una chiesa rinnovata e ripulita nei sogni di Vitaliano Della Sala

una chiesa degli esclusi

non dell’esclusione

 

Nel 1999, con la mia Comunità parrocchiale, per prepararci al Grande Giubileo del 2000, riflettemmo su una frase che Giovanni XXXIII aveva pronunciato all’inizio del Vaticano II: “Il Concilio sia più per imparare la medicina della misericordia che quella del rigore”. Raccogliemmo le nostre conclusioni in una lettera che inviammo al Segretario del Giubileo, l’allora monsignor Crescenzio Sepe, in cui esprimevamo i nostri dubbi sull’evento che si stava preparando con sproporzionata enfasi, e gli annunciavamo che non saremmo andati a Roma nel 2000. A quel tempo credevo ancora che a qualcuno, in Vaticano, interessasse il contributo di idee e critiche che venivano dalla base della Chiesa. Il futuro cardinale di Napoli non ci rispose affatto.

Scrivevamo: “Il grande appuntamento sta cominciando a prenderci la mano e, nello stesso tempo, a sfuggirci di mano. Dietro l’imponente macchina messa in moto si intravede, purtroppo, la grande tentazione farisaica dell’esteriorità. Senz’altro non è questo il Giubileo di cui parlano il libro del Levitico dove è descritto come un anno di liberazione e di riscatto. Dobbiamo avere il coraggio di viverlo così. Liberandoci dalla frenesia delle cose inutili che ci fanno perdere di vista quelle davvero necessarie. Un anno di riconciliazione e di incontro con Dio e con il prossimo e di riconciliazione con la terra, che non è oggetto di sfruttamento. La vera porta santa da spalancare non è quella imponente di bronzo della basilica di San Pietro ma la porta nascosta e sgangherata degli “scantinati della storia”. La porta veramente santa delle favelas e di tutte le periferie, delle case di cartone dei barboni, dei campi profughi, dei reparti d’ospedale dove chiudono i loro giorni i malati terminali, delle celle dei prigionieri politici, delle case dei disoccupati e degli sfruttati, di ogni luogo dove è vivo il dolore e troppo debole la speranza. Porte attraverso cui poter entrare, porte attraverso cui qualcuno potrà finalmente uscire. Se, anziché queste porte, permetteremo che si aprano le porte delle banche, degli uffici dei progettisti e delle mega imprese, dei burocrati, dei politicanti e degli affaristi,  se lasceremo che si aprano ancora di più le porte dei ricchi, le porte di Dio resteranno davvero chiuse”.

Il Grande Giubileo del 2000 fu esattamente il contrario di tutto quello che chiedevamo in quella lettera. Perciò ora faccio fatica a criticare l’Anno santo straordinario della misericordia, voluto da papa Francesco, e che si è appena concluso, se non per il fatto che forse non dovremmo proprio aver bisogno di celebrare Giubilei ordinari o straordinari.

Non so se dietro l’elezione di papa Bergoglio ci siano strategie di marketing chiare o opache, come non so se il Giubileo della misericordia sia stato pensato in buona fede dal papa e sfruttato in malafede da chi gli sta attorno. Un fatto è certo: il tema della misericordia, al di là dello strombazzamento ufficiale, è motivo di critiche, più o meno aperte, nei confronti del papa. In realtà le critiche pubbliche sono poche. Ma come purtroppo è costume nella Chiesa, quelle striscianti e sotterranee sono tante e squallide. Accanto alle critiche silenziose e complici di tanti vescovi e sacerdoti, quel che è peggio è che sono troppi i fedeli laici che criticano, non tanto il giubileo, ma il troppo insistere sulla misericordia, come se questa potesse essere slegata dal Vangelo e dall’essere cristiani. Papa Francesco appare sempre più solo e perdente, al di là delle folle plaudenti che non si negano a nessuno. E forse per questo mi sta diventando simpatico!Vitaliano della Sala

Una simpatia che però non mi impedisce di sognare e di impegnarmi, nel mio piccolo, a costruire una Chiesa-altra. Continuo a sognare una Chiesa che assomigli sempre più al Regno di Dio della parabola del granello di senape che diventa un albero frondoso, «e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra». Sogno una Chiesa inclusiva, che non emargina, non usa la pesante scure del giudizio contro altri; una Chiesa degli esclusi e non dell’esclusione, capace di accogliere, di portare tutti gli uomini in seno. Sogno una Chiesa cristiana dove la diversità sia veramente vissuta come ricchezza per ciascuno e l’unità non sia il desiderio di uniformità, una Chiesa che non teme le altre religioni e le diverse culture; una Chiesa che non abbia bisogno del “primato di Pietro”, come lo conosciamo oggi, con il contorno di Vaticano, Santa Sede, Segretari di Stato, Prefetti, Banca vaticana; nella quale i preti possano finalmente sposarsi e il matrimonio tra un maschio e una femmina non sia l’unico modo per condividere la vita, e dove nessuno sia in alcun modo discriminato: sogno una donna che sia responsabile della parrocchia che confina con la mia, e perché no, sogno il mio prossimo vescovo donna e una donna papa. Sogno una Chiesa che non abbia più bisogno dell’inferno per terrorizzare i semplici, né di vecchie e nuove indulgenze; una Chiesa che non abbia più bisogno di padrepii né di madreterese, né di ossa, sangue, reliquie, “pupazzi” da portare in giro per imporre una santità irraggiungibile ai più. E sogno una Chiesa che non abbia più bisogno di sacerdoti ordinati per celebrare i sacramenti, formata da comunità e fedeli laici responsabili e protagonisti nelle decisioni e nelle celebrazioni; una Chiesa senza confini, nazionali o mentali che, anzi, li allarghi sempre più verso quelli sconfinati del Regno di Dio   

Intanto, come scrisse Erasmo di Rotterdam a Martin Lutero “sopporto questa chiesa fin che non ne vedo una migliore, ed essa è costretta a sopportare me fin quando non sarò diventato migliore”.

Vitaliano Della Sala è amministratore parrocchiale a Mercogliano

 

gli ‘scarti’, gli ‘esclusi’… la peggiore povertà: essere considerati un niente

Wresinski, l’apostolo degli esclusi

in prossimità del processo di beatificazione di Joseph Wresinski è interessante leggere dalle sue stesse parole la sofferenza che ha colto in tanti ‘volti’ e persone cui era ed è da sempre proibito ‘abitare il mondo degli altri’, perché ‘inesistenti’ pur viventi:

Joseph Wresinski

di Joseph Wresinski

in “Avvenire” del 25 febbraio 2015

Dai tempi più lontani cui risalgono i miei ricordi d’infanzia fino a oggi, i più poveri mi sono apparsi come delle famiglie – in sostanza tutto un popolo – alle quali era vietato abitare il mondo degli altri; abitare la città, il paese, la terra. Come si poteva infatti definire «abitare» questo modo di ammassarsi, nascondersi, ripararsi con mezzi di fortuna, al margine del quartiere dove la mia stessa famiglia viveva in un tugurio? Popolazione relegata nella città bassa di Angers, in mansarde, in qualche locale sul cortile dove il sole non entrava mai, in uno stanzino senza finestre, in fondo a un corridoio, in uno scantinato non destinato ad abitazione. Popolazione che per il fatto stesso di abitare la terra in questo modo, era ritenuta indegna di abitare accanto a famiglie meno sventurate. Più tardi, parroco di campagna, invitato a desinare la domenica dall’uno o l’altro dei proprietari agricoli della mia parrocchia, trovavo seduti alla stessa tavola dei lavoratori agricoli stagionali. Provenivano da alloggi privi di comodità, prestati loro per il tempo del contratto di lavoro. Sedevano all’estremità della tavola dove veniva servita soltanto una minestra, mentre gli invitati che circondavano il proprietario ricevevano un pasto completo. Lavoratori che abitavano in luoghi diversi uno dopo l’altro, sempre provvisoriamente, e per i quali anche la qualità di invitati della domenica era conforme alla qualità di uomini poveri da alloggiare e nutrire al minor costo possibile, per il tempo del loro servizio. Uomini, famiglie che, venuto l’inverno, avrebbero dovuto rifugiarsi in una capanna nascosta nel sottobosco, in un riparo fatto di terra e rami, scavato in un pendio di collina per non bagnarsi, in un granaio abbandonato… Infine arrivai al campo dei senzatetto a Noisy-le-Grand, terra fuori del mondo dove centinaia di famiglie abitavano in «igloo» di fibro-cemento che altrove erano destinati ai maiali; e anche questo solo provvisoriamente, chi infatti poteva ammettere a lungo una «lebbra» del genere alle porte di Parigi? Qui di nuovo trovavo famiglie trattate come oggetto di provvedimenti, di aiuti e di controlli, più che come soggetti di diritti. Famiglie che avevano come sola identità una denominazione negativa: ‘asociali’, «disadattate», «pesanti», «famiglie con problemi »; la sola etichetta più o meno neutra di «senza tetto» era stata a poco a poco soppressa. Vennero poi gli anni in cui, con la diramazione nel mondo del Movimento ATD Quarto Mondo, il mio cammino mi condusse attraverso l’Europa e in tutti i continenti. Per ritrovare sempre, nei confronti dei più poveri, questo stesso divieto di abitare la terra e di esistere rispetto agli altri. Famiglie sul lastrico nelle grandi città dell’America del Nord, la loro identità familiare annullata per essere stipate, i bambini e le madri da un lato, i padri dall’altro, nei ricoveri del sistema di assistenza. Famiglie dell’America latina che hanno lasciato la campagna e la fame per arroccarsi ai bordi di un precipizio vicino alla capitale. Nell’ambito di queste famiglie, le nascite e le morti non vengono registrate, perché non dovrebbero trovarsi in luoghi dove è vietato abitare. Quando la pioggia tropicale trascina una capanna nel precipizio, questo significa che dei bambini avranno vissuto e saranno morti senza mai essere esistiti per le amministrazioni, come non esistono nei registri e nelle statistiche nazionali e internazionali le famiglie stabilite su un terreno paludoso, ai bordi di una baia, in qualche località delle Antille. Esse vi si trovano illegalmente e, dopo il passaggio del bulldozer per spianare il terreno in vista di un’altra utilizzazione, nessuno avrà mai notizia delle centinaia di ricoveri, delle misere suppellettili ridotti in polvere. Nessuno saprà dove vanno errando, dove si nascondono queste famiglie ovunque indesiderate. Che dire pure dei bambini che vivono nella strada, in tutti i continenti in via di sviluppo, guadagnandosi il pane da soli, mendicando e rubando per nutrirsi e talvolta per nutrire tutta la famiglia? Che dire dei bambini sdraiati la notte accanto a un mattatoio e che all’alba rovistano nei rifiuti della città? È il risultato inevitabile dell’inumano divieto fatto ai più poveri del diritto di abitare la terra. Risultato di cui non sempre ci riconosciamo sufficientemente corresponsabili, nei paesi ricchi. La fine del cammino è soprattutto il passaggio da una identità già negativa a questa specie di non identità, di non esistenza amministrativa, a questa cancellazione da ogni registro, da ogni statistica. Degli esseri umani, delle famiglie appaiono allora solo come dei fantasmi: sono stati visti, ma non si sa più dove e quanti siano. È la fine di ogni speranza di fare ancora parte di coloro che un giorno proclamarono «Noi, popoli delle Nazioni Unite», questa comunità internazionale che aveva scelto come obiettivo la realizzazione dei Diritti dell’uomo. È anche la fine di ogni speranza – perché si esisterebbe ancora agli occhi del mondo – di poter unire le proprie forze a quelle degli altri, per combattere insieme per la conquista dei diritti. Più gli uomini sono poveri, privati del diritto di abitare la terra, più avrebbero bisogno di unire le loro forze attraverso il mondo. E invece, sfortunatamente, meno diritti hanno e meno sono liberi e in grado di unirsi per una qualsiasi lotta comune. Infatti, senza identità presente sono anche privi di storia e fuori della storia del proprio popolo. Sono interdetti di appartenere (come un prodigo viene «interdetto») a una collettività che, in nome della storia passata e presente, persegua un progetto di avvenire comune. Questi sono i fatti. Ma ciò che conta maggiormente non è forse la sofferenza che si cela dietro di essi? La grande povertà, nel pregiudicare l’insieme dei Diritti dell’uomo, rappresenta uno spreco inaccettabile d’intelligenza, inventiva, speranza e amore. È lo spreco di un capitale incalcolabile rappresentato da uomini, donne, bambini esclusi dal diritto, dall’amministrazione, dalla comunità e dalla democrazia. E soprattutto, dietro il silenzio dei nostri registri e delle nostre statistiche, sussiste un’infanzia mutilata, giovani abbandonati alla disperazione, adulti ridotti a dubitare della loro condizione di uomini e della loro dignità. I più poveri infatti ce lo ricordano spesso: la fame, l’analfabetismo, la stessa disoccupazione non sono la peggiore sventura per l’uomo. La peggiore sventura è sapersi considerati un niente, al punto che persino le proprie sofferenze vengono ignorate. La cosa peggiore è il disprezzo dei vostri concittadini, poiché è il disprezzo che vi esclude da ogni diritto, che fa sì che il mondo ignori ciò che voi vivete, che vi impedisce di essere riconosciuti degni e capaci di responsabilità. La più grande disgrazia dell’estrema povertà è di essere come un morto vivente per tutta la vita.

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