un bel libro su don Milani

Barbiana

Un «miracolo» laicodon-milani

di Silvano Nistri
in “Avvenire” del 23 novembre 2016

esce, per le edizioni San Paolo, un libro di Michele Gesualdi: Don Lorenzo Milani, l’esilio di Barbiana (pp. 256, euro 16), con prefazione di Andrea Riccardi e postfazione di don Luigi Ciotti (con  stralci qui sotto, in questa stessa pagina). Sarà presentato a Firenze, nel Palazzo della Regione, il 26 novembre alle 11, presente l’arcivescovo Giuseppe Betori

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Il giovane don Milani arrivò a Calenzano come coadiutore del vecchio proposto ma il suo impegno pastorale a tutto campo rivelava già la sua paternità e dedizione. C’è subito la scuola popolare che coinvolge i giovani, una scuola aperta dove sono invitate a parlare persone professionalmente preparate di varia estrazione, ma c’è anche l’attenzione agli orfani della Madonnina del Grappa, il recupero di una cappella in disuso, l’attenzione a famiglie in situazione di disagio; c’è il bambino che muore di tetano vegliato nella sua agonia, c’è il catechismo con il Vangelo secondo un criterio storico e adoperando il linguaggio dei ragazzi, che lo impegna tanto… E c’è anche un’attenzione a quello che avviene nel mondo. Il suo è un discorso rigoroso, affine a quello di don Mazzolari con cui è in rapporto. Lo fa con la scuola popolare, lo fa negli incontri con i preti del vicariato, lo fa in qualche occasione parlando in chiesa. A Calenzano don Lorenzo andava alla ricerca di persone preparate per parlare ai giovani della Scuola popolare, a Barbiana avviene il contrario; a questa «parrocchia di niente» sono le personalità politiche, religiose, socialmente impegnate e colte a cercarlo. Si arrampicano fin lassù per respirare quell’esperienza.don-milani2

Ci arrivano Capitini, Ingrao, Ernesto Rossi, e, seppure per interposta persona, ci arriva Fromm. Si affrontano temi fondamentali come l’obiezione di coscienza, la pace, la formazione civile e religiosa, l’ingiustizia sociale, il primato della coscienza sulla legge, lo sfruttamento nord-sud del mondo, il razzismo… Il suo direttore spirituale don Bensi indicava come segno dell’autenticità profetica di don Milani la sproporzione tra Barbiana e la sua incidenza nel mondo. E’ vero. C’è un mistero di grazia ed è impossibile non riconoscerlo.

 

prete senza etichette, dalla parte dei poveri

di Andrea Riccardiriccardi

in “Avvenire” del 23 novembre 2016

Su don Lorenzo Milani è stato scritto molto. La sua figura ha scosso in profondità tante coscienze a partire dagli anni Sessanta. Ha fatto quindi discutere e scrivere. La sua scuola è stata un modello per numerose scuole, anche se non si può dire che ci siano state repliche dell’esperienza di Barbiana. Resta però la grande domanda su chi sia stato davvero don Milani. Barbiana, quando don Milani vi fu inviato, era niente: un posto di montagna sperduto e spopolato. Oggi è ancora meno. Tuttavia oggi Barbiana resta un fatto della nostra storia, nonostante la sua piccolezza, ma anche un simbolo. Un simbolo su cui converrebbe interrogarsi di più. La dimostrazione di quanto, in condizioni impossibili, possono fare un uomo o una donna che amano e lavorano per gli altri. Torna alla mente quanto il Priore scrisse alla madre: «La grandezza di una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui si è svolta, ma da tutt’altre cose. E neanche le possibilità di fare del bene si misurano dal numero dei parrocchiani». Per tanti anni, la figura del Priore di Barbiana, con la sua scuola, si è imposta all’attenzione di molti. È apparso soprattutto un maestro o un protagonista di battaglie civili. E lo è stato effettivamente. Lettera a una professoressa è un testo su cui si sono misurati quanti si occupavano di scuola ed educazione, ma anche molti che si sono impegnati nella società civile e nelle periferie. Quel testo ne ha fatto una figura nota come educatore, ma anche attore di una pedagogia rivoluzionaria e di un’azione sociale di promozione degli ultimi. Un grande attivista sociale, che in vita è stato qualificato anche come un eversivo o un comunista. A questo avrebbero contribuito pure le sue posizioni sull’obiezione di coscienza, la guerra, l’antifranchismo e l’antifascismo. Ed anche la sua assenza di “prudenza” ecclesiastica che, allora, contraddistingueva anche non pochi preti illuminati di Firenze. Eppure non c’è solo il don Milani di Lettera a una professoressa. O meglio questo libro è il punto d’arrivo di una storia. A tante rappresentazioni della figura del Priore sfugge il cuore della sua personalità. È anche motivo della sua angoscia personale negli ultimi tempi di vita, quando domandò alla Chiesa di ereditare la sua opera. Chiese che la sua persona fosse riconosciuta con un qualche gesto dalla comunità ecclesiale. Non fu la ricerca di un viatico rassicurante o ancor meno fu carrierismo, ma rappresentò l’espressione di un sentire profondo. Non era un impegno privato il suo: «Temeva che quel clima – ha dichiarato un prete che lo conosceva – avrebbe vanificato la sua scelta di servire la Chiesa attraverso i poveri, col rischio che, agli occhi della gente di Barbiana, il suo apostolato apparisse un fatto privato». Milani è fondamentalmente un prete e un cristiano che sceglie per i poveri e per il Vangelo. Sia la sua opera che la sua personalità sono impregnate da questa sua scelta evangelica. È però significativo come il prete Milani, così prete, parli oltre i confini confessionali, rappresenti un’attrazione per i laici e un oggetto d’interesse per la stampa laica. Vuol dire che dal profondo di un’esperienza evangelica vera con i poveri c’è qualcosa che interpella il mondo laico e quello di sinistra nell’Italia degli anni Cinquanta-Sessanta e forse oltre quel periodo. Si vede come un dialogo non ideologico – anche in un tempo di muri ideologici qual era quello di don Milani – possa sempre partire dai poveri. Non è un prete di sinistra. Non è un prete a suo agio con l’intelligenza progressista. Don Lorenzo non è un cattolico contestatore come quelli degli anni postconciliari. Non è certo un clericale. Don Lorenzo non si poteva incasellare o ancor peggio utilizzare. Scandalizzava i conservatori e i tradizionalisti in un mondo in cui erano ancora forti. Scavalcava i progressisti in un tempo in cui avevano un’identità. Don Milani non si può classificare con le categorie con cui si leggono i cattolici degli anni Sessanta. Molti lo hanno fatto ed è normale. Ma non lo hanno capito.

 

La sua alta lezione: formare le coscienze

di Luigi CiottiCiotti

in “Avvenire” del 23 novembre 2016

Suona perfino scontato – a mezzo secolo dalla morte – parlare di attualità di don Milani. In questi cinquant’anni le ingiustizie e le povertà non sono certo diminuite, e la Barbiana di allora, così come apparve a don Lorenzo il 7 dicembre 1954, si riflette nelle tante Barbiane del nostro tempo: quelle dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, quelle delle zone di guerra e del Mediterraneo, dove il mare inghiotte o depone sulle spiagge i corpi delle vittime della fame, della schiavitù e dell’ingiustizia globale. Come nelle Barbiane di chi all’altra riva è approdato, senza però trovare lavoro e dignità: quelle delle baraccopoli e dei quartieri ghetto, delle case sovraffollate e dei rifugi di fortuna, quelle di chi cade in mano alle mafie del caporalato, del narcotraffico, della prostituzione. Ma don Milani è nostro contemporaneo anche per quello che è forse il cuore, il nucleo pulsante della sua opera: la scuola. C’è, irrisolta, una grande questione educativa. Perché se è vero che nel nostro Paese – ma il discorso può essere esteso ad altre democrazie “avanzate” – la povertà assoluta e relativa opprime milioni di persone, è anche vero che ci troviamo di fronte a un diffuso analfabetismo di ritorno, e che l’Italia è tra i primi posti in Europa per dispersione scolastica. Don Milani ci ha insegnato che non si può combattere la povertà materiale senza una formazione delle coscienze, senza un’educazione alla ricerca. A Barbiana, dove pure il priore si comportava da maestro severo ed esigente, era sempre l’alunno che fa più fatica a dettare il ritmo di marcia e guidare di fatto il progetto comune. Resta un’intuizione preziosa, perché solo così la scuola diventa la base di una società prospera, la cui forza si misura dalla capacità di includere e valorizzare i più fragili, così come la tenuta di un ponte dipende dal concorso di tutti i piloni a sorreggerne il peso. «Se si perde loro – è scritto nella Lettera a una professoressa – la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati». Questo vuoto culturale si riflette infine nel decadimento del linguaggio, un decadimento che si manifesta anche come corruzione e prostituzione della parola. Nella “società della comunicazione”, le parole tendono sempre più a diventare strumenti di potere invece che segnavia della ricerca di verità. E don Milani, che nella parola umana come strumento di conoscenza e di dignità avvertiva lo stesso eco liberante della parola di Dio, non avrebbe certo taciuto di fronte allo scempio linguistico dei discorsi che etichettano, che diffamano, che manipolano la realtà e nascondono la verità. Ecco allora che opportunamente Michele Gesualdi mette in guardia dal rischio di una memoria deferente e d’occasione, o peggio di strumentalizzazioni o appropriazioni indebite della sua eredità intellettuale e spirituale. Don Milani non va celebrato ma vissuto, così come «Barbiana era molto più di una scuola, era un vivere in comune». Non può esistere un “don Milani in pillole”, citato a seconda di circostanze e convenienze, così come il famoso passo dell’obbedienza che non è più una virtù, non deve essere interpretato come un generico invito alla ribellione, ma come un’esortazione a seguire la voce della propria coscienza, che non è mai accomodante, che sempre ci chiama a quelle responsabilità che proprio il conformismo e l’obbedienza acritica permettono di eludere. Essere consapevoli significa essere responsabili, significa mettere la nostra libertà al servizio di chi libero non è. È di questa libertà che don Milani è stato maestro. A noi spetta il compito di esserne, almeno, testimoni credibili.




onore e auguri a don Ciotti

don Luigi Ciotti compie 70 anni

ritratto in chiaroscuro di un sacerdote pop (critiche comprese)

 

CIOTTI

A un certo punto pensarono che volessero farlo ministro

 

Era marzo 2013 e gli italiani stavano scoprendo le consultazioni in streaming con Pier Luigi Bersani e la delegazione dei 5 stelle. Altra vita, altri tempi. Ma Don Luigi Ciotti, che oggi compie 70 anni, ha camminato lungo tutti i corridoi e tutti i marciapiedi, attraversando tutte le campagne liberate dalla mafia e poi abbracciando prima papa Woitjla, poi papa Ratzinger e infine papa Francesco, un giorno ricevendo la medaglia dell’Accademia dei Lincei o l’onorificenza di Cavaliere e il giorno dopo stringendo la mano ai tossicodipendenti di Torino oppure mescolandosi come una persona qualsiasi al corteo funebre per i ragazzi bruciati vivi della Thyssenkrupp, le lacrime agli occhi.

Ecco perché, vedendolo uscire da palazzo Chigi quel giorno di marzo, il cronista dell’Ansa volle chiedere se davvero avrebbe fatto parte – lui, un prete – del nuovo governo Bersani. Non era una ipotesi peregrina: Don Ciotti è uno dei volti pop dell’impegno italiano. Pop nel senso letterale, popolare e conosciuto, per niente frivolo ma flessibile, come un tempo Margherita Hack e ancora oggi Andrea Camilleri, venerati e carismatici e indispensabili per lanciare gli appelli della società civile, tanto più che questo sacerdote di origini calabresi ma naturalizzato torinese ha fondato due pilastri del terzo settore italiano, il Gruppo Abele e Libera.

Insomma quel giorno, vestito come è sempre solito abbigliarsi e cioè in abiti che sembrano riciclati, il maglione sdrucito e i pantaloni da operaio, Don Ciotti rispose che no, non avrebbe fatto il ministro: “‘E’ da 42 anni che sono ministro della Chiesa, poi faccio altro e volentieri collaboro a percorsi comuni nella lotta alle mafie”.

“Faccio altro”. Don Ciotti fa tantissimo. Nell’immaginario collettivo è un prete di sinistra, ma non estremo come lo era don Andrea Gallo – non ne possiede l’ironia e non è un gaudente. Non sposa gli omosessuali, non si fa fotografare con le transessuali. Quando non partecipa alle marce antimafia in Sicilia e in Calabria a fianco dei Borsellino e dei famigliari di vittime della criminalità organizzata, quando non è invitato a parlare nelle scuole dove ai ragazzi augura di ricevere “la dolce pedata di Dio” – una delle ultime volte, nella Locride, in classe ha rivelato inaspettatamente un dettaglio mai divulgato prima, il fatto che la madre gli morì tra le braccia dopo aver scoperto che qualcuno voleva ucciderlo sul pianerottolo di casa – ecco, quando non è assorbito dagli impegni più vicini abbraccia volentieri le iniziative a favore della Costituzione con Gustavo Zagrebelski, Antonio Ingroia, Stefano Rodotà e Maurizio Landini, poiché la sua stella polare è la difesa della legalità, del lavoro dei giudici, e certamente è stato uno degli esponenti meno visibili dell’antiberlusconismo.

Con Libera, l’associazione antimafia fondata nel 1995 sull’onda dell’indignazione per l’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Don Ciotti è uscito dal perimetro torinese per allargare l’impegno sociale al resto d’Italia, specialmente il Sud. Geniale l’intuizione, poi diventata legge proprio per impulso di Libera, di destinare i beni confiscati alla mafia ai giovani e alle associazioni pronte a utilizzare quelle terre e quegli edifici in coltivazioni e luoghi buoni, onesti.

Ma è il Gruppo Abele, nato nel 1965, il fulcro dell’impegno di don Luigi: Abele che aiuta Caino, il tossico, la prostituta, “no ai cristiani da salotto”, una piccola associazione che per prima aprì in Italia uno sportello per aiutare le vittime della droga e poco a poco si è ramificata, è diventata casa editrice di libri e riviste, ha partorito le cooperative di Consorzio Abele Lavoro, si è annidata nel cuore della Torino che conta, il nome che Cesare Previti scelse per scontare la pena ai servizi sociali.

Pluripremiato, plurilaureato ad honorem, diviso tra terra e cielo come recita il titolo di uno dei suoi libri, a don Ciotti non poteva capitare niente di peggio che un libro-denuncia scritto da un giornalista rispettato come Luca Rastello, morto recentemente, torinese come il Gruppo Abele, ex collaboratore di don Ciotti che al Gruppo Abele sembra essersi ispirato per “I buoni” (Chiarelettere, 2014).

Ne “I buoni”, che poi sono i cattivi, un personaggio molto simile a Don Ciotti governa attraverso un cerchio magico intoccabile una associazione che si occupa di emarginati ma con estremo pressapochismo e senza preoccuparsi dei diritti degli operatori che ci lavorano, con finanziamenti non proprio chiari. Nella Torino che un giorno vorrebbe immaginarsi senza Fiat e senza don Ciotti come tratto caratteristico, si racconta che nel Gruppo Abele il libro di Rastello non sia stato gradito ma che, allo stesso tempo, molti abbiano riconosciuto le voragini e ai cronisti basta alzare il telefono per trovare numerosi ex operatori ed ex collaboratori pronti a giurare che Rastello ha scritto soltanto la verità.

Non è un caso che a dieci giorni dal temutissimo arrivo nelle librerie il fondatore di Libera abbia detto pubblicamente che sì, in effetti nell’associazione qualche criticità c’era. Ma in quella occasione a difendere l’onorabilità del sacerdote ormai torinese scesero in campo due pesi massimi – e ugualmente intoccabili – del Pantheon dei buoni italiani e cioè Gian Carlo Caselli e Nando Dalla Chiesa, amici da sempre di don Luigi, che dalle colonne del Fatto quotidiano scrissero che il libro di Rastello è volgare e pieno di risentimento privato.

Dopo quella querelle il povero Rastello è morto lanciando una sorta di maledizione ai finti buoni, che poi è una categoria universale e quasi intrinseca delle divinità italiane: di qua i guru della sinistra che attirano schiere di ammiratori e gente di grande fede destinata alla delusione perpetua o alla illusione psicotica (papa Francesco sembra fare eccezione, tra gli altri), di là i malvagi delle multinazionali e del pensiero differente. In fondo il libro di Luca Rastello ha dimostrato che don Ciotti resiste alla santificazione che invece è propria di quasi tutti i rappresentanti della moralità e della bontà in Italia – molti dei nomi dei santificati sono stati disseminati in questo articolo – e di questo il fondatore del Gruppo Abele dovrebbe essere alla fine molto grato.




augurissimi, don Ciotti!

don Ciotti

settant’anni tra solidarietà e ribellione

“oltre alla deriva xenofoba, mi preoccupano il dilagare delle mafie e della corruzione. E soprattutto la mancanza di risposte concrete da parte dello Stato e della politica”

ritratto di un religioso sempre in prima linea

di Mario Lancisi

 

Don Ciotti, settant'anni tra solidarietà e ribellione

quella foto del piccolo Aylan Kurdi, trascinato morto dal mare sulle rive turche, don Luigi Ciotti ce l’ha sempre davanti agli occhi. Commozione, dolore, ma anche una grande rabbia, un’indignazione senza fine i sentimenti che lo agitano. “Basta, va posto fine al massacro degli innocenti. Sull’immigrazione tante parole, ma fatti zero. Quello dei profughi era un fenomeno prevedibile, ma l’Europa se ne è lavata le mani. La politica anche in Italia ha pensato ai voti, al consenso, non a risolvere il problema dell’immigrazione”.

Don Ciotti, fondatore del gruppo Abele e di Libera, l’associazione contro le mafie, compirà settanta anni il prossimo 10 settembre. Momento di bilanci, di sguardi sul futuro. Sguardi preoccupati: “Oltre alla deriva xenofoba, mi preoccupano il dilagare delle mafie e della corruzione. E soprattutto la mancanza di risposte concrete da parte dello Stato e della politica. Ripeto, parole tante, ma fatti pochi, davvero pochi”. Non fa nomi, non attacca Renzi o Salvini: è tutta la politica a deluderlo.

Ma don Ciotti ha anche sguardi aperti alla speranza: “La vedo annidarsi nel cuore dei giovani. Ribelli ma creativi. Confido in loro, nella loro ribellione non violenta ma capace di aprire nuove strade”. Ecco, strada, strade. La password che aiuta a capire la vita di questo prete di settant’anni sempre in prima fila tra impegno religioso e civile.

Quando nel 1972 fu ordinato sacerdote, l’allora vescovo di Torino, il cardinale Michele Pellegrino gli disse: “Luigi, la parrocchia che ti affido è la strada”. E di strada don Ciotti ne ha percorsa molta, prima e dopo la tonaca.

Nato a Pieve di Cadore nel 1945, il 10 settembre, appunto, la famiglia di Luigi si trasferisce a Torino in cerca di fortuna quando ha appena cinque anni. Lì, nella città sabauda, il babbo fa il muratore nei cantieri per la costruzione del Politecnico e la famiglia vive in una baracca. Poverissimi. A tal punto che il piccolo Luigi va a scuola senza grembiule. Un giorno la maestra lo riprende in malo modo: “Ma cosa vuoi tu, montanaro?”. Luigi, allora in prima elementare, non ci vede dalla rabbia: tira fuori un calamaio dal banco e lo scaraventa contro la maestra. Ha solo sei anni, ma già quel carattere ribelle contro le ingiustizie che si porterà dietro per tutta la vita. Non a caso, a metà mese, uscirà anche in Italia, edito da Piemme, il suo nuovo libro “Non tacerò”, curato da Nello Scavo e Daniele Zappalà.

La svolta della vita don Luigi ce l’ha a 17 anni, quando andando a scuola, per conseguire il diploma in telefonia, rimane un giorno colpito da un barbone. Scoprirà poi che era un medico caduto in depressione e povertà. Il giovane Luigi si ferma, una mattina. «Posso offrirle un caffè?». Il barbone non risponde. Un thè? Silenzio. Per 12 giorni va avanti un dialogo ad una sola voce. Il barbone-medico tace e guarda fisso un bar davanti alla scuola. Lì andavano i ragazzi a farsi una “bomba”: alcool e pasticche. Anche Luigi decide di andare in quel bar. E capisce la vocazione della sua vita: farsi prete e dedicarsi ai drogati.

Nel 1955 nasce il gruppo Abele e quarant’anni dopo, Libera. Dalla droga all’impegno contro la mafia: “L’idea di libera è nata nell’estate del 1992, l’estate in cui furono uccisi Paolo Falcone e Paolo Borsellino. La molla è stato il desiderio di fare qualcosa di più, di non cedere allo sgomento, alla rabbia e alla rassegnazione”, racconta don Ciotti nel libro di Libera, uscito per il ventennale (“Cento passi verso un’altra Italia”, edito da Piemme).

Un’altra Italia, ma anche un’altra Chiesa. Prete di strada ma amico anche di personaggi dell’alta società, a cominciare da Giovanni Agnelli (al quale dava del tu) e del figlio Edoardo, di cui ha celebrato i funerali, nel 2000, don Ciotti è stato spesso criticato dalle gerarchie ecclesiastiche per le sue posizioni sociali e politiche non linea con l’ortodossia vaticana. Un rapporto quasi da separato in casa, nella sua Chiesa. Che solo papa Francesco ha ricucito quando nel marzo del 2014, appena eletto al soglio di Pietro, partecipa alla giornata della memoria di Libera e abbraccia don Ciotti. Che commenta : “Ora ci sentiamo meno soli”.

Qualche mese dopo, la condanna a morte di Totò Riina che dal carcere lancia la minaccia: “Uccidiamo don Ciotti, come già don Puglisi”. Da allora la scorta del prete è stata rafforzata: “Paura? Non parlerei di paura, e non perché sia incosciente o temerario, ma perché non do peso alla mia vicenda personale. L’io è soltanto un mezzo, non un fine. Il fine è la giustizia sociale. Le minacce più grandi non solo quelle dei boss, ma i ritardi, le inerzie, i compromessi nel realizzarla”, conclude don Ciotti nell’introduzione al libro di Libera.




togliere il reato di clandestinità

 

«Contro il naufragio delle coscienze è ora di cambiare la Bossi-Fini»

reato di clandestinità

 «I morti di Lampedusa sono figli del naufragio delle coscienze», tuona don Luigi Ciotti. Il salone della Fabbrica delle «E», in corso Trapani, è gremito, seicento persone almeno, ma l’ eco delle parole del fondatore del Gruppo Abele rimbomba per alcuni minuti. «Perché un prete fa questo?», si chiede retoricamente. «Questo» sta per la manifestazione di sabato a Roma «Costituzione, la via maestra», l’ inizio di un percorso più che un evento. «Perché – spiega Ciotti – come cittadino italiano non credo alla cittadinanza a intermittenza. Ci si accorge sempre troppo tardi dei drammi. Solo dopo che corpi esanimi vengono deposti su una spiaggia. La memoria è corta in questo Paese ed è in atto un furto di parole. Tutti parlano di giustizia, legalità e dignità poi ne snaturano il senso. Non basta commuoversi, bisogna muoversi». Scandisce le parole don Luigi. È un lunedì sera in una Torino piovosa e autunnale. Lo spettro di Lampedusa, nonostante le centinaia di chilometri di distanza, non è lontano. Si aggira per la sala. E torna in altri interventi. Come in quello del costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, altro peso massimo seduto al tavolo dell’ assemblea in vista della manifestazione, promossa dai due torinesi insieme a Stefano Rodotà, Lorenza Carlassare e Maurizio Landini. «Nel Paese delle ipocrisie si invoca sempre una nuova legge. Tutti ripetono in coro “fa schifo” riferendosi a quella attuale. Dalla legge elettorale in giù. Si parlava, per esempio, di una legge sulla corruzione, ne avete vista una nuova? E quella sui partiti? Ora, dopo Lampedusa, si parla di migranti. Secondo voi faranno qualcosa? Quanti morti bisognerà ancora aspettare, non ne bastava uno? Ma alla fine non la cambieranno, perché al governo c’ è qualcuno che l’ ha voluta». Il riferimento è alla Bossi-Fini che don Ciotti chiede a gran voce di scaraventare «fuori dai piedi». A moderare Ciotti e Zagrebelsky, oltre agli interventi di associazioni e personalità torinesi del mondo della sinistra, è toccato non a caso a Federico Bellono, segretario torinese di quella Fiom che è una delle impalcature del 12 ottobre: «Per noi – ha precisato Bellono – è un fatto naturale essere tra i promotori. La Costituzione in questi anni è stata il nostro alleato migliore, vedi la vertenza Fiat a Mirafiori». Per don Ciotti «è il momento di fare scelte, imparare il coraggio. La nostra Costituzione rischia di essere snaturata, noi invece dobbiamo chiedere che venga applicata. Non basta indignarsi, dobbiamo prenderci cura di lei, rendendo degno il lavoro e la democrazia». Poi, cita don Tonino Bello: «Ricordiamoci che delle nostre parole dobbiamo rendere conto agli uomini. Ma dei nostri silenzi dobbiamo rendere conto a Dio». Zagrebelsky conclude la serata, con parole forti: «Sta accadendo qualcosa di poco chiaro in Italia, noi andiamo a Roma dicendo che abbiamo capito. Quando sul rapporto Jp Morgan si è letto che la nostra è una Costituzione infida, non si è levata nessuna voce, né dal governo né più in alto. È grave. Il nostro è un Paese ipocrita. Tutti o quasi rendono omaggio alla prima parte della Costituzione, ma spesso quando lo fanno è perché non la si attui e perché la si cambi. Brunetta voleva addirittura modificarne il primo articolo, scrivendo solo “l’ Italia si fonda sulla libertà”, ma senza lavoro la libertà è solo di chi se la può permettere». Altra ipocrisia: «È far credere che possa esistere un risanamento economico senza equità, si parla di Stato come di un’ azienda. E, a differenza di un tempo, il valore prodotto dalle aziende viene investito nella finanza senza creare lavoro. Un furto ai cittadini. La trita formula “ce lo chiedono i mercati” sta facendo morire la politica, perché è la finanza che ci governa. E noi viviamo un congelamento politico, come nelle larghe intese dove nulla si muove. Con tutto rispetto, la conferma di Napolitano alla presidenza della Repubblica è emblematica del blocco. Noi vogliamo recuperare la politica, perché è un diritto dei cittadini, contro il piduismo strisciante che invade l’ Italia. E ai miei amici che hanno contribuito al lavoro preparatorio sulle riforme dico: non siete piduisti come altri, ma rischiate di contribuire a quella cultura».

Articolo di Mauro Ravarino pubblicato su Il Manifesto | 09/10/2013

 




don Ciotti e le interferenze clericali nella politica

 

 Don Luigi Ciotti  "Papa Francesco chiude un equivoco:  addio alle interferenze tra Vaticano e politica"
Don Luigi Ciotti “Papa Francesco chiude un equivoco: addio alle interferenze tra Vaticano e politica”  

don Ciotti commenta le parole del Pontefice nel dialogo con il fondatore di Repubblica

di PAOLO RODARI

  Don Luigi Ciotti, il Papa nell’incontro con Eugenio Scalfari dice che “la corte è la lebbra del papato”. Sembrano parole contro il Vaticano. È così? “È strano, ma la durezza delle parole del Papa, ha un che di leggero e di salutare. E non credo che queste parole vadano ascoltate come rivolte solo al Vaticano. La denuncia, secondo me, è secca e riguarda chi ama stare vicino al potente di turno senza accorgersi che quel ruolo è una responsabilità di servizio. È a queste persone che si riferisce il Papa quando parla di corte. E mi creda, non ci sono solo in Vaticano. È il cuore umano che è tentato dal potere. E molti mediocri, considerato che non riescono a raggiungere il potere, si accontentano di diventare servi e corte del potente di turno (fino a quando questi ha responsabilità). Ha ragione papa Francesco: diventare servi del potere per acchiappare un po’ di potere (anche se di sponda), vuol dire servire il potere e smarrire la logica e la pratica del servizio. Questa è lebbra. Per tutti. Anche per il Vaticano, se questa si annida nel Vaticano”.
Il Papa dice che la Chiesa non deve fare politica. Negli anni passati non è stato così, soprattutto in Italia. È una sconfessione degli ultimi decenni? “In parte sì. Ma credo di capire che il Papa non chieda alla Chiesa di non fare politica nel senso alto del termine. Devono finire, secondo Francesco e così mi sembra di capire, contatti troppo stretti tra politici e gerarchia cattolica. Una sana indipendenza tra politica e chiesa, rende entrambi più veri e più liberi. Per molto tempo la gerarchia ha intercettato non solo il voto dei cattolici, ma ha anche condizionato le politiche concrete di alcuni Paesi. Non credo che il Papa voglia spingere la Chiesa in cielo e la politica sulla terra. Semplicemente chiede che chi si occupa di terra si assuma le sue responsabilità senza farsi scudo del cielo. Senza chiedere voti e consensocon l’alibi del cielo”.
Qual è a suo avviso il segreto di questo Papa. Perché riesce a conquistare tanta gente lontana dalla fede? “Perché è vero. Perché non dice quello che pensa, ma perché prima pensa e poi dice. Perché non ha niente di finto addosso. Nemmeno la sua umiltà è finta, accompagnata alla consapevolezza del ruolo e dei doveri che deve ricoprire. Francesco piace perché guarda negli occhi sempre quando parla: anche se davanti a sé ha milioni che lo ascoltano”.
Francesco dice a Scalfari che la disoccupazione dei giovani e la solitudine dei vecchi sono “il” problema della Chiesa. Ci voleva un Papa sudamericano per sentire parole così? “Forse. Noi siamo un continente

vecchio. Siamo tentati dal contrapporre gli adulti ai giovani e di sacrificare questi ultimi per difendere i diritti e i privilegi di chi è avanti negli anni. Nel Sud del mondo non è così. Le nostre piazze sono piene di capelli bianchi. Nell’America Latina piazze e strade sono dei bambini. Papa Francesco è nel solco dei suoi predecessori: l’unico modo per non contrapporre diritti e generazioni, è partire dai giovani non dimenticando le persone anziane”.




sulla beatificazione di don Puglisi: una riflessione di don Ciotti

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