il vangelo letto da una roulotte tra i rom – la teologa Cristina Simonelli

guardare il Vangelo dalle periferie.

la scelta di vivere in roulotte con i Rom

a proposito di Vangelo, di centro e di periferia


Daniele Rocchetti

Per più di dieci anni ci siamo incontrati quasi ogni giovedì mattina per la redazione di Evangelizzare, allora una delle riviste di catechesi più significative. Ci era stata presentata come patrologa, studiosa e conoscitrice dei Padri della Chiesa, ma subito ci siamo accorti che le piacevano le incursioni sui temi di attualità ecclesiale. Ogni volta con uno sguardo acuto e divergente, mai scontato.
Sto parlando di Cristina Simonelli, dal 2013 presidente del Coordinamento delle Teologhe Italiane e docente di Storia della Chiesa e Teologia Patristica in diverse Istituti e Facoltà Teologiche. Con Cristina, dopo la fine della nostra comune avventura editoriale, ci siamo rivisti qualche volta: a Molte Fedi, per una meditatio a Fontanella, e a Bose, in un paio di convegni di spiritualità. Ho letto con piacere il bellissimo articolo che ha scritto sull’ultimo numero di “Donne Chiesa Mondo”, l’inserto dell’Osservatore Romano, dove racconta, da par suo, i suoi trentacinque anni di condivisione profonda con donne e uomini sinti-rom.

Mettere alla prova il Vangelo nelle frontiere

“Sono entrata in un campo rom a 20 anni, un po’ per caso e un po’ per sfida, e ci sono rimasta 35 anni. Volevo mettere alla prova il Vangelo, nelle sue frontiere: perché se funziona lì allora funziona anche al centro, pensai. Quando lo dissi a mio padre, lui mi rispose: «Se Dio non esiste, voi siete perduti»: io perduta non mi sono sentita mai.

E’ il racconto di una vita di una ragazza degli anni Settanta,

“asimmetrica, terzomondista, resistente e di quel femminismo respirato per cui ritenevo di non dover essere autorizzata da nessuno”

Trentacinque anni sono una vita, eppure, scrive,

“ho passato quei 35 anni come un giorno, come un’ora di veglia nella notte, citando il salmo. In un lembo di terra in cui, rifatte le mappe, la vita comune è possibile, promessa di più pacifici universi di vita e di pensiero.
Anche le frontiere della comunità ecclesiale avrei voluto abitare permanentemente, perché la chiesa è in se stessa profondità e frontiera, e studiando la storia delle donne mi resi conto che alcune figure femminili partivano corpo a corpo col Vangelo, come se fossero autorizzate dal Vangelo. Quando mi sono chiesta perché, mi sono risposta che alla donna accade ciò che accade alle minoranze, anche se minoranze non sono: ma è la marginalità imposta che le accomuna e tramuta la quantità (siamo maggioranza) in qualità (siamo ritenute secondarie). A volte sembra che le donne, come i rom, siano oggetti che la chiesa tratta e non soggetti ecclesiali con pieni diritti. Non è così: cambiamo l’idea di centro e di periferia e si vedrà che siamo soggetti a pieno titolo”.

I rom, la mia rosa

Certo, quando è partita erano gli anni del dopo Concilio, dell’entusiasmo di una fede che doveva essere “gridata con la vita”, che aveva i perimetri del mondo. Come è accaduto a tanti in quegli anni, Cristina voleva partire per l’Africa, ai rom non ci pensava ancora.

“Li vedevo per strada e mi colpivano per la loro estraneità e quella loro fierezza, ma niente di più. Ora, a chi mi chiede sempre e soltanto questo, la mia vita con i rom, rispondo, come faceva un’amica, con un brano di Saint Exupery: «Certamente un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola è più importante di tutte voi perché è lei che ho innaffiata. Perché è lei che ho messo sotto la campana di vetro. Perché è lei che ho riparato col paravento. Perché su di lei ho ucciso i bruchi. Perché è lei che ho ascoltato lamentarsi e vantarsi o anche qualche volta tacere. Perché è la mia rosa». Sì, loro sono la mia rosa.”

Il principio della mula. Quella di don Abbondio

E dunque la scelta di andare a vivere nel campo rom, ad abitare in una roulotte. Lì a poco a poco matura la scelta di studiare teologia.

“Anche nella teologia, tradizionale dominio maschile, sto bene ma mi sento pure un po’ fuori posto: è un mondo che mi consente di incrociare linguaggi diversi, persino molto stimolante, tanto da apparirmi una sorta di principio euristico, un modo di stare al mondo, di abitare la città e anche la chiesa, secondo il principio della mula: «La mula (…) pareva che facesse per dispetto a tener sempre dalla parte di fuori e a metter proprio le zampe sull’orlo; e don Abbondio vedeva sotto di sé, quasi a perpendicolo, un salto o, come pensava lui, un precipizio. “Anche tu — diceva tra sé alla bestia – hai quel maledetto vizio d’andare a cercare i pericoli, quando c’è tanto   sentiero”».

L’intolleranza e il razzismo coinvolgono anche le Chiese

“Ho calpestato queste terre, ho abitato questi mondi, per comprenderli. E ho condiviso la vita, le nascite, i matrimoni, le difficoltà, i pregiudizi. Sono loro, i rom ma soprattutto le donne, le romnia , le principali vittime della discriminazione; con loro e per loro attraversi un’altra frontiera che è quella del razzismo perché morte le streghe, morto l’antisemitismo, forse, sono rimaste le zingare rapitrici a nutrire le isterie di cui la società ha bisogno e di cui l’alterità interpretata come minacciosa è stata sempre ottima fornitrice. L’intolleranza e il razzismo non sono scomparsi, e coinvolgono anche le chiese.”

Un’idea diversa di centro e di periferia

Finito di leggere l’articolo, mi è tornata alla mente una battuta che mi fece una volta don Tonino Bello quando gli chiesi se non sentiva un vescovo “anomalo”. Mi rispose di no, soggiungendo subito che “bisogna poi vedere che cosa significa essere anomalo. Introdurre in casa i poveri per farli dormire d’inverno, è anomalo per un vescovo, o non è anomalo il contrario?” Come a dire che il Vangelo ha un concetto, diverso dal nostro, di centro e di periferia.
E da dove sei lo leggi e lo comprendi in modo diverso. Ricordiamocelo, noi che solitamente lo leggiamo dal centro e seguendo il buonsenso. Non è l’unico osservatorio e forse neanche il più privilegiato.

una teologa che si è formata tra i rom

Cristina Simonelli
la teologa che ha vissuto con i Rom

Ha scelto di studiare proprio grazie all’esperienza nell’accampamento e ci racconta: “Ho capito che le vite di tutti sono appelli di Dio e insieme aiutano a interrogare il Vangelo”. Per questo nei suoi studi continua a prediligere i “temi scomodi”

“Ultimi chi?” La teologa Cristina Simonelli presidente del Coordinamento teologhe italiane, ha vissuto dal 1976 al 2012 in un campo Rom, prima a Lucca, poi a Verona, e di approcci alla “questione Rom” ne ha incontrati di tutti i tipi. Per questo è molto critica sia verso l’atteggiamento di chiusura, “espresso anche da tanti preti e laici che condividevano quel disprezzo rispetto al quale papa Francesco ha chiesto perdono durante il viaggio in Romania lo scorso giugno”, sia verso il “buonismo”, “estremamente dannoso “, perché ancora una volta ha a che vedere con il guardare dall’alto in basso. “Le persone non vogliono la nostra compassione, ma la sua trascrizione nella simpatia e nella stima “, spiega Simonelli. Al campo non abbiamo mai lavorato “per”, ma sempre “con”, sia che si trattasse di dove posizionare le piazzole, che di questioni sanitarie o scolastiche”.

COMUNITA’ IN ROULOTTE

Cristina ha vissuto in comunità con altre laiche e un prete diocesano, costituendo il “Gruppo ecclesiale veronese fra i Sinti e i Rom”, con mandato del vescovo. In quegli anni e fino a poco tempo fa la pastorale dei Rom in Italia era condotta da un gruppo molto affiatato di uomini e donne, laici, religiosi e preti: tutte persone che vivevano in roulotte, con un referente nazionale (si sono succeduti don Mario Riboldi, don Francesco Cipriani, don Piero Gabella, don Federico Schiavon), pure provenienti dal mondo delle carovane. Era qualcosa di nuovo, di comunitario, ma con alle spalle spiritualità “provate”. “Venivamo da esperienze diverse, io dall’ambiente missionario, altri dal francescanesimo o dalla spiritualità di Charles de Foucauld, ma eravamo stati tutti formati dal concilio Vaticano II e dai movimenti terzomondisti e dell’America Latina. Era una stagione di grande fermento culturale, civile, politico, e anche di Chiesa. Credevamo fermamente che un altro mondo era possibile. Ma “l’evangelizzazione doveva partire dai piedi””.

VOCAZIONE PER LO STUDIO: TEOLOGIA E VITA, COSÌ CRISTINA SIMONELLI SE N’È INNAMORATA

Dopo dieci anni di vita al campo, gli amici della comunità propongono a Cristina gli studi di teologia. “All’inizio non ne volevo sapere. I teologi mi sembravano astrusi, sparatori di frasi astratte, lontani dalla vita reale nella quale io ero profondamente immersa. Poi la teologia mi ha conquistata, l’ho trovata un luogo di riflessione critica, di profondità, che andava molto d’accordo con quello che facevamo”.
Negli anni Ottanta lo studio teologico San Zeno di Verona incoraggiava la presenza delle donne. Cristina inizia come uditrice, poi studentessa a Verona e Firenze, quindi la laurea e il dottorato a Roma. Dal 1997 insegna Patristica a Verona e Milano. Un percorso insieme formativo, professionale e personale. “Sono credente da cristiana in senso ecumenico e praticante nella Chiesa cattolica. Sono convinta che fede ed esodo (il tema di un documento ecumenico del Gruppo di Dombes) vadano insieme. Dio è un Altro o un’Altra che per brevità chiameremo Dio, come ben si esprime la filosofa Luisa Muraro e ci attende, ci chiama, ci convoca sempre oltre, anche oltre i confini. Una nostra collega americana, Mary Boys, suggerisce che più si va in profondità nella propria appartenenza, alle radici spirituali, più i confini della separazione diventano sottili e trasparenti. La teologia aiuta a porre domande, a non scambiare piccole convinzioni con le grandi questioni del Vangelo. Ma non da sola: la vita, le vite di tutti sono appelli di Dio e insieme aiutano a interrogare il Vangelo, che può dare così gemme che in astratto non si trovano. La preghiera di tutto questo è il respiro, ma fatta corpo, fatta mani, fatta pane, sia nel rito che nella vita”.

DONNE E CHIESA

Sebbene lo spazio delle donne nella Chiesa rimanga una questione dibattuta, qualche passo avanti è stato fatto. “Premetto che, per quanto mi riguarda, la questione dei ruoli non è prioritaria. A me stanno a cuore più la pace, la giustizia, la possibilità di una vita migliore per tutti, anche dal punto di vista evangelico teologico: questa è per me la questione femminile, in primo luogo. Tuttavia, in questi miei quarant’anni di vita adulta, qualche cambiamento è avvenuto. Ne è prova la presenza sempre maggiore di donne teologhe. Dal 2013 presiedo il Coordinamento delle teologhe italiane (iniziato nel 2003 da Marinella Perroni) e anche quest’anno per l’assemblea ho mandato 150 convocazioni.
Cominciamo a essere un soggetto riconosciuto nella parola, anche se da qualcuno ancora guardato con sarcasmo. Siamo un gruppo ecumenico e le nostre socie hanno ruoli diversi nelle Chiese di appartenenza, molte sono pastore, mentre nella Chiesa cattolica non è in agenda neanche il diaconato femminile, perché è forte la resistenza di ambienti soprattutto clericali. Io credo che sia importante tenere aperto questo dibattito, focalizzandolo su che cosa impedisce che le donne possano essere ordinate diaconesse. Bisogna stanare i motivi di questa fobia. Papa Francesco sulla questione femminile ha scelto la via del discernimento, che probabilmente è un processo più radicale, ma è lungo. Una riforma istituzionale ormai va fatta: il Diritto canonico sul diaconato permanente degli uomini è cambiato, quindi può cambiare ancora. Lo spazio delle donne nella Chiesa non è un problema solo delle donne, ma di tutta la Chiesa”.

CRISTINA SIMONELLI SU GENDER E OMOFOBIA: NUOVE PAURE

Ma le fobie ai giorni nostri sono in aumento, e Cristina con i “temi scomodi” si sente a proprio agio. “Lavorando sul gender, rispetto al quale è stata montata una campagna totalmente fuorviante, mi sono scontrata con un odio nei confronti delle persone omosessuali, che se prima non era un mio tema, d’ora in poi lo sarà per sempre. La Chiesa prima o poi arriverà a chiedere perdono anche per l’omofobia dilagante. Ancora oggi il parroco che decida di approntare una pastorale Lgbt lo paga molto pesantemente “. Questo clima di odio, riflette, ha avuto un momento significativo nel Congresso di Verona dello scorso marzo che, “con i proclami a difesa della famiglia, mirava a rifare una “verginità cattolica” ad ambienti che si possono definire nazisti, finanziati da lobbies internazionali. Ma la realtà è diversa e migliore, e in molti abbiamo affermato che essere cattolici è un’altra cosa”.

CHI È LA TEOLOGA CRISTINA SIMONELLI

Esperta della Chiesa antica, Cristina Simonelli insegna Patristica, la branca della teologia che studia il pensiero dei padri della Chiesa, i grandi maestri dei primi secoli dell’era cristiana, su cui si fonda buona parte della dottrina. Tra i più importanti si ricordano: sant’Ignazio d’Antiochia, sant’Ambrogio, sant’Agostino e san Girolamo.

di Romina Gobbo
https://www.famigliacristiana.it/articolo/cristina-simonelli-la-teologa-che-ha-vissuto-con-i-rom.aspx

C.C.I.T.2017 – Madrid relazione di Cristina Simonelli

Il canto di tutti: la colonna sonora della nostra vita

Gracias a la vida que me ha dado tanto
me ha dado la risa y me ha dado el llanto
así yo distingo dicha de quebranto
los dos materiales que forman mi canto
y el canto de ustedes que es el mismo canto
y el canto de todos que es mi propio canto
Gracias a la vida, gracias a la vida….1

spagnolo nel testo, traduzione in nota

Parlare della musica è un po’ come parlare della nostra vita, che ha un ritmo, sempre: quello del cuore e del respiro – materno nella gestazione e nell’allattamento e anche certo quello proprio, finché ce n’è un briciolo. Questo ritmo conosce forme elementari e per questo profondissime, come le cantilene e le ninne nanne, e le espressioni di affetto, le manifestazioni di gioia e anche i lamenti di dolore. Si può così vedere come questa musicalità sia personale sì ma non individuale, perché nasce comunque in una relazione e in uno scambio, tra persone e con il creato. Tale dimensione relazionale è ancora più forte poi nelle forme elaborate, che hanno anche una connotazione collettiva e culturale. Non è un caso se abbiamo iniziato questa riflessione con una strofa di Gracias a la vida, canto inciso a Santiago del Cile nel 1965 da Violeta Parra Sandoval in relazione a una situazione personale, ma diventato poi una sorta di inno alla pace e alla dignità dei popoli, prima in Argentina (fu cantato da Mercedes Sosa) per poi raggiungere fama internazionale grazie alla voce e all’impegno di Joan Baez negli anni ’70. La gioia e il dolore nelle loro forme più alte diventano canto e il canto di ognuno può diventare canto di tutti e per tutti.

Con queste chiavi seguiamo un breve percorso biblico e pastorale, per provare poi a mettere in parola la nostra esperienza di «persone rom e non/rom» nell’ottica dell’espressione musicale, in senso antropologico e culturale e non certo in quello banale del folclore.

      1. Hai mutato il mio lamento in danza

Hai mutato il mio lamento in danza,

la mia veste di sacco in abito di gioia,

perché il mio cuore ti possa cantare inni senza posa

Signore, mio Dio, ti loderò per sempre

(Sal 30,12-13)

E’ chiaro per tutti come la Scrittura porti con sé moltissime attestazioni sia di canto/musica, nel senso personale e relazionale appena segnalato, che del suo uso collettivo e anche specificamente cultuale, a esprimere il dolore e la lode, la benedizione per la vita ricevuta e l’invocazione per la sua pienezza, non solo dei singoli ma del Popolo e, infine, di tutti e di ognuno. Se non mancano elementi musicali in tutta la raccolta biblica – si pensi ad esempio alla profetessa Miriam che guida il canto e la danza dopo il passaggio del mare in Esodo 15– ma certo spicca l’importanza in questo senso del Salterio, che è, fra l’altro, un “microcosmo musicale”. Il Salmo 30, del quale alcuni versetti danno il titolo a questo paragrafo e sono riportati sopra, porta con sé dimensioni personali profonde: in primo piano c’è il lamento di dolore per una malattia grave e il canto di gioia per la guarigione, per il mondo che si apre nuovamente. Grazie a questa concretezza fisica è potuto diventare anche il canto politico per una sconfitta evitata e l’inno religioso per la morte che si apre alla risurrezione.

Il biblista italiano Gianfranco Ravasi, ora cardinale, così descrive in generale il mondo musicale del salterio attraverso il vertice della raccolta, che è il Salmo 150:

L’ultimo carme del salterio, il 150, è una specie di sinfonia a cui è convocata tutta l’orchestra del tempio con i suoi strumenti (vv. 3-5), ma a cui si associa anche il filo musicale che nasce da ogni essere: cielo e terra, dimora infinita di Dio e sua residenza terrestre (= tempio) si uniscono verticalmente in un alleluia cosmico. Il corno (ŝofar) e la tromba sacerdotale, il nebel, cioè l’arpa, e il kinnor, la lira […] strumenti a corda e a fiato, strumenti noti dei professionisti e altri di cui oggi si fatica a ricostruire la effettiva forma, si uniscono al mizmor (cioè salmeggiare, termine che deriva il suo significato dal gesto di toccare le corde) e alla danza, al grido gioioso, o all’urlo della vittoria, in un quadro in cui non manca il dialogo antifonale fra coro e solista2.

Anche il nuovo Testamento conosce molte forme di Inni, che ad esempio nell’Apocalisse assumono anche tutto lo spessore di una liturgia, con diversi soggetti che intervengono e si rispondono. Sarebbe lungo poi ricordare le molte forme con cui questo è stato vissuto e interpretato, riporto solo, per la sua originalità, uno stralcio di uno scritto “apocrifo” che descrive una danza pasquale di Cristo:

Il tutto partecipa alla danza. Amen. Colui che non danza ignora ciò che è accaduto. Amen. […] Non ho casa e ho delle case. Amen. Non ho luogo e ho dei luoghi. Amen Lampada sono io per te che mi vedi. Amen. Specchio sono io per te che mi comprendi. Amen. Porta sono io per te che bussi. Amen. Via sono io per te che sei viandante. Amen. Rispondi ora alla mia danza, vedi te stesso in me che parlo[…] Tu che danzi, comprendi ciò ch’io faccio3

Tutto il mistero pasquale dunque viene espresso e insieme sperimentato in una musicalità che diventa anche danza. Anche al di là di questo testo particolare, è significativo – e sarà utile per la seconda parte della nostra riflessione – ricordare anche che di fatto non conosciamo con sicurezza quale fosse la musica dei salmi, così come degli inni più antichi extra biblici, anche se molti se ne sono posti alla ricerca: essa dunque oggi esiste solo nelle molteplici forme in cui è stata interpretata, riespressa, contaminata e dunque vissuta.

Nella sua forma collettiva, spesso organizzata e dunque ordinata e condivisa sia nella forma che nel significato, la musica diventa festa. Anche con l’aiuto degli studiosi di antropologia culturale, il mondo della teologia e della spiritualità ne ha maggiormente compreso l’importanza:

La riscoperta della dimensione festiva costituisce uno dei maggiori segni indicatori della capacità di memoria e di celebrazione dell’esistenza umana e del suo mistero nella storia di un popolo. Partecipare ad una festa significa rievocare insieme il suo messaggio ideale e impegnarsi a realizzarlo. Il fare festa diventa per una comunità un atto unificante, capace di coniugare simbolicamente nei segni posti, il passato, il presente e il futuro (Giuseppe De Virgilio)4

Dobbiamo infatti riconoscere che se oggi nessuno studioso della Bibbia negherebbe questa dimensione, non sempre il concreto atteggiamento pastorale è capace di vivere con serenità e carattere evangelico questa realtà.

2. Nella gioia del Vangelo

Ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua. Però riconosco che la gioia non si vive allo stesso modo in tutte la tappe e circostanze della vita, a volte molto dure. Si adatta e si trasforma, e sempre rimane almeno come uno spiraglio di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto (Evangelii Gaudium n. 6)

Quando dalla considerazione della Scrittura ci spostiamo a prendere in esame gli atteggiamenti pastorali, rischiamo sempre di essere molto generici. In questo caso ci aiuta però il magistero di Papa Francesco, molto attento a questi aspetti. Il testo che abbiamo appena letto è dell’Esortazione Apostolica da lui stesso più volte indicata come programmatica del pontificato e di questa stagione ecclesiale. Il passo è giustamente noto, perché si collega non solo al titolo generale (la gioia del Vangelo, ben diversa dalla lugubre comunicazione che a volte ci ha contraddistinto), ma anche alle tentazioni pastorali: in sintesi si può dire che la “faccia da Quaresima” che non conosce Pasqua non è affatto una virtù, bensì una malattia dello spirito, quella che si chiamava anche “accidia”, che si mostra come sfiducia negli altri e mancanza di speranza, ma denota carenza di fede e di carità, infine, di umanità. Spesso è il confronto con la diversità a permettere che questo sintomo emerga con forza devastante: allora sono, a turno, i giovani che appaiono disastrosi, le donne che rovesciano l’ordine stabilito, gli “altri” nel senso di stranieri e migranti, ma anche delle popolazioni da sempre presenti in contesti maggioritari, come le famiglie tzigane a sembrare portatori di trasgressione e disagio.

Anche il cammino sinodale ha indicato rischi analoghi ed ha rappresentato una risorsa di conversione pastorale. Averlo percorso:

significa aver dato prova della vivacità della Chiesa Cattolica, che non ha paura di scuotere le coscienze anestetizzate o di sporcarsi le mani discutendo animatamente e francamente sulla famiglia.

Significa aver cercato di guardare e di leggere la realtà, anzi le realtà, di oggi con gli occhi di Dio, per accendere e illuminare con la fiamma della fede i cuori degli uomini, in un momento storico di scoraggiamento e di crisi sociale, economica, morale e di prevalente negatività.

Significa aver testimoniato a tutti che il Vangelo rimane per la Chiesa la fonte viva di eterna novità, contro chi vuole “indottrinarlo” in pietre morte da scagliare contro gli altri.

Significa anche aver spogliato i cuori chiusi che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa, o dietro le buone intenzioni, per sedersi sulla cattedra di Mosè e giudicare, qualche volta con superiorità e superficialità, i casi difficili e le famiglie ferite.

Significa aver affermato che la Chiesa è Chiesa dei poveri in spirito e dei peccatori in ricerca del perdono e non solo dei giusti e dei santi, anzi dei giusti e dei santi quando si sentono poveri e peccatori.5

Una condizione anestetizzata, incapace di riconoscere il dolore e la gioia, la festa e il lutto di chi incontra, è spesso sintomo della incapacità di riconoscere i propri sentimenti, in quella che potrebbe essere indicata come “alessitimia”, termine che indica un disturbo della sfera emotiva, connotato dalla difficoltà di incapacità di percepire, riconoscere ed esprimere gli stati emotivi, propri e degli altri. Non basta una buona volontà singola per uscirne, abbiamo necessità di un lavoro collettivo: sinodale in termini ecclesiali, o politico e culturale in termini laici. Questi nostri incontri e lo “spirito del CCIT” possono contribuire a questo percorso di consapevolezza e di conversione pastorale, fatta anche attraverso gli occhi, i suoni, i riti “degli altri”.

3. Le musiche tzigane come ingegneria culturale e legame sociale

«La musica è il collante che unisce le persone umane […] la libertà e il soffio che consente di andare all’incontro degli altri nel mondo (Toni Gatlif) 6

Il film di Toni Gatlif, Latcho Drom, rappresenta oggi per noi, in questo nostro Incontro ben più di una conferenza. Mostra in sequenze filmiche quello che tutti sappiamo per esperienza e su cui vogliamo anche riflettere: quello che vale per ogni cultura ha un valore singolare per alcune. In questo caso l’espressione musicale è molto importante nella vita romani (tzigana) nelle molte differenze così come nelle dimensioni comuni. Così importante che, appunto, il regista riesce a indicare gli itinerari e le soste di tali popolazioni seguendone le musiche e le danze, dall’India alla Spagna, le feste e i lutti, gli incontri più o meno autentici.

Alcune sue forme sono così note e fondamentali per la cultura europea da farne parte in maniera inseparabile: le musiche ungheresi, cui si ispirò fra gli altri Franz Liszt e il Cante Flamenco in primo luogo, ma anche la musica dei Lautari rumeni, riuniti in gruppi denominati Taraf (composti di violino, fisarmonica, cimbalom – strumento di origine ungherese costituito da una serie di corde metalliche suonate con bacchette di legno – clarinetto o sassofono, più recentemente anche chitarra), e le composizioni balcaniche. Ma si deve ricordare anche la musica del nordafrica, in cui ad esempio emergono gli “Gypsy of the Nile” e i “Moroccan Gypsies”, con Sidi Mimoun e Ben Souda, o le forme legate alle tarantelle (danze popolari) del sud Italia. Alcuni nomi hanno tale risonanza da uscire anche da registri strettamente etnici, come quello del jazzista Django Reinhardt, di Manitas de Plata (= Ricardo Baliardo, Montpellier 2014), del complesso dei Gipsy Kings o di Goran Bregović.

Pensare di renderne anche solo minimamente ragione qui sarebbe altrettanto arrogante che pensare di aver parlato in maniera sufficiente della musica nella Scrittura. Senza contare che quello che a noi interessa non sono soltanto i grandi nomi, bensì la trama della vita quotidiana, della nostra comune esperienza, che si esprime in forme meno alte ma ugualmente artistiche, come pure nella semplice abitudine di ascoltare musica prodotta da altri, facendone però in certo senso la colonna sonora della nostra vita. L’ottica che vogliamo assumere è piuttosto un’altra: si usa dire che le differenze fra questi tipi di musiche sono tali e tante da lasciare sullo sfondo le somiglianze, che pure si potrebbero raccogliere nella frequenza di cambi di registro, nella capacità di seguire il ritmo come nel blues, nella prorompente improvvisazione come nel jazz. Infatti:

Ciò che distanzia questi artisti dalle lontane origini comuni sembra maggiore di ciò che li avvicina. Eppure nei numerosi stili che si sono venuti a creare si possono riconoscere vari elementi in comune, prima fra tutte la pratica molto frequente dell’improvvisazione, con rapidi cambi di tempo, ritmi assai sostenuti, talvolta note lunghe e appassionate, un alto grado di virtuosismo, una forte sensibilità quasi sentimentale e una ricca “ornamentazione”, fatta di cesellature e arabeschi. Talvolta, inoltre, le esecuzioni vengono arricchite da suoni prodotti con qualsiasi mezzo si abbia a disposizione, dalla percussione di una vecchia lattina al battito di mani (Francesca Ferrando).

Di fatto qui vogliamo sottolineare in maniera particolare proprio le differenze, perché sono il segno di quella che, seguendo Leonardo Piasere, possiamo indicare come “ingegneria culturale” degli zingari, categoria sintetica [politetica7] che si riferisce con uno stigma negativo a gruppi dalle diverse autodenominazioni, la più frequente delle quali è Rom. Infatti «le reti di famiglie rom nascono nella storia e sono il prodotto di innumerevoli microsituazioni in continua evoluzione»8, caratterizzate dalla dispersione in un contesto diverso, rispetto al quale sono in continuo scambio culturale. Questa interazione prevede l’assunzione di elementi di vario tipo, che vengono adottati, riadattati, in parte conservati e in parte trasformati: questa è appunto l’idea e la pratica della “ingegneria culturale”. Tale pratica culturale riguarda tutti gli aspetti della vita, dalla lingua all’uso dei new media e perfino gli aspetti religiosi: non c’è motivo dunque di dubitare che riguardi anche la musica, che anzi ne diventa un prezioso indicatore, un luogo in cui si può fare concreta esperienza di questo mondo vitale di scambio. E’ in fondo la stessa cosa che si è detto per i Salmi, che cioè non vivono nell’archeologia irraggiungibile di un suono puro, ma nella contaminazione plurale delle molte esecuzioni.

Per questo motivo possiamo lasciare, pur senza sottovalutarlo, il mondo dei nomi famosi e dei complessi diffusi sul web, per consentire ad ognuno di andare alla propria esperienza. Io stessa riporto alcuni miei ricordi, per invitare così ognuno a fare lo stesso. Sono momenti a volte ridicoli, spesso drammatici, in ogni caso tanto comuni e altrettanto particolari. Ricordo innanzi tutto un amico con alcuni disagi fisici, Rom italiano di origine slovena, che aveva acquistato con tuttoil denaro che aveva uno stereo di dimensioni notevoli, come erano tali strumenti negli anni ’80/90. Finiti i soldi, si trattava di portarlo a casa, che era distante, e dunque con un taxi percorse 150 km, finché arrivato presso la famiglia del fratello, candidamente, disse che si doveva pagare l’autista. Dopo lo sconcerto, il pagamento e certo un po’ di rabbia… fu acceso lo strumento e tutta la famiglia iniziò a ballare un mondo diverso possibile!

Altri momenti musicali che non posso dimenticare sono quelli funebri: il suono del violino dell’anziano Sinto che onorava così tra le lacrime la sepoltura della moglie, le musiche contrastanti delle bande musicali che, secondo un uso appreso da alcune regioni italiane come la laica Emilia, accompagnano la via che porta al cimitero, alternando musiche felici, magari amate dal defunto, ad altre tristi, consentendo così l’espressione dell’affetto e del cordoglio.

Infine, un’esperienza di altro tipo, ma estremamente significativa: in un paese italiano a forte densità di politiche e discorsi xenofobi, particolarmente accesi nei confronti degli “zingari”, si tenne pochi anni or sono un concerto di Goran Bregović, cui ebbi occasione di assistere. La maggior parte dei brani, lo comprendevo molto bene, erano in romanes, le musiche erano quelle balcaniche, tipico esempio di mixage e contaminazione di suoni. Bregović non spiegava, non faceva discorsi di bontà e integrazione, semplicemente suonava e cantava insieme al suo complesso: tutti i partecipanti, xenofobi o meno che fossero, in visibilio, saltavano, ballavano, applaudivano!!

Soprattutto l’ultimo esempio consente una riflessione: come ha efficacemente mostrato Daniele Todesco in un suo studio sul pregiudizio positivo9, ogni forma di sterotipia è un modo di allontanare gli uni dagli altri. Certo i pregiudizi negativi sono pessimi, ma forse più scoperti ed evidenti. Anche quelli positivi, che rendono in maniera iperbolica e irreale le caratteristiche che dipingono hanno una propria perniciosità e sono anche più subdoli. Anche l’idea dello zingaro musicista romantico e della Carmen ballerina irresistibile possono assumere questa funzione, che è in fondo di distanziamento e occultamento. Da questo rischio può non essere esente l’azione sociale e la pratica pastorale: esserne consapevoli può essere il primo modo per evitarlo. Tuttavia questo rischio è presente, ma non è l’unico aspetto: la musica, come si è visto, rappresenta per più aspetti l’espressione e la realizzazione di un legame sociale. All’interno dei gruppi familiari e interfamiliari che la vivono, nella rete amicale come in quella che ha segnato la vita mia e della mia comunità, ma anche nel contesto più largo nel quale le comunità tzigane dimorano o nomadizzano. Questo è già di per sé parte della forma musicale interattiva e contaminata, mixata e riespressa che come abbiamo visto è una caratteristica costante attraverso le molteplici differenze. Ed è evidente fino alla ironia più sottile nell’esempio dei giovani xenofobi che ballano sfrenati musiche Rom.

4 Gli occhi degli altri: la conversione del “principio di distinzione”

In quel giorno ci sarà una strada dall’Egitto verso l’Assiria; l’Assiro andrà in Egitto e l’Egiziano in Assiria; gli Egiziani serviranno il Signore insieme con gli Assiri. In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti: «Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità (Isaia 19, 23-25).

Come negli Incontri del CCIT ci siamo più volte detti, ci troviamo costantemente a dover negoziare fra due principi che si fronteggiano: stiamo, sia a livello di azione sociale/politica/culturale che di pratica religiosa, tra il timore della “etnicizzazione” [=riduzione di tutte le questioni ad un unico registro, quello etnico] e quello della omologazione, cioè tra il rischio di rendere tutto speciale, tutto etnico – costrizione e identificazione a cui ognuno di noi giustamente reagisce! – e quello, opposto, di non saper riconoscere niente di culturalmente valido e positivo al mondo tzigano. Il difetto, mi sembra sta proprio in una visione rigidamente binaria: o bianco o nero, o.. niente!

Mi sembra che potrebbe aiutarci in questa riflessione un suggerimento di Jan Assmann, un egittologo che, avvicinandosi alla figura di Mosè, protagonista dell’Esodo biblico, ma, appunto “straniero necessario”, egiziano ed ebreo a un tempo. Assmann parla come di “distinzione mosaica”per indicare la forma di identitarismo esclusivo cui dà vita quel particolare monoteismo. La questione, così come si deposita nella memoria culturale e religiosa del Libro biblico e della sua memoria attualizzata, nasce da un pasticcio etnico, da un disprezzo che era diventato sottomissione e schiavitù. Ad esso ha reagito un uomo/tipo, meticcio e appartenente alle due culture, quella maggioritaria e dominante e quella minoritaria e sottomessa. La storia che ne trae origine è segnata, appunto, dall’esclusivismo: un Dio, un popolo, una Legge, diversi e separati da tutti gli altri. Tuttavia, come lo stesso Assmann segnala, in quella narrazione plurale (=la raccolta biblica) e nelle tradizioni viventi che vi si riferiscono, c’è anche un’altra possibilità ed è quella di convertire la distinzione/separata in differenza/accogliente. In Assmann questo si concretizza nell’idea di conversione del monoteismo:

Solo come religio duplex, vale a dire come una religione a due piani, che ha imparato a concepirsi come una tra le molteplici e a guardarsi con gli occhi degli altri, e che nondimeno non ha perso di vista il Dio nascosto o la verità nascosta come punto di fuga comune a tutte le religioni, la religione stessa può trovare un posto nel nostro mondo globalizzato10

Nello stesso senso – e anche se lo studioso utilizza qui comunque una categoria binaria, attraverso l’idea di “duplice” – si potrebbe pensare a una forma di conversione dell’identità di distinzione, convocata a conversione non nel senso del suo annullamento ma in quello della sua forma di legame solidale e inclusivo11.

Lo scenario geopolitico nel quale infatti oggi viviamo – e viviamo dunque la nostra fede – è quanto mai complesso e violento e resiste ad ogni semplificazione. Anche la Scrittura non fa sconti sulla durezza dei conflitti a diversi livelli, e oggi abbiamo forse maggior lucidità di un tempo per leggere anche le pagine dure, se, ad esempio, anche l’esortazione post-sinodale Amoris laetitia può parlare di un sentiero di sofferenza e di sangue che attraversa molte pagine della Bibbia, a partire dalla violenza fratricida di Caino su Abele (AL n.20). Guerre e rumori di guerre, ingiustizie strutturali, violenza sui deboli, fra cui le donne anche nella famiglie dei patriarchi e del re Davide e di conseguenza fughe, deportazioni, esilio e esodo di popoli: non manca nulla. Guardando anche quelle pagine, troviamo spesso in esse delle perle che sono preziose, perché non nascono in contesti romantici, ma nel cuore delle contraddizioni e dei conflitti. Tale è un breve oracolo, la cui importanza accolgo tramite una lettura a suo tempo fornitane da Piero Stefani. Si trova in un contesto defatigante e certo non incoraggiante, denominato – ed è tutto un programma – “oracoli contro i popoli stranieri”, che occupa nell’attuale disposizione di Isaia i capitoli 13-23. I vaticini – parte nella forma di predizione post/evento dai toni apocalittici, parte nella forma della imprecazione, sono raggruppati come in Amos 1-2; e Geremia, in cui occupano i capp 46-51 (nel testo masoretico, collocati dopo il 25 nei LXX) e Ezechiele 25-32. La loro iterazione, sia pure con alcune differenze, da una parte li colloca in un genere letterario diffuso, che non riguarda solo la scrittura ebraica, li fa diventare stile. I “popoli”sono tutti i confinanti nonché i nemici tradizionali – Egitto, Assiria, Filistei – e alcuni altro, tra cui Etiopi e Arabi.. Ripeto la perla che si apre e cambio lo scenario radicalmente:

In quel giorno ci sarà una strada dall’Egitto verso l’Assiria; l’Assiro andrà in Egitto e l’Egiziano in Assiria; gli Egiziani serviranno il Signore insieme con gli Assiri. In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti: «Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità (Isaia 19, 23-25).

E’ una profezia messianica, in fondo, come quella secondo cui il lupo dormirà con l’agnello e le armi diverranno strumenti di lavoro, che si applica però ai nemici tradizionali di Israele. Non sarà sfuggito,inoltre, che ai due popoli vengono applicati i titoli riservati al popolo eletto: l’egiziano è ammi, mio popolo, e l’Assiro “opera delle sue mani”.

Che resta di Israele?: non solo non ha i titoli consueti, ma diventa addirittura “terzo”. Si può però vedere come questa terzietà, se così si può dire, che sembra anti/identitaria, in realtà compie la sua più propria ragion d’essere: è benedizione, altro nome di shalom. Israele qui non “perde” niente, anzi… la sua identità è berakah, benedizione, “in mezzo alla terra”. Quella conversione dell’identità di cui si è appena detto sopra.

La musica, nel senso in cui l’abbiamo considerata, può partecipare a questa conversione e diventare soglia (threshold english; seuil; umbral) per molti accessi. Consente infatti di affacciarsi all’esperienza della gioia e del dolore, della festa e del lutto. Consente di stare sulla soglia della casa e della festa dell’Altro, imparando da questo spostamento a esprimere i propri sentimenti, a pronunciare le proprie lodi, a cambiare la propria vita. Consente, ancora, di stare sulla soglia delle interazioni culturali: certo evitando gli ostacoli delle maschere che possono nasconderci gli uni agli altri, ma aprendo vie inedite di incontro, proprio là magari dove i conflitti sono più aspri. Come si esprime infatti mettendo in relazione contesti e elementi diversi, così può aprire vie di incontro e benedizione, senza moralismi ma con profonda eticità.

Infine, come nel salmo 30, la soglia che fa sperimentare è anche quella radicale, in cui la vita si apre nel suo Oltre, quella del gemito dello Spirito (Rm 8) che attraversa le parole e fa sì che il canto di ognuno diventi il canto di tutti e di tutte le cose: Gracias a la vida.

Cristina SImonelli

1Grazie alla vita che mi ha dato tanto

Mi ha dato il riso e mi ha dato il pianto

Così io distinguo la felicità dal rimpianto

I due materiali che formano il mio canto

E la vostra canzone che è il mio stesso canto

E la canzone di tutti che è il mio proprio canto

Grazie alla vita che mi ha dato tanto

2Gianfrano Ravasi, Il libro dei salmi. Commento e attualizzazione, Vol I,, EDB, Bologna 1985, pg 28: la seconda parte della citazione è una mia sintesi del suo scritto.

3Atti di Giovanni, 94-96. Scritto apocrifo, che tuttavia conserva elementi innici e liturgici interessanti

4La festa costituisce comunque un momento particolarmente privilegiato anche in senso religioso: chiamando l’uomo ad uscire da se stesso e dal proprio quadro ordinario di esistenza, lo apre in maniera nuova all’esperienza del sacro, del divino, della fede. In questo senso, la festa fa parte delle ricchezze più preziose della nostra umanità” (AA. VV., Riscoperta della festa, Roma 1991, 27).

5http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/october/documents/papa-francesco_20151024_sinodo-conclusione-lavori.html

7Leonardo Piasere, I rom d’Europa. Una storia moderna, Laterza, Roma-Bari 2004, 3;15. «Ci sono almeno due modi di guardare e descrivere i rom e gli altri gruppi detti “zingari”. Il primo ruota attorno ai concetti di integrazione anomia, anche quando tali termini non sono apertamente pronunciati. […]. Il secondo considera il rapporto tra rom e non zingari come fortemente radicato nel continuum spazio-temporale della modernità europea e come suo momento strutturale profondo» (ibidem,VII).

8Piasere, I rom d’Europa, 89.Questo paragrafo riprende le osservazioni dell’intero capitolo Le concezioni del mondo, 89-105.

9Daniele Todesco, Le maschere dei pregiudizi: l’innocenza perduta dei pregiudizi positivi. Una categoria esemplare: gli zingari, Quaderno Migrantes, Roma 2004.

10Jan Assmann, Monoteismo e distinzione mosaica, Morcelliana, Brescia 2015, 20.

11Hans Küng, Teologia in cammino. Un’autobiografia spirituale, Mondadori, Milano 1987, 269ss

le teologhe italiane riflettono sulla risposta di papa Francesco alle domande delle suore

le suore domandano

papa Francesco risponde

top-NL

di Cristina Simonelli

presidente del CTI (Coordinamento Teologhe Italiane)

Cristina Simonelli

 

mentre le voci si fanno coro e si moltiplicano i commenti, dai più documentati fino alle esternazioni estemporanee, è cosa buona ricostruire la trama su cui il dibattito attorno al diaconato femminile si sta svolgendo, con alcune osservazioni

Le domande delle superiore generali erano molto più ampie e, come sottolinea Carmen Sammut, presidente UISG (= Unione Superiore Generali), riguardavano il ruolo delle donne, ma anche ad esempio la questione del denaro, cui il papa ha risposto nonostante fosse stata scritta ma espunta dalla lettura. Così come Francesco ha ancora invitato a distinguere il servizio dalla servitù imposta sotto pretesto di umiltà e femminile attitudine di cura. Tutto il dialogo immediatamente, nella attenzione pubblica, è stato sequestrato dalla apertura a aprire il dibattito su donne e diaconato: non è un caso ma fa capire che i tanti, troppi rifiuti a discutere la questione in questi 50 anni non sono per niente condivisi nella comunità ecclesiale – e non solo dalle donne, consacrate o meno, ma anche da molti uomini. Si può finalmente dire che è ora di aprire questo discorso, e si deve tuttavia anche ripetere che da molto tempo vi sono studi importanti sul tema: nonostante sia tarda, l’ora è comunque certo benvenuta.

Le domande delle suore utilizzavano di fatto espressioni di Francesco, chiedendogli in fondo quali conseguenze pratiche se ne potessero trarre. Dunque, domande e risposte condividono lo stesso quadro interpretativo, che come spesso già accaduto contiene sia novità e desiderio di riforma, che fantasmi sul femminismo e il genio femminile, ma non manca di allargarsi a chiedere «la costituzione di una commissione ufficiale per studiare la questione» del diaconato permanente per le donne, «come nella chiesa primitiva». Sugli argomenti che distinguono processi decisionali e ministeri ordinati, nonché sulla singolare lettura fisicista dell’in persona christi, siamo già intervenute quando è uscita Evangelii gaudium (http://www.teologhe.org/editoriale-luce-in-ogni-cosa-dicembre-2013/). Notiamo solo qui che come si è tentato di riconsiderare la prassi, la disciplina e la teologia delle famiglie, non si potrà ancora rimandare una dibattito altrettanto articolato sul ministero, tutto, che non può rimanere immobile mentre ogni cosa intorno si muove.

Due altre questioni sono particolarmente significative e degne di riflessione: il richiamo all’antichità cristiana e l’affermazione di Francesco che «per il codice [di diritto canonico] non c’è problema, è uno strumento». Per chi si colloca in un’ottica storica, entrambe le affermazioni sono evidenti, ma sembra che non per tutti sia così. Come molte colleghe (Noceti, Perroni, Prinzivalli, fra le altre) hanno sottolineato esistono già molti studi di rilievo – a livello storico insuperato anche a mio parere Moira Scimmi, Le antiche diaconesse nella storiografia del XX secolo. Problemi di metodo, Glossa, Milano 2004. Il problema negli studi “generali” è tuttavia duplice: da una parte molte letture apparentemente documentate hanno fin qui semplicemente espunto o comunque sottovalutato la documentazione sui riti di ordinazione delle diaconesse, sottoponendo le fonti a un tipo di analisi di fronte al quale sarebbe invalidata anche ogni forma ministeriale maschile dei primi secoli. In secondo luogo a livello ufficiale si fa spesso giocare la tradizione su due tavoli a seconda delle “necessità”, torcendo le fonti ora a supporto dell’intangibilità della traditio, ora a difesa della legittimità del suo sviluppo.

Solo alcune note, dunque, per segnalare tuttavia che come avviene da anni il Coordinamento delle teologhe italiane è un contesto in cui confluiscono e si sviluppano gli studi e le riflessioni di molte teologhe e alcuni teologi, anche sul ministero e anche specificamente sul diaconato. Alcune sono delle vere esperte sul tema in discussione (Noceti, Scimmi, Taddei Ferretti), altre hanno dato e danno importanti contributi sul versante esegetico (Perroni). Ogni elenco degli studi sarebbe comunque parziale, nonostante l’aggiornamento della bibliografia sul tema (http://www.teologhe.org/teologia-delle-donne/), così come la newsletter non potrà dare congruo spazio a tutto quello che sta uscendo sui media. Soprattutto però la scopo precipuo del CTI va molto al di là di redigere elenchi. Vuole piuttosto proporre un lavoro in rete in cui ogni personale contributo diventa parte di una fatica collettiva. Anche questo è un modo di uscire dal “clericalismo” e dal “personalismo”, che sono deriva e non destino di ogni forma ministeriale.

Cristina Simonelli riflette sulla ‘laudato sì’ di papa Francesco

papa Francesco ha da poco pubblicato la prima enciclica sull’ambiente: 180 pagine ricche di riflessioni teologiche e con numerosi atti d’accusa verso i potenti e le nazioni sviluppate

la teologa Cristina Simonelli così la commenta:

 

una chiesa povera e per i poveri

per i  lunedì del Meic di Lodi

CRISTINA SIMONELLI 
( in Aula  magna del Liceo Verri – Lodi – 17 marzo 2014)

UNA CHIESA “POVERA E PER I POVERI”

Idee, problemi, passi da compiere

sito: http://goo.gl/3ACD5c
01:05:56

 

Cristina Simonelli: “soglia come benedizione”

cristina 2

una bella riflessione di Cristina Simonelli come intervento conclusivo al convegno annuale di Brescia organizzato da Missione Oggi dal titolo: “siamo gli ultimi cristiani?”

Soglia come benedizione

RINTRACCIANDO FILI E CONSONANZE
Pensare queste osservazioni come una conclusione, sia pure come si usa dire aperta, è cosa audace: non solo perché concludere lo è sempre e porta con sé una qualche arroganza di portoni e di chiavi, ma anche per lo statuto ampio e poliedrico che ha caratterizzato questo evento. Con una ragione ulteriore: riflettere e dunque anche fare teologia ha dei luoghi, co- me suggeriva Paolo Boschini. Questo di Missione Oggi è un luogo, che ha sue complicità e simpateticità che, mi sembra, hanno permesso ai partecipanti di rintracciare fili e consonanze anche tra interventi tematicamente disparati. Il mio essere qui non è privo di simpatia, ma non ha probabilmente la stessa complicità e dunque forse coglie meno nessi: di questa parziale estraneità mi scuso, cercando comunque di trarne profitto. Una seconda osservazione previa la riterrei dalla riflessione del filosofo francese Jean-Luc Nancy, che parla di comunità operosa e inoperosa: sembrerebbe dover essere positiva la prima, ma nel suo lessico è in- vece il contrario, operosa è una comunità che fa affidamento sul- l’opera e in ultima analisi si rivela ottusa e incapace di cambia- mento, mentre inoperosa sarebbe una comunità aperta all’alterità, all’inaspettato, capace dunque di integrare il limite, perché può “far spazio”. Certo, in questa accezione, ci poniamo qui in un contesto inoperoso o “insaturo” (Wilfred Bion), dunque aperto a un inedito da portare a sintesi provvisoria, sì, ma rinunciando alla tentazione di “gestirlo completamente”.
SENZA NOSTALGIA
Raccogliendo dunque in questo orizzonte alcuni spunti te- matici, penso che una chiave di lettura di questo convegno sia una delle affermazioni di Andrés Torres Queiruga: “Il rischio peggiore, in questi casi, consiste sempre nel ri- conoscere la novità del problema, ma cercare di risolverlo senza rompere i vecchi schemi”. Sono schemi superati certamente le categorie di interpretazione della questione da lui illustrate. Ma, vorrei aggiungere, altrettanto fuori luogo e fuori tempo risulta un atteggiamento di malcelata nostalgia, un modo di affrontare la situazione che si annida in al- cune visitazioni del tema, anche benintenzionate. Da questo punto di vista, dunque, se la domanda che dà il titolo a questo convegno, sottintendesse “siamo gli ultimi cristiani della cristianità”, secondo un paradigma tridentino (un paese, una Chiesa, un parroco), si potrebbe rispondere tranquillamente: no, non siamo gli ultimi… semplicemente perché tutto questo non esiste più! Può piacere di più o di meno, ma non è questo il punto, se non esiste non esiste.
ACCETTANDO LA SFIDA DEL CAMBIAMENTO
Provo a fare due esempi, di diverso peso, forse un po’ impertinenti dal punto di vista della forma, ma spero pertinenti nella sostanza al tema che qui ci interessa. È stata svolta dall’Osservatorio socio-religioso del Triveneto una ricerca sulla religiosità: realizzazione di notevole importanza, data appunto la necessità di accostare all’esame dei modelli teorici la con- siderazione delle forme pratiche, di condurre l’analisi, “non quindi direttamente il piano delle rappresentazioni mentali di oggetti cui si aderirebbe, che si ‘crederebbero’ veri o si ‘saprebbero’ corretti, ma sul piano che Michel de Certeau chiamerebbe delle ‘arti del fare’” (Pierre Gisel). Un’impresa dunque notevole, nell’ideazione e nella realizzazione. Non posso tuttavia respingere del tutto l’impressione che certe modalità di parlarne e di diffondere i dati sottintendano l’idea “ci scappano” o “ci sono scappati” – tra l’altro significativamente legata alla disaffezione mostrata dalle donne, di ogni fascia di età, e dai giovani in generale. Affrontare le questioni in questo modo non può portare altro che ulteriore frustrazione. Il secondo esempio è istituzionalmente più impegnativo. Mi riferisco infatti all’idea sottesa alla Nuova Evangelizzazione: se si pensa di declinarla come recupero di spazi senza accettare che la figura della presenza cristiana in occidente è cambiata, è un’impresa finita in partenza.
VERSO UNA DIVERSA FORMA DI VITA CRISTIANA
Altro può essere invece quel movimento di conversione a una promessa di cui pure qui si parlava: vivere una diversa forma di vita cristiana, che non si pensi più “l’intero”, ma presenza in grado di esporsi comunicando ciò per cui vive e perciò an- che di ricevere: “in definitiva, tornare all’esperienza radicale della grazia: ‘Date gratuitamente quello che gratuitamente avete ricevuto’ (Mt 10,8), che di per sé implica la reciproca ‘accogliete gratuitamente quello che gratuitamente vi è offerto’” (Torres Queiruga). In questo non c’è ansia di perdita, ma serenità di consegna e attestazione: “non sta a voi conoscere tempi e momenti, ma riceverete la forza dello Spirito mi sa- rete testimoni a Gerusalemme, in Giudea, in Samaria e fino agli estremi confini della terra” (At 1,7s). Aggiungerei a questo proposito che l’idea di inreligionazione proposta da Queiruga è molto interessante: si può forse integrare sottolineando che il confronto può e deve porsi anche sul piano di ogni vita umana, semplicemente – per evitare che si possa pensare comunque un’alleanza di religioni che, in contesto di “ritorno del sacro”, possano escludere anche un solo uomo o una sola donna perché non aderisce a nessuna di esse.
IN CUI L’EUROPA NON PARLA PER TUTTI
Si impone a questo punto, mi sembra, un’altra osservazione attorno a un’affermazione di Mendoza-Álvarez: ogni teologia è contestuale. Anche in questo caso tuttavia l’adesione teorica può permettere che ne resti in secondo piano la logica conseguenza: e plurale. Ha dunque il diritto, se si può dir così, di riflettere spinta dal peso del vecchio continente, ma ha contemporaneamente il dovere di sapere che non par- la per tutti. Certo i fenomeni di globalizzazione economica e politica producono interconnessioni di portata inedita: tuttavia i punti di vista sono molto diversi e qui lo hanno mostrato “in atto e in pratica” gli interventi proposti dall’Asia e dall’America latina. In ogni caso mi sembra corretto aggiungere che l’Europa non è solo un sogno di collaborazione fra popoli, ma è anche una potenza economica e militare. La questione dell’acquisto italiano degli F35 lo mostra, insieme a molto altro, non ultimi, dal punto di vista delle sottoculture identitarie che manifestano, gli insulti reiterati al ministro Cécile Kyenge.
E LE PERIFERIE SONO VALORIZZATE PER LA RIFORMA DELLA CHIESA
In questo quadro europeo mi proponevo dunque di riprendere la prospettiva della pluralità dei luoghi – le eterotopie di Michel Foucault – unendola a quella delle comunità di pratica proposta da Etienne Wenger: spesso sono coloro che stanno alla periferia di un gruppo a introdurre elementi esterni, perché i leaders sono troppo vincolati agli elementi più statici dell’identità. Mi chiedo ora, alla luce del contributo latinoamericano soprattutto, se applicare questa prospettiva ai luoghi minoritari – penso alle comunità Rom cui ho avuto grazia di accompagnarmi per larga parte della mia vita – o considerati tali anche a livello ecclesiale, come la produzione teologica in prospettiva di genere, possa essere comunque appropriato. La disinvoltura con cui Mendoza-Álvarez proponeva una prospettiva di genere è tuttora molto rara in Italia e comunque minoritaria in Europa: proprio per questo, comunque, non deve passare inosservata l’attenzione con cui Torres Queiruga ha sempre declinato dio al maschile e al femminile. Ritengo infatti che non sia sempre necessariotrattare estesamente la questione, ma sia sufficiente almeno interrompere l’omogeneità imperante. In ogni caso, comunque vada interpretato, per dir così, il rapporto fra centri e periferie anche nelle Chiese resta il fatto che vi sono degli appuntamenti, mancare o centrare i quali è tutt’altro che indifferente. Mi riferisco alla necessità di una riforma delle istituzioni: mi colpiva riavere tra le mani un vecchio – ma pur- troppo attuale – intervento di Karl Rahner che nel 1972 (Trasformazione strutturale della Chiesa come compito e come chance) affermava che la riforma della Chiesa non può con- tentarsi di pie affermazioni, ma necessita di cambi strutturali. Ora, di fronte all’emozione suscitata dal linguaggio e dalle posizioni pratiche e simboliche di papa Francesco, vescovo di Roma, speriamo veramente che la frase che ho appena scritto risulti presto superata e che le auspicate urgenti riforme vengano per lo meno prese in considerazione.
ABITARE LE SOGLIE DEL NUOVO
Concludendo, certamente ci troviamo su di una soglia, ma, speriamo, non volti nostalgicamente indietro, bensì protesi verso una meta che pur inedita non è ignota e pur chiedendo dedizione è accogliente e promettente. La promessa tuttavia non è quella di conquistare il mondo, ma di essere “benedizione”, come nello stupendo oracolo di Isaia 19,23-25. A tale promessa ben si accompagna l’immagi- ne della trebbiatrice riparata co- me cura per il futuro, di cui ha parlato Antonella Fucecchi. Ave- re sogno e visione (cfr. Gl 3,1 in At 2,17) è dunque accoglienza di un dono, ma è anche sfida intellettuale ed educativa: le qualità indispensabili per abitare queste soglie non si possono trasmettere come un pacco, ma si possono cura- re, come un germoglio.
CRISTINA SIMONELLI
laica, nel 1997 si è diplomata in teologia e scienze patristiche con la tesi: La fede nella resurrezione di Cristo nel “De Trinitate” di Agostino presso l’Augustinianum di Roma, dove sullo stesso tema nel 1999 ha poi difeso la tesi dottorale. È docente di teologia patristica a Verona e presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (Milano); è socia fondatrice nonché presidente del Coordinamento delle Teologhe Italiane (CTI)

la pace necessaria per le teologhe italiane

 

pace necessaria

La pace è necessaria

cristina simonelli

«La debolezza, la paura e la disperazione sono morti. Sono nati forza, potenza e coraggio. Io sono la stessa Malala. Le mie ambizioni sono le stesse. Le mie speranze sono le stesse. I miei sogni sono gli stessi […] Signor Segretario Generale la pace è necessaria..».

Le parole di Malala Yousafzai all’ONU lo scorso luglio, hanno fatto il giro del mondo, insieme alla sua figura avvolta nello scialle rosa appartenuto a Benazir Bhutto: ricorrere a lei per parlare di pace e diritti può sembrare una facile scorciatoia. E’ tuttavia il modo con cui vogliamo impegnarci a guardare fuori dalla finestra, fuori dai nostri cortili e dalle nostre comodità, per collocare i temi che ci sono abituali in più ampio orizzonte. Di fronte al dramma delle guerre – come di fronte agli sbarchi di questa estate, col loro carico di speranza e di sofferenza – recuperiamo priorità e proporzioni.

Con questo senso del limite ma anche con la determinazione e la speranza che possiamo apprendere da quanti sono portatori di una visione, riapriamo ufficialmente i nostri cantieri: che hanno vissuto e tuttora stanno vivendo congressi e convegni – italiani ed europei / ecclesiali e laici – e vedono profilarsi la ripresa dei più ordinari percorsi. Vorremmo riprenderli ora con la disponibilità a pazienti lavori di scavo: archeologico, si potrebbe anche dire, nella misura in cui gli studi “di settore” per quello che riguarda antropologia inclusiva e teologie delle donne vs teologia della donna, come pure per quanto attiene a duplici principi mariano/petrini contano ormai molti decenni di vita, sia pure con scarsi esiti di ascolto (lo faceva sinteticamente notare Gebara poche settimane or sono invitando a una ricerca su.. Google!); ma anche di scavo sistematico, necessario quanto meno per evitare sovrapposizioni di piani – spirituali e istituzionali – che si fanno di fatto più frequenti quando si parla di donne. Ma, appunto, con senso della proporzione e del limite, non lo riteniamo l’unico argomento possibile. E contiamo di portarlo avanti con tranquilla laboriosità, contando anche sull’onesta ricchezza di amiche e amici, compagni di un percorso storico e di un’avventura teologica di questo oggi, problematico ma non privo di speranza.

Cristina Simonelli al Convegno di Assisi

 

 

 

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L’intervento di Cristina Simonelli al Convegno di Assisi:
“COMUNITA’ – TRAUMA E SOGNO NEL MONDO PLURALE”

Non ha disatteso o frustrato le attese, ancorché tante, Cristina, nel suo intervento al Convegno.

Le è stato affidato il compito, per così dire, della sentinella che, quasi al termine della notte, è sollecitata a rispondere alla domanda: “che cosa vedi?”, per sostenere, così, una rinnovata speranza al termine (?) di un lungo percorso di individualismi, ‘desertificazione delle comunità’ (E. Bianchi), ’affanno della comunità’, … nel rinascere di una ‘voglia di comunità’.
Il Convegno sentiva il bisogno di gettare un’occhiata al di là della notte, dopo riflessioni anche impegnate su temi come questo: “se l’individualismo giunge al capolinea”. E poi?
Fin da subito e con chiarezza Cristina ha affermato che non è affatto ingenuità parlare di ‘germogli’ di novità (il titolo preciso della sua riflessione era infatti: “germogli di futuro e responsabilità”), anche se non immediatamente visibili, perché seminati e cresciuti in ‘luoghi liminari’, di ‘non massa’, fuori dal ‘grande gruppo’, fuori dalle ‘forme oceaniche’, ma pur già presenti e attendono di esprimersi in forme più chiare in tempi che non necessariamente sono i nostri, in un ‘altrove’ non immediatamente individuabile e fruibile.
Cristina tiene a precisare che riflette con speranza su questo, a partire non da elucubrazioni teorico-astratte o leggendo come in una palla di vetro indisponibile ma, per così dire, a partire ‘dai suoi piedi’, dalle sue esperienze vitali, dai ‘luoghi teologici plurali’ (la ‘grazia’ di aver potuto partecipare di un’esperienza di vita tra i rom nel contesto pastorale dell’u.n.p.r.e s., e la ‘grazia’ dello studio teologico di liberazione della donna) che sono stati in grado di esprimere piccoli germi, virgulti, germogli di ‘novità evangelica’, fuori dall’ossessione del risultato immediato.
Punto centrale della sua riflessione è stato il domandarsi “cosa vuol dire oggi, tra individualismo e massificazione, tra globalizzazione e localismi, pensare la ‘comunità come grazia non scontata’ (il riferimento è a Bohnoeffer e al suo ‘la vita comune’ del 1939). Quali ‘luoghi’ individuare per avere cura, cioè ‘responsabilità’ rispetto a tali germogli nell’impegno e nel rispetto?”
Così, sinteticamente, Cristina individua alcuni di questi ‘luoghi’:
• ‘abitare il tempo ‘ : cfr. il proverbio afghano che dà il titolo al fortunato libro di Rampini: “voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo”
• ‘stimare le differenze ‘ purificandole dalle discriminazioni: questione di genere improcrastinabile; il rispetto delle minoranze …
• ‘la giustizia sia di questo mondo’: la finanza, i migranti …
“Come suggerisce il testo profetico inserito nel discorso di Pentecoste – “effonderò il mio Spirito su ogni carne e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani sogneranno sogni, i vostri giovani avranno visioni”- perché i giovani abbiano visioni ci sono quanto meno alcune condizioni: che i vecchi non smettano di sognare, che continuino ad aggiustare gli aratri anche quando non li utilizzano (Antonella Fucecchi in ‘Missione oggi’), che imparino o conservino lo sguardo che scruta i germogli. Infine che facciano spazio senza risentimento: dando piuttosto fiducia, come porto sicuro in cui si può tornare ma da cui si deve partire”

(una noticina a margine: presentazione brillante, esposizione vivace, migliaia di intelligenti e dotte allusioni e riferimenti: talora un vero fuoco d’artificio, il tutto sfociato in una convinta e generale approvazione con un grosso e meritato battito di mani)

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