si aprono le porte, devono cadere i muri
la caduta di un muro
a proposito dell’apertura della ‘porta santa’ all’inizio del giubileo
di Enzo Bianchi
in “la Repubblica”
il gesto di apertura della porta chiusa è stato compiuto da papa Francesco innanzitutto in Africa, tra i poveri della terra, e ieri anche a Roma, nella basilica di San Pietro. In Vaticano, dove egli esercita il suo ministero di servo della comunione nella chiesa e tra le chiese e di annunciatore della buona notizia a tutta l’umanità. In un’epoca in cui si sono ricostruiti muri e si sono di nuovo innalzate barriere di filo spinato, in cui molti vorrebbero chiudere le frontiere, e alcuni le chiudono, infondendo nella gente ansia e paura, papa Francesco fa il gesto così semplice, quotidiano, umano di aprire una porta chiusa
Purtroppo temo che molti di quelli che passeranno per le porte sante aperte nelle chiese non arriveranno neppure a pensare che potrebbero aprire o tenere aperta la porta della propria casa: aperta per chi giunge inaspettato, straniero o povero, conosciuto o sconosciuto, aperta per un atto di fede-fiducia fatto nei confronti degli altri umani, tutti legati dalla fraternità, valore per il quale pochi oggi combattono, ma senza il quale anche la libertà e l’uguaglianza diventano fragili e non sono concretamente instaurabili. Papa Francesco ha compiuto lo stesso atto in un microcosmo come quello di Bangui, dove sono in atto violenza, intolleranza, scontro di religioni, e a Roma, dove per ora è lontana la violenza dello scontro culturale; potrebbe però essere più vicina di quanto pensiamo, e non perché i terroristi vengono da noi, ma perché alcune forze nostrane continuano ad alimentare diffidenza, odio, non accoglienza, atteggiamenti che possono solo trasformarsi in risentimento, humus su cui crescono risposte all’insegna della violenza. Aprire e tenere aperta una porta è invece una decisione umanizzante, un’azione antropologica che non dovrebbe essere così estranea a cristiani e a non cristiani. Ma per giungere a tale comportamento occorre con urgenza che la convinzione e la prassi di misericordia, compassione e perdono siano inoculate come diastasi nelle nostre società, dando vita a un’ospitalità culturale reciproca che ci permetta di far cadere pregiudizi e di conoscerci meglio. Nell’omelia di apertura del giubileo papa Francesco ha chiesto che questo sia «un anno in cui crescere nella convinzione della misericordia». Sì, il primo passo è essere convinti della misericordia, così come la Scrittura ce la propone quale nome di Dio, e diventarne realizzatori nelle nostre società, a livello personale, ma anche comunitario, economico e politico. Per i credenti tutto nasce dall’immagine di Dio che hanno, perché questa plasma la loro fede e il comportamento. Secoli di storia cristiana testimoniano che la misericordia di Dio non è compresa, scandalizza i credenti stessi, sembra un eccesso che va temperato con le nozioni di verità e giustizia. Il papa lo sa bene e lo denuncia con forza: «Quanto torto viene fatto a Dio e alla sua grazia quando si afferma anzitutto » — e solo i cristiani possono pronunciarlo — «che i peccati sono puniti dal suo giudizio, senza invece affermare prima che sono perdonati dalla sua misericordia… Dobbiamo anteporre la misericordia al giudizio, e in ogni caso il giudizio di Dio sarà sempre nella luce della sua misericordia», perché «la misericordia ha sempre la meglio sul giudizio» (Giacomo 2,13). Poche parole, eppure parole di grande rottura con una certa vulgata cattolica, attestata soprattutto negli ultimi secoli, secondo la quale è doverosa l’intransigenza, è necessario l’esercizio del ministero di condanna: secoli in cui l’immagine prevalente di Dio era quella del Dio irato e giudice, del “Dio ti vede”, quale occhio in un triangolo ovunque presente, del Dio che castiga, che va placato con sofferenze e fatiche a lui offerte affinché arresti il braccio della sua giustizia divina. Papa Giovanni diede inizio a una nuova stagione della chiesa non innovando la dottrina, ma proclamando: «Oggi la sposa di Cristo, la chiesa, preferisce ricorrere alla medicina della misericordia piuttosto che brandire le armi della severità» (11 ottobre 1962, Allocuzione di apertura del concilio Vaticano II). E Papa Francesco manifesta l’urgenza della misericordia come la sua più intima convinzione: «Questo nostro tempo è proprio il tempo della misericordia. Di questo sono sicuro… Noi stiamo vivendo in tempo di misericordia » (6 marzo 2014, Discorso ai parroci di Roma).
Lo stesso Francesco ha esplicitato a più riprese che la misericordia, la compassione, la tenerezza e il perdono di Dio non sono da intendersi come un correttivo della giustizia divina, non sono in tensione con il suo giudizio, ma semplicemente sono la giustizia di Dio messa in atto verso l’essere umano. In Dio c’è un prevalere della misericordia sulla giustizia, se così possiamo dire. Addirittura, secondo il profeta Osea, la misericordia è la manifestazione della santità di Dio, il quale è Santo, cioè è differente, altro dall’uomo proprio nel giudicare e nel sentire la giustizia. Osea arriva a dire che nel cuore di Dio c’è una sorta di “rivolta” del sentimento di misericordia contro la volontà di giustizia: questo sentimento impedisce a Dio di castigare secondo l’alleanza, di andare in collera contro chi ha peccato (cf. Osea 11,8-9). Gesù sottolinea questo prevalere in Dio della misericordia sulla giustizia citando per ben due volte un’altra parola dello stesso profeta: “Andate a imparare che cosa vuol dire: voglio misericordia e non sacrifici (Osea 6,6)” (Matteo 9,13 e 12,7). Con i suoi incontri e con le sue parole, in particolare con le parabole, Gesù attesta che la giustizia di Dio è oltre la giustizia umana, trascende la giustizia della legge, perché non è “giustizia bendata” (Adriano Prosperi) ma vede, discerne, guarda in volto ogni umano; per questo non è retributiva, né punitiva, né meritocratica, secondo i concetti della “nostra” giustizia umana che proiettiamo in Dio. La giustizia di Dio proclamata nella Bibbia attesta che Dio non è indifferente al male compiuto dagli umani, perciò, anche quando va in collera, tale comportamento è l’altra faccia della compassione. Di fronte a questa verità molti cristiani continuano a chiedersi: «Ma allora che ne è della giustizia, della responsabilità umana?». Ha risposto bene il cardinale Pietro Parolin: «La misericordia esercitata non è buonismo, non è timidezza di fronte al male, ma è esercizio di responsabilità». Il segretario di Stato, con la sua profonda consonanza con papa Francesco, arriva a parlare di «misericordia necessaria, prima ancora dei trattati, per poter spianare i terreni di pace e le tante vie degli esodi forzati che stanno mutando il mondo», perché anche a livello economico, politico e giuridico la misericordia e il perdono devono trovare realizzazioni che aprano a una convivenza buona tra i popoli e le genti. È la stessa convinzione alla quale era giunto papa Giovanni Paolo II che, nel messaggio per giornata mondiale della pace del 1° gennaio 2002, arrivò a chiedere che il perdono, negando la giustizia punitiva, trovasse realizzazione in «una politica del perdono espressa in atteggiamenti sociali e in istituti giuridici» e non fosse relegato nella coscienza del privato cittadino. Davvero, come recita il titolo di quel messaggio profetico, «non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono »: giustizia e perdono sono immanenti l’una all’altra. E all’Angelus di ieri papa Francesco con una delle sue frasi, aforismi che colpiscono, ha detto: «Non si può capire un cristiano che non sia misericordioso, come non si può capire Dio senza misericordia». Di fronte a questo cammino percorso dalla chiesa cattolica e all’insegnamento di papa Francesco non si possono più elevare accuse di spiritualismo o di evasione dalla storia. Questo è il cammino storico fatto dal Vaticano II a oggi. Con il concilio «si sono spalancate al mondo le porte chiuse… per un autentico incontro tra la chiesa e gli uomini del nostro tempo», ha detto papa Francesco. E ha anche chiesto che il giubileo in corso «non trascuri lo spirito emerso dal Vaticano II», lo spirito di una chiesa che si piega verso l’uomo sofferente, sull’esempio del samaritano il quale, secondo il vangelo, “ha fatto misericordia”. Questo è semplicissimo, è umanissimo. Priore della comunità monastica di Bose