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il commento al vangelo della domenica
impariamo a restituire a Dio ciò che è suo
il commento di E. Ronchi al vangelo della ventinovesima domenica del tempo ordinario – anno A
(…) Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».
Abbiamo sempre bisogno di appartenere a qualcuno. Siamo tutti come la moneta romana che mostrano a Gesù: «Divo Tiberio» , «sono del divino Tiberio, figlio di Augusto». E io a chi appartengo? Forse alle cose, ai poteri forti, al pensiero dominante, oppure ai miei sogni, ai legami vitali, all’amore che provo e che, mi assicura la Bibbia (cf 1Gv 4,16), è «Dio che ama in me»? I filoimperiali di Erode e gli indipendentisti del sinedrio pongono a Gesù una di quelle domande taglienti che fanno impennare l’audience e dividono gli spettatori: maestro, tu che sei libero e dici le cose come stanno, che relazione hai con Cesare, con il potere? La risposta di Gesù è acuta: come al suo solito, davanti a domande maliziose o capziose, porta gli uditori su di un altro piano, spiazzandoli con un doppio cambio di prospettiva. Primo cambio: sostituisce il verbo «pagare» con «restituire»: rendete, restituite a Cesare ciò che è di Cesare. Un imperativo forte, che coinvolge ben più di qualche moneta, che dà un’anima nuova alle relazioni: restituite il molto ricevuto, date indietro, guardate alla sorgente. Vivere è restituire vita, che viene da prima di noi e va oltre noi.
Viviamo per restituire amore a chi con l’amore ci ha fatto e ci fa vivere. Come il respiro: accogli e restituisci, non lo puoi trattenere, è puro dono. «Ricevimi, donami, donandomi mi otterrai di nuovo», scrive l’antico libro dei Rig Veda. Secondo cambio di prospettiva: Gesù fa entrare in gioco la sua visione e la sua
forza profetica recidendo di netto il legame tra le due parole incise sul denaro: divino Tiberio. Cesare non è Dio, Tiberio non è divino. Rendete a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio. A questo punto Gesù si ferma, non si sostituisce a noi, non ci esenta dalla responsabilità di usare la nostra intelligenza per valutare, scegliere, decidere cosa sia di Cesare, cosa di Dio. Restituite a Dio quello che è di Dio: di Dio è la terra e quanto essa contiene (Dt 10,14). Anche Cesare appartiene a Dio.
Ogni persona porta incisa l’iscrizione profetica: «io appartengo al mio Signore», «ha scritto sulla mano: del Signore!» (Isaia 44,5). Ognuno una piccola moneta d’oro con, in altorilievo, l’immagine e la somiglianza con Dio, sormontata da una dedica sacra: «sono di Dio». Ognuno un talento inviato al mondo, da far fruttare e poi restituire al bene comune. Ma non in perdita: «donandomi, mi otterrai di nuovo». Entrando così nel circuito del dono che Gesù instaura invece del possesso. Non l’accumulo, ma la restituzione; non le porte blindate sui miei averi, ma la loro circolazione nelle vene del mondo. L’uomo vive di vita donata.
Prima ricevuta e poi restituita.
(Letture: Isaia 45,1.4-6; Salmo 95; 1 Tessalonicesi 1,1-5; Matteo 22,15-21)
una ‘chiesa in uscita’ come la vuole papa Francesco
una chiesa in uscita con la missione nel DNA
padre Ermes Ronchi, dell’Ordine dei Servi di Maria, teologo e volto noto ai telespettatori italiani, ha condiviso con noi i suoi appunti sull’identità missionaria della “Chiesa in uscita”. Una pagina da leggere con il cuore e da meditare, intrisa di poesia e ricca di citazioni bibliche.
«Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade che una Chiesa malata per la chiusura» (EG 49). Fa eco e sponda a questa visione di Papa Francesco una bellissima poesia di Jacques Brel:
Conosco delle barche che restano nel porto per paura
che le correnti le trascinino via con troppa violenza.
Conosco delle barche che arrugginiscono in porto
per non aver mai rischiato una vela fuori.Conosco delle barche che si dimenticano di partire
hanno paura del mare a furia di invecchiare
e le onde non le hanno mai portate altrove,
il loro viaggio è finito ancora prima di iniziare.Conosco delle barche talmente incatenate
che hanno disimparato come liberarsi.
Conosco delle barche che restano ad ondeggiare
per essere veramente sicure di non capovolgersi.Conosco delle barche che vanno in gruppo
ad affrontare il vento forte al di là della paura.
Conosco delle barche che si graffiano un po’
sulle rotte dell’oceano ove le porta il loro gioco.Conosco delle barche che tornano in porto lacerate dappertutto,
ma più coraggiose e più forti.
Conosco delle barche traboccanti di sole
perché hanno condiviso anni meravigliosi.Conosco delle barche che tornano sempre
che hanno navigato fino al loro ultimo giorno,
e sono pronte a spiegare le loro ali giganti
perché hanno un cuore a misura di ocean
In quelle barche, che riportano una metafora antichissima della Chiesa, vediamo descritta la stessa dinamica vitale dell’uscire, salpare, navigare oltre. “Chiesa in uscita” è una espressione diventata virale, una Chiesa che si immerge invece di una che attende; che sa curare le ferite, riscaldare i cuori, piangere e accarezzare invece di rinchiudersi nelle norme.
L’uscita, la strada, la navigazione sono nel DNA della Chiesa. Chiamò a sé i dodici e li inviò dicendo: “strada facendo…”. Gli apostoli sono gli in-viati, i messi in via. Tutta la Bibbia è attraversata da un comando: alzati, kum in aramaico. Elia, kum; Giona, kum; Mosè, kum, alzati e scendi in Egitto. Per centinaia di volte: alzati e va’. Verbo per chi era a terra, ordine per chi se ne stava chiuso: verbo della risurrezione e di una vita in uscita. Kum verbo degli inizi, di chi ama avviare percorsi, iniziare processi; di chi parte e si fida del percorso. Ogni volta che Dio ti chiama, ti mette in viaggio, è una forza che fa partire. Mette in cammino, e camminare è un atto di libertà e di leggerezza, scoprire se stessi mentre si scopre il mondo. Ma risalendo indietro, verso le sorgenti, verso là dove è nata la Chiesa, vediamo che la prima comunità nasce sulle strade di Galilea, non nelle aule di una scuola, non in una sinagoga, ma sui sentieri attorno al lago di Tiberiade, durante tre anni di itineranza battagliera, libera e felice.
La Chiesa è nata in uscita.
Gesù cammina, ma non da solo; con lui si muove un gruppo vivace di uomini e donne, in una intimità itinerante: proto-struttura della Chiesa. E tutta la simbolica della strada è dentro il DNA del cristiano. Da allora, da subito, la comunità è in uscita, è a suo agio sulle strade e ama gli orizzonti. Prima di essere chiamati con il nome di cristiani, i seguaci di Gesù sono detti “quelli della via”, oi tes odou in greco.
Siamo figli di una beatitudine dimenticata, proclamata dai salmi di pellegrinaggio: «beato l’uomo che ha sentieri nel cuore» (Salmo 84, 6), felice la donna che ha la strada nel cuore. È la spiritualità biblica: Mio padre era un arameo errante. Siamo tutti figli di nomadi, non stanziali ma migratori, passatori di frontiere. La Bibbia fa nascere una fede nomade, incamminata, mai installata.
– Vai al largo, ha detto a Pietro…
Le barche, le piccole barche sono al sicuro, attaccate ai loro ormeggi nel porto, ma non è per questo che sono state costruite. Sono fatte per navigare, e anche per affrontare tempeste. Il nostro posto non è nei successi e nei risultati trionfali, ma in una barca in mare aperto, dove prima o poi durante la navigazione della vita verranno acque agitate e vento contrario. La vera formazione che Gesù trasmette ai suoi non consiste nella capacità di costruire una barca o una zattera, oppure nell’insegnare il codice nautico, ma nel trasmettere la passione del navigare, il gusto per il grande mare aperto e infinito. In Dio si scoprono nuovi mari quanto più si naviga. (Fray Luis de Leon). Vera pedagogia, vera pastorale è la consegna amorosa e contagiosa del vangelo-orizzonte, vangelo-oceano. Il vangelo non proclama divieti, offre ali. I veri maestri dello spirito sono quelli che non mettono lacci ulteriori, ma ulteriori ali, le crescono, le accarezzano, le pettinano, le fanno forti, perché possano volare più lontano e più sicuri.
– Andate, guarite, risuscitate, purificate, scacciate, date… (Mt 10,7-15)
Gesù manda i suoi, gli in-viati, verso il mondo, affidando loro cinque opere che disegnano il volto di una Chiesa ospedale da campo. Che come in tutti gli ospedali incontra persone ferite, sangue, sporco, piaghe e anche bestemmie, ma non giudica nessuno, si prende cura di tutti. Istituisce una Chiesa in missione, una Chiesa che sia autorevole non per la dottrina, ma per la misericordia; per la quale di non negoziabile siano non i principi, ma solo l’uomo. Chiesa autorevole perché si abbassa, pulisce, lava, solleva come il samaritano buono. Il mondo non ha bisogno di giudici ma di samaritani. Scrive Papa Francesco: “Desidero una chiesa che non attende ma va incontro; sa curare le ferite e riscaldare i cuori; sa piangere e accarezzare invece di rinchiudersi nelle norme. Una Chiesa che non ha nulla da difendere, ma molto da offrire. Che non si contrappone agli altri in conflitti teorici ma si immerge nelle persone. Sognando la vita insieme (EG 74). Chiesa sognatrice.
– Il distacco di Gesù dai suoi, in Luca, è di una sobrietà incantevole.
«Gesù li condusse fuori verso Betania»: è colui che precede, che indica la via, che avanza sicuro anche quando la meta è il Calvario. Inizia su quell’altura la “Chiesa in uscita”, con un invio che chiede agli apostoli un cambio di sguardo. Devono passare da un gruppo che mette se stesso al centro, ad una Chiesa al servizio dell’uomo, della vita, della cultura, della casa comune, delle nuove generazioni. Voi siete la luce, che non illumina se stessa, ma accarezza le cose e ne fa emergere la bellezza; voi siete il sale, che non dà sapore a se stesso ma al pane dell’uomo.
– Convertite, significa coltivate e custodite i semi divini di ciascuno.
Come Gesù che in Galilea andava alla ricerca delle faglie, delle fenditure nelle persone, là dove scorrevano acque sepolte, come con la samaritana al pozzo, così la Chiesa è inviata al servizio dei germi santi che sono in ciascuno. Per ridestarli. Una Chiesa rabdomante del buono, inviata a captare e far emergere le forze più belle, per la fioritura dell’essere, per la valorizzazione del grammo di luce che è seminato in ciascuno: noi camminiamo, calpestiamo gioielli e non ce ne rendiamo conto.
– Vi precede.
Anche la pasqua è stata una ripartenza. Gli angeli dicono alle donne: non è qui, vi precede, andate in Galilea. Vi precede: è davanti, è sulla strada a prendere in faccia il vento, il sole, il grido d’aiuto e le lacrime. E anche le tempeste; è un Dio da sorprendere nelle strade, come i due di Emmaus. È un passo avanti, e avanza ancora.
Un Dio migratore, abbiamo, che ama gli spazi aperti, che apre cammini. Attraversa muri e spalanca porte. Che non ama i paletti, ma gli orizzonti.
Il regalo che ci fanno la Bibbia e i profeti di ogni tempo: noi come credenti apparteniamo ad un sistema aperto, generativo e non a un sistema chiuso, dove tutto è già definito, proclamato, bloccato. Apparteniamo ad un sistema di ricerca, naviganti e cercatori mai arresi del nome di Dio e del nome dell’Uomo.
Ermes Ronchi
il commento al vangelo della domenica
così Gesù ci spiazza
‘sono venuto per servire’
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».[…]
Tra voi non è così! Bellissima espressione che mette a fuoco la differenza cristiana. Gli altri dominano, non così tra voi. Voi vi metterete a fianco delle persone, o ai loro piedi, e non al di sopra. Gli altri opprimono. Voi invece solleverete le persone, le tirerete su per un’altra luce, altro sole, altro respiro. La storia gloriosa di ciascuno non è scritta da chi ha avuto la capacità di dominarci, ma da chi ha avuto l’arte di amarci: gloria della vita. Sono venuto per dare la mia vita in riscatto per la moltitudine… Gesù riscatta l’umano, ridipinge l’icona di cosa sia la persona, cosa sia vita e cosa no, tira fuori un tesoro di luce, di sole, di bellezza da ciascuno. Libera il volto nuovo dell’umanità, riscatta l’umano dagli artigli del disumano; riscatta il cuore dell’uomo dal potere mortifero della indifferenza. Gesù è il guaritore del peccato del mondo, che ha un solo nome: disamore. Giacomo e Giovanni, i “figli del tuono”, gli avevano chiesto, con quel tono da bambini: Vogliamo che tu ci faccia quello che vogliamo noi… Gli altri apostoli si indignano, lo fanno per rivalità, per gelosia, perché i due fratelli hanno tentato di manipolare la comunità. Ma Gesù non li segue, va avanti, salva la domanda dei due e anche l’indignazione degli altri: Li chiama a sé, nell’intimità, cuore a cuore, e spiega, argomenta. Perché dietro ad ogni desiderio umano, anche i più storti, c’è sempre una matrice buona, un desiderio di vita, di bellezza, di armonia. Ogni desiderio umano ha sempre dietro una parte sana, piccolissima magari. Ma quella è la parte da non perdere. Gli uomini non sono cattivi, sono fragili e si sbagliano facilmente. «Anche il peccato è spesso un modo sbagliato per cercarti» (D. M. Turoldo). L’ultima frase del Vangelo è di capitale importanza: Sono venuto per servire. La più spiazzante autodefinizione di Gesù. La più rivoluzionaria e contromano. Ma che illumina di colpo il cuore di Dio, il senso della vita di Cristo, e quindi della vita di ogni uomo e ogni donna. Un Dio che, mentre nel nostro immaginario è onnipotente, nella sua rivelazione è servo. Da onnipotente a servo. Novità assoluta. Perché Dio ci ha creati? Molti ricordiamo la risposta del catechismo: Per conoscere, amare e servire Dio in questa vita, e goderlo nell’altra. Gesù capovolge la prospettiva, le dà una bellezza e una profondità che stordiscono: siamo stati creati per essere amati e serviti da Dio, qui e per sempre. Dio esiste per te, per amarti e servirti, dare per te la sua vita, per essere sorpreso da noi, da questi imprevedibili, liberi, splendidi, creativi e fragili figli. Dio considera ogni figlio più importanti di se stesso.
(Letture: Isaia 53,10-11; Salmo 32; Lettera agli Ebrei 4,14-16; Marco 10,35-45)
il commento al vangelo della domenica
con il suo «pane vivo» il Signore vive in noi
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della domenica del Corpus Domini (14 giugno 2020);
In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo (…) Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
Nella sinagoga di Cafarnao, il discorso più dirompente di Gesù: mangiate la mia carne e bevete il mio sangue. Un invito che sconcerta amici e avversari, che Gesù ostinatamente ribadisce per otto volte, incidendone la motivazione sempre più chiara: per vivere, semplicemente vivere, per vivere davvero. È l’incalzante convinzione di Gesù di possedere qualcosa che cambia la direzione della vita. Mentre la nostra esperienza attesta che la vita scivola inesorabile verso la morte, Gesù capovolge questo piano inclinato mostrando che la nostra vita scivola verso Dio. Anzi, che è la vita di Dio a scorrere, a entrare, a perdersi dentro la nostra. Qui è racchiusa la genialità del cristianesimo: Dio viene dentro le sue creature, come lievito dentro il pane, come pane dentro il corpo, come corpo dentro l’abbraccio. Dentro l’amore. Il nostro pensiero corre all’Eucaristia. È lì la risposta? Ma a Cafarnao Gesù non sta indicando un rito liturgico; lui non è venuto nel mondo per inventare liturgie, ma fratelli liberi e amanti. Gesù sta parlando della grande liturgia dell’esistenza, di persona, realtà e storia. Le parole «carne», «sangue», «pane di cielo» indicano l’intera sua esistenza, la sua vicenda umana e divina, le sue mani di carpentiere con il profumo del legno, le sue lacrime, le sue passioni, la polvere delle strade, i piedi intrisi di nardo, e la casa che si riempie di profumo e di amicizia. E Dio in ogni fibra. E poi come accoglieva, come liberava, come piangeva, come abbracciava. Libero come nessuno mai, capace di amare come nessuno prima. Allora il suo invito incalzante significa: mangia e bevi ogni goccia e ogni fibra di me. Prendi la mia vita come misura alta del vivere, come lievito del tuo pane, seme della tua spiga, sangue delle tue vene, allora conoscerai cos’è vivere davvero. Cristo vuole che nelle nostre vene scorra il flusso caldo della sua vita, che nel cuore metta radici il suo coraggio, perché ci incamminiamo a vivere l’esistenza come l’ha vissuta lui. Dio si è fatto uomo perché ogni uomo si faccia come Dio. E allora vivi due vite, la tua e quella di Cristo, è lui che ti fa capace di cose che non pensavi, cose che meritano di non morire, gesti capaci di attraversare il tempo, la morte e l’eternità: una vita che non va perduta mai e che non finisce mai.
Mangiate di me! Parole che mi sorprendono ogni volta, come una dichiarazione d’amore. «Voglio stare nelle tue mani come dono, nella tua bocca come pane, nell’intimo tuo come sangue; farmi cellula, respiro, pensiero di te. Tua vita». Qui è il miracolo, il batticuore, lo stupore: Dio in me, il mio cuore lo assorbe, lui assorbe il mio cuore, e diventiamo una cosa sola.
(Letture: Deuteronòmio 8,2-3.14b-16a; Salmo 147; 1 Corìnzi 10,16-17; Giovanni 6,51-58)
il commento al vangelo della domenica
icone di Dio
c’è santità e luce in ogni vita
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della seconda domenica dopo natale (5 gennaio 2020):
In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. […]
Vangelo immenso, un volo d’aquila che ci impedisce piccoli pensieri, che opera come uno sfondamento verso l’eterno: verso «l’in principio» (in principio era il Verbo) e il «per sempre». E ci assicura che un’onda immensa viene a battere sui promontori della nostra esistenza (e il Verbo si fece carne), che siamo raggiunti da un flusso che ci alimenta, che non verrà mai meno, a cui possiamo sempre attingere, che in gioco nella nostra vita c’è una forza più grande di noi. Che un frammento di Logos, di Verbo, ha messo la sua tenda in ogni carne, qualcosa di Dio è in ogni uomo. C’è santità e luce in ogni vita. E nessuno potrà più dire: qui finisce la terra, qui comincia il cielo, perché ormai terra e cielo si sono abbracciati. E nessuno potrà dire: qui finisce l’uomo, qui comincia Dio, perché creatore e creatura si sono abbracciati e, almeno in quel neonato, uomo e Dio sono una cosa sola. Almeno a Betlemme. «Gesù è il racconto della tenerezza del Padre» (Evangelii gaudium), per questo penso che la traduzione, libera ma vera, dei primi versetti del Vangelo di Giovanni, possa suonare pressappoco così: «In principio era la tenerezza, e la tenerezza era presso Dio, e la tenerezza era Dio… e la tenerezza carne si è fatta e ha messo la sua tenda in mezzo a noi». Il grande miracolo è che Dio non plasma più l’uomo con polvere del suolo, dall’esterno, come fu in principio, ma si fa lui stesso, teneramente, polvere plasmata, bambino di Betlemme e carne universale. A quanti l’hanno accolto ha dato il potere… Notiamo la parola: il potere, non solo la possibilità o l’opportunità di diventare figli, ma un potere, una energia, una vitalità, una potenza di umanità capace di sconfinare. «Dio non considera i nostri pensieri, ma prende le nostre speranze e attese, e le porta avanti» (Giovanni Vannucci). Nella tenerezza era la vita, e la vita era la luce degli uomini. Una cosa enorme: la vita stessa è luce. La vita vista come una grande parabola che racconta Dio; un Vangelo che ci insegna a sorprendere parabole nella vita, a sorprendere perfino nelle pozzanghere della terra il riflesso del cielo. Ci dà la coscienza che noi stessi siamo parabole, icone di Dio. Che chi ha la sapienza del vivere, ha la sapienza di Dio. Chi ha passato anche un’ora soltanto ad ascoltare e ad addossarsi il pianto di una vita è più vicino al mistero di Dio di chi ha letto tutti i libri e sa tutte le parole. Da Natale, da dove l’infinitamente grande si fa infinitamente piccolo, i cristiani cominciano a contare gli anni, a raccontare la storia. Questo è il nodo vivo del tempo, che segna un prima e un dopo. Attorno ad esso danzano i secoli e tutta la mia vita.
il commento al vangelo della domenica
san Giuseppe uomo giusto con gli stessi sogni di Dio
Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». (…)
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della quarta domenica di avvento (22 dicembre 2019):
Tra i custodi dell’attesa è il momento di Giuseppe, uomo dei sogni e delle mani callose, l’ultimo patriarca dell’antico Israele, sigillo di una storia gravida di contraddizioni e di promesse: la sua casa e i suoi sogni narrano una storia d’amore, i suoi dubbi e il cuore ferito raccontano un’umanissima storia di attese e di crisi. Prima che andassero a vivere insieme, Maria si trovò incinta… Allora Giuseppe pensò di ripudiarla in segreto. Di nascosto. È l’unico modo che ha trovato per salvare Maria dal rischio della lapidazione, perché la ama, lei gli ha occupato la vita, il cuore, perfino i sogni. Da chi ha imparato Gesù ad opporsi alla legge antica, a mettere la persona prima delle regole, se non sentendo raccontare da Giuseppe la storia di quell’amore che lo ha fatto nascere (l’amore è sempre un po’ fuorilegge…), la storia di un escamotage pensato per sottrarre la madre alla lapidazione? Come ha imparato Gesù a scegliere il termine di casa “abbà”, quella sua parola da bambini, così identitaria ed esclusiva, se non davanti a quell’uomo dagli occhi e dal cuore profondi? Chiamando Giuseppe “abbà”, papà, ha imparato che cosa evochi quel nome dolce e fortissimo, come sia rivelazione del volto d’amore di Dio. Giuseppe che non parla mai, di cui il vangelo non ricorda neppure una parola, uomo silenzioso e coraggioso, concreto e libero, sognatore: le sorti del mondo sono affidate ai suoi sogni. Perché l’uomo giusto ha gli stessi sogni di Dio. Ci vuole coraggio per sognare, non solo fantasia. Significa non accontentarsi del mondo così com’è. La materia di cui sono fatti i sogni è la speranza (Shakespeare). Il Vangelo riporta ben quattro sogni di Giuseppe, sogni di parole. E ogni volta si tratta di un annunzio parziale, incompleto (prendi il bambino e sua madre e fuggi…) ogni volta una profezia breve, troppo breve, senza un orizzonte chiaro, senza la data del ritorno. Eppure sufficiente per stringere a sé la madre e il bambino, per mettersi in viaggio verso l’Egitto e poi per riprendere la strada di casa. È la via imperfetta dei giusti e perfino dei profeti, anzi di ogni credente: Guidami Tu, Luce gentile, / attraverso il buio che mi circonda,/ sii Tu a condurmi! /La notte è oscura/ e sono lontano da casa,/ sii Tu a condurmi!/ Sostieni i miei piedi vacillanti: /io non chiedo di vedere/ ciò che mi attende all’orizzonte,/ un passo solo mi sarà sufficiente (cardinale John Henry Newman).
Anche noi avremo tanta luce quanta ne basta a un solo passo, e poi la luce si rinnoverà, come i sogni di Giuseppe. Avremo tanto coraggio quanto ne serve ad affrontare la prima notte. Poi il coraggio si rinnoverà, come gli angeli del giusto Giuseppe.
il commento al vangelo della domenica
quando mettiamo «io» al posto di «Dio»
il commento di E. Ronchi al vangelo della trentesima domenica del tempo ordinario (27 ottobre 2019):
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo” […]».
Una parabola “di battaglia”, in cui Gesù ha l’audacia di denunciare che pregare può essere pericoloso, può perfino separarci da Dio, renderci “atei”, adoratori di un idolo. Il fariseo prega, ma come rivolto a se stesso, dice letteralmente il testo; conosce le regole, inizia con le parole giuste «o Dio ti ringrazio», ma poi sbaglia tutto, non benedice Dio per le sue opere, ma si vanta delle proprie: io prego, io digiuno, io pago, io sono un giusto. Per l’anima bella del fariseo, Dio in fondo non fa niente se non un lavoro da burocrate, da notaio: registra, prende nota e approva. Un muto specchio su cui far rimbalzare la propria arroganza spirituale. Io non sono come gli altri, tutti ladri, corrotti, adulteri, e neppure come questo pubblicano, io sono molto meglio. Offende il mondo nel mentre stesso che crede di pregare. Non si può pregare e disprezzare, benedire il Padre e maledire, dire male dei suoi figli, lodare Dio e accusare i fratelli. Quella preghiera ci farebbe tornare a casa con un peccato in più, anzi confermati e legittimati nel nostro cuore e occhio malati. Invece il pubblicano, grumo di umanità curva in fondo al tempio, fermatosi a distanza, si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». Una piccola parola cambia tutto e rende vera la preghiera del pubblicano: «tu», «Signore, tu abbi pietà». La parabola ci mostra la grammatica della preghiera. Le regole sono semplici e valgono per tutti. Sono le regole della vita. La prima: se metti al centro l’io, nessuna relazione funziona. Non nella coppia, non con i figli o con gli amici, tantomeno con Dio. Il nostro vivere e il nostro pregare avanzano sulla stessa strada profonda: la ricerca mai arresa di qualcuno (un amore, un sogno o un Dio) così importante che il tu viene prima dell’io. La seconda regola: si prega non per ricevere ma per essere trasformati. Il fariseo non vuole cambiare, non ne ha bisogno, lui è tutto a posto, sono gli altri sbagliati, e forse un po’ anche Dio. Il pubblicano invece non è contento della sua vita, e spera e vorrebbe riuscire a cambiarla, magari domani, magari solo un pochino alla volta. E diventa supplica con tutto se stesso, mettendo in campo corpo cuore mani e voce: batte le mani sul cuore e ne fa uscire parole di supplica verso il Dio del cielo (R. Virgili). Il pubblicano tornò a casa perdonato, non perché più onesto o più umile del fariseo (Dio non si merita, neppure con l’umiltà) ma perché si apre – come una porta che si socchiude al sole, come una vela che si inarca al vento – a Dio che entra in lui, con la sua misericordia, questa straordinaria debolezza di Dio che è la sua unica onnipotenza.
il commento al vangelo della domenica
Il dono più prezioso dei Magi? Il loro stesso viaggio
il commento di E. Ronchi al vangelo della Epifania
Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. […]
Epifania, festa dei cercatori di Dio, dei lontani, che si sono messi in cammino dietro a un loro profeta interiore, a parole come quelle di Isaia. «Alza il capo e guarda». Due verbi bellissimi: alza, solleva gli occhi, guarda in alto e attorno, apri le finestre di casa al grande respiro del mondo. E guarda, cerca un pertugio, un angolo di cielo, una stella polare, e da lassù interpreta la vita, a partire da obiettivi alti. Il Vangelo racconta la ricerca di Dio come un viaggio, al ritmo della carovana, al passo di una piccola comunità: camminano insieme, attenti alle stelle e attenti l’uno all’altro. Fissando il cielo e insieme gli occhi di chi cammina a fianco, rallentando il passo sulla misura dell’altro, di chi fa più fatica. Poi il momento più sorprendente: il cammino dei Magi è pieno di errori: perdono la stella, trovano la grande città anziché il piccolo villaggio; chiedono del bambino a un assassino di bambini; cercano una reggia e troveranno una povera casa. Ma hanno l’infinita pazienza di ricominciare. Il nostro dramma non è cadere, ma arrenderci alle cadute. Ed ecco: videro il bambino in braccio alla madre, si prostrarono e offrirono doni. Il dono più prezioso che i Magi portano non è l’oro, è il loro stesso viaggio. Il dono impagabile sono i mesi trascorsi in ricerca, andare e ancora andare dietro ad un desiderio più forte di deserti e fatiche. Dio desidera che abbiamo desiderio di Lui. Dio ha sete della nostra sete: il nostro regalo più grande. Entrati, videro il Bambino e sua madre e lo adorarono. Adorano un bambino. Lezione misteriosa: non l’uomo della croce né il risorto glorioso, non un uomo saggio dalle parole di luce né un giovane nel pieno del vigore, semplicemente un bambino. Non solo a Natale Dio è come noi, non solo è il Dio-con-noi, ma è un Dio piccolo fra noi. E di lui non puoi avere paura, e da un bambino che ami non ce la fai ad allontanarti. Informatevi con cura del Bambino e poi fatemelo sapere perché venga anch’io ad adorarlo! Erode è l’uccisore di sogni ancora in fasce, è dentro di noi, è quel cinismo, quel disprezzo che distruggono sogni e speranze. Vorrei riscattare queste parole dalla loro profezia di morte e ripeterle all’amico, al teologo, all’artista, al poeta, allo scienziato, all’uomo della strada, a chiunque: Hai trovato il Bambino? Ti prego, cerca ancora, accuratamente, nella storia, nei libri, nel cuore delle cose, nel Vangelo e nelle persone; cerca ancora con cura, fissando gli abissi del cielo e gli abissi del cuore, e poi raccontamelo come si racconta una storia d’amore, perché venga anch’io ad adorarlo, con i miei sogni salvati da tutti gli Erodi della storia e del cuore.
il commento al vangelo della domenica
“NON ABBIATE PAURA “
commento al vangelo della dodicesima domenica del tempo ordinario (25 giugno 2017) di Ermes Ronchi:
Matteo 10,26-33
In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: «Non abbiate paura degli uomini, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze. E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo. Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri! Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli».
Non abbiate paura: voi valete più di molti passeri. Ogni volta, di fronte a queste parole provo paura e commozione insieme: la paura di non capire un Dio che si perde dietro le più piccole creature: i passeri e i capelli del capo; la commozione di immagini che mi parlano dell’impensato di Dio, che fa per te ciò che nessuno ha fatto, ciò che nessuno farà: ti conta tutti i capelli in capo e ti prepara un nido nelle sue mani. Per dire che tu vali per Lui, che ha cura di te, di ogni fibra del corpo, di ogni cellula del cuore: innamorato di ogni tuo dettaglio.
Nemmeno un passero cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Eppure i passeri continuano a cadere, gli innocenti a morire, i bambini ad essere venduti a poco più di un soldo o gettati via appena spiccato il loro breve volo.
Ma allora, è Dio che fa cadere a terra? È Dio che infrange le ali dei corti voli che sono le nostre vite, che invia la morte ed essa viene? No. Abbiamo interpretato questo passo sull’eco di certi proverbi popolari come: non si muove foglia che Dio non voglia. Ma il Vangelo non dice questo, assicura invece che neppure un passero cadrà a terra senza che Dio ne sia coinvolto, che nessuno cadrà fuori dalle mani di Dio, lontano dalla sua presenza. Dio sarà lì.
Nulla accade senza il Padre, è la traduzione letterale, e non di certo senza che Dio lo voglia. Infatti molte cose, troppe accadono nel mondo contro il volere di Dio. Ogni odio, ogni guerra, ogni violenza accade contro la volontà del Padre, e tuttavia nulla avviene senza che Dio ne sia coinvolto, nessuno muore senza che Lui non ne patisca l’agonia, nessuno è rifiutato senza che non lo sia anche lui (Matteo 25), nessuno è crocifisso senza che Cristo non sia ancora crocifisso.
Quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo sulle terrazze, sul posto di lavoro, nella scuola, negli incontri di ogni giorno annunciate che Dio si prende cura di ognuno dei suoi figli, che nulla vi è di autenticamente umano che non trovi eco nel cuore di Dio.
Temete piuttosto chi ha il potere di far perire l’anima, l’anima è vulnerabile, l’anima è una fiamma che può languire: muore di superficialità, di indifferenza, di disamore, di ipocrisia. Muore quando ti lasci corrompere, quando disanimi gli altri e togli loro coraggio, quando lavori a demolire, a calunniare, a deridere gli ideali, a diffondere la paura.
Per tre volte Gesù ci rassicura: Non abbiate paura (vv 26,28,31), voi valete! Che bello questo verbo! Per Dio, io valgo. Valgo di più, di più di molti passeri, di più di tutti i fiori del campo, di più di quanto osavo sperare. E se una vita vale poco, niente comunque vale quanto una vita.
(Letture: Geremia 20,10-13; Salmo 68; Romani 5,12-15; Matteo 10,26-33)