il futuro della chiesa finita la ‘cristianità’

la rinascita del cristianesimo

di Enzo Bianchi

 

Il cardinal Matteo Zuppi, nella prolusione al Consiglio permanente della Cei, con sguardo realista ma non angosciato ha evocato le parole più volte ripetute da Benedetto XVI che descrivevano la chiesa di oggi come “una realtà più piccola, più povera, quasi catacombale, ma anche più santa.
La rinascita sarà opera di un piccolo resto, apparentemente insignificante eppure indomito, rinato attraverso un processo di purificazione. Contro il male resisterà il piccolo gregge”.
Sì, ormai è riconosciuto da tutti che la cristianità è finita e che la chiesa, almeno in Occidente, è ridotta a minoranza in diaspora. Questo però, ha precisato Zuppi, non significa che non debba essere una chiesa di popolo, anzi è importante rifuggire ogni logica elitaria.
Questa speranza efficace dovrebbe abitare il cuore dei cristiani e fugare ogni timore di fronte a un dato di fatto da accettare: essere diventati una minoranza. Ciò che è decisivo, in realtà, è che la minoranza sia significativa, portatrice di una bella notizia per l’umanità di oggi. Nella storia sovente sono state le minoranze a determinarne il futuro, in quanto capaci di sollecitare un cambiamento urgente per la convivenza. Certo, se guardiamo all’oggi con occhi paralizzati dalla presenza
dell’oscurità, allora finiamo per sentirci gli ultimi cristiani. Nella Bibbia i profeti alzavano la voce per denunciare l’incredulità e l’idolatria dei contemporanei. Gesù stesso chiamò “generazione adultera e malvagia” coloro in mezzo ai quali viveva e predicava.
Sempre nella storia ritroviamo condanne dell’infedeltà e della mancanza di fede, ma anche  espressioni di smarrimento di fronte ai mutamenti, reazioni che ci appaiono oggi più che mai vicine  a quelle che si registrano nel nostro tempo. Anselmo di Havelberg intorno al 1160 scriveva: “Molti
si stupiscono, s’interrogano e s’indignano: perché tante novità nella chiesa? Chi non sarà  scandalizzato e contrariato da questi cambiamenti, queste novità?”. E quattro secoli dopo Teresa d’Avila: “Non ho ancora cinquant’anni e ho visto tanti cambiamenti nella chiesa che non so più
come vivere. Come andrà a finire? Preferisco non pensarci! Cosa diventeranno questi giovani non oso immaginarlo!”.
Nel secolo scorso il cardinal Verdier, alla vigilia della seconda guerra mondiale, osava scrivere: “Il mondo oggi subisce una crisi di cui non si sa esagerare la gravità! Siamo ormai sull’orlo dell’abisso.
Dai giorni del diluvio non c’è stata una crisi spirituale così profonda!”.
Leggere queste testimonianze ci deve mettere in guardia e indurci a ripensare alle nostre previsioni oggi così negative sulla chiesa.
Manchiamo di sapienza e non abbiamo fondamenti per sperare che sempre il cristianesimo non fa che rinascere. Muta la maniera di viverlo, cambiano le chiese che lo professano e a volte lo tradiscono… Ma il Vangelo come brace sotto la cenere è fuoco che rinasce e brucia il cuore di un piccolo resto, che ha una sola forza: il non temere!

a proposito del declino vistoso del cristianesimo nel mondo europeo

il cristianesimo: religione o ‘via’ e ‘sequela’?

di E. Bianchi

E. BIANCHI

Un monaco benedettino, vero fratello e amico, raffinato teologo e letterato riconosciuto per i suoi scritti anche poetici, François Cassingena-Trévedy, nel suo ultimo libro scritto nella condizione di esilio dal suo monastero confessa di “restare in contatto costante con la sua chiesa e la sua epoca” della quale mette in luce un evento importante: “l’affondamento di tutto un paesaggio religioso”. Anch’io come cristiano devo confessare che ciò che mi turba di più nella vicenda della fede è questo affondamento, che si potrebbe chiamare “implosione”, del cattolicesimo, questo declino vistoso del cristianesimo, almeno nel nostro mondo, l’Europa!
Per un cattolico che si è affacciato alla maturità della vita con l’orizzonte di una promettente primavera, annunciata soprattutto dall’avvento di Papa Giovanni e del concilio da lui voluto, non è facile assistere oggi a questo tramonto che non è solo fine della cristianità, ma è anche spoliazione di una chiesa attualmente visibile solo più sotto forma di minoranza e in cammino verso la diaspora.
Non credo che quanti hanno nutrito una grande speranza di riforma della chiesa e del suo stare nella storia, nella compagnia degli umani, volessero una chiesa trionfante e più grande: il desiderio era di vivere in una chiesa capace di ascolto dell’umanità, e talmente convinta del primato del Vangelo da assumerne lo stile, la prassi e lo spirito. Ma non è stato così!
Certamente oggi la chiesa cattolica è umiliata dalla sue contraddizione al Vangelo che emergono come scandali soprattutto finanziari e violazioni della dignità della persona umana: ma proprio a partire da questa umiliazione sarà possibile che diventi umile? Oggi alla chiesa è impedito di essere domina nella storia: ma è davvero capace di accoglierlo come beatitudine? Siamo consapevoli che grazie al cammino sinodale voluto da Papa Francesco emergono dal popolo di Dio in modo inedito domande di riforma: ma la chiesa si mostrerà ancora una volta irriformabile?
Ogni giorno nelle diverse chiese si vivono scandali che causano non solo disaffezione, ma anche abbandono della comunità cristiana e tutti siamo testimoni della crescita esponenziale di chiese chiuse, chiese vuote, assemblee nelle quali appaiono solo più teste bianche… La spoliazione che sta avvenendo è vistosa e fa soffrire, ma siamo ancora lontani dal leggerla nella sua forma evangelica. Non è solo questione di povertà, di rifiuto della ricchezza e di condivisione con i poveri: occorre che la chiesa si faccia povera di potere mondano, si spogli del potere giuridico, sieda alla tavola dei peccatori semplicemente seguendo Gesù e frequentando come lui i sofferenti, i bisognosi, gli scarti della società. La chiesa deve sentirsi una “via”, quale la professavano i primi cristiani, e pensarsi nella forma della “sequela”, non in quella di una religione.
Allora vi sarà la conversione del cattolicesimo alla cattolicità e verrà meno il rischio di un cattolicesimo senza cristianesimo, di una religione teista condannata oggi all’autoreferenzialità, a fallaci tentativi di autoconservazione, occupandosi di sé stessa senza un’attesa messianica che gli dia vigore e scacci ogni paura . Allora il Vangelo – come Buona notizia che la morte non ha l’ultima parola perché Gesù Cristo, che è l’amore vissuto all’estremo per l’umanità, l’ha vinta – non resterà più afono e potrà risuonare limpidamente in comunità minoritarie ma significative.
Crolla il paesaggio religioso, ma sotto la cenere resta la brace della fede e – come diceva Aleksandr Men’, la fede cristiana non fa che rinascere.

cristianesimo, cristianità, post cristianesimo

quale cristianesimo dopo la cristianità?


diArmando Savignano 
in Europa, dove la religione è “in agonia” va riscoperto l’impegno e la lotta, senza cedere alla tentazione dello scontro. Un tema già al centro del pensiero sulla fede in Unamuno, Mounier e Zambrano

Una chiesa abbandonata in Europa

Gli accorati appelli di Papa Francesco sul tramonto della civiltà europea ormai scristianizzata suonano come l’ennesimo campanello di allarme contro l’individualismo ed il nichilismo occidentali. Viviamo una profonda inquietudine e una crisi non solo di credenze ,ma anche di fede, per cui molti si interrogano sul futuro del cristianesimo. Come ha dichiarato il cardinale Matteo Zuppi:

«La Chiesa rischia di essere irrilevante anche se le statistiche sui credenti non sono tutto. Alcune scelte di papa Francesco sono importanti per i cattolici, e per tutti. La cristianità è finita, ripartiamo dall’essere evangelici, dal parlare con tutti, dal riprendere le relazioni con tutti. Essere una minoranza creativa che parla di futuro. Non difendiamo i bastioni, abbiamo tanto da lavorare per superare le difficoltà della Chiesa».

Nel libro Il gregge smarrito (Rubbettino 2021) si fa una diagnosi dei problemi della Chiesa al tempo della pandemia con lo sguardo rivolto al futuro e a possibili soluzioni per uscire dalla crisi confrontandosi con le sfide della post-modernità. A tal fine ci si richiama al costante appello del Papa: «Nell’ovile abbiamo soltanto una pecora e voi dovete andare fuori a trovare le altre novantanove ». Certamente non mancano le azioni sociali della cattolicità, «ma senza che esista una sintesi ed una rappresentazione comune: il risultato è una Chiesa che parla senza contare e che agisce senza parlare». Occorre rifuggire – è la proposta del libro dal fondamentalismo, ma non occorre neppure barricarsi sui valori non negoziabili, poiché «si viene marginalizzati» e si rinuncia così al «dialogo costruttivo con il resto della società».

È ineludibile praticare la via del dialogo, poiché «la vita della Chiesa è nella relazione»; perciò «mettere un piede fuori dal suo recinto l’aiuterà a non cadere e permetterà alla società di riconoscerla ». Insomma, dovrà resistere alle tentazioni politiche per assumere «un ruolo profetico nella società».

Già nel libro di Andrea Riccardi La Chiesa brucia. Crisi e futuro del cristianesimo (Laterza, 2021) si sostiene che il cristianesimo è vivo solo se lotta, ovvero vive agonicamente, come aveva già sostenuto Miguel De Unamuno. Nonostante si abbia la percezione di un declino quasi inarrestabile osserva Riccardi – agonia, nel senso più profondo, è lotta, non rassegnazione. La lotta di oggi è essere a contatto con l’indifferenza, il discredito al massimo grado, il ridimensionamento nei fatti e nelle esistenze. Per i cristiani è facile non lottare: si è tollerati come nicchia. Del resto non si tratta di una lotta contro qualcuno o qualcosa, che scomunica, scredita, aggredisce. Tante volte la Chiesa è tentata dagli scontri frontali. È un modo di far sentire che si è vivi. Non si tratta di conquistare, perché la sua esistenza è fondata sulla gratuità. Queste importanti riflessioni e dibattiti erano già emersi in altre epoche storico- sociali, alle quali forse non è inutile riferirci sia pure sommariamente per trarre lumi per il presente e soprattutto per il futuro dei cristiani nel mondo.

Tra i saggi che compongono Feu la Chrétienté, di particolare interesse risulta quello su Agonie du Christianisme, apparso originariamente su “Esprit” (1946), dove Emmanuel Mounier in dialogo con il celebre libro di Miguel de Unamuno, Agonia del cristianesimo, affronta la delicata questione delle sorti della cristianità senza peraltro rinnegare la fedeltà alla Chiesa. Quello di Unamuno – riconosce Mounier – è uno scritto paradossale quanto provocatorio. Pochi conoscono abbastanza l’etimologia greca da comprendere che l’autore spagnolo «evoca un combattimento e non una fine, o abbastanza il dogma da ricordarsi che il Cristo e la sua Chiesa sono in agonia fino alla fine dei tempi».

Mounier si scaglia contro quanti guardano con perplessità al processo di laicizzazione del cristianesimo, non comprendendo appieno i risvolti profondi. Occorre invece guardare al mondo laico con lo sguardo attento ai valori di cui è portatore. In ordine alla delicata questione del rapporto tra cristianesimo, cultura e valori laici, Mounier mostrava l’esigenza di assumere un atteggiamento critico nei confronti di tali valori per purificarli e poi incarnarli, rilevando nel contempo la carenza di impegno da parte dei cristiani nel ricercare elementi comuni con i valori propugnati dalla modernità. Di qui la denuncia di una grave conseguenza: «Il mondo attuale non incontra più il cristianesimo». Irreprensibili sul piano dottrinale, i cristiani, proprio attraverso i loro comportamenti piccolo borghesi, operano il tradimento del Vangelo rimanendo praticamente chiusi agli stessi ideali della modernità su cui si basa il pensiero laico. «Si può rigettare, condannare, estirpare un errore o un’eresia. Non si rigetta un dramma, e la cristianità, nella sua pace di superficie, è di fronte oggi al più temibile dei drammi nei quali sia mai stata impegnata. Il cristianesimo non è minacciato di eresia: non si appassiona più per questo. È minacciato da una sorta di apostasia silenziosa costituita dall’indifferenza intorno ad essa e dalla propria distrazione. Questi segni non ingannano: la morte si avvicina. Non la morte del cristianesimo, ma la morte della cristianità occidentale, feudale e borghese. Una cristianità nuova nascerà domani, o dopodomani, da nuovi strati sociali e da nuovi innesti extraeuropei. Purché noi non lo soffochiamo con il cadavere dell’altra».

Allorchè scrisse Agonie du Christianisme Mounier era ancora convinto che altre forme di cultura innervassero e rinnovassero l’esperienza storica della cristianità europea. Tre anni dopo non sembra più riporre soverchie speranze in tale possibilità come emerge da Feu la Chrétienté, dove mostra che un certo rapporto tra fede e storia così come è venuto configurandosi nell’Occidente europeo è ormai definitivamente alle nostre spalle ed è pertanto improponibile.

È interessante rilevare che nei frammenti che compongono il libro su La agonía de Europa (1945) Maria Zambrano – richiamandosi alla dialettica hegeliana, senza peraltro condividerne la filosofia della storia, e anche lei all’opera di Unamuno, di cui fa proprio lo spirito di lotta per la civiltà europea – è alla ricerca una soluzione in chiave spirituale per superare lo scacco prodotto dalla morte di Dio e dal nichilismo.

Di qui l’interrogativo se «ciò che l’Europa ha realizzato come sua religione sia stato il cristianesimo. Invero basta sentirsi anche minimamente cristiano per presentire e intravedere che no, che ciò che l’Europa ha realizzato non è stato il cristianesimo, ma, al più, la sua versione, la versione europea del cristianesimo. Ne è possibile un’altra, che sia ancora europea e, soprattutto, che sia cristianesimo? ». L’enigma europeo risiede nella violenza che ha originato il totalitarismo; infatti «la tragedia dell’Europa è la tragedia della violenza, che alla fine ha installato ». La risurrezione dell’Europa si attuerà solo richiamandosi al Dio misericordioso cristiano, insomma ritornando alla radici cristiane dell’Europa.

può il cristianesimo essere considerato una religione? quale teologia per il futuro

Quali compiti per la teologia del XXI secolo?

quali compiti per la teologia del XXI secolo?

 da: Adista Documenti n° 22 del 12/06/2021

 

la religione che non c’è

 da: Adista Documenti n° 22 del 12/06/2021

Gesù non ha fondato una religione: «ha proclamato e inaugurato il regno di Dio sulla terra. Il Regno di Dio non è un regno religioso, è un rinnovamento dell’intera umanità, realizzazione che cambia il senso della storia umana». In questa prospettiva, la teologia oggi deve aiutare a conoscere «il vero vangelo», distinguendolo da ciò che è stato aggiunto in un secondo tempo, per arrivare alla vera fede. Lo afferma il teologo belga José Comblin, già docente di teologia in Ecuador, Cile e Brasile, in una relazione tenuta a Santiago (Cile) durante le Giornate teologiche latinoamericane del 2009 – due anni prima della sua morte e pubblicata su Redes Cristianas l’8 maggio scorso.

Il nostro punto di partenza sarà la distinzione tra religione e vangelo. Il cristianesimo non è originariamente una religione e Gesù non ha fondato nessuna religione. Successivamente i cristiani hanno fondato la religione cristiana, che è una creazione umana e non divina. La religione è il prodotto della cultura umana. Esiste una grande varietà di religioni e tutte hanno la stessa struttura, sebbene molto diverse nella loro forma esteriore. Hanno tutti una mitologia, un culto e una classe dedicata al loro esercizio. In questo la religione cristiana non è diversa dalle altre. È anch’essa una creazione umana, prodotto di varie culture. La religione è una realtà fondamentale dell’esistenza umana. Pone il problema del significato della vita su questa terra, il problema dei valori, il posto dell’essere umano nell’universo e il problema della salvezza da tutti i suoi mali di questo mondo.   

La religione è stata ampiamente studiata dall’antropologia religiosa, dalla sociologia religiosa, dalla psicologia religiosa, dalla storia delle religioni. Tutto questo riguarda anche la religione cristiana. Essendo una creazione umana, la religione cristiana è cambiata e potrebbe ancora cambiare in futuro in base ai cambiamenti nella storia.    Questa è anche una delle grandi sfide del tempo presente, perché la religione cristiana è esaurita e non offre alcuna risposta all’orientamento della cultura odierna, tranne resti di passato.     Il vangelo di Gesù non è una religione. Gesù non ha fondato nessuna religione: non ha proclamato una dottrina religiosa o una mitologia, nessun discorso su Dio, non ha fondato nessun culto e non ha fondato nessuna classe clericale. Gesù ha proclamato e inaugurato il regno di Dio sulla terra. Il Regno di Dio non è un regno religioso, è un rinnovamento dell’intera umanità, realizzazione che cambia il senso della storia umana, aprendo una nuova epoca, l’ultima. È un messaggio per tutta l’umanità in tutte le sue culture e religioni. Si potrebbe dire che è un messaggio e una storia meta- politica. Poiché gli esseri umani non possono vivere senza religione, i discepoli di Cristo per 2000 anni hanno costruito una religione che era come il rivestimento del messaggio cristiano, con il pericolo di trasformare il cristianesimo in una religione. Il rivestimento religioso può nascondere il messaggio del vangelo o può guidare questo messaggio secondo l’evoluzione della storia. In molti casi la religione ha occultato il Vangelo. I cristiani hanno enunciato una dottrina usando molti elementi del giudaismo o delle religioni non cristiane né ebraiche, hanno creato un culto di uguale ispirazione e un intero sistema legale che inquadra un’istituzione molto complessa.     Possiamo affermare che la storia del cristianesimo è la storia di una tensione o di un conflitto tra religione e vangelo, tra una tendenza umana verso la religione e le voci o le vite di coloro che volevano vivere secondo il vangelo.   Le religioni sono conservatrici e trasmettono la fede in un mondo permanente in cui tutto riceve una spiegazione religiosa. La religione cambia inconsciamente, ma resiste a qualsiasi richiesta di cambiamento volontario. Molti cristiani e molte strutture cristiane lottano inconsapevolmente contro il Vangelo. C’è del vero in ciò che affermò Charles Maurras, un ateo francese del secolo scorso, quando disse che si congratulava con la religione romana per aver eliminato dal cristianesimo tutto il veleno del Vangelo. È un po’ esagerato, ma certamente suggestivo.      Il vangelo è cambiamento, movimento, libertà. Non può accettare il mondo che esiste, deve cambiarlo. Il vangelo è conflitto tra ricchi e poveri. All’interno della religione, ricchi e poveri fanno parte dell’armonia generale. Sono così perché deve essere così, sebbene i ricchi debbano aiutare i poveri ma senza cambiare la struttura creata da Dio o dai sostituti di Dio. La religione vuole la pace, sebbene in alleanza con i potenti. Il vangelo vuole il conflitto.     Il compito della teologia è mostrare la distinzione, individuare da un lato quello che è vangelo e dall’altro tutto quello che è stato aggiunto e che può o deve cambiare per essere fedele a quel vangelo. È liberare il vangelo dalla religione. La religione è buona se aiuta a cercare il Vangelo e a non dimenticarlo sotto il rivestimento religioso. Essa è una necessità umana, ma deve essere indagata e corretta.     La teologia è al servizio del popolo cristiano o anche non cristiano, affinché conosca il vero vangelo e possa arrivare alla vera fede e non a un sentimento religioso.     Per secoli la teologia è stata al servizio dell’istituzione per difenderla dalle eresie o dai nemici della Chiesa. Così è stato dopo il Concilio di Trento fino al XX secolo e in molte regioni fino al Vaticano II. È stato apologetico, arma intellettuale nella lotta contro le Chiese riformate e tutta la modernità, al servizio della gerarchia. In un certo senso, era un’arma diretta contro i laici perché non fossero sedotti dai nemici della Chiesa.   Fino al Concilio di Trento, la teologia era un commentario alla Bibbia, libera, aperta a tutti, come lavoro intellettuale gratuito. La Riforma è partita da teologi, e allora la teologia passò sotto lo stretto controllo della gerarchia.

per una chiesa di minoranza ma libera e creativa

quale futuro per il cristianesimo?

di Enzo Bianchi

in “Vita Pastorale” del febbraio 2021

Sempre di nuovo è attuale la domanda posta da Gesù: «Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede
sulla terra?» (Lc 18,8). In particolare, tale interrogativo deve inquietarci in questo nostro tempo di crisi del
cristianesimo, di diminutio della sua presenza, della sua “esculturazione” dal nostro Occidente. Da circa trent’anni si è
spento l’entusiasmo post-conciliare e si è preso atto — come osservava Michel De Certeau — che anche il tentativo di
riforma della liturgia e della fede della Chiesa non solo non aveva sortito i frutti sperati ma aveva addirittura
allontanato dalla vita cristiana porzioni di credenti tradizionali. Il grande teologo francese e amico carissimo JeanMarie Tillard, quale testamento di una vita spesa nel dialogo teologico ecumenico tra le Chiese, alla fine del secolo
scorso lasciava uno scritto appassionato dal titolo significativo: Siamo gli ultimi cristiani?
Ma già il teologo Joseph Ratzinger nel 1969 e, più recentemente in qualità di pontefice, aveva cercato di rispondere
alla domanda circa il futuro della fede e con profetica capacità visionaria indicava come ipotesi feconda quella di una
Chiesa di minoranza; una Chiesa piccola comunità di fedeli, povera e spogliata di tanti privilegi accumulati nella
storia ma libera perché creativa; una Chiesa non settaria, capace di essere lievito fino a orientare la società. Benedetto
XVI ha sempre creduto nelle minorités agissantes, nelle minoranze creative, e sperava che l’evolversi della crisi
conducesse a questa nuova forma del vivere la Chiesa.
Altri ancora, soprattutto nell’area culturale francese e mitteleuropea, hanno cercato risposte e formulato ipotesi
diverse in merito. Molto conosciute e riprese le quattro ipotesi di Maurice Bellet (2001). La prima prevede la
scomparsa del cristianesimo senza troppi sussulti né lamenti: una sorta di arretramento indolore nel quale il
cristianesimo rimarrà nella memoria per i suoi monumenti, le opere d’arte e alcuni testi di sapienza antica. La
seconda ipotesi, non molto dissimile dalla precedente, intravede il cristianesimo morto come fede, ma presente nella
società con i suoi valori. La terza ipotesi non vede vicina la fine della fede cristiana e delle Chiese, ma pensa a un
loro trascinarsi nella storia senza profezia: una presenza che soddisfa il bisogno religioso e, dunque, mantiene i riti e
le modalità della religione. L’ultima, infine, quella che l’autore si augura per il cristianesimo, è una sua ripresa da
capo, una sua rinascita grazie all’unica Parola di vita, il Vangelo. Solo da un nuovo inizio, infatti, la fede cristiana
potrà di nuovo divampare come fuoco e dare una nuova forma al vivere la Chiesa.
Non dovremmo neppure dimenticare le letture della crisi fatte da storici come Jean Delumeau o da sociologi come
Danièle Hervieu-Léger, più esigenti e critici nei confronti dell’istituzione ecclesiale, con l’emissione di un verdetto di
morte, in mancanza di un rapido mutamento e di una vera conversione. O si pensi ad analisi di teologi come Ghislain
Lafont, che immagina un cattolicesimo diverso, o di Christoph Theobald, che chiede il mutamento, la riforma
continua e l’attestarsi di una Chiesa ecumenica fondata sul sensus fidei del popolo di Dio, impegnato in un cammino
sinodale.
In un mio contributo del 2004 avevo tentato di rispondere con urgenza alla domanda: Quale futuro per il
cristianesimo? Là avanzavo analisi che oggi mi sento di confermare, anche se l’accelerazione della crisi in questi
ultimi quindici anni ha ulteriormente mutato lo status ecclesiae, soprattutto nel nostro Occidente. Che cosa esplicitare
oggi? Con il ministero petrino di Francesco sono stati messi in moto alcuni processi, che vanno riconosciuti: la vita
della Chiesa ha ripreso una dinamica che, se non si fermerà e giungerà ad alcune realizzazioni di riforma, aiuterà i
cristiani ad attraversare la crisi e a vivere nella storia come minoranza profetica eloquente. Se, però, questi processi
rimarranno solo abbozzi o, peggio, parole, credo che la delusione sarà tale che la vita della Chiesa ne resterà debilitata
in modo grave e la diaspora già esistente diventerà addirittura non leggibile, non più sentita come presenza.
Anche perché la novità di questi ultimi anni è proprio l’ “esculturazione” del cristianesimo e della Chiesa, non
possiamo ignorarlo. Basta conoscere i mass media per rendersi conto che in essi ormai non appaiono più “notizie”
riguardanti la fede e la Chiesa, se non quelle che provocano scandalo, mentre le correnti culturali non tengono più
conto delle voci e degli eventi cristiani. Mi permetto solo di far notare che tra i consigli di cento libri da leggere apparsi
in occasione del Natale su un noto inserto culturale italiano, non appariva nessun testo di autori cristiani. Ormai “il
mondo cristiano”, che nel mondo non c’è più, è ignorato senza ostilità ma nella forma dell’indifferenza.
Ecco qual è, a mio avviso, il problema della nostra presenza tra gli umani: l’indifferenza. Se non sapremo più
evidenziare la differenza cristiana allora, come sale che ha perso il suo sapore, come fuoco sepolto dalla cenere, non
saremo più in grado di dire qualcosa di significativo nella compagnia degli uomini. La differenza cristiana richiede
anzitutto la fede in Gesù Cristo vivente perché Risorto, una fede nel Regno che viene. Ma oltre a questo primato della
fede, nutrita alla fonte del Vangelo, occorrerà l’edificazione di comunità che siano davvero tali: veri luoghi di amore
reciproco e di servizio degli ultimi; comunità che vivano la sinodalità, il camminare insieme in una comunione
plurale; comunità che non si isolano, non diventano settarie, ma stanno con simpatia e spirito di fraternità in mezzo
agli uomini e alle donne del nostro tempo. Solo in questo modo si potrà dare una risposta credibile alle più svariate
forme di populismo che «riducono i simboli religiosi a marcatori culturali identitari che non sono associati a una
pratica religiosa», come osserva Olivier Roy nel recente saggio L’Europa è ancora cristiana?
Se il Vangelo fornirà l’ispirazione profonda alla vita cristiana, sarà manifesto a tutti che i credenti sono uomini e donne
riuniti in una nuova comunione: è in questa semplice e radicale differenza che consiste la dimensione pubblica e
comunitaria della prassi evangelica. Dunque una comunità cristiana che nel mondo non “sta contro” il mondo,
animata da una logica di concorrenza e contrapposizione. Scriveva provocatoriamente Friedrich Nietzsche alla fine
del XIX secolo: «Già la parola “cristianesimo” è un equivoco: in fondo è esistito un solo cristiano e questi mori sulla
croce. L'”Evangelo” morì sulla croce. […] Soltanto la pratica cristiana, una vita come la visse colui che morì sulla
croce, soltanto questo è cristiano. Ancora oggi una tale vita è possibile, per certi uomini è persino necessaria:
l’autentico, originario cristianesimo sarà possibile in tutti i tempi. Non una credenza, bensì un fare, soprattutto un nonfare-molte-cose, un diverso essere».
Il cristianesimo è nato da una grande crisi: quella di Gesù e dei suoi discepoli la sera dell’ultima cena, con il tradimento
da parte di uno di loro. Dobbiamo esserne certi: il Signore Gesù ci ha preceduti nella crisi, dunque in essa non ci
abbandona.

crocifissi e crocifissori – il cristiano non può non scegliere: o coi primi o coi secondi

come si può scegliere un Dio crocifisso e poi non stare dalla parte dei crocifissi della storia?

 

 

La croce è ormai un “oggetto” di culto. Così onnipresente e così ignorata. Appesa solitaria nei luoghi pubblici, riprodotta come un gioiello qualunque, esaltata da molti “atei devoti” come simbolo di un’identità cristiana escludente e violenta.

Adorata nelle chiese come simbolo di redenzione. Baciata con tenerezza da chi “soffre” per quel povero Cristo crocifisso dai malvagi dell’epoca, ucciso dai nostri peccati…

Quanta retorica, quanta indifferenza, quanta ipocrisia.

La croce in realtà rimane un patibolo.

Il patibolo riservato ai delinquenti, ai reietti, a coloro che disobbediscono alle regole dell’impero, ai profeti, ai poveri che non hanno nessuno che li difenda.

La croce è il luogo dell’ignominia. Il luogo dell’abbassamento. Il luogo del non-potere.

Gesù, figlio di Dio, mite predicatore, uomo libero e profeta, messia atteso da un popolo intero, sceglie di esservi appeso perché nulla dell’umano potesse rimanergli estraneo.

Nemmeno l’ingiusta condanna, nemmeno la morte.

Su quella croce il Dio onnipotente, il Dio che sta nell’alto dei cieli, il Dio biblico della vendetta che stermina e uccide i nemici, il Dio contaminato da una visione umana di giustizia, ecco ora sceglie di stare “con i perdenti e gli oppressi”, con quelli che generalmente la società dei benpensanti respinge.

Per questo, davanti a quella croce, non possiamo più porci in atteggiamento devozionista e intimista.

Non possiamo identificarla solo con le nostre croci quotidiane, per quanto difficili da portare.

Non possiamo più non pensare, guardandola, a tutti i crocifissi della storia: popoli violentati da guerre scatenate dai potenti per rapinare i loro territori, persone costrette a lasciare la loro terra per sopravvivere alla fame e a condizioni miserabili di vita, testimoni e profeti sacrificati sull’altare dell’ortodossia, intere nazioni in balia di odi religiosi cavalcati con astuzia dai mestatori di turno. E che dire di coloro che sono crocifissi dai pregiudizi che oscurano la ragione e fanno prevalere quell’esclusione che spesso uccide più di un fucile.

Il popolo immenso degli oppressi muore ogni giorno su quella “croce” che noi tutti abbiamo costruito con la nostra indifferenza, i nostri pregiudizi, col nostro egoismo, con il nostro “cristianesimo” da quattro soldi.

Non si può essere seguaci di un Dio che ha scelto di essere crocifisso coi crocifissi e non farsi carico delle ingiustizie che i poveri subiscono.

Oggi assistiamo con orrore all’instaurarsi nell’Europa che orgogliosamente rivendica radici cristiane, di un odio insensato verso chi arriva da lontano per chiedere pane e rifugio. Si alzano muri, si spara, si picchia, si agitano pugni… Il recente odioso passato non ha insegnato nulla?

Ma si sa spesso la storia pare un’inutile maestra.

Ma noi che guardiamo quel crocifisso, noi che facciamo via crucis e adorazioni della croce, noi che in quaresima meditiamo la morte e la resurrezione di Cristo, come possiamo allo stesso tempo negarne così clamorosamente il senso?!

Per comodità, per abitudine, per infantilismo religioso.

Dobbiamo allora convertirci, invertire il nostro cammino, con coraggio e forza.

Dobbiamo superare quella visione “mistica” del Cristo, che lo riduce a un santino innocuo o a una figura “divinizzata” e perciò lontana nel tempo ed estranea ai tempi che stiamo vivendo.

Nel crocifisso, in tutti crocifissi della storia, dobbiamo riscoprire il senso della sequela.

don Paolo Zambaldi

il cristianesimo avrà un futuro in Europa? la grande crisi del cristianesimo in epoca di secolarizzazione

il futuro del cristianesimo in Europa

Christoph Theobald

Si può pensare a un futuro del cristianesimo in Europa solo se si ha ben chiara la crisi della Chiesa. Gettare lo sguardo al futuro significa sicuramente ben più di una semplice gestione della crisi, ma presuppone che apprendiamo qualcosa dalla crisi attuale

Analisi storico-sociologiche in merito alla nostra situazione circolano da tempo. Personalmente, sono più familiare con le indagini sul tema in lingua francese e con gli studi europei sui valori.

La novità, però, risiede nel fatto che oggi anche coloro che hanno responsabilità nella Chiesa ammettono che stiamo attraversando una crisi sistemica e che molti credenti, duramente scossi nella loro fiducia a motivo della pedo-criminalità tra le gerarchie ecclesiali, oramai ne parlano apertamente.

Tuttavia, non è facile analizzare questa crisi che esiste già da lungo tempo. Essa si propone a diversi livelli e vi è il pericolo che gli aspetti oggi più visibili (lo scandalo degli abusi, il loro occultamento, il clericalismo e la sacralizzazione del ministero) finiscano col nascondere tutti gli altri.

Al di sotto di questa superficie si annuncia una condizione di minoranza delle comunità cristiane che non viene percepita e accolta come un’opportunità dai credenti e dal clero, e quindi non viene elaborata in maniera positiva. E se ci si chiede quali siano le ragioni di tutto ciò, ci si imbatte inevitabilmente nella difficoltà che la tradizione cristiana ha nel raggiungere la vita quotidiana degli uomini e delle donne. Una difficoltà, questa, che spinge i sociologi a parlare di «ex-culturazione» del cristianesimo in Europa.

In questo contributo procedo muovendomi secondo tre temi. Inizio con la condizione di minoranza dei cristiani nell’Europa occidentale, passo poi ad analizzare il rapporto fra Vangelo e vita quotidiana, e infine vorrei dire qualcosa sulla crisi sistemica della Chiesa.

Chiesa in diaspora
Mi sembra che Karl Rahner, in maniera profetica, abbia già detto tutto l’essenziale sulla nostra condizione odierna di minoranza in un testo del 1954: «Il cristianesimo (anche se in misura diversa) è ovunque nel mondo e sulla terra in diaspora. Nella sua realtà è dappertutto, numericamente, una minoranza; non ha di fatto un ruolo guida che gli permetta di imporre con potenza il suo sigillo degli ideali cristiani sul tempo.

La Chiesa della diaspora, sociologicamente, ha il carattere di una “setta” (rispetto alla Chiesa popolare di massa a cui appartiene già sempre ogni cosa, e che si presenta sociologicamente di fronte alla singola persona non come qualcosa fatto e portato da lei, ma come ciò che è presente in maniera del tutto indipendente da essa). Con i vantaggi di questo dato di fatto e con il dovere di dover superare sempre di nuovo i pericoli legati a esso» (SW 10, 260-265).

Il concetto di diaspora è sociologico e contrassegna gruppi religiosi, nazionali, culturali o etnici di persone che si trovano all’estero/esterno, dopo che essi hanno abbandonato la loro patria tradizionale e, nel frattempo, si ritrovano disseminati in varie parti del mondo. Per molti secoli, questo termine è stato riferito unicamente all’esilio del popolo ebreo; ma, a partire dal XIX secolo, esso è stato ampliato anche in senso sociologico.

Se si utilizza il concetto di diaspora in riferimento alle Chiese cristiane, allora bisogna relativizzare l’idea di un paese di origine e di una «terra santa». Il sepolcro è vuoto e da allora, per il cristianesimo (a differenza dell’ebraismo), non c’è più alcuna regione del mondo che abbia un carattere sacro. La Galilea diventa «Galilea delle genti», «Galilea di tutte le nazioni in cui si realizza la Signoria di Dio».

Secondo Karl Rahner, la nostra condizione di diaspora ha il carattere di una «necessità» teologica – nel senso evangelico del «Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (Lc 24,26). Con il sorgere di una situazione planetaria e di globalizzazione del cristianesimo, il principio della vita cristiana «nel mondo, ma non del mondo» si deve concretizzare in altro modo. Nel corso del Medioevo e nel secondo millennio della storia umana, questo principio si incarnò tra la cristianità, da un lato, e il resto del mondo, dall’altro.

Il pericolo della condizione di minoranza
Oggi, ma a dire il vero già dagli inizi della modernità, questo principio cristiano «nel mondo, ma non del mondo» si concretizza all’interno di ogni paese – con tutte le resistenze prodotte da questa forma di vita escatologica.

Per dirla con le parole di Rahner: «Nel momento in cui inizia a diventare Chiesa di tutti i pagani, la Chiesa incomincia anche a essere ovunque tra i pagani». Rahner rimanda così alla questione decisiva di questa condizione di minoranza che rientra nella prospettiva storico-salvifica: ossia, il rischio della setta. Un cattolicesimo di minoranza può diventare una setta (tra molte altre); ma può diventare anche una significativa comunità missionaria.

A questo punto decisivo possiamo già gettare uno sguardo sul futuro del cristianesimo in Europa. Dipende dalle nostre comunità e dalle forme cristiane di socializzazione se, nel prossimo futuro, saremo condannati a vivere un’esistenza settaria irrilevante, oppure se riusciremo a diventare una significativa minoranza missionaria all’interno delle nostre società europee.

Questo presuppone, però, un processo individuale e collettivo di consapevolezza e di conversione: il futuro non appartiene a un cristianesimo che si riproduce da sé (e alle strategie pastorali legate a questa concezione). Il cristianesimo di oggi e di domani è un «cristianesimo di scelta», che si edifica sulla persuasione interiore dei fedeli. Solo se la condizione di minoranza, o diaspora, viene assunta con pacatezza e tranquillità (il che vuol dire non con indifferenza, o in maniera aggressiva o stravolta), ossia se si tratta di una libera scelta (perché corrisponde al “deve” divino), si può allora chiedere come il cristianesimo possa far fronte al rischio di diventare una setta, così che esso possa invece diventare missionario. E questo nel senso inteso da papa Francesco nel primo capitolo della Evangelii gaudium, quando parla di una «riconfigurazione missionaria della Chiesa».

Siamo così giunti alla questione decisiva del rapporto del Vangelo con la vita quotidiana degli uomini e delle donne.

Riguadagnare il rilievo del Vangelo per la vita quotidiana
La tesi sociologica dell’«ex-culturazione», di cui abbiamo già fatto cenno, rimanda ai profondi fossati esistenti tra le esperienze quotidiane dei nostri contemporanei e l’annuncio ecclesiastico, centrato sulla liturgia, della Chiesa.

Un futuro del cristianesimo in Europa è però possibile solo se e quando questi fossati verranno superati, senza rinnegare il carattere escatologico della forma cristiana del vivere.

Questo presuppone che i cristiani stessi percepiscano e rispettino le dimensioni «spirituali» profonde dei loro contemporanei. La condizione di diaspora del cristianesimo nelle nostre regioni non significa affatto la scomparsa di ogni «spiritualità» intorno a lui. Al contrario. L’indebolimento delle istanze regolative ecclesiali, sociali e politiche, osservato dai sociologi, permette l’emergere e il divenire visibile di nuove correnti «religiose» o «spirituali».

E anche se si prescinde da ciò, diventa oggi palese che non è possibile una vita senza una fede elementare nel fatto che vale la pena di vivere, o quanto meno merita di andare avanti a vivere. La «fede» è così un fenomeno originariamente antropologico (1), non necessariamente religioso; che emerge nella nostra «apertura» e «vulnerabilità» (2).

Essa prende la forma di un’interrogazione sull’«orientamento» nel mondo della nostra vita e di una domanda sul «senso» della nostra esistenza, anticipandone l’intero senza potervi disporre (3).

«Fede» si dà a vedere laddove tale indisponibilità del «senso» e dell’«intero» non viene accantonata e liquidata come qualcosa di non interessante (categoria dell’indifferenza) o viene lasciata in balìa di un’indecisione agnostica.

La fede elementare
Chiediamoci dapprima come sorge tale fede «antropologica». Nonostante tutta la routine che caratterizza la nostra quotidianità, essa rimane però esposta a tutta una serie di «interruzioni» che ci ricordano il quadro complessivo delle correlazioni della nostra vita, e richiedono una fede elementare nella vita stessa.

Tutto questo accade sempre in un contesto evenemenziale di incontri e rapporti, nel quale l’altro gioca un ruolo particolare. Un ruolo in cui l’altro rispetta la competenza ermeneutica di «chiunque» e, in molti casi, la deve addirittura attivare.

Le «interruzioni» del quotidiano, nelle quali dobbiamo sempre mettere all’opera la nostra fede nella vita, si possono ricondurre a tre momenti decisivi.

Il primo sono le «crisi» (più o meno pesanti) che si vivono tra le singole fasi psico-fisiche o le diverse tappe delle nostre storie di vita, quando un precario equilibrio raggiunto mostra il suo limite e bisogna trovarne un altro. Si tratta di uno sbilanciamento relativo tra due stati di relativo equilibrio. Questa è la definizione medica della «crisi», che rende possibile un incremento della vita o una nuova, ma che può anche rivelarsi fatale.

Il secondo momento è collegato ai progetti aperti al futuro che portiamo avanti, talvolta con passione profonda, nel corso della nostra storia di vita: trovare un lavoro, costruire rapporti, trovare un appartamento o costruire una casa, fare sport o pianificare una vacanza.

Mentre viviamo le fasi biologiche della nostra esistenza in maniera sostanzialmente passiva, ma poi possiamo – fino a un certo punto – integrarle nella nostra storia di vita, i nostri piani e progetti dipendono invece dalla nostra stessa immaginazione. Ma anche in questo ambito vi sono delle «interruzioni». Non solo il fallimento di un progetto, ma anche la sua riuscita, oppure l’accadere di qualcosa che supera ogni nostra attesa – come la nascita di un figlio.

In molti modi le «interruzioni» dei nostri piani sono particolarmente complesse, perché la loro realizzazione implica una qualche forma di collaborazione, e noi molto spesso siamo «invischiati» nei progetti di altre persone. Si sviluppano delle strategie, ma si dà inizio anche a forme di agire comunicativo così che l’altro non sia uno strumento funzionale al mio progetto, ma sia possibile superare le incomprensioni e la potenziale violenza che si annidano nei nostri rapporti.

Il terzo momento è rappresentato da quei molteplici, piccoli o grandi eventi che «interrompono» il corso della nostra vita. Un incontro, innamorarsi (la lingua francese rimarca il carattere evenemenziale dell’innamoramento quando lo esprime con «on tombe amoureux» – si cade nella condizione di essere innamorati), una realizzazione, essere coinvolti in un incidente, fare tombola, e così via. Detta in breve: si tratta dei molti avvenimenti occasionali che, non di rado, danno una piega inaspettata alle nostre storie di vita.

Il quotidiano interrotto e l’irruzione inattesa
L’uniformità quotidiana, con i suoi riti e le sue abitudini, passa dunque attraverso una serie di «interruzioni» nelle quali, non di rado, la propria vita o quella di un’altro si rivela inaspettatamente come una totalità. Si tratta di situazioni di apertura o di rivelazione. In inglese si parla delle cosiddette disclosure situations.

Con esse si intendono «momenti», o frammenti di tempo più o meno lunghi, che fanno vedere la nostra vita, come attraverso una finestra, nel suo essere un tessuto indisponibile di connessioni e rapporti. La morte e la nascita, ossia i due dati limite di ogni vita, si annunciano in questi momenti improvvisi di apertura e ci ricordano che abbiamo solo una vita. Non scelta, ma destinata, questa sola vita mi viene ogni volta di nuovo offerta in scelta in queste situazioni. Certo, possiamo lasciarci scorrere addosso questi momenti come se nulla fosse. Ma, allo stesso modo, possiamo consegnarci a essi senza riserve e senza volontà di disporvi.

Riconosciamo che questa consegna non è affatto qualcosa di scontato; soprattutto quando le «interruzioni» o le «situazioni di rivelazione» hanno un carattere negativo e danno un tono drammatico alla nostra domanda sul senso: vale la pena davvero di vivere? Di andare avanti con la vita? La vita data/inferta è in grado di mantenere la sua promessa? Il mero impulso di sopravvivenza non basta in questi casi. Riconoscere questo fatto fa diventare visibile la «profondità dell’esistenza» e rende possibile il sorgere di una «fede elementare nella vita».

Quest’ultima nasce quando in queste «situazioni di rivelazione» il Vangelo viene reso percepibile: si tratta della nuova, e sempre di nuovo nuova notizia di un radicale essere-buono (Eu-angellion) che, davanti al male e al dolore presenti nel mondo, non può essere annunciata da nessuno in proprio nome. Solo colui che chiamiamo «Dio» la può, infatti, garantire. Ma se essa viene annunciata in quanto tale, allora il fossato tra l’annuncio di Gesù e la vita quotidiana dei nostri contemporanei viene improvvisamente colmato.

Generati alla fede elementare
Sono sempre gli altri che generano in noi questo atto necessario alla vita che è la fede elementare, senza però poterlo porre al nostro posto. Qui entra in gioco l’ospitalità: dapprima quella dei nostri genitori, ma anche l’ospitalità di altre figure nelle nostre personali storie di vita – e, così almeno speriamo –, anche lo spazio ospitale della Chiesa.

Non si tratta mai di strategie che perseguono un interesse, ma di una pura «presenza» (parousia), di un semplice essere-qui. Nella consapevolezza che questa presenza umana è necessaria alla vita, ma che essa non può mai sostituire la fede elementare dell’altro. Entra così in gioco la credibilità dello stare l’uno di fronte all’altro.

Tutte le strategie sono insufficienti, solo la gratuità (e si sente risuonare il termine grazia) rende possibile la fede (anche quella biblico-cristiana) e mai necessaria. Infatti, questo atto così fragile e minacciato, nel cuore della nostra vulnerabilità, quando accade è qualcosa come un «miracolo» che ci «sorprende» (se solo abbiamo un po’ allenato il nostro senso per la fede). La fede accade dove non ce lo saremmo mai aspettati.

Due modi di fede
A questo punto diventa necessario fare una differenziazione tra due diversi modi di fede: la fede «elementare» nella vita, senza la quale l’esistenza umana è impossibile (anche se essa non si genera mai automaticamente), e la fede in Cristo dei cristiani. Il primo modo di fede non conosce né il rapporto tra il «maestro» e i/le «discepoli/e», e neanche un’esplicita relazione con Dio.

La fede in Cristo implica tre caratteristiche specifiche: 1) un’effettiva sequela di Gesù; 2) con e in Gesù, l’accesso all’abissale intimità con Dio, lo spazio della gratuità abitato dallo Spirito Santo; 3) una disposizione diaconale di fondo. Nessuno viene battezzato per se stesso.

Fede in Cristo e conformità con lui fanno dei cristiani dei «discepoli missionari» – così il nuovo concetto di papa Francesco. Il «discepolo missionario» è a servizio della fede elementare nella vita di molti dei suoi contemporanei. Egli mette in esercizio oggi, nei suoi ambiti di vita e secondo le condizioni odierne, quel servizio e dedizione all’umano che Gesù ha praticato in Galilea verso i suoi contemporanei.

Mi sembra opportuno tornare sul titolo di questo contributo – «Il futuro del cristianesimo in Europa» –. Non si tratta solo del futuro della Chiesa, ma del futuro di una Chiesa a servizio dei nostri contemporanei. È chiaro che «cristianesimo» qui non deve essere identificato con «Chiesa», poiché noi come Chiesa dobbiamo tenere sempre conto dell’agire, che ci precede, dello Spirito nelle dimensioni profonde della vita quotidiana dei nostri contemporanei.

La distinzione fra «fede elementare nella vita» e sequela di Cristo può essere fatta risalire ai sinottici e anche a Giovanni. Accanto ai discepoli e alle discepole vi sono molti simpatizzanti di Gesù. Sono figure individualizzate, come ad esempio l’emorroissa o la donna siro-fenicia. Figure che sentono soltanto la parola di conferma di Gesù: «Figlia mia, la tua fede ti ha salvata» (Mc 5,34).

Non siamo di fronte a un vuoto spirituale
Proprio questa distinzione, che potrebbe essere spiegata e precisata ulteriormente con una serie di esempi, ci rende avvertiti del fatto che noi cristiani della diaspora non ci troviamo davanti a un vuoto «spirituale», ma che, come Gesù in Galilea, abbiamo a che fare con le dimensioni profonde della singolare avventura umana di molti nostri contemporanei.

E quanto è stato detto sulla fede elementare dei nostri contemporanei si lascia trasporre anche alle nostre società secolari, la cui tenuta si basa anch’essa su una fiducia elementare.

Questo significa però che non possiamo limitare l’annuncio alla liturgia e alla catechesi, ma dobbiamo sviluppare una pedagogia dell’incontro e del «colloquio spirituale» nel grigiore del quotidiano. Nel nostro ambito ecclesiale, questo richiede una profonda trasformazione della nostra consapevolezza e una conversione di fondo, poiché molto spesso siamo ancora fissati quasi esclusivamente sulla liturgia e sulle celebrazioni para-liturgiche all’interno del nostro spazio ecclesiale; e solo raramente viviamo i nostri incontri quotidiani come «discepoli missionari».

Ampliare le aree di contatto con la società
La crisi sistemica di cui parlavamo all’inizio è quella che riguarda la forma estensiva e coestensiva della Chiesa latina, scaturita dalla riforma dell’XI e del XII secolo, con un’unica liturgia internazionale, con un clero unitario internazionale e un catechismo unico internazionale. In questa forma della Chiesa le situazioni locali e singolari degli uomini hanno un carattere del tutto secondario, fino all’irrilevanza.

I principi mediante i quali può nascere un’altra Chiesa come Chiesa di Chiese, la cui forma corrisponda sia alla cultura globalizzata sia alle culture locali, sono stati in parte formulati dal Concilio Vaticano II, e devono essere sviluppati oggi ulteriormente nel senso espresso da papa Francesco (si vedano i suoi quattro principi in Evangelii gaudium).

Una Chiesa che nasce dalla passione per il Vangelo
Concluderei con alcune brevi osservazioni in merito. La Chiesa presuppone una passione per il Vangelo di Dio. Un Vangelo che si destina a tutti gli uomini e le donne, ma che può essere udito da ogni persona solo a suo modo. Questa passione, che viene da Cristo e ci è comunicata nel battesimo, rappresenta la base della fondamentale uguaglianza di tutti i cristiani e le cristiane. Papa Francesco parla, infatti, di «discepoli e discepole missionari/e».

Questa passione per il Vangelo di Dio implica contemporaneamente un interesse ardente e gratuito per la vita quotidiana dei nostri contemporanei e per la loro «fede elementare». Insieme alla passione per il Vangelo, questo interesse rappresenta la base del servizio di Gesù in Galilea da realizzare nell’oggi delle nostre società.

Verso una Chiesa in stato nascente
La fine della «cultura parrocchiale» deve essere letta come il principio di una possibile Chiesa e parrocchia intese come comunità di comunità. In primo luogo, si tratta di adattare l’edificazione della comunità cristiana allo spazio e al territorio in cui i nostri contemporanei vivono il loro quotidiano.

Questo porta a una pluralizzazione delle forme: nelle nostre metropoli, nelle complesse periferie cittadine, nelle piccole città, nelle zone rurali – non è più possibile avere una forma che vale dappertutto.

D’altro lato, dobbiamo imparare anche ad adattarci all’esistenza nomadica di molti nostri contemporanei.

Inoltre, bisogna tenere conto del fatto che i modelli di socializzazione sono oggi molteplici e, con essi, anche le forme di appartenenza e gli schemi temporali dell’esistenza umana.

Quello che ci sta davanti è un compito che possiamo realizzare come Chiesa solo se entriamo in un processo permanente di ecclesiogenesi: edificare la Chiesa su ciò che è effettivamente dato, ossia essere Chiesa in cammino e quindi missionaria.

Questo è possibile solo se impariamo ad agire sinodalmente a tutti i livelli, fidandoci del sensus fidei fidelium. Il che implica anche un cambiamento di prospettiva per ciò che concerne il ministero nella Chiesa.

Di quale ministero e servizio presbiterale e diaconale abbiamo bisogno, quali ministeri sono necessari, affinché le nostre «parrocchie» e «comunità» possano venire trasformate dall’auto-riproduzione di un cristianesimo parentale a un cristianesimo di scelta in cui tutti sono discepoli e discepole missionari?

per una rifondazione del cristianesimo

 

 

Riformulare la Chiesa: un cammino urgente e necessario

riformulare la chiesa

un cammino urgente e necessario

 da: Adista Documenti n° 3 del 26/01/2019 

vino nuovo in otri nuovi

un cammino di rinnovamento per la chiesa cristiana
Claudia Fanti 

 da: Adista Documenti n° 3 del 26/01/2019

 Le riforme non bastano, serve un rinnovamento radicale e profondo. Serve, più precisamente, una riformulazione completa del messaggio cristiano, secondo parole e concetti propri della cultura in cui ci troviamo a vivere. Serve, insomma, «vino nuovo in otri nuovi». A chiederlo, tra molte altre figure della Chiesa convinte – pur con diversi gradi di radicalità – della necessità e dell’urgenza di intraprendere questo cammino, è p. Stefano Cartabia, oblato di Maria Immacolata, che, in un lungo intervento pubblicato su Eclesalia (8/6/18; eclesalia.wordpress.com), avanza le sue proposte per un rinnovamento a tutto campo di una Chiesa a cui egli afferma di essere tuttora profondamente legato. E non risparmia critiche al «“sistema” gerarchico e istituzionale», che, come qualunque “sistema”, afferma, è «tanto più difficile da decifrare e smantellare quanto più è invisibile, occulto e impersonale» e «tanto più difficile da spezzare quanto più si nasconde dietro una presunta autorità divina». Ma lo fa nel quadro di una riflessione aperta, «senza alcuna pretesa né intenti polemici», felice «con il Dio della vita che – dice – mi sorride in ogni cosa», volendo solo e semplicemente condividere in un’ottica di amore. E conclude: «Forse in alcuni potrà sorgere impellente una domanda: chi è questo che osa “riformulare la Chiesa”? Domanda lecita, forse. La risposta è: nessuno. Per questo oso farlo. È la suprema libertà del niente».

 

Qui sotto  ampi stralci della lunga riflessione di p. Cartabia

«Vino nuovo in otri nuovi» (Mc 2, 22). È questa l’immagine evangelica che a mio giudizio esprime meglio l’attuale situazione della Chiesa e del cristianesimo. Da ogni parte si chiede rinnovamento e in molti luoghi sorgono esperienze o tentativi che vanno in questa direzione. È la freschezza della spiritualità che si fa strada tra i sentieri quasi deserti di una religione in agonia: è il vino nuovo che si fa presente per donarci l’amore e celebrare la vita, ma che insistiamo a rinchiudere in otri vecchie. Questo è il dramma della Chiesa: aggrappata alle otri della dottrina e alle sue obsolete strutture, non sa approfittare né godere del vino nuovo. (…).

Abbiamo bisogno di otri nuovi per questo vino frizzante e delizioso (…). Un vino che ha tanta forza da rompere senza pietà gli otri consumati e crepati. È il vino nuovo che chiede la riformulazione del cristianesimo e della Chiesa.

“Riformulare la Chiesa”: proposta audace e rischiosa. Fedele al mio sentire e alla mia coscienza, lo ritengo un cammino necessario, urgente e imprescindibile. Anche perché è già in atto, da un lato in maniera naturale, a partire dalla base, dalla gente comune, dai laici e, dall’altro, grazie ad alcuni gesti di papa Francesco. Eppure, in generale, la gerarchia sembra “non sapere” o far finta di niente. E così anche la teologia “ufficiale” e il magistero. Accompagno molte persone e gruppi che non si sentono più rappresentati da questa Chiesa. Molti si allontanano a poco a poco cercando altre fonti di acqua viva e non cisterne screpolate (Ger 2, 13). Altri resistono e perseguono il cambiamento da dentro.

In ogni caso, qualcosa si sta muovendo, che la gerarchia lo sappia o no, che lo voglia o no. È in questa direzione che voglio offrire il mio contributo. Perché riformulare? Mi è sembrato il termine più corretto: rispettoso del passato e audace rispetto al futuro. (…).

La mia proposta per riformulare la Chiesa passa per sette cammini. Sette. Numero non casuale. Numero della pienezza che già siamo e a cui siamo chiamati. (…).

Cammino giuridico-istituzionale

La Chiesa istituzione è uno dei grandi ostacoli che incontrano gli esseri umani moderni e, spesso, anche i credenti. Le istituzioni in generale sono in crisi e sono malviste. Molte volte a ragione: ogni istituzione, con il passare del tempo, perde lo spirito originale e si smarrisce in una serie illimitata di incoerenze: carrierismo, corruzione, fanatismo, esteriorità, legalismo. Non servono esempi, mi pare.

L’istituzione Chiesa va ripensata e riformulata. Molto spesso si ha l’impressione che la Chiesa segua più il diritto canonico che il vangelo, si preoccupi più di rispettare regole e norme che di rispondere allo Spirito, più di difendere dottrine che di accompagnare l’essere umano nella sua ricerca e nel suo dolore.

Con ciò non si vuole negare la necessità di un certo livello istituzionale e giuridico. Ne abbiamo bisogno per la nostra esistenza concreta e fragile, segnata molte volte dall’egoismo. Ma non possiamo permettere che la sfera istituzionale soffochi, come purtroppo avviene in maniera ricorrente, lo Spirito genuino. (…).

La Chiesa istituzione funziona quasi come una monarchia. Il papa, protetto dal diritto, può fare praticamente qualunque cosa. E così i vescovi nelle loro diocesi. Qualsiasi organismo ecclesiale è semplicemente “consultivo”. In un mondo che, dopo tanta sofferenza, è approdato in larghe parti al modello democratico e partecipativo, una visione di Chiesa monarchica o quasi risulta inaccettabile. E questo al di là dei limiti dei sistemi democratici e del loro – senza dubbio – possibile e necessario miglioramento.

Ovviamente nella Chiesa si parla di comunione. Esiste persino un’ecclesiologia di comunione. In questo senso, vi sono esperienze importanti e positive, ma quasi sempre a partire dalla base. Per il resto, comunione sì, ma se lo decide la gerarchia e nei termini in cui lo decide. Strana comunione!

Come giustifica la Chiesa un modo di procedere così poco evangelico? (…).

Semplificando, il ragionamento è il seguente: la Chiesa afferma che la sua autorità le viene dalla Parola di Dio. E chi definisce e interpreta ciò che è Parola di Dio? La Chiesa. Un’argomentazione del genere (…) non resiste alla critica della ragione e all’autonomia dell’essere umano che è una delle grandi conquiste della modernità. (…).

Di più: molte leggi ecclesiastiche si fondano su interpretazioni di passaggi evangelici. Ma in tali interpretazioni spesso non c’è coerenza né uguaglianza di criteri. Le dottrine del papato, del peccato originale e dell’indissolubilità del matrimonio, per esempio, poggiano su assai pochi versetti, interpretati letteralmente o quasi.

Le domande si pongono da sole: perché alcuni versetti sono accettati in maniera letterale o interpretati rigidamente e altri no? (…). Pare che vi siano diversi criteri di interpretazione, a seconda che convengano o meno al potere stabilito o in base alla necessità o meno di confermare tesi teologiche e dottrinali. Un cammino verso una maggiore coerenza e autenticità è necessario.

La Chiesa, se vuole offrire al mondo una parola autentica, deve potersi aprire a un dialogo a 360 gradi con i suoi critici e con tutto il mondo. Deve poter offrire argomenti validi ancorati all’esperienza e alla ragione, non a una presunta autorità ricevuta da Dio (fideismo) e impossibile da comprovare.

Altri esempi possono risultare illuminanti: l’elezione del papa e dei vescovi e il magistero. L’elezione del papa è estremamente anti-democratica e non tiene in conto l’ecclesialità. Il papa sceglie i cardinali che, a loro volta, eleggeranno il papa successivo. Non c’è alcuna forma di partecipazione del popolo. E, neanche a dirlo, i cardinali sono tutti maschi. Il tutto fondato biblicamente. Un fondamento che naturalmente non esiste e che si cerca di creare stirando e manipolando i testi. L’elezione dei vescovi è sommamente autoritaria e manca totalmente di trasparenza. (…). Il popolo cristiano, l’enorme maggioranza dei cristiani, non ha praticamente alcuna voce in capitolo nell’elezione dei suoi pastori. E lo stesso si può dire, appena sfumando i termini, dei parroci.

Quanto al magistero, è anch’esso avvolto da una sacralità che non ha. Con Francesco – con le sue parole, i suoi gesti e le sue richieste di perdono – è risultato chiaro, per esempio, che la dottrina dell’infallibilità papale è insostenibile. La gerarchia esige l’obbedienza nei confronti del magistero: non si può pensare né esprimere opinioni in maniera distinta. Perlomeno “ufficialmente”. Si crea così una terribile crepa di ipocrisia. Vari vescovi e sacerdoti (e, molto di più, catechisti e laici) non concordano con le posizioni “ufficiali” della Chiesa ma non si azzardano a dirlo e, ancor meno, a metterlo sul tappeto. Sarebbe molto più onesto, umanizzante ed evangelico se il magistero perdesse il suo carattere assoluto e dogmatico per diventare aperto, dialogante e ispiratore.

Nella pratica, quello che in definitiva si vive nella Chiesa è autoritarismo, non autorità. L’autorità, lo sappiamo bene, non si impone ma si riconosce. E la gerarchia continua a esigere obbedienza e fedeltà a danno della libertà di coscienza. (…).

L’autenticità di una vita viene riconosciuta dalla gente senza necessità di imporre alcun tipo di autorità. Tutto ciò conduce al rispetto della coscienza, come affermato dal catechismo ma assai poco praticato dalla gerarchia. (…). Ovviamente tutta questa riflessione – suppongo – non piacerà molto all’istituzione gerachica: il suo potere viene minacciato. E sempre cercherà di sostenersi sulla tradizione e sulla soggettiva supposizione che la sua autorità le viene da Dio. Finché si farà scudo con questo argomento, qualsiasi dialogo sincero sarà impossibile. Anche perché questo “dio” da cui discenderebbe la sua autorità è morto. O, forse, non è mai esistito. E tutto questo si lega strettamente al secondo cammino.

Cammino teologico-dottrinale

(…). La teologia e la dottrina della Chiesa, dopo i pri- mi secoli di freschezza e di mistica, hanno impregnato la vita del cristiano. La Chiesa, insieme al potere politico, ha sviluppato la teologia e la dottrina sulla base delle caratteristiche proprie dell’Impero/Stato: potere legislativo, esecutivo, giudiziario. La liturgia stessa presenta un’importante derivazione imperiale… (…).

Eppure, leggendo il vangelo, non ci si sente soffocare da disquisizioni teologiche né opprimere da pesanti dottrine. Al contrario, emerge da ogni pagina libertà e freschezza. Quello che notiamo è un Gesù che ama la vita, un uomo libero e preoccupato di fare il bene e di rivelare il volto misericordioso del Padre.

Tutto questo ovviamente – non sono così ingenuo – non significa che teologia e dottrina non abbiano un loro posto e non siano anch’esse importanti. (…). Ma significa tornare a dare la priorità all’esperienza e alla vita (…): criterio chiave di ogni cammino spirituale, usato dallo stesso Gesù. (…).

Il cammino, a mio giudizio, ha due versanti. Da un lato, tornare a dare la priorità alla vita al di sopra della teologia e della dottrina. (…). A che serve un meraviglioso pensiero teologico o una fantastica dottrina se non trasformano la vita, non rendono le persone migliori e più capaci di amare? A che mi serve “sapere” (razionalmente) che Dio è Uno e Trino se la mia vita relazionale è un disastro e se non sono capace di rapportarmi agli altri? La fallacia essenziale è nella concezione della verità (…). La verità è diventata un enunciato/contenuto mentale, con poca o nulla relazione con la vita reale e concreta. Comprendere allora che la Verità non si può affermare né definire attraverso concetti è fondamentale. La Verità è inesauribile e indefinibile, ci abbraccia, ci sostiene, ci oltrepassa da tutti i lati. Come la Vita. Quando si opera l’indebita equiparazione tra dogma e verità stiamo riducendo la Verità ai nostri concetti, sempre relativi e condizionati. (…).

Tutto ciò ci porta al secondo versante. La stessa espressione della fede in dogmi e dottrine è condizionata e limitata dalla cultura, dall’epoca, dal linguaggio, dalle coordinate sociali, filosofiche e religiose. Solo per fare un esempio, il concetto di “persona” che è alla base di tutti i dogmi cristologici e trinitari affonda le sue radici nella cultura greca del primo secolo.

Il concetto di persona che abbiamo oggi – la coscienza umana evolve – è molto diverso, più completo, più profondo. (…).

La teologia e la dottrina cattolica continuano a sostenersi in buona parte sulla filosofia di Aristotele e sulla teologia di Sant’Agostino di Ippona e di San Tommaso d’Aquino. Senza dubbio grandi figure che hanno aperto strade e posto validi fondamenti. Ma vi sono anche aspetti che risultano superati, punti che bisogna abbandonare e altri che è necessario reinterpretare e attualizzare. (…). In molti casi quello che guida la teologia non è l’amore per la verità e la necessità innata dell’essere umano di comprendere, ma la paura. La paura di “perdere” la presunta fedeltà a una verità mentale ed espressa in dogmi.

Sono convinto che il punto più urgente alla base di tutto sia l’abbandono del “teismo”. Il teismo è una concezione religiosa che intende la divinità come un Essere separato che interviene nel mondo da fuori. È il modo di intendere Dio che ancora predomina nel cristianesimo e nella Chiesa. Tutta la liturgia, la morale, la vita di preghiera, la spiritualità sono impregnate di teismo. (…).

Il cammino evolutivo dell’umanità e il cambiamento di paradigma in atto ci invitano ad abbandonare il teismo e ad entrare in un’altra – più profonda e integrale – esperienza di Dio e del trascendente.

Non esiste ancora una parola chiave e condivisa che prenda il posto del “teismo” (…). Forse quella più accettata è “pan-en-teismo”: Dio è in tutto come principio, origine e sostegno. Ma non si confonde con il tutto, perché altrimenti sarebbe “panteismo”, da sempre tacciato dalla Chiesa di eresia.

Io preferisco usare un’altra parola, più semplice e comprensibile: “interiorità”. Dio è l’interiorità di tutto, il suo nucleo essenziale. Lo diceva già Sant’Agostino: «Dio è più intimo a me di me stesso».

È questa la chiave della nuova comprensione della divinità e del nuovo paradigma: tra Dio, l’essere umano e il mondo non c’è nessuna separazione, bensì una profonda unità/unicità. Unicità che non elimina la distinzione, ma costituisce il suo fondamento e in essa si esprime. (…). Alla luce del cambiamento di paradigma e dell’abbandono del modello teista è urgente reinterpretare due categorie fondamentali della nostra teologia: che significano rivelazione e incarnazione oggi? (…). Come leggerle dopo Newton e Einstein, per esempio? Le spiegazioni teologiche della rivelazione e dell’incarnazione (con il loro relativo peso dottrinale) ancora in vigore – perlomeno a livello di teologia ufficiale – non tengono conto del fatto che l’Universo è in continua espansione e che la luce può agire come un’onda o come un flusso di particelle a partire da un osservatore cosciente… come neppure considerano le scoperte della psicologia transpersonale e le esperienze dei “mistici” induisti e buddisti… (…).

Reinterpretare l’unicità di Cristo significa reinterpretare il concetto di salvezza. E tutto ciò che vi è lagato: inferno, paradiso, vita eterna. Cos’è la salvezza? Che significa che Cristo salva? Che significa l’unicità di Cristo? Le risposte dogmatiche e prefabbricate non sono più possibili né accettabili. (…). Le recenti scoperte legate alla neurobiologia e alla meccanica quantistica e l’approfondimento del tema della coscienza non possono restare fuori dal cammino della teologia. (…).

Cammino interiore-spirituale

Un’altra importante dimensione è la spiritualità. La tradizione della Chiesa ha offerto in questo senso un forte contribuito all’umanità ed esiste una grande ricchezza in termini di spiritualità nella storia della Chiesa. (…).

Anche in questa sfera è però necessaria una svolta: la spiritualità deve diventare l’asse del cammino cristiano. Senza spiritualità anche il culto e il rito diventano sterili. E anche il servizio concreto perde la sua forza e la sua dimensione trascendente. Mettere al centro la spiritualità significa dare la priorità all’interiorità. Spiritualità, interiorità, mistica sono profondamente connesse e guardano (…) a un’altra dimensione già citata: l’esperienza.

Nel nostro mondo postmoderno non si crede più per il principio di autorità o semplicemente per tradizione. Diventa centrale l’esperienza. Già lo aveva detto Pascal: «Dio non vuole essere pensato, vuole essere vissuto». (…).

Quando Karl Rahner, nel secolo passato, lanciò la sua famosa profezia: «Il cristiano del XX secolo sarà un mistico o non sarà», indicava proprio questa dimensione. Il cammino mistico è un cammino di immediatezza: cerchiamo di toccare la Vita così com’è e così come si presenta, senza le interpretazioni e i filtri dell’ego.

Le mediazioni – in un certo senso – passano in secondo piano. Ed è questo che preoccupa la Chiesa gerarchica: se la mediazione diventa secondaria – non diciamo non necessaria – il potere e il controllo della gerarchia si riducono considerevolmente.

Il cammino mistico, però, non significa la cancellazione della mediazione, al contrario: nell’ottica mistica tutto è mediazione e simbolo dell’Eterno. In tal senso anche la mediazione della Chiesa (…) trova il suo giusto significato a servizio dell’esperienza anziché in opposizione ad essa (…).

La spiritualità e la mistica si nutrono e vivono di interiorità. (…). L’interiorità si riferisce al nucleo invisibile ed essenziale di tutte le cose. «L’essenziale è invisibile agli occhi», ricordava il piccolo principe di Saint-Exupery. Questa essenza che non si vede racchiude il Mistero. (…).

Coltivare l’interiorità è allora il compito primario per vivere un’autentica spiritualità e addentrarci nel cammino mistico dal quale dipende, secondo Rahner, il nostro essere o meno cristiani. Di più: il nostro essere o meno umani. Coltivare l’interiorità passa necessariamente per il silenzio. Non a caso, tutti i mistici sono uomini e donne del silenzio. (…).

L’interiorità non si trasforma nel centro e nell’asse della nostra esistenza in maniera automatica. La Chiesa, che si autodefinisce “maestra ed esperta” in umanità e spiritualità, dovrebbe muovere un passo significativo in questa direzione e iniziare a proporre più seriamente cammini di autentica interiorità e spiritualità.

Possiamo imparare molto da altre tradizioni – buddismo e induismo per esemplo – che fanno del silenzio e dell’interiorità l’asse delle loro pratiche spirituali. Ma la Chiesa ha l’umiltà necessaria per imparare dagli altri? O preferisce rimanere con la “sua” verità? (…).

Cammino artistico-poetico

(…). Arte e poesia (non solo in senso letterale, ma come modo di vedere la vita, come forma di percepire la realtà) toccano dimensioni più profonde dell’essere umano e usano un altro linguaggio. La Chiesa – al di là della sua ricca storia in ambito artistico – si è fossilizzata specialmente sulla dimensione concettuale. Il modo di predicare e di annunciare e la catechesi sono in molti casi centrati sul livello razionale: si trasmettono concetti.

(…). Il linguaggio artistico e poetico è più simbolico, più diretto, più semplice e profondo al tempo stesso, più fedele all’esperienza e in grado di mettere in discussione e di rimuovere strati dell’essere umano più profondi di quello mentale. Tutta la sfera emotiva e affettiva – senza dubbio l’asse attorno a cui si muove l’essere umano – è raggiunta più facilmente e radicalmente dal linguaggio artistico e poetico.

Tutto questo invita a una profonda revisione. (…). Il linguaggio liturgico è, in molti casi, obsoleto e incomprensibile. E anche la sua ripetitività distante dalla vita reale diventa un ostacolo al momento di proporre un’esperienza. È ora di rivedere questo linguaggio e tentare nuovi cammini. Dando più spazio alla creatività e al “qui e ora” in cui la liturgia si sviluppa. (…).

Cammino realista-antropologico

(…). Spesso la Chiesa (…) continua a essere ancorata a una visione del mondo e a dottrine che non sono più adeguate all’essere umano contemporaneo e al cammino evolutivo dell’umanità. (…). Rispondiamo a domande che nessuno ha posto e non rispondiamo a quelle che ci vengono rivolte.

Accompagnando persone e gruppi – in generale “gente di Chiesa”– mi vengono poste questioni di fondo (morali, dottrinali, pastorali) che molti membri della gerarchia sospetto neppure immaginino, conservando l’illusione che il popolo di Dio continui ad accettare senza discutere tutto ciò che il magistero afferma e nel modo in cui lo afferma.

Non è così: molti cristiani, più di quanto pensiamo, stanno mettendo in discussione molti dei fondamenti del cristianesimo e della dottrina cattolica. Faremmo be ne a prendere sul serio le loro domande, le loro ricerche, i loro dubbi. Gesù scopriva Dio nella realtà e nella realtà Dio continua a manifestarsi e a rivelarsi. Ma cos’è questa benedetta realtà?

È quello che è. Così, in modo semplice e rivoluzionario. In “quello che è” Dio si sta rivelando e per questo la fedeltà al reale è fedeltà a questa interiorità nella quale e a partire dalla quale incontriamo il Mistero.

La fedeltà al reale è la chiave per poter agire e trasformare il mondo. Non si trasforma il mondo e la società combattendoli, ma amandoli. E l’amore comincia sempre con l’accettazione radicale. Il vangelo torna ripetutamente al “non giudicare”, che va interpretato a partire dalla saggezza ancestrale dell’umanità e non in un’ottica moralista. “Non giudicare” in primo luogo è: accettare, amare, non discriminare, guardare più in profondità. La parabola del grano e del loglio (Mt 13, 24-30) è un buon esempio di tutto ciò. La fedeltà al reale è allora essenziale. Ma mi sembra importante porre un’enfasi particolare sull’antropologia. Le scienze antropologiche sono avanzate molto negli ultimi secoli: nella filosofia, nella psicologia, nella psichiatria, nella neuroscienza, nella sociologia. Tutto questo bagaglio immenso bisogna incorporarlo all’antropologia cristiana. La Chiesa conserva spesso una visione antropologica obsoleta o bisognosa di attualizzazione. (…). Dove sta l’essere umano oggi? Questa è la domanda chiave, alla quale la Chiesa non vuole o non sa rispondere. Lo stare non è un luogo concreto, ovviamente. È il “luogo senza-luogo” di una dimensione spirituale. L’essere umano del terzo millennio non è lo stesso del tempo di Gesù o del Medioevo. Per quanto la sua essenza sia la stessa, sono cambiate totalmente le coordinate dell’espressione di tale essenza e dell’approccio ad essa. (…). Non possiamo camminare accanto all’essere umano senza conoscere, accettare e assumere queste coordinate.

Rivisitare l’antropologia e i suoi fondamenti è allora un cammino obbligato. Rivisitare per comprendere l’essere umano moderno e comunicare con un linguaggio comprensibile a tutti i figli e le figlie della terra. (…).

Cammino ecumenico e dialogico

Un altro cammino che si apre di fronte alla Chiesa e al cristianesimo è il cammino ecumenico e dialogico. Ecumenico specialmente in relazione alle altre confessioni cristiane e religiose o spirituali dell’umanità. E dialogico rispetto a un’apertura radicale di fronte a un mondo globalizzato in cui si moltiplicano le offerte spirituali. (…).

Anche in questo fondamentale aspetto i migliori risultati e i maggiori passi avanti vengono dalla base. (…). Le persone di buona volontà non si chiedono se il vicino è credente o meno, di che religione è, in cosa crede. La gente non separa, vive e ama. È solidale.

Le difficoltà nascono a livello di autorità, perché l’autorità ha qualcosa da difendere ed è convinta di avere le chiavi della verità e della salvezza. Mentre le chiavi le tiene la Vita stessa. Vita nella quale tutti siamo inclusi. Vita nella quale viviamo. (…).

Camminare radicalmente e sinceramente nel cammino ecumenico e dialogico significa comprendere che la Vita e la Verità ci precedono, ci superano e ci abbracciano. Che siamo semplici servitori della Verità. (…). Si riprende un’altra volta il nucleo del messaggio evangelico (…): il servizio nell’amore e nella verità. Nessun proselitismo, nessuna autorità imposta o pretesa, nessuna rigida struttura. Semplice vita, semplice amore, semplice servizio. (…).

Cammino pastorale e missionario

(…). Il cammino della pastorale (e delle pastorali) dovrebbe confluire in una più profonda e significativa unità. Tutto ciò è in stretta relazione con la struttura di base su cui è fondata la vita della Chiesa: la parrocchia.

(…). Senza dubbio la Chiesa ha bisogno di un vincolo con il territorio: lo richiede la necessità dell’essere umano e del vangelo di comunità, di relazioni umane vicine, affettive, solidali. Ma la struttura parrocchiale necessita di una svolta importante. (…).

In molte parrocchie è difficile vivere un’esperienza reale e concreta di comunità e di famiglia (…). Spesso la celebrazione della messa – che dovrebbe essere il momento centrale della vita della comunità – diventa qualcosa di impersonale, freddo e assai poco familiare (…). È questo che significa celebrare? (…).

Bisogna senza dubbio cercare cammini più leggeri, meno burocratici, più fraterni. E anteporre sempre la carità in tutte le sue espressioni alla burocrazia, alla struttura, alle regole. (…) Se poniamo al centro la Vita, come Gesù ci ha rivelato e come la coscienza umana viene scoprendo, le cose si semplificano e acquistano al tempo stesso profondità.

In fondo c’è una sola pastorale da vivere e annunciare: la Vita. Dio della Vita, Vita di Dio. (…). Dio passa per la vita, non per le strutture che sovrapponiamo alla vita.

Uno sguardo particolarmente attento merita la missione. (…). Sono convinto che anche la dimensione missionaria della Chiesa e del cristianesimo necessiti di una urgente e importante riformulazione. (…).

Se l’asse della rivelazione e dell’esperienza di Dio è la Vita – al di sopra di concetti, dottrine, catechismi, morale – il vecchio schema della missione cade da solo. (…). Gesù non annunciava né proponeva dottrine, per quel poco che possiamo scoprire dai vangeli. Il cammino mistico, che è sempre accompagnato dalla spiritualità – il vino nuovo –, scopre e rivela quello che è sempre stato: la centralità della Vita e del Reale. Da qui passa l’esperienza del Trascendente. (…).

Nel fondo non abbiamo nulla da annunciare e proporre: abbiamo una Vita da vivere. E questa stessa Vita vissuta si farà annuncio e proposta. Da qui la riformulazione della missione, con tutte le sue conseguenze pratiche (…).

Concludendo

«Tutte le verità passano attraverso tre stadi. Primo: vengono ridicolizzate; secondo: vengono violentemente contestate; terzo: vengono accettate dandole come evidenti» (Arthur Schopenhauer). Questa citazione del famoso filosofo tedesco giunge a proposito. La Chiesa è incorsa in questo errore molte volte nel corso della sua storia: ha ridicolizzato Galileo, lo ha condannato e alla fine ha accettato l’evidenza. Lo stesso si può dire di decine e decine di realtà. Inciampiamo sempre sulla stessa pietra.

Non sarà il momento di cambiare strada? Non sarà il momento di smettere di ridicolizzare e di contestare violentemente? Sospetto che qualcosa di simile stia avvenendo con il superamento del teismo: molti mettono in ridicolo la questione e altri reagiscono con aggressività. Entro alcuni decenni – speriamo meno – la Chiesa lo riconoscerà e l’assumerà.

Apprendere dalla storia – individuale e collettiva – sembrerebbe qualcosa di semplice e di normale. La realtà indica il contrario. A livello individuale e a livello sociale cadiamo ripetutamente negli stessi errori.

Apprendere non è facile: forse è la cosa più complicata. Si richiedono apertura e umiltà. Si richiede la detronizzazione dell’ego. «Imparare ad apprendere», evidenziava Juan Luis Segundo: è in questa tappa che ci troviamo. E forse resteremo sempre qui: a livello di apprendimento.

Le tradizioni mistiche evidenziano spesso questa dimensione e affermano che l’esperienza umana è un semplice e continuo apprendimento. Sono convinto che il problema sia questo: chiedere e cercare in questa meravigliosa avventura umana che chiamiamo “vita” più di ciò che è. Cerchiamo qualcosa di definitivo, cerchiamo un “significato” esterno alla vita stessa, cerchiamo di colmare desideri e bisogni.

Tutte queste ricerche dipendono in fondo dal nostro ego sempre insoddisfatto. E se la vita fosse più semplice? E, al tempo stesso, più piena e profonda? Vivere l’avventura umana – che dura quanto un soffio (Sal 39, 5) – come apprendimento dell’amore che siamo non sarebbe molto più umile e sereno?

Accettare che l’esistenza umana sia un semplice apprendimento è un duro colpo per l’ego, ma una volta entrati in questa visione ci si apre un fantastico panorama: la pienezza che siamo si manifesta nel momento presente come un regalo inatteso. (…). Abbiamo scoperto chi siamo: vita divina – “figli di Dio” – che si manifesta per un istante nell’effimero dell’esistenza. E viviamo, infine, radicalmente liberi.

un libro provvidenziale sull’inconciliabilità di cristianesimo e antisemitismo

“No, non è possibile ai cristiani aver parte con l’antisemitismo […]. Noi siamo spiritualmente semiti”

 

 

da ,

quanto mai opportuna l’uscita, visto il risorgente antisemitismo
sarà presto disponibile in libreria un volumetto di Valerio De Cesaris dal titolo:
“Spiritualmente semiti. La risposta cattolica all’antisemitismo” (edizione Guerini e Associati). 
E’ una riflessione storica su Chiesa cattolica e antisemitismo che si incentra su un momento di svolta, il giorno del settembre 1938 in cui Pio XI, in contrapposizione esplicita con il razzismo nazista e ormai anche fascista (del luglio è il Manifesto degli scienziati razzisti e a inizio settembre sono emanate le prime Leggi razziali riguardanti soprattutto la scuola), rivendica la “semiticità” dello stesso cristianesimo, in quanto erede diretto del popolo della Promessa.
Il 14 settembre 1938, su “La libre Belgique”, esce il resoconto dell’udienza concessa cinque giorni prima da papa Ratti ai pellegrini della Radio Cattolica Belga:
“‘L’antisemitismo non è compatibile con il pensiero e la realtà sublimi che sono espresse in questo testo [un Messale donato dai pellegrini, in cui si leggeva ‘Sacrificium patriarchæ nostri Abrahæ’]. È un movimento antipatico, un movimento con cui noi cristiani non possiamo avere alcuna parte’. Qui il papa non riesce più a trattenere la propria emozione. Non voleva lasciarsene vincere. Ma non è riuscito a farlo. È piangendo che ha citato i passi di San Paolo che mettono in luce la nostra discendenza spirituale da Abramo. ‘La promessa è stata fatta ad Abramo e alla sua discendenza. Il testo (Gal 3, 16) non dice, fa notare San Paolo, <in seminibus tamquam in pluribus, sed in semine, tamquam in uno, quod est Christus>. La promessa si realizza nel Cristo e, attraverso il Cristo, in noi che siamo le membra del suo corpo mistico. Attraverso il Cristo e nel Cristo noi siamo della discendenza spirituale di Abramo. No, non è possibile ai cristiani aver parte con l’antisemitismo. […] L’antisemitismo è inammissibile. Noi siamo spiritualmente semiti’”.

Francesco De Palma

sul cristianesimo del futuro

Oltre le religioni, l'amore. Un libro di Adista e Gabrielli Editore sul cristianesimo del futuro

oltre le religioni, l’amore

un libro di Adista e Gabrielli Editore sul cristianesimo del futuro

 
da: Adista Notizie n° 17 del 07/05/2016
Nell’arco della storia, le religioni hanno fatto tutto e il contrario di tutto: hanno legittimato sistemi di dominio e suscitato movimenti di liberazione; hanno invocato il nome di Dio per benedire il capitale e incoraggiato la creazione di società anticapitaliste, hanno invitato ad amare il prossimo come se stessi e hanno, di fatto, contribuito ad opprimerlo, calpestarlo, umiliarlo, massacrarlo. Cosa c’è allora che non funziona nella nostra idea di Dio, nella nostra visione della religione? È da qui che si muove la ricerca teologica impegnata nella formulazione del cosiddetto paradigma post-religionale, al centro del libro Oltre le religioni. Una nuova epoca per la spiritualità umana, primo frutto di una collaborazione tra Il Segno dei Gabrielli e Adista (2016, pp. 239, euro 16,50; il libro può essere acquistato anche presso Adista, scrivendo ad abbonamenti@adista.it; telefonando allo 06/6868692; o attraverso il nostro sito internet, www.adista.it). Curato dalla nostra redattrice Claudia Fanti e da don Ferdinando Sudati, il libro raccoglie gli interventi (alcuni dei quali già pubblicati in forma ridotta sulle pagine di Adista) di John Shelby Spong, María López Vigil, Roger Lenaers e José María Vigil – quattro tra i nomi più prestigiosi, brillanti e amati della nuova teologia di frontiera –, accomunati dalla tesi che le religioni così come le conosciamo siano destinate a lasciare spazio a qualcosa di nuovo e non ancora facilmente prevedibile, ma sicuramente aprendo all’insopprimibile dimensione spirituale dell’essere umano un futuro ricco di straordinarie possibilità.

Con i loro miti e i loro dogmi, con le loro leggi e la loro morale, le religioni sono state a lungo il motore del sistema operativo delle società. Ma, almeno nella forma che ci è familiare, non sarebbero destinate, secondo gli autori, a durare per sempre. “Per sempre” sarebbe la spiritualità, intesa come dimensione profonda costituiva dell’essere umano, non la religione, che ne costituisce la forma socio-culturale concreta, storica e dunque contingente e mutevole. In questo senso, allora, post-religionale non starebbe a significare post-religioso né post-spirituale, ma più in là del religionale, cioè più in là di ciò che hanno rappresentato le religioni agrarie, quelle religioni, cioè, che si sono formate durante l’età neolitica, quando la nostra specie, passando dalle tribù nomadi di cacciatori e raccoglitori alla vita sedentaria in società urbane legate alla coltivazione della terra, ha dovuto necessariamente creare dei codici che le permettessero di vivere in società, con un diritto, una morale, un senso di coesione sociale e di appartenenza. Un ruolo, quello delle religioni neolitiche, che, come evidenzia il clarettiano spagnolo, naturalizzato nicaraguense, José María Vigil, sta ormai venendo meno di fronte alla profonda metamorfosi che l’essere umano sta vivendo: una trasformazione radicale delle strutture conoscitive ed epistemologiche, con tutti i relativi cambiamenti nel modo di conoscere, nei postulati e negli assiomi millenari su cui l’umanità si basava inconsapevolmente.

Di certo, però, anche nella nuova veste che saranno chiamate ad assumere, le religioni, viste ora non più come un’opera divina, ma come una costruzione degli stessi esseri umani (sia pure spinti dalla forza del mistero divino), «dovranno concentrarsi – sottolinea José María Vigil – sul compito essenziale, che non cambierà: aiutare l’essere umano a sopravvivere diventando sempre più umano». Solo che «questo compito, benché sia quello di sempre, potrà essere espresso con un grande e creativo ventaglio di possibilità». E a chi teme la perdita d’identità, cristiana o più strettamente cattolica, il teologo brasiliano Marcelo Barros, nella sua prefazione, risponde non a caso citando le parole di un amico rabbino, secondo cui «noi siamo umani non tanto per quello che ci costituisce (nella nostra identità originale) quanto per la possibilità di trasformarci o di lasciar evolvere quello che ci costituisce, senza smarrirci».

Che ne sarà allora in questo quadro della tradizione di Gesù? Riuscirà il cristianesimo nell’impresa di trasformare se stesso, reinterpretando e riconvertendo tutto il suo patrimonio simbolico in vista del futuro che lo attende? Riuscirà a liberarsi di dogmi, riti, gerarchie e norme, di tutti quei rituali religioni che, spesso e volentieri, hanno finito per sovrapporsi al Vangelo, per complicare anziché favorire la nostra relazione con Dio e con l’altro?

Il compito non è di certo semplice, richiedendo un lavoro al tempo stesso decostruttivo per superare tutto ciò che è ormai diventato obsoleto – e costruttivo – per esplorare i modi in cui sviluppare in pienezza la nostra dimensione spirituale. Di sicuro, come evidenzia il vescovo episcopaliano John Shelby Spong (sulla cui figura e sulla cui opera si sofferma più estesamente, nella sua introduzione, don Ferdinando Sudati), gli esseri umani continueranno ad aver bisogno di riunirsi, di condividere, di celebrare, di alimentare la loro spiritualità, ma senza più strutture e rapporti di potere che riproducano il potere paternalistico di un Dio in senso teista. Di un Dio, cioè, inteso come «un essere dal potere soprannaturale, che vive nell’alto dei cieli ed è pronto a intervenire periodicamente nella storia umana, perché si compia la sua divina volontà», un essere con poteri miracolosi da supplicare, servire e compiacere, di fronte a cui prostrarsi come uno schiavo di fronte al padrone. Tuttavia, pur nella necessaria – dolorosa ma alla fine liberante – rinuncia all’immagine di un essere soprannaturale che ci faccia da genitore, il messaggio originario della fede cristiana – è la convinzione di fondo attorno a cui ruota la riflessione degli autori – non perde nulla di veramente essenziale, restando inalterata, come spiega il gesuita belga Roger Lenaers, «la confessione di Dio come Creatore del cielo e della terra, inteso come Amore Assoluto, che nel corso dell’evoluzione cosmica si esprime e si rivela progressivamente, prima nella materia, poi nella vita, poi nella coscienza e quindi nell’intelligenza umana, e infine nell’amore totale e disinteressato di Gesù e in coloro in cui Gesù vive». Come pure resta invariata «la confessione di Gesù come la sua più perfetta auto-espressione e la comprensione dello Spirito come un’attività vivificante di questo Amore Assoluto».

È a questo complesso compito di riformulare il messaggio cristiano in un linguaggio che possa risultare nuovamente rilevante e significativo che hanno rivolto le loro riflessioni, e dedicato la loro vita, gli autori di questo libro, ma a cui guardano con interesse e passione anche tutti coloro che avvertono la necessità di trasformare radicalmente la propria religiosità, proprio per sentirsi più vicini «alla Vita che Gesù ha difeso e a cui ha dato dignità», come spiega nel suo modo impareggiabile la scrittrice cubana-nicaraguense María Lopez Vigil. E così scoprire che, in questo viaggio iniziato nell’età adulta della nostra vita spirituale, non si è in fondo perso nulla di importante. Che, come sottolinea Claudia Fanti nella presentazione, «il nostro bagaglio è ora molto più leggero, ma c’è ancora tutto quello di cui abbiamo veramente bisogno». E che, anzi, «questo bagaglio diventato così lieve ci permette ora di camminare più spediti, di godere realmente di tutto ciò che ci circonda, sentendoci parte di questo paesaggio e cogliendone tutta la struggente bellezza. Ci permette di sentire il respiro dell’universo, il nostro indistruttibile legame con la Vita, con l’Amore senza limiti».Barros 1

Che è, poi, la stessa conclusione di Marcelo Barros: «Oltre le religioni: l’amore».

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