si aprono le porte, devono cadere i muri

la caduta di un muro

a proposito dell’apertura della ‘porta santa’ all’inizio del giubileo

di Enzo Bianchi
in “la Repubblica”

Bianchi

il gesto di apertura della porta chiusa è stato compiuto da papa Francesco innanzitutto in Africa, tra i poveri della terra, e ieri anche a Roma, nella basilica di San Pietro. In Vaticano, dove egli esercita il suo ministero di servo della comunione nella chiesa e tra le chiese e di annunciatore della buona notizia a tutta l’umanità. In un’epoca in cui si sono ricostruiti muri e si sono di nuovo innalzate barriere di filo spinato, in cui molti vorrebbero chiudere le frontiere, e alcuni le chiudono, infondendo nella gente ansia e paura, papa Francesco fa il gesto così semplice, quotidiano, umano di aprire una porta chiusa

Purtroppo temo che molti di quelli che passeranno per le porte sante aperte nelle chiese non arriveranno neppure a pensare che potrebbero aprire o tenere aperta la porta della propria casa: aperta per chi giunge inaspettato, straniero o povero, conosciuto o sconosciuto, aperta per un atto di fede-fiducia fatto nei confronti degli altri umani, tutti legati dalla fraternità, valore per il quale pochi oggi combattono, ma senza il quale anche la libertà e l’uguaglianza diventano fragili e non sono concretamente instaurabili. Papa Francesco ha compiuto lo stesso atto in un microcosmo come quello di Bangui, dove sono in atto violenza, intolleranza, scontro di religioni, e a Roma, dove per ora è lontana la violenza dello scontro culturale; potrebbe però essere più vicina di quanto pensiamo, e non perché i terroristi vengono da noi, ma perché alcune forze nostrane continuano ad alimentare diffidenza, odio, non accoglienza, atteggiamenti che possono solo trasformarsi in risentimento, humus su cui crescono risposte all’insegna della violenza. Aprire e tenere aperta una porta è invece una decisione umanizzante, un’azione antropologica che non dovrebbe essere così estranea a cristiani e a non cristiani. Ma per giungere a tale comportamento occorre con urgenza che la convinzione e la prassi di misericordia, compassione e perdono siano inoculate come diastasi nelle nostre società, dando vita a un’ospitalità culturale reciproca che ci permetta di far cadere pregiudizi e di conoscerci meglio. Nell’omelia di apertura del giubileo papa Francesco ha chiesto che questo sia «un anno in cui crescere nella convinzione della misericordia». Sì, il primo passo è essere convinti della misericordia, così come la Scrittura ce la propone quale nome di Dio, e diventarne realizzatori nelle nostre società, a livello personale, ma anche comunitario, economico e politico. Per i credenti tutto nasce dall’immagine di Dio che hanno, perché questa plasma la loro fede e il comportamento. Secoli di storia cristiana testimoniano che la misericordia di Dio non è compresa, scandalizza i credenti stessi, sembra un eccesso che va temperato con le nozioni di verità e giustizia. Il papa lo sa bene e lo denuncia con forza: «Quanto torto viene fatto a Dio e alla sua grazia quando si afferma anzitutto » — e solo i cristiani possono pronunciarlo — «che i peccati sono puniti dal suo giudizio, senza invece affermare prima che sono perdonati dalla sua misericordia… Dobbiamo anteporre la misericordia al giudizio, e in ogni caso il giudizio di Dio sarà sempre nella luce della sua misericordia», perché «la misericordia ha sempre la meglio sul giudizio» (Giacomo 2,13). Poche parole, eppure parole di grande rottura con una certa vulgata cattolica, attestata soprattutto negli ultimi secoli, secondo la quale è doverosa l’intransigenza, è necessario l’esercizio del ministero di condanna: secoli in cui l’immagine prevalente di Dio era quella del Dio irato e giudice, del “Dio ti vede”, quale occhio in un triangolo ovunque presente, del Dio che castiga, che va placato con sofferenze e fatiche a lui offerte affinché arresti il braccio della sua giustizia divina. Papa Giovanni diede inizio a una nuova stagione della chiesa non innovando la dottrina, ma proclamando: «Oggi la sposa di Cristo, la chiesa, preferisce ricorrere alla medicina della misericordia piuttosto che brandire le armi della severità» (11 ottobre 1962, Allocuzione di apertura del concilio Vaticano II). E Papa Francesco manifesta l’urgenza della misericordia come la sua più intima convinzione: «Questo nostro tempo è proprio il tempo della misericordia. Di questo sono sicuro… Noi stiamo vivendo in tempo di misericordia » (6 marzo 2014, Discorso ai parroci di Roma).
Lo stesso Francesco ha esplicitato a più riprese che la misericordia, la compassione, la tenerezza e il perdono di Dio non sono da intendersi come un correttivo della giustizia divina, non sono in tensione con il suo giudizio, ma semplicemente sono la giustizia di Dio messa in atto verso l’essere umano. In Dio c’è un prevalere della misericordia sulla giustizia, se così possiamo dire. Addirittura, secondo il profeta Osea, la misericordia è la manifestazione della santità di Dio, il quale è Santo, cioè è differente, altro dall’uomo proprio nel giudicare e nel sentire la giustizia. Osea arriva a dire che nel cuore di Dio c’è una sorta di “rivolta” del sentimento di misericordia contro la volontà di giustizia: questo sentimento impedisce a Dio di castigare secondo l’alleanza, di andare in collera contro chi ha peccato (cf. Osea 11,8-9). Gesù sottolinea questo prevalere in Dio della misericordia sulla giustizia citando per ben due volte un’altra parola dello stesso profeta: “Andate a imparare che cosa vuol dire: voglio misericordia e non sacrifici (Osea 6,6)” (Matteo 9,13 e 12,7). Con i suoi incontri e con le sue parole, in particolare con le parabole, Gesù attesta che la giustizia di Dio è oltre la giustizia umana, trascende la giustizia della legge, perché non è “giustizia bendata” (Adriano Prosperi) ma vede, discerne, guarda in volto ogni umano; per questo non è retributiva, né punitiva, né meritocratica, secondo i concetti della “nostra” giustizia umana che proiettiamo in Dio. La giustizia di Dio proclamata nella Bibbia attesta che Dio non è indifferente al male compiuto dagli umani, perciò, anche quando va in collera, tale comportamento è l’altra faccia della compassione. Di fronte a questa verità molti cristiani continuano a chiedersi: «Ma allora che ne è della giustizia, della responsabilità umana?». Ha risposto bene il cardinale Pietro Parolin: «La misericordia esercitata non è buonismo, non è timidezza di fronte al male, ma è esercizio di responsabilità». Il segretario di Stato, con la sua profonda consonanza con papa Francesco, arriva a parlare di «misericordia necessaria, prima ancora dei trattati, per poter spianare i terreni di pace e le tante vie degli esodi forzati che stanno mutando il mondo», perché anche a livello economico, politico e giuridico la misericordia e il perdono devono trovare realizzazioni che aprano a una convivenza buona tra i popoli e le genti. È la stessa convinzione alla quale era giunto papa Giovanni Paolo II che, nel messaggio per giornata mondiale della pace del 1° gennaio 2002, arrivò a chiedere che il perdono, negando la giustizia punitiva, trovasse realizzazione in «una politica del perdono espressa in atteggiamenti sociali e in istituti giuridici» e non fosse relegato nella coscienza del privato cittadino. Davvero, come recita il titolo di quel messaggio profetico, «non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono »: giustizia e perdono sono immanenti l’una all’altra. E all’Angelus di ieri papa Francesco con una delle sue frasi, aforismi che colpiscono, ha detto: «Non si può capire un cristiano che non sia misericordioso, come non si può capire Dio senza misericordia». Di fronte a questo cammino percorso dalla chiesa cattolica e all’insegnamento di papa Francesco non si possono più elevare accuse di spiritualismo o di evasione dalla storia. Questo è il cammino storico fatto dal Vaticano II a oggi. Con il concilio «si sono spalancate al mondo le porte chiuse… per un autentico incontro tra la chiesa e gli uomini del nostro tempo», ha detto papa Francesco. E ha anche chiesto che il giubileo in corso «non trascuri lo spirito emerso dal Vaticano II», lo spirito di una chiesa che si piega verso l’uomo sofferente, sull’esempio del samaritano il quale, secondo il vangelo, “ha fatto misericordia”. Questo è semplicissimo, è umanissimo. Priore della comunità monastica di Bose

l’unica preghiera da fare immersi in questa grande violenza

«Disarmali e disarmaci» sia la nostra rivolta

di Enzo Bianchi

Bianchi

 

«Signore, disarmali! Signore disarmaci!».

così pregavano al cuore della bufera algerina i monaci trappisti di Tibhirine. E, in chi crede, tale preghiera sorge spontanea di fronte a efferatezze che di umano hanno solo il raziocinio con cui vengono progettate e realizzate

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È un nuovo pezzo incandescente di quella «terza guerra mondiale» parcellizzata nella quale non si riesce a capire – o i pochi non vogliono che i molti capiscano – chi arma chi e a che scopo.

Disarmare chi uccide senza pietas pare al di là delle nostre forze, come pure supera le nostre capacità il disarmare i nostri sentimenti e renderli degni di quell’umanità che non riconosciamo nell’altro quando assume i tratti del carnefice. Per questo l’autentico disarmo, interiore ed esteriore, è da invocare da Dio come dono ed è da ricercare con le nostre forze come profezia. Disarmati, potremmo forse trovare il tempo e la lucidità per porci interrogativi che oggi l’angoscia e il pianto soffocano nella rabbia dell’impotenza. Siamo di fronte a disperati che seminano disperazione? Oppure cinici burattinai stanno giocando al massacro in una lotta di potere che gli uni rivestono di un manto religioso sempre più abusato e falso e gli altri abbelliscono con richiami ipocriti a valori negati nei comportamenti verso gli altri?

Purtroppo solo il terrorismo sembra capace di causare l’insurrezione delle nostre coscienze, ma noi non vogliamo vederne le cause, né assumerci le responsabilità per tutte le situazioni che lo hanno favorito o che ne diventano l’humus. La rivolta delle nostre coscienze dovrebbe avvenire non solo quando siamo colpiti nella nostra Europa, ma sempre, quando si scatena la barbarie e uomini, donne e bambini ne sono vittime: si pensi a quanto avviene quotidianamente in Siria o in Iraq… Ovunque un essere umano è ucciso, l’umanità intera dovrebbe sentirsi ferita.

Parlare di tragica spirale di violenza non è figura retorica: quando ci si lascia trascinare nel vortice della morte e si cerca di venirne fuori con armi speculari e contrapposte, quando si vede il turbine montare e ci si avvita a ritroso per incolpare gli uni o gli altri di averne innescato il moto, allora la velocità stessa del vortice accelera, fino a travolgere tutto: i fini perversi come le buone intenzioni, i torti e le ragioni, i giusti e i malvagi, i sommersi e i salvati.

«Non c’è giustificazione né religiosa né umana» per simili atti, ha proclamato con voce rotta papa Francesco.

Perché la religione non implica guerra e morte violenta, mentre la ragione umana è contraddetta alla radice dalla negazione dell’umanità del proprio simile. Rispondere da esseri umani e da credenti a gesti disumani e contrari alla religione implica allora il ripudio dell’«occhio per occhio» e il fondare i nostri gesti su ciò che è giusto e retto, su ciò che la dignità dell’uomo e la volontà di Dio mostrano al nostro intimo come fonte di shalom, di pace e vita piena. E non cedere alla logica della morte che invoca altra morte.

Il giorno dello scoppio della seconda guerra mondiale, così scriveva il poeta Wystan Auden: «Senza difesa il nostro mondo / giace sotto la notte attonito; / eppure, accesi ovunque, / ironici punti di luce / lampeggiano là dove i Giusti / si scambiano i loro messaggi: / oh, che io possa, composto come loro / d’Eros e di polvere, / assediato dalla medesima / negazione e disperazione, / mostrare una fiamma affermativa».

Ecco, possano i nostri silenzi oranti, le nostre parole accorate, le nostre azioni meditate, le nostre vite donate mantenere acceso un lucignolo affermativo, così che altri possano a loro volta mostrare una fiamma di speranza. «Se questo è un uomo», invitava a chiederci Primo Levi nel baratro del disumano: non rassegniamoci a ripetere la stessa domanda dopo settant’anni e altri milioni di morti di una tragica guerra a puntate.

“migranti e rifugiati ci interpellano”

 la profezia della giustizia sociale

La Stampa, 23 Agosto 2015
di ENZO BIANCHI

Bianchi

ancora una volta papa Francesco ha mostrato come per lui il Vangelo sia non solo una buona notizia «spirituale», ma un annuncio che coinvolge tutta l’umanità nella sua condizione debole, fragile, limitata, segnata dalla sofferenza e dal male.

Così, proprio per vivere adeguatamente e in verità l’anno della misericordia proclamato, Francesco nel messaggio per la Giornata del rifugiato del prossimo 17 gennaio ha ricordato che vivere la misericordia da cristiani significa innanzitutto «fare misericordia», secondo il linguaggio del Vangelo, che con questo termine indica l’azione del samaritano verso l’uomo caduto vittima dei briganti sulla strada di Gerico.

 Chi ha sperimentato la misericordia di Dio nei propri confronti deve «fare» misericordia verso l’altro a qualunque popolo, cultura, religione, condizione sociale appartenga. Chi è cristiano dovrebbe sentirsi per così dire «obbligato» a questo atteggiamento perché ha conosciuto nella propria carne la misericordia usatagli da Dio, ma anche chi non è cristiano può in ogni caso sapere che l’essere umano che sta di fronte a lui ha gli stessi suoi diritti, chiede lo stesso rispetto della propria dignità: così nasce la responsabilità di aiutare l’altro, di riconoscerlo, di fargli del bene, di liberarlo dalla condizione di sofferenza in cui giace.

Ecco perché papa Francesco afferma che «migranti e rifugiati ci interpellano»: sono nostri fratelli e sorelle in umanità, vittime della guerra, della violenza, del potere tirannico o della fame e della precarietà delle loro vite. Oggi sono in molti quelli che, anche se non cristiani, comprendono e denunciano come sia venuta meno nella nostra cultura e nel tessuto della nostra vita sociale la «fraternità», questa virtù senza la quale anche l’uguaglianza e la libertà restano parole vuote. Se non c’è la ricerca laboriosa e a volte faticosa della fraternità, allora l’altro, gli altri risultano soltanto realtà cosificate, valutate solo in base ai nostri interessi, alla loro utilità per noi, alla loro incidenza positiva o negativa sul nostro benessere individuale, al loro essere ostacoli sulla via della nostra felicità.

In una situazione come quella vissuta nei Paesi del benessere, seppur attraversati da crisi economiche patite dai più poveri e dai senza dignità, i cristiani e dunque la chiesa hanno innanzitutto il compito di mostrare, con il loro comportamento, e il loro contributo all’edificazione della polis, che si oppongono alla barbarie che avanza a grandi passi soprattutto da due decenni, in Europa e nella nostra Italia. Com’è possibile che il veleno della xenofobia abbia ammorbato le nostre popolazioni che più di altre hanno conosciuto in passato la sofferenza dell’emigrazione, la fuga da una terra incapace di dar loro lavoro e nutrimento? Com’è possibile che una lunga tradizione cattolica, vanto e orgoglio della chiesa negli ultimi decenni, si mostri così facilmente contraddetta in valori a lungo professati come quello dell’accoglienza e dell’ospitalità? Com’è possibile che godendo di condizioni migliori sul piano economico, tecnologico, culturale ci sentiamo minacciati dai poveri che bussano alle nostre frontiere? Non si tratta di accogliere tutti – perché questo non è possibile, prima ancora che per l’insostenibilità economica, a motivo della nostra stessa condizione umana segnata dal limite – ma almeno di tentare di regolare i flussi migratori in un’ottica di solidarietà europea, di fare terra bruciata attorno agli interessi economici e geopolitici che fomentano le guerre e le sopraffazioni, di favorire condizioni che permettano a quei popoli di restare nelle loro terre e di non essere costretti a intraprendere, al prezzo della vita, esodi attraverso il deserto e il Mediterraneo. La vita di una persona non ha forse lo stesso valore indipendentemente dalla terra in cui viene alla luce? I diritti, prima di essere quelli di un cittadino di una determinata nazione devono essere riconosciuti come «diritti dell’uomo» in quanto tale.

È in questa situazione disperata che papa Francesco, ma anche diversi esponenti della chiesa italiana, fanno sentire la loro voce in modo forte e anche critico, ma in obbedienza alle istanze del vangelo: sbattere la porta in faccia a chi sta morendo nel «mare nostro» o respingere chi si avvicina al nostro territorio è «uccidere il fratello», negargli il diritto a vivere. E se è vero che non si possono accogliere tutte le miserie del mondo, ciascuno tuttavia superi se stesso e i propri egoismi nell’accogliere chi nella sua miseria rischia la morte.

Chi dice che l’intervento della chiesa in questi giorni genera confusione o chi giudica le parole dei vescovi un’invasione nel campo della politica vuole semplicemente mettersi al riparo da parole profetiche scomode e giustificare l’attuale esercizio del potere politico e finanziario. È vero che la chiesa e la politica hanno compiti diversi, ma in un’autentica democrazia anche le parole della chiesa, come quelle dei cittadini possono essere contestazione dell’esercizio del potere politico ed economico e contribuire a renderlo più giusto. La verità è che negli ultimi due decenni in Italia ci eravamo abituati a una presenza di chiesa silente sui temi della giustizia sociale concreta o a volte addirittura a una presenza ecclesiastica che accettava di fornire un supporto al potere, intonacando il muro cadente di una politica corrotta e senza rispetto degli ultimi e dei poveri.

Sì, da un’ipotesi di «cattolicesimo quale religione civile» siamo ritornati a un cristianesimo profetico che sa dire la verità a caro prezzo, anche di fronte ai potenti. Ed è significativo che chi oggi si oppone maggiormente alle parole profetiche della chiesa non siano tanto atei devoti o irreligiosi, ma sovente proprio dei cattolici, che si mostrano «cristiani del campanile» e non del Vangelo, arrivando anche a chiamarsi «cattolici adulti» di fronte alla semplice denuncia evangelica dei vescovi. Costoro non conoscono nemmeno cosa significhi autonomia dei cattolici in politica, conquistata a caro prezzo già dai padri costituenti, e confondono l’essere cattolici con il semplice richiamo verbale urlato a riti e tradizioni svuotate del nerbo e della mitezza evangelica che le avevano suscitate. Criticare un uso distorto del potere non significa alimentare la sfiducia verso la politica bensì ricordare nel concreto delle azioni quotidiane che «merita il potere solo chi ogni giorno lo rende giusto».

Se oggi constatiamo qualunquismo, diffidenza, sfiducia verso le istituzioni nazionali e sovrannazionali, i primi che si dovrebbero interrogare sulle cause sono proprio quelli che esercitano il potere politico: si chiedano se per loro la politica è servizio verso gli ultimi e i meno muniti, se hanno il senso del bene comune e, qualora si dicano cristiani, si confrontino concretamente con il Vangelo e le sue esigenze e non con gli appetiti del loro piccolo campanile. Anche su questo, migranti e rifugiati ci interpellano.

macché proclama politico si tratta solo di un grido di umanità

un grido di umanità

Barca di migranti

barca di migranti

La Repubblica, 13 Agosto 2015
di ENZO BIANCHI

“Quando do da mangiare a un povero, tutti mi chiamano santo. Ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista”

Queste parole di Helder Camara oggi suonano al contempo attualissime e superate: almeno in Italia, ormai sono pochissimi quelli che chiamano “santo” chi sfama i poveri – al massimo è un buonista – mentre, con il trionfo del pensiero unico neo-liberista, l’epiteto “comunista” è usato solo da alcuni ambienti della destra americana nei confronti di papa Francesco.

Eppure, con il fenomeno dell’immigrazione siamo di fronte a un paradosso simile: chi ha responsabilità di governo e chi dall’opposizione confida di averne a breve continua a parlare di “emergenza” per un fenomeno che ormai risale ad almeno una ventina d’anni – o abbiamo già dimenticato le navi stracolme di albanesi che approdavano in Puglia? – e a latitare in azioni politiche a medio e lungo termine, confidando che il tessuto sociale e le reti della solidarietà umana suppliscano alle loro carenze. La chiesa e molti cristiani – realtà ben più ampia sia della CEI che del Vaticano – sono da sempre in prima linea in questa carità attiva sul territorio e cercano di porsi di fronte all’umanità ferita senza chiedere passaporti né badare a identità etniche o culturali. Eppure quando si occupano dei poveri di cittadinanza italiana passano inosservati, come se la loro azione fosse dovuta e scontata, mentre quando si chinano su fratelli e sorelle in umanità di altri popoli e paesi, vengono sprezzantemente invitati a farsi carico dei disoccupati di “casa nostra”.

Purtroppo in Europa abbiamo perso il valore della fraternità, valore generato dal cristianesimo e conquistato anche a livello politico nella modernità. Siamo tutti fratelli perché tutti esseri umani e come tali portatori di diritti che, nella loro stessa definizione, sono quelli “dell’uomo”. Noi invece siamo giunti a considerarli tali solo per i “cittadini”, escludendone gli “stranieri” come se non ne fossero degni. Sì, quando la fraternità viene meno, cresce la paura dello straniero, dello sconosciuto, del diverso: una paura che va presa sul serio ma che non va alimentata per farne uno strumento di propaganda politica. Va invece razionalizzata, contenuta e placata con un’autentica governance dell’immigrazione, con un volontà fattiva di collaborazione con i paesi che si affacciano sul Mediterraneo, con una politica che sappia interagire con i paesi da cui hanno origine i flussi più intensi di emigrazione. Certo, non possiamo accogliere tutti, ma la solidarietà umana ci spinge a superare i limiti delle nostre comodità e ad accogliere l’altro per quello che siamo capaci, senza innalzare muri.

Questa “emergenza” non è tale: è un fenomeno che durerà a lungo ed è contenibile nei suoi effetti solo con uno sforzo di solidarietà. La sua portata, del resto, è tale che mette in crisi ogni tentativo di respingerlo con la forza. L’Europa sembra in piena confusione, non più sicura dei suoi valori umanistici, delle sue lotte secolari per il riconoscimento dei diritti di ogni essere umano, in qualsiasi situazione si trovi. Ritrovare questi principi decisivi non è questione solo cristiana, è innanzitutto umana e, proprio per questo, cristiana: l’accoglienza è una responsabilità umana perché l’altro è uguale a me in dignità e diritti.

Su queste tematiche a volte la chiesa suscita ostilità quando parla e agisce con la parresia dei profeti e di Gesù di Nazareth. Il Vangelo per molti sarà utopia irrealizzabile, ma non pone condizioni o limiti al comandamento di servire affamati, assetati, stranieri, carcerati, ignudi, ammalati… Parla invece di “farsi prossimo”, di andare incontro a chi è nel bisogno, fino al paradosso di “amare i nemici”. Queste esigenze radicali poste da Gesù possono dar fastidio a molti, ma chi professa di essere suo discepolo non può fare a meno di sentirle come appelli ineludibili rivolti proprio a se stesso. Il cristiano si saprà sempre inadeguato nel mettere in pratica queste parole, sovente dovrà riconoscere che il proprio comportamento quotidiano le contraddice, ma non potrà mai accettare che carità fraterna, solidarietà, accoglienza siano variabili da sottomettere alle necessità della realpolitik.

Così un cristiano, di fronte al dramma di milioni di esseri umani vittime della guerra, della fame, della violenza, della cecità anonima della finanza e del mercato, della “politica” di potere, proverà vergogna per non riuscire a far nulla nemmeno per quelle poche migliaia di disgraziati che giungono fino al suo paese, ma non potrà tacere e non gridare “vergogna” a chi chiude gli occhi di fronte al proprio fratello in umanità che soffre e muore, tanto più se chi si astiene dall’agire ha responsabilità, onori e oneri di governo.

Sì, come ha detto papa Francesco, “respingere gli immigrati è un atto di guerra!”. Questo non è un proclama politico: piaccia o meno, è un grido di umanità.

viviamo in tempi brutti e governati da barbari: parola di E. Bianchi

«questo governo mi sembra cristiano solo di nome»

intervista a Enzo Bianchi

Bianchi

 

 

a cura di Vittorio Zincone
in “Sette” – Corriere della Sera –  del 3 luglio 2015

Bose, colline del Canavese. Piemonte. Una vecchia cascina ristrutturata con accanto una chiesa nuova da cui riecheggia una preghiera melodiosa intonata dai monaci. Uno di loro mi viene incontro. Indica una spianata verde. Dice: «Vorrei essere degno di quel prato». Silenzio. Dopo qualche minuto il priore Enzo Bianchi, 72 anni, occhi azzurri e barba bianchissima, mi raggiunge in una stanzetta spoglia. La sua Comunità monastica sta per compiere cinquant’anni. E lui da mezzo secolo predica un Cristianesimo fatto di amore e misericordia. Ha sempre rifiutato di essere ordinato sacerdote e forse anche per questo una parte della Chiesa cattolica lo capisce poco e lo detesta. Bianchi, Premio Artusi 2014 (riservato ai teorici del cibo sublime), mentre mi porge un vassoio di crostini con alici cantabriche, spiega che la Comunità accoglie tutti: non solo cristiani, ma anche ebrei, ortodossi, buddisti, atei. Negli anni Settanta ci capitò pure un latitante delle Br. Racconta: «Gli trovammo un mitra nella stanza. Lo facemmo sparire. Poco dopo il brigatista se ne andò». Il priore è un paladino del dialogo tra le religioni, un promotore dell’unità dei cristiani. È anche un po’ compagno: cita l’Omnia sunt communia dei padri della chiesa e di Thomas Müntzer. È un naturale abbattitore di barriere e ha pubblicato decine di libri. L’ultimo, Raccontare l’amore (Rizzoli), è un’esegesi appassionata di quattro parabole evangeliche: “Il buon samaritano”, “Il figliol prodigo”, “Il ricco e il povero Lazzaro” e “Il fariseo e il pubblicano”. Gli faccio notare che molte delle sue pagine hanno una incredibile somiglianza con il messaggio dell’Enciclica Laudato Si di Papa Francesco: l’attenzione agli ultimi e il rispetto per gli esseri umani. C’è anche una condanna all’idolatria del denaro. Sorride: «Non ho mai trovato nessuno con una simile consonanza di idee. Con Francesco abbiamo in comune il cristocentrismo, l’importanza del Vangelo, che viene prima della dottrina e prima dei dogmi. Il non aver paura di dire le cose con forza e allo stesso tempo la condanna della violenza delle parole. Anche lui cerca un antidoto contro la barbarie verbale». Sono tempi barbari? «Barbari e poco cristiani. C’è chi parla di ruspe, chi offende i musulmani, chi sventola forconi contro gli immigrati. Ogni ragionamento ormai parte dalle differenze, dai propri convincimenti. Si è persa di vista la base necessaria per un qualsiasi dialogo, e cioè il fatto che siamo tutti uomini». Il leader della Lega, Matteo Salvini, parlando dell’accoglienza, ha detto: «Sono cristiano, ma non autolesionista». «Si reputano cristiani cattolici perché la Chiesa cattolica glielo ha permesso. Dicono di avere una cultura cattolica perché hanno un campanile nella piazza del paese». Le responsabilità della Chiesa cattolica… «Negli anni Ottanta tutte le religioni si sono ripiegate su se stesse. E a partire dagli anni Novanta la Chiesa italiana ha cavalcato questo identitarismo, fatto di crocifissi in classe e feste comandate. Pensi al Veneto, zona bianca, molto cattolica: oggi esplodono polemiche cristianamente inaccettabili sull’accoglienza degli ultimi. Questa identità posticcia ha svuotato dal di dentro la fede cristiana. I vescovi avrebbero dovuto dire che il Vangelo è un’altra cosa. E che non va annunciato o sventolato come un’arma, ma vissuto. Bisogna imparare prima a essere uomini». La gestione della Conferenza episcopale da parte di Camillo Ruini non è stata la sua preferita. «Certamente no. In quel periodo la Chiesa italiana è stata tentata di diventare religione civile. Ha appoggiato una guerra, quella del Golfo, che lo stesso papa Wojtyla aveva condannato. E invece si sarebbe dovuta concentrare sugli ultimi. Io li incontro: malati, anziani. Hanno bisogno di fraternità. Gli italiani hanno inseguito e conquistato l’individualismo libertario, ma hanno perso ogni orizzonte comunitario sociale. Anche la sinistra lo ha perso». Il governo di Renzi è cattolico e di sinistra.
«Mi sembra che ci sia molto cristianesimo nominativo. Non mi pare che gli obiettivi di questa politica siano la giustizia sociale, l’equità, il favorire le relazioni tra gli uomini e farli uscire dall’isolamento. I cattolici in politica sono afoni». In realtà parlano ogni giorno: contro i matrimoni gay, contro il testamento biologico… «Sono cristianamente afoni. Non esistono più. Sono addirittura ridicoli. Non pronunciano mai una parola ispirata dal Vangelo». È vero che lei da giovane ha fatto politica con la Dc? «Ero nel movimento giovanile democristiano. Area fanfaniana. Nel 1968, quando ero qui a Bose già da tre anni, mi proposero di candidarmi alla Camera. Rifiutai». A cena col nemico? «Non considero nessuno un nemico. Uno molto distante è… Fabrizio Corona! Lo inviterei volentieri a cena. Una volta in treno ho sentito dei ragazzi dire: “Vorrei essere come Corona”. Parlavano della sua ricchezza, della vita scintillante…». Lei ha un clan di amici? «Ho molti amici. Ne cito due: Massimo Cacciari e Michelina Borsari». Qual è l’errore più grande che ha fatto? «Essere diventato una persona a cui molti fanno riferimento. Un po’ mi imbarazza. Anche perché io non ho visto grandi luci e Dio non mi parla. Qualche volta mi domando persino se sono davvero credente. Tutta questa grandezza non l’ho scelta». Lei ha scritto decine di libri. Le è capitato di andare in tv. Questa “mondanità” le viene rimproverata. «Ma noi non siamo monaci separati dalla società, la nostra non è una fuga mundis, dall’umanità. Noi siamo nel mondo. Il nostro è il monachesimo ospitale di san Basilio, è l’esempio di Dietrich Bonhoeffer, teologo luterano della Resistenza”. Qual è la scelta che le ha cambiato la vita? «Decidere di trascorrere alcuni mesi a Rouen con l’abbé Pierre. Lì ho conosciuto un altro Cristianesimo. C’erano ex legionari, ex alcolizzati, gli ultimi della terra. Un giorno Pierre mi sorprese mentre leggevo la Bibbia, al sole. Mi disse: “Non è il caso che gli altri ti vedano fare questa lettura. Tu non sei qui per spiegare la dottrina e non sei qui per fare la carità. Cerca solo di vivere da uomo cristiano in mezzo agli uomini”. Rientrato in Italia decisi di lasciare tutto e di venire a Bose». Per tre anni lei restò isolato dal mondo. In solitudine. «C’era un vicino anziano con sua madre. Mi diede in affitto un casale per tre anni». Come pagava l’affitto? «Sradicando vecchie viti. Piantando pini. E ogni tanto facendo qualche traduzione dal francese. Non c’era elettricità e nemmeno acqua corrente. Il primo altare l’ho ricavato da un vecchio frantoio di pietra. Lo illuminai con un candelabro forgiato unendo alcuni ferri da camino». Sapeva lavorare il ferro? «Mio padre era stagnino. Quando è morta mia madre, avevo 8 anni e cominciai a seguirlo sul lavoro. A casa cucinavo io. In quel periodo due donne fantastiche, Norma ed Elvira, la maestra e la postina del paese, si presero cura della mia formazione. Mi donarono i testi di san Basilio e mi permisero di acquistare molti libri». Il libro preferito? «Il potere e la gloria di Graham Greene». Il film? «Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini. Ho conosciuto Pasolini ad Assisi. Era burbero, ma sapeva sciogliersi in dolcezza». La canzone? «Ne me quitte pas di Jacques Brel. L’amore e l’abbandono”. Lei ha raccontato di aver avuto una fidanzata. «La lasciai per venire a Bose. Ogni tanto ci sentiamo. Mi ha scritto una lettera di auguri bellissima per i miei settant’anni».
È vero che compiuti i 50 le è venuta voglia di paternità? «Ho sentito come una mancanza il non avere un figlio. Quando la sera sono nel mio eremo, da solo nel bosco, a qualche minuto dalla Comunità, ogni tanto mi viene un po’ di malinconia. La voglia di una relazione intima. Di un “tu”. Noi monaci il “tu” lo diciamo solo a Gesù, ma Gesù non lo abbiamo mai visto». Lei conosce i confini della Libia? «Sono stato in Tunisia, Egitto, Sudan». Sa quanto costa un pacco di pasta? «Un euro e mezzo? Ogni tanto mi infilo nei supermercati. Osservo le persone e la barbarie a cui sono costrette». La barbarie? «Per un piemontese comprare delle alette precotte e caramellate è una barbarie. Solo una crisi profonda ti può portare a mangiare quella roba». Conosce l’articolo 3 della Costituzione? «Nel 2009 mi hanno conferito il premio “Articolo 3”. Purtroppo però di fronte alla legge non siamo tutti uguali. Ci sono politici che vivono nell’illegalità e che vengono continuamente riciclati nelle istituzioni». Sul Fatto Quotidiano, lei ha criticato Vincenzo De Luca, condannato per abuso di ufficio ed eletto presidente della Campania. «Provo vergogna. In Italia è così difficile dire che la legalità va rispettata?». Tutti sostengono che De Luca sia un ottimo amministratore. «Non lo metto in dubbio. Ma l’uomo farà sempre cose cattive se non gli nuocciono o se sa di farla franca. Per evitare che si comporti male serve un supporto culturale, una linea etica, un esempio. E se la politica non dà l’esempio…».

la maggiore cautela che i cristiani dovrebbero usare

la tentazione della “buona risposta”

di Enzo Bianchi
in “Jesus” del maggio 2015

Bianchi

 

 

Da secoli noi cristiani pensiamo di dover dare una “buona risposta” su tutto. In questa ansia – oggi causa di sempre maggior fastidio nei non cristiani – finiamo a volte per dare risposte preconfezionate, incuranti della realtà mutevole e sfaccettata né della diversità delle persone e del mistero che ciascuna di loro racchiude. Occorrerebbe un serio esame di coscienza: e se l’altro ci trattasse come noi trattiamo lui? E se ciò che diciamo con sicurezza all’altro fosse anche un giudizio su di noi? Ci ricordiamo dell’avvertimento di Gesù: “Con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi” (Mt 7,2)? E ci ricordiamo che Gesù era maestro anche nell’arte del non dire tutto? Come non ammettere che nella chiesa sovente i rigoristi che giudicano con severità alcuni peccati commessi dagli altri, sono in realtà i primi a commettere quegli stessi peccati? E piuttosto di condannare se stessi, infieriscono sugli altri: come ha detto recentemente papa Francesco, “puniscono negli altri quello che nascondono nella loro anima”… In questi giorni nelle nostre chiese d’occidente emerge costantemente la questione dell’orientamento sessuale, del gender e degli statuti che questo può richiedere. Possiamo, come cristiani, dire alcune parole in proposito, e dirle umilmente, fornendo indicazioni per cercare ancora? Innanzitutto dovremmo evitare di parlare semplicisticamente di omosessuali, eterosessuali, bisessuali o transessuali perché le persone non possono essere definite dai loro comportamenti o a essi ridotte. Occorre inoltre ammettere che l’orientamento sessuale appare come un enigma (attenzione: un enigma, non un mistero): non è una scelta dell’individuo né sta nello spazio delle patologie; emerge in diverse situazioni; persino di fronte agli stessi cammini educativi e allo stesso “venire al mondo” l’orientamento può manifestarsi come eterosessuale, omosessuale, o con altre varianti al di là delle libere scelte. Perché? Per ora non abbiamo una risposta: non dobbiamo però avere paura dell’enigma, ma prenderlo sul serio perché parte della realtà complessa dell’umano. Là dove ci sono “storie d’amore”, c’è l’amore sempre vulnerabile, la necessità del perdono, della fiducia sempre da rinnovare, la fatica della fedeltà, mai piena. L’amore, che è il fine della relazione, è più grande della condizione in cui si è abilitati ad amare. Da questo dovrebbe discendere molta cautela nel dare giudizi o nel richiedere alle persone di essere ciò che non possono essere: si deve guardare alla relazione, all’amore vissuto e tentato dai partner, alla loro sincerità, astenendosi dal giudicare le persone. È vero, i comportamenti omosessuali sono severamente esecrati dall’Antico e dal Nuovo Testamento – anche se i vangeli non registrano parole esplicite di condanna da parte di Gesù – ma il peccato resta una realtà presente anche in tutti i comportamenti sessuali e in ogni azione da noi compiuta assecondando l’egoismo, la violenza, l’arroganza del potere sull’altro. Uomini e donne, qualunque orientamento sessuale abbiano, sono sempre creature amate da Dio; nella chiesa sono cristiani nati dal battesimo, conformati a Cristo e dotati di una capacità di testimonianza e di missione nel mondo; e in quanto battezzati sono sacerdoti, profeti e re (cf. Lumen gentium 34-36), tutti partecipi del corpo di Cristo. A tutti, nessuno escluso, la chiesa deve chiedere di tentare di vivere il Vangelo, tutti deve amare come si amano le membra del corpo di Cristo, e tutti deve aiutare a vivere l’amore con gli enigmi che esso contiene. La chiesa non è stata chiamata a condannare il mondo ma a indicare al mondo vie di salvezza, e queste stanno sempre in cammini di umanizzazione. Nessuna ingenuità e nessuna resa: a tutti la chiesa chiede responsabilità nei comportamenti; chiede lotta contro la philautía, l’amore egoistico di se stessi; chiede di non cedere al facile e conformista “così fan tutti”; chiede di combattere i nuovi idoli dominanti, tra cui spicca l’individualismo esasperato, in base al quale i desideri devono diventare diritti. Non tutto è possibile e non tutto può essere un diritto! Chiediamoci in ogni circostanza qual è il cammino di umanizzazione più fecondo e felice per ciascuno, senza aver la pretesa di possedere a priori l’unica risposta possibile.

“chi sono io per giudicare o condannare?”

   “quando un gay cerca il Signore”

di Enzo Bianchi

priore della Comunità di Bose

(Tuttolibri – La Stampa, 07/03/2015)

Bianchi
“Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarlo?”

Questa frase, pronunciata da papa Francesco in un’intervista estemporanea durante il volo di ritorno dalla Giornata mondiale della gioventù in Brasile, venne considerata eccessiva da alcuni, inopportuna ad altri, bisognosa di precisazioni e distinguo da altri ancora, o ancora avventata, fuorviante, dissacratoria… Altri, troppo pochi in verità, l’hanno subito colta non solo come un’affermazione puntuale rispetto a un preciso argomento di pastorale, ma come una chiave di lettura del modo stesso di porsi del nuovo papa, arrivato a sorpresa e sconosciuto ai più sul soglio di Pietro. Sì, perché – come ricorda Raniero La Valle nel volume uscito in occasione dei due anni di pontificato di papa Bergoglio (Chi sono io, Francesco?, Ponte alle Grazie, pp. 204, € 14,00) – una frase analoga risale addirittura all’apostolo Pietro, di cui papa Francesco è successore come vescovo di Roma: “ Chi ero io per porre impedimento a Dio? (At 11,17). Così Pietro aveva risposto agli uomini religiosi che lo criticavano per essere entrato in una casa di pagani, aver mangiato con loro e aver attestato che lo Spirito santo li aveva “battezzati”.
In questa domanda che non è retorica c’è tutta la consapevolezza di essere “servo dei servi di Dio”, sottomesso nell’obbedienza all’agire dell’unico Signore della chiesa che pensa, parla, agisce e ama con criteri che non sono i criteri umani e che non lasciano che la misericordia sia ostacolata dalla rigidità di una legge separata dall’amore del legislatore. E il libro di La Valle ripercorre così due anni di parole e gesti di papa Francesco.
Ma, parafrasando il titolo, «Chi è lui, Raniero La Valle per scrivere queste “cronache di cose mai viste”»? Un giornalista di grande professionalità, un cristiano segnato da papa Giovanni e dal concilio, un uomo politico nel senso alto del termine. Direttore dell’Avvenire d’Italia negli anni del Vaticano II, poi senatore e deputato per quattro legislature, co-fondatore di Bozze 78 (ebbi la gioia di far parte di quel gruppo di amici che vollero dar vita ad una rivista di riflessione sulla presenza dei cristiani nella società civile), sempre in prima fila nelle battaglie per la pace e la giustizia, a tempo e contro-tempo. Anche per questo la riflessione che attraversa le pagine fondandosi sulle parole di papa Francesco sa cogliere in profondità snodi decisivi per la testimonianza cristiana: la pace e il rifiuto della violenza, la ricerca di un’autentica sinodalità nella guida e nella vita della chiesa, l’attenzione ad ogni genere di povertà e di ferita umana, l’uso sovrabbondante della misericordia, la libertà di un pensiero e di un’azione che si rifanno costantemente al vangelo e che ad esso rimandano in radicale semplicità …
Sì, forse molte delle “cose” operate da papa Francesco, Raniero La Valle e molti di noi non le avevamo “mai viste”. Di certo le abbiamo a lungo sognate.

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