modo Gesù spiega in anticipo e in piena libertà, con gesti e parole, ciò che accadrà di lì a poco: la sua morte dovrà essere percepita come dono della sua vita agli uomini, vita offerta in sacrificio a Dio.

Poi Gesù prende anche il calice tra le sue mani, rende grazie a Dio per il frutto della vite e con solennità dichiara: “Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, che è sparso per le moltitudini”. Come ha dato il suo corpo porgendo il pane, così dà il suo sangue porgendo il calice del vino da bere ai discepoli; ovvero, Gesù dona la sua vita, significata nella cultura semitica dal sangue. L’evangelista sottolinea che a questo calice “bevvero tutti”, perché il dono di Gesù è per tutti, nessuno escluso. C’è un contrasto tra questo “tutti”, che indica tutti i discepoli, e le parole dette in precedenza: “Uno di voi mi tradirà” (Mc 14,18). Ma ciò mette ancor più in risalto il fatto che tutti sono associati al bere al calice offerto, anche Giuda il traditore. A tutti, nessuno escluso, Gesù offre la sua vita e il suo amore gratuito, che non deve mai essere meritato.
Ma qui si deve cogliere anche il compimento a cui Gesù vuole portare le parole che sigillavano l’alleanza tra Dio e Israele al monte Sinai, quando, con il sangue delle vittime del sacrificio Mosè asperse l’altare, trono di Dio, e il popolo riunito in assemblea, dicendo: “Questo è il sangue dell’alleanza” (cf. Es 24,6-8). Al Sinai, in quella celebrazione dell’alleanza, il sangue, la vita univa Dio e il suo popolo in un patto di appartenenza reciproca, in una comunione fedele nella quale Dio si mostrava come “il Signore misericordioso e compassionevole, lento all’ira, grande nell’amore e nella fedeltà” (Es 34,6). Ma l’alleanza che Gesù stipula con il dono della sua vita non è più ristretta al popolo di Israele, bensì è un’alleanza universale, aperta a tutte le genti, un’alleanza nel suo sangue sparso “per le moltitudini” (rabbim, polloí: cf. Is 53,11-12): non “per molti” dunque, ma “per tutti” (cf. Concilio Vaticano II, Ad gentes 3).

L’Apostolo Paolo, proprio per affermare questa destinazione universale del dono del sangue di Cristo, scrive nella Lettera ai Romani: “La prova che Dio ci ama tutti è che il Cristo è morto per noi, mentre noi eravamo peccatori” (cf. Rm 5,7-8). È morto per tutti, anche per Giuda, come per tutti noi che siamo nella malvagità e nell’inimicizia con Dio. Qui dovremmo cogliere come il dono dell’Eucaristia non è un premio, un privilegio per i giusti, ma un farmaco per i malati, un viatico per i peccatori. L’Eucaristia altro non è che narrazione in parole e gesti dell’amore di Dio, è la sintesi di tutta la vita del Figlio Gesù Cristo, la sintesi di tutta la storia di salvezza.

Ricordiamo infine che quell’anticipazione della morte di Gesù, nel rito del ringraziamento sul pane spezzato e nel rito del calice condiviso, è un’anticipazione anche del Regno che viene, dove la morte sarà vinta per sempre. Per questo Gesù dice: “Amen, io vi dico che non berrò più del frutto della vite, fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio”. Il pasto eucaristico prelude dunque al banchetto del Regno, dove Gesù, il Kýrios risorto, mangerà con noi e berrà con noi il calice della vita futura, al banchetto nuziale, dove il vino sarà nuovo, cioè altro, ultimo e definitivo, vino della stessa vita divina, la sua vita che è agápe, amore: e noi berremo quel vino nuovo vivendo in lui e con lui per sempre.

il commento di p. Maggi al vangelo della domenica

LA MIA CARNE E’ VERO CIBO E IL MIO SANGUE VERA BEVANDA

commento al vangelo della domenica del ‘corpus domini’ 18 giugno 2017) di p. Alberto Maggi :

Gv 6,51-58

In quel tempo, Gesù disse alla folla:
«Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

Le parole che adesso leggeremo e commenteremo, quelle di Gesù nel vangelo di Giovanni, sono talmente gravi che, al termine di queste, gran parte dei suoi discepoli lo abbandonerà e non tornerà più con lui. Vediamo allora che cos’è di grave, di importante, che Gesù ha detto.
Nel capitolo 6 del vangelo di Giovanni troviamo un lungo e intenso insegnamento sull’Eucaristia. Giovanni è l’unico evangelista che non riporta la narrazione della cena, ma è quello che, più degli altri, riflette sul profondo significato della stessa.
Quindi il capitolo 6 è un insegnamento, una catechesi alla comunità cristiana, sull’Eucaristia. Leggiamo il capitolo 6, dal versetto 51. “«Io sono»”, e Gesù rivendica la condizione divina, “«il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno»”.  
Gesù garantisce che l’adesione a lui è ciò che permette all’uomo di avere una vita di una qualità tale che è indistruttibile. Questa è la vita eterna. Gesù, il figlio di Dio, si fa pane perché quanti lo accolgono e sono capaci di farsi pane per gli altri, diventino anch’essi figli di Dio. “ «E il pane che io darò è la mia carne»” – Gesù adopera proprio il termine carne, che indica l’uomo nella sua debolezza, “«per la vita del mondo»”.
Quello che Gesù sta dicendo è molto importante: la vita di Dio non si da al di fuori della realtà umana. Non ci può essere comunicazione dello Spirito dove non ci sia anche il dono della carne. Quindi il dono di Dio passa attraverso la carne, dice Gesù. L’aspetto terreno, debole, della sua vita. Qui l’evangelista presenta una contrapposizione tra gli uomini della religione che si innalzano per incontrare Dio – un Dio che la religione ha reso lontano, inavvicinabile, inaccessibile – e, invece, un Dio che scende per incontrare l’uomo.
“Allora i Giudei”, con questo termine nel vangelo di Giovanni si indicano le autorità, “ «si misero a discutere aspramente tra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?»” Un Dio che, anziché pretendere lui i doni dagli uomini, si dona all’uomo fino ad arrivare a fondersi con lui, si fa alimento per lui. Questo è inaccettabile per le autorità religiose che basano tutto il loro potere sulla separazione tra Dio e gli uomini.
Un Dio che vuole essere accolto dagli uomini e fondersi con loro, questo per loro non solo è intollerabile, ma è pericoloso. Ebbene Gesù risponde loro: “ «In verità, in verità io vi dico »”, quindi la doppia affermazione “in verità, in verità io vi dico” è quella che precede le dichiarazioni solenni, importanti di Gesù, “«Se non mangiate la carne del figlio dell’Uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita»”.
Gesù si rifà all’immagine dell’agnello, l’agnello pasquale. La notte del’Esodo Mosè aveva comandato agli ebrei di mangiare la carne dell’agnello perché avrebbe dato loro la forza di iniziare questo viaggio verso la liberazione e di aspergere il sangue sugli stipiti delle porte perché li avrebbe separati dall’azione dell’angelo della morte.
Ebbene Gesù si presenta come carne, alimento che da la capacità di intraprendere il viaggio verso la piena libertà, e il cui sangue non libera dalla morte terrena, ma libera dalla morte definitiva. Poi Gesù, tante volte non fosse stato chiara la sua affermazione, dice: “Chi mastica la mia carne”. Il verbo masticare i greco è molto rude, primitivo, in greco è trogon. Già il suono dà l’idea di qualcosa di primitivo, e significa “masticare, spezzettare”.
Quindi Gesù vuole evitare che l’adesione a lui sia un’adesione ideale, ma dev’essere concreta. Infatti dice: “«Chi mastica la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna »”. La vita eterna per Gesù non è un premio futuro per la buona condotta tenuta nel presente, ma una possibilità di una qualità di vita nel presente. Gesù non dice “avrà la vita eterna”. La vita eterna c’è già. Chi, come lui, fa della propria vita un dono d’amore per gli altri, ha una vita di una qualità tale che è indistruttibile. 
“«E io lo risusciterò nell’ultimo giorno »”. L’ultimo giorno non è la fine dei tempi. L’ultimo giorno, nel vangelo di Giovanni, è il giorno della morte in cui Gesù, morendo, comunica il suo Spirito, cioè elemento di vita che concede, a chi lo accoglie, una vita indistruttibile.
E Gesù conferma che la sua “ «carne è vero cibo e il suo sangue è la vera bevanda »”. Con Gesù non ci sono regole esterne che l’uomo deve osservare, ma l’assimilazione di una vita nuova. E la sua carne è vero cibo, quello che alimenta la vita dell’uomo, e il suo sangue vera bevanda, cioè elementi che entrano nell’uomo e si fondono con lui. Non più un codice esterno da osservare, ma una vita da assimilare.
Gesù ci presenta un Dio che non assorbe gli uomini, ma li potenzia. Un Dio che non prende l’energia degli uomini, ma comunica loro la sua. E Gesù continua ad insistere: “«Chi mastica la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui »”. Ecco la piena fusione di Gesù con gli uomini e degli uomini con Gesù.
Quello di Gesù è un Dio che chiede di essere accolto per fondersi con gli uomini e dilatarne la capacità d’amore. “«Come il Padre, che ha la vita»”, ed è l’unica volta che Dio viene definito come il Padre che è vivente, “«ha mandato me»”, il Padre ha mandato il figlio per manifestare il suo amore senza limiti, “«e io vivo per il Padre, così anche colui che mastica …»”, di nuovo Gesù insiste con questo verbo che indica non un’adesione teorica, ma reale e concreta, “«… me, vivrà per me»”.
Alla vita ricevuta da Dio corrisponde una vita comunicata ai fratelli. Questo è il significato dell’Eucaristia. E, come il Padre ha mandato il figlio ad essere manifestazione visibile di un amore senza limiti, così quanti accolgono Gesù sono chiamati a manifestare un amore incondizionato.
E conclude Gesù: “ «Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono»”. Gesù mette il dito nella piaga del fallimento dell’Esodo. Tutti quelli che sono usciti dall’Egitto sono morti. I loro figli sono entrati. E Gesù contrappone il suo esodo che è destinato invece a realizzarsi pienamente.
E di nuovo Gesù insiste: “«Chi mastica»”, quindi adesione piena e totale, non simbolica, “ «questo pane vivrà per sempre»”. Chi orienta la propria vita, con Gesù e come Gesù, a favore degli altri, ha già una vita che la morte non potrà interrompere.

il commento al vangelo della domenica

TUTTI MANGIARONO A SAZIETA’  

commento al vangelo della domenica del ‘corpus Domini’ (29 maggio 2016) di p. Alberto Maggi:

maggi20

Lc 9,11-17

In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure.
Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta».
Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». C’erano infatti circa cinquemila uomini.
Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti.
Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla.
Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.

Nella solennità del SS Corpo e Sangue di Cristo la liturgia ci presenta l’evangelista Luca al capitolo 9, versetti 11-17. Gesù con i suoi discepoli si è ritirato a Betsaida, fuori dal territorio Giudeo. Ma le folle vennero a saperlo e lo seguirono. Le folle si sentono attratte da Gesù perché sentono nel suo messaggio la risposta di Dio al bisogno di pienezza che ogni persona si porta dentro.
Egli le accolse e prese a parlare loro del Regno di Dio. Gesù non parla loro del regno di Israele, Gesù non è venuto a restaurare il regno di Israele, ma ad inaugurare il regno di Dio, un regno senza confini perché l’amore di Dio non tollera nessuna barriera.
E a guarire quanti avevano bisogno di cure. Ecco di fronte al male, di fronte alle malattie, Gesù non ha parole di consolazione, ma azioni che curano, che eliminano questo male. Questo è un effetto del regno di Dio. Nel regno di Dio il bene e il benessere dell’uomo sono al primo posto.
Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono.  L’evangelista sottolinea una differenza. Mentre le folle seguono Gesù – e Gesù aveva invitato i suoi discepoli, i dodici, a seguirlo – i dodici gli sono lontani, tengono quasi un distanza di sicurezza, gli si devono avvicinare, ma gli si avvicinano per un motivo che è negativo … Dicendo … “ E l’evangelista adopera un verbo all’imperativo, quindi comanda quasi a Gesù: “Congeda (cioè manda via) la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta”.
I dodici trattano Gesù quasi da sprovveduto come se non sapesse che era in una zona deserta, che non c’era da mangiare, quindi la loro preoccupazione è mandare via la gente. Non si dice che la gente si fosse stancata di ascoltare l’insegnamento di Gesù, sono i discepoli che pensano soltanto a se stessi.
Gesù disse loro: “Voi stessi date loro da mangiare”. Letteralmente l’evangelista scrive: “Date voi stessi da mangiare”. Il significato è duplice. Oltre a quello ovvio “procurate voi stessi da mangiare” c’è il significato “datevi voi da mangiare”. L’evangelista sta qui anticipando quello che sarà il significato dell’eucaristia, dove Gesù, il figlio di Dio, si fa pane, alimento di vita, perché quanti lo accolgono, lo mangiano e lo assimilano, siano poi capaci a loro volta di farsi pane, alimento di vita per gli altri.
Ecco però l’obiezione dei dodici.  Ma essi risposero: “Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare …” C’è un contrasto tra l’invito di Gesù “date”, cioè “condividete”, e la mentalità dei discepoli, “comprare”. Ancora non hanno compreso il messaggio di Gesù, della condivisione. “… viveri per tutta questa gente”, letteralmente popolo, ed è un termine dispregiativo. Gli apostoli vedono quasi con fastidio tutta questa folla che segue Gesù.
C’erano infatti circa cinquemila uomini. Perché questo numero? Perché la primitiva comunità cristiana, secondo gli Atti degli Apostoli, era composta da circa cinquemila persone. Allora l’evangelista vuole dire che questa è l’azione che costituisce la comunità.
Egli disse ai suoi discepoli: “Fateli sedere”. Mentre gli apostoli hanno usato l’imperativo “Mandali via, congedali”, Gesù risponde con un altro imperativo contrario: “Fateli sedere”, letteralmente sdraiare. Nei pranzi festivi, nei pranzi solenni, si mangiava sdraiati su dei lettucci, ma chi poteva mangiare così? I signori quelli che avevano dei servi che provvedevano a loro. Allora Gesù chiede alla comunità dei discepoli di far sì che i presenti si sentano come dei signori perché loro si mettono al loro servizio.
“A gruppi di cinquanta circa”. In questo brano del vangelo ci sono molti numeri. I numeri della Bibbia hanno sempre un significato figurato, simbolico, mai matematico o aritmetico.  Cinquanta è l’azione dello Spirito. Pentecoste è il cinquantesimo giorno, quindi cinquanta e i suoi multipli indicano l’azione dello Spirito. 
 Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. Quindi tutti i partecipanti a questa azione vengono trattati come dei signori. E qui l’evangelista anticipa quelli che saranno i gesti di Gesù nell’ultima cena.
Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, (in comunione con Dio) recitò su di essi la benedizione, … rendere grazie, far comprendere che non si possiede più questo pane e questi pesci ma che sono un dono di Dio e i doni di Dio vanno condivisi per moltiplicare gli effetti della sua azione creatrice.
Li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. I discepoli non sono i padroni, i proprietari di questo pane, ma sono servi il cui compito è distribuire questo pane alla folla. Non sta a loro decidere chi è degno e chi no di prendere questo pane, di partecipare o no a questa mensa, il loro compito è soltanto quello di distribuire.
Risalta l’omissione di un rito molto importante nel pasto giudaico: la purificazione. Perché Gesù non chiede alla folla di purificarsi per essere degna di mangiare questo pranzo? L’evangelista anticipa quella che è la grande novità di Gesù: mentre la religione insegna che l’uomo deve purificarsi per essere degno di accogliere il Signore, con Gesù è accogliere il Signore quello che lo purifica e lo rende degno di lui.
Conclude l’evangelista: Tutti mangiarono a sazietà. Quando si condivide c’è l’abbondanza per tutti.
 E furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste. E’ l’ultimo dei numeri apparso in questo vangelo. Perché dodici? Dodici è il numero delle tribù che compongono Israele. L’evangelista vuole dire che attraverso la condivisione dei pani si risolve il problema della fame. Fintanto che le persone accaparrano per sé, trattengono per sé, c’è l’ingiustizia e c’è la fame, quando quello che si ha non si considera come esclusivamente proprio ma lo si condivide per moltiplicare l’azione creatrice del Padre, si crea sazietà e abbondanza.

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