l’arroganza della ‘tribù bianca’

padre Zanotelli e l’Africa devastata e umiliata dalla «tribù» bianca


di Paolo Lambruschi
il comboniano scrive la storia non ufficiale di secoli di sfruttamento e ingiustizie ponendosi dalla parte delle vittime per aiutarci a capire a cosa stiamo andando incontro se non cambiamo rotta

Padre Alex Zanotell

«Questa mia generazione sarà fra quelle più maledette della storia umana, perché nessun’altra ha mai ha così gravemente violentato e sfruttato il pianeta. Chiedo perdono a voi giovani perché vi consegniamo un mondo gravemente malato e toccherà alla vostra generazione ripensare radicalmente questo nostro sistema»

Padre Alex Zanotelli è stato molti anni in missione in Africa. Dopo 12 anni di permanenza a Korogocho, uno degli slum più duri di Nairobi, la sera prima della partenza, durante una partecipata veglia di preghiera interreligiosa, ricevette in dono una nuova missione: tornare a casa a convertire noi, ovvero la tribù bianca. Nasce qui la Lettera alla tribù bianca (Feltrinelli, pagine 124, euro 12,00) un volume agile e intenso che condensa le battaglie e le motivazioni spirituali e culturali del comboniano trentino, classe 1938, sempre dalla parte degli oppressi e degli ultimi.

Del resto per lui la collocazione naturale del missionario è nelle periferie. Come è andata lo sappiamo dalla sua biografia, l’incarico di partire per una missione solo in apparenza ‘capovolta’, ricevuto dal popolo di una delle periferie estreme della terra, dai suoi baraccati, dai raccoglitori di rifiuti della discarica, dalle ragazze malate di Aids, dai ragazzini e dalle ragazzine di strada, dalle gang e dalle giovanissime che andavano a Nairobi lo ha preso sul serio.

Interessante il risvolto spirituale che si cela dietro il suo attivismo. Confessa che nelle sue battaglie lo ha sostenuto la «spiritualità degli impoveriti». Zanotelli confessa di aver riletto negli anni la Bibbia con altri occhi fino a scoprire la fede nel Dio «che sente la sofferenza inflitta agli oppressi e scende a liberarli». Ieri tramite Mosè, oggi, secondo i dettami della black theology sudafricana e nordamericana, attraverso Nelson Mandela, Desmond Tutu e Martin Luther King.

In questi ultimi 20 anni passati in Italia Zanotelli ha scelto di vivere negli spazi ristretti di una torre campanaria del Rione Sanità a Napoli. Qui ha riscritto in questa “lettera” la storia non ufficiale di secoli di sfruttamento e ingiustizie ai danni dell’Africa ponendosi dalla parte delle vittime per aiutarci a capire a cosa stiamo andando incontro se non cambiamo rotta. Secoli di suprematismo, razzismo e disprezzo sono già racchiusi nel termine “tribù”: perché 80 milioni di hausa nigeriani sono definiti tribù dai bianchi e 8 milioni di svizzeri hanno la dignità di popolo?

Con le solide basi storiche tipiche dei comboniani (ha diretto la rivista Nigizia) spiega le attuali disuguaglianze che affliggono il pianeta. La corsa all’Africa del colonialismo inglese, francese, spagnolo e portoghese che con la schiavitù e la razzia delle risorse hanno posto le basi dello sviluppo capitalista imponendo costi umani altissimi e impoverendo terre ricchissime. Non sono da dimenticare neppure i colonialismi “minori”‘ per durata come quello tedesco che nel 1904 commise il primo genocidio del ’900, quello degli Herero in Namibia e Botswana. O come i massacri e gli orrori imputabili al re del Belgio Leopoldo II in Congo, sua proprietà personale, né la durissima repressione in Libia ed Etiopia con i masscri con il gas e le violenze sui civili degli italiani, prima e durante il fascismo.

Non fa sconti alla Chiesa Zanotelli, non li ha mai fatti anche se oggi è in forte sintonia con la predicazione di papa Francesco che chiede all’umanità una rivoluzione culturale ed etica. E l’arcivescovo di Napoli Mimmo Battaglia, gli ha scritto pochi giorni fa una intensa missiva che gli ha consegnato e letto personalmente durante la presentazione del volume a Napoli: «È per fedeltà a Dio e a tutti i suoi figli, specie i più impoveriti, – scrive don Mimmo – che è cambiato il tuo sguardo e chiedi a noi di fare altrettanto, di rileggere persino le Sacre Scritture, ma pure la storia e la geografia con altri occhi, non con quelli dei dominatori e dei potenti ma degli ultimi e degli sfruttati».

Battaglia sottolinea che «quei 12 anni a Korogocho ti tengono ancora in vita, “in piedi” direbbe Tonino Bello, come artigiano di pace e giustizia». E da artigiano e profeta scomodo, come lo chiamava l’indimenticabile leader aclista Giovanni Bianchi, Alex conta sui giovani di ogni età per reinventare insieme il mondo sconvolto da guerre note e dimenticate (la terza guerra mondiale a pezzi), dai mutamenti climatici e da povertà e disuguaglianze economiche e sociali sempre più scandalose. Perché come diceva il vescovo anglicano sudafricano Desmond Tutu così amato da Zanotelli: «Dio verrà perché ha un sogno e questo si realizzerà attraverso di noi».

i lager del nostro tempo destinati ai migranti – la denuncia di papa Francesco

 Il filo spinato è «simbolo d’odio. Dio risvegli la coscienza di tutti noi». I lager nel XX secolo? Ci sono anche oggi, sono per i migranti. Papa Francesco lo esclama parlando «a braccio» durante la preghiera ecumenica con i migranti nella chiesa parrocchiale di Santa Croce a Nicosia, nel suo secondo giorno di visita a Cipro prima di andare in Grecia, domani. Tra i migranti presenti all’incontro, anche alcuni che saranno tra quelli trasferiti in Italia per iniziativa del Pontefice e con la collaborazione della Comunità di Sant’Egidio.

Afferma il Vescovo di Roma: «Noi ci lamentiamo quando leggiamo le storie dei lager del secolo scorso, dei nazisti, di Stalin. “Come mai è potuto succedere?” Ma sta succedendo anche oggi, nelle spiagge vicine, ponte di schiavitù». Il Vescovo di Roma ha «guardato alcune testimonianze filmate: storie di tortura. Questo lo dico perché è compito mio far aprire gli occhi. È la guerra di questo momento, è la sofferenze di fratelli e sorelle. E non possiamo tacere».

E nell’ultima capitale d’Europa separata in due parti da un muro, nella chiesa che si trova vicino alla barriera di divisione tra la parte greco-cipriota e quella turco-cipriota, il Pontefice dice, ancora senza leggere il testo scritto: «Scusatemi, ma vorrei dire quello che ho nel cuore: i fili spinati, ma questa è una guerra di odio che vive un Paese, ma finiscono anche in altre parti dove si mettono per non lasciare entrare il rifugiato, quello che viene a chiedere libertà, pane, aiuto, fratellanza, gioia, che sta fuggendo dall’odio si trova davanti a un odio che si chiama filo spinato». Il Vescovo di Roma auspica «che il Signore risvegli la coscienza di tutti noi davanti a queste cose. Non possiamo tacere e guardare dall’altra parte in questa cultura dell’indifferenza».

Bergoglio cita il caso di «quando gli interessi di gruppi, o gli interessi politici, anche delle nazioni, spingono tanti di noi a restare da una parte, senza volerlo, schiavi: perché l’interesse sempre schiavizza, sempre crea schiavi. L’amore, che è contrario all’odio, ci fa liberi».

E come segno «della sollecitudine del Santo Padre verso famiglie e persone migranti, il Viaggio Apostolico a Cipro sarà accompagnato nelle prossime settimane da un gesto umanitario di accoglienza di circa 12 rifugiati, alcuni dei quali il Papa ha salutato questa sera al termine dell’incontro di preghiera ecumenica con i migranti». È quanto riferisce la Sala stampa vaticana confermando, ma solo in parte, le notizie già diffuse: i 12 rifugiati, infatti, costituirebbero la prima tranche del ricollocamento, mentre altre ne seguiranno tra gennaio e febbraio fino a un totale di 50 persone. Il loro trasferimento e «l’accoglienza sarà reso possibile grazie ad un accordo tra la Segreteria di Stato, le Autorità italiane e cipriote, e la collaborazione con la Sezione per i Migranti e Rifugiati della Santa Sede e la Comunità di Sant’Egidio».

Il Vescovo di Roma vuole rivolgere «un grande “grazie” dal cuore» ai quattro giovani migranti di cui ha ascoltato le testimonianze di grandi ferite e sofferenze, ma anche sogni e speranze, da cui si è detto «commosso»: una, Mariamie Besala Welo, dalla Repubblica Democratica del Congo, poi Thamara da Silva dallo Sri Lanka, Maccolins Ewoukap Nfongock dal Camerun e Rozh Najeeb dall’Iraq. Dice il Papa: «La vostra presenza, fratelli e sorelle migranti, è molto significativa per questa celebrazione. Le vostre testimonianze sono come uno “specchio” per noi, comunità cristiane». Secondo Francesco, «la brutalità della migrazione mette in gioco la propria identità». Ma non devono «farci paura le differenze tra noi, piuttosto le nostre chiusure e i nostri pregiudizi, che ci impediscono di incontrarci veramente e di camminare insieme. Le chiusure e i pregiudizi ricostruiscono tra noi quel muro di separazione che Cristo ha abbattuto, cioè l’inimicizia». In questo mondo, evidenzia, «siamo abituati alla cultura dell’indifferenza, alla cultura di guardare dall’altra parte, e addormentarci». Dio parla «attraverso i vostri sogni – aggiunge – Chiama anche noi a non rassegnarci a un mondo diviso, a comunità cristiane divise, ma a camminare nella storia attratti dal sogno di Dio: un’umanità senza muri di separazione, liberata dall’inimicizia, senza più stranieri ma solo concittadini». Diversi, «certo, e fieri delle nostre peculiarità, che sono dono di Dio, diversi, fieri di esserlo, ma concittadini riconciliati. Possa quest’isola, segnata da una dolorosa divisione, diventare con la grazia di Dio laboratorio di fraternità». Cipro è «generosa, ma non può fare tutto. Non può rispondere alle necessità di accogliere e integrare di tutti quanti arrivano. Dobbiamo capire i limiti».

Per il Papa «l’odio ha inquinato anche le nostre relazioni tra cristiani. E questo lascia il segno, un segno profondo, che dura a lungo. È un veleno da cui è difficile disintossicarsi. È una mentalità distorta, che invece di farci riconoscere fratelli, ci fa vedere come avversari, come rivali, quando non come oggetto da vendere, o da sfruttare».

Francesco è oggi protagonista di incontri ecumenici con gli ortodossi, di una messa per la piccola comunità cattolica locale, e della preghiera con i migranti. Al mattino, all’Arcivescovado ortodosso di Nicosia è prevista la visita di cortesia di Papa Bergoglio a Chrysostomos II, arcivescovo ortodosso di Cipro. Poi il Pontefice incontra il Santo Sinodo presso la Cattedrale ortodossa. Dopo la presentazione delle rispettive delegazioni e il colloquio privato, e dopo avere firmato il «Libro d’Onore», papa Francesco si reca nella Cattedrale ortodossa per incontrare il Santo Sinodo. «Pellegrino a Cipro, perla di storia e di fede, invoco da Dio umiltà e coraggio per camminare insieme verso la piena unità e donare al mondo, sull’esempio degli Apostoli, un fraterno messaggio di consolazione e una viva testimonianza di speranza»: lo ha scritto siglando il Libro d’Onore all’Arcivescovado ortodosso. Al suo arrivo è accolto sull’altare dal patriarca latino di Gerusalemme, monsignor Pierbattista Pizzaballa, che gli porge l’acqua santa per l’aspersione. Quindi, dopo il canto d’inizio, il saluto del Patriarca e le testimonianze di un membro della Caritas di Cipro e di quattro giovani migranti, il Papa pronuncia il suo discorso. Al termine, dopo la preghiera ecumenica, la recita del Padre Nostro e la Benedizione finale, viene offerto un dono al Pontefice. Quindi papa Francesco va nella stanza accanto per salutare i membri del Religious Track of the Cyprus Peace Project, promosso dall’Ambasciata di Svezia, perché tra i capi religiosi di Cipro si coltivi il dialogo ai fini della riunificazione. Francesco auspica «di cuore che aumentino le possibilità di frequentarci, di conoscerci meglio, di abbattere tanti preconcetti e di porci in docile ascolto delle rispettive esperienze di fede. Sarà per ciascuno un’esortazione stimolante a fare meglio e porterà a entrambi un frutto spirituale di consolazione». Incentrando il suo discorso sulla figura di san Barnaba – sodale di san Paolo e primo evangelizzatore dell’isola di Cipro – il cui nome significa al tempo stesso «figlio della consolazione» e «figlio dell’esortazione», il Papa vuole assicurare ai «fratelli ortodossi la preghiera e la vicinanza mia e della Chiesa cattolica, nei problemi più dolorosi che vi angosciano come nelle speranze più belle e audaci che vi animano. Le tristezze e le gioie vostre ci appartengono, le sentiamo nostre! E sentiamo di avere anche tanto bisogno della vostra preghiera». Inoltre, per «rivitalizzarci nella comunione e nella missione occorre anche a noi il coraggio di spogliarci di ciò che, pur prezioso, è terreno, per favorire la pienezza dell’unità. Non mi riferisco certo a quanto è sacro e aiuta a incontrare il Signore – spiega – ma al rischio di assolutizzare certi usi e abitudini, non essenziali per vivere la fede. Non lasciamoci paralizzare dal timore di aprirci e di compiere gesti audaci, non assecondiamo quella “inconciliabilità delle differenze” che non trova riscontro nel Vangelo! Non permettiamo che le tradizioni, al plurale e con la “t” minuscola, tendano a prevalere sulla Tradizione, al singolare e con la “T” maiuscola. Essa ci esorta a imitare Barnaba, a lasciare quanto, anche buono, può compromettere la pienezza della comunione, il primato della carità e la necessità dell’unità». Anche «noi siamo invitati dal Signore, per riscoprirci parte dello stesso Corpo, ad abbassarci fino ai piedi dei fratelli». Ammette il Papa: «Certo, nel campo delle nostre relazioni la storia ha aperto ampi solchi tra di noi, ma lo Spirito Santo desidera che con umiltà e rispetto ci riavviciniamo. Egli ci invita a non rassegnarci di fronte alle divisioni del passato e a coltivare insieme il campo del Regno, con pazienza, assiduità e concretezza. Perché se lasciamo da parte teorie astratte e lavoriamo insieme fianco a fianco, ad esempio nella carità, nell’educazione, nella promozione della dignità umana, riscopriremo il fratello e la comunione maturerà da sé, a lode di Dio». Così ognuno «manterrà i propri modi e il proprio stile, ma con il tempo il lavoro congiunto accrescerà la concordia e si mostrerà fecondo». Non mancano anche oggi «falsità e inganni che il passato ci mette davanti e che ostacolano il cammino. Secoli di divisione e distanze ci hanno fatto assimilare, anche involontariamente, non pochi pregiudizi ostili nei riguardi degli altri, preconcetti basati spesso su informazioni scarse e distorte, divulgate da una letteratura aggressiva e polemica. Ma tutto ciò distorce la via di Dio, che è protesa alla concordia e all’unità».

Dopo avere lasciato la Cattedrale ortodossa, papa Francesco celebra la Messa per la comunità cattolica di Cipro, nella memoria di san Francesco Saverio, nel Gsp Stadium di Nicosia. Si tratta dello stadio più grande di Cipro e ha una capacità di circa 22mila posti. Si stima che alla Messa siano presenti circa 10mila persone, come riferisce la Sala stampa vaticana. Introdotto da un breve indirizzo di saluto di Pizzaballa, nel corso della Celebrazione eucaristica, dopo la proclamazione del Vangelo, il Papa pronuncia l’omelia: «Dinanzi a ogni oscurità personale e alle sfide che abbiamo davanti nella Chiesa e nella società, siamo chiamati a rinnovare la fraternità. Se restiamo divisi tra di noi, se ciascuno pensa solo a sé o al suo gruppo, se non ci stringiamo insieme, non dialoghiamo, non camminiamo uniti, non possiamo guarire pienamente dalle cecità. La guarigione viene quando portiamo insieme le ferite, quando affrontiamo insieme i problemi, quando ci ascoltiamo e ci parliamo. È la grazia di vivere in comunità, di capire il valore di essere comunità». Bergoglio lo chiede «per voi: possiate stare sempre insieme, essere sempre uniti; andare avanti così e con gioia: fratelli cristiani, figli dell’unico Padre. E lo chiedo anche per me». Per Francesco è «bello vedervi e vedere che vivete con gioia l’annuncio liberante del Vangelo. Vi ringrazio per questo. Non si tratta di proselitismo, ma di testimonianza; non di moralismo che giudica, ma di misericordia che abbraccia; non di culto esteriore, ma di amore vissuto. Vi incoraggio ad andare avanti su questa strada. Usciamo a portare la luce che abbiamo ricevuto – esorta – usciamo a illuminare la notte che spesso ci circonda! C’è bisogno di cristiani illuminati ma soprattutto luminosi, che tocchino con tenerezza le cecità dei fratelli; che con gesti e parole di consolazione accendano luci di speranza nel buio. Cristiani che seminino germogli di Vangelo nei campi aridi della quotidianità, che portino carezze nelle solitudini della sofferenza e della povertà». Secondo il Pontefice, «ciascuno di noi è in qualche modo cieco a causa del peccato, che ci impedisce di “vedere” Dio come Padre e gli altri come fratelli. Questo fa il peccato, distorce la realtà: ci fa vedere Dio come padrone e gli altri come problemi. È l’opera del tentatore, che falsifica le cose e tende a mostrarcele sotto una luce negativa per gettarci nello sconforto e nell’amarezza». E la «brutta tristezza, che è pericolosa e non viene da Dio, si annida bene nella solitudine. Dunque, non si può affrontare il buio da soli. Se portiamo da soli le nostre cecità interiori, veniamo sopraffatti. Abbiamo bisogno di metterci l’uno accanto all’altro, di condividere le ferite, di affrontare insieme la strada».

Al suo rientro in Nunziatura, dopo la Messa celebrata allo stadio di Nicosia, papa Francesco si intrattiene brevemente con il Rabbino Capo di Cipro e per suo tramite invia un saluto alla comunità ebraica cipriota. Successivamente saluta la direttrice del carcere di Cipro, che gli ha portato un saluto e un dono da parte dei detenuti, tra i quali migranti incarcerati perché senza documenti.

muri, muri, muri – lo scandalo dei muri che fanno dell’Europa un grande lager per i profughi

il contagio dei muri 

Jacques Gaillot


in “www.garriguesetsentiers.org” del 1° dicembre 2021 (traduzione: www.finesettimana.org)


Avete notato il contagio dei muri nel mondo? Muri che separano popoli e impediscono loro di circolare. Muri della vergogna. Muro tra Israeliani e Palestinesi, tra Americani e Messicani, tra Spagnoli e Africani…
Alla televisione, guardavo con indignazione quel muro di fili spinati innalzato dalla Polonia per impedire ai migranti provenienti dalla Bielorussia di entrare. Oggi, è la volta della Lituania di elevare il suo muro di filo spinato.
Quando il muro di Berlino è stato distrutto il 9 novembre 1989, non immaginavo che l’Europa sarebbe diventata una fortezza! I muri non sono forse fatti per essere distrutti un giorno?
Ma ci sono in noi muri che ci separano gli uni dagli altri.
Il muro del denaro tra ricchi e poveri.
Il muro dei pregiudizi e della diffidenza che divide tante famiglie e gruppi!
Il muro dell’indifferenza che fa sì che ci si ignori.
Il muro dell’oblio che a cadere una cappa di piombo su ciò che si è vissuto con altri.
Il muro dell’odio soprattutto, che crea una separazione apparentemente insuperabile tra gli umani.
L’uomo di Nazareth ha passato la vita a far cadere muri.
Mi piace pensare che sia nato fuori le mura e che sia morto fuori le mura. Con la sua morte sulla croce, ha distrutto il muro di odio che ci separava gli uni dagli altri.
Il pianeta appartiene alla famiglia umana. Siamo fatti per circolare e vivere insieme. Non si fa la pace con del cemento e dei fili spinati che imprigionano le persone.

il fallimento sui migranti è il fallimento dell’Europa

il fallimento europeo sui migranti

dal gioco dell’oca a quello del calamaro: in Bosnia tra i respinti d’Europa, senza dignità e diritti

YANNIS KOLESIDIS/EPA

C’è da chiedersi se il regista di Squid Game si sia fatto un giro sulla rotta balcanica prima di scrivere una delle serie di maggiore successo nella storia di Netflix. Perché il “GAME” della rotta balcanica, così battezzato dai migranti, perché dalla Bosnia alla Croazia si torna sempre alla casella di partenza, ormai assomiglia più che al gioco dell’oca al gioco del calamaro, quello in cui sei disposto a tutto, anche a morire pur di ottenere in palio una vita decente.

E invece di 1-2-3 Stella o del gioco delle biglie qui si partecipa a un gioco ancora più adrenalitico, quello che termina direttamente nel Cimitero dei Senza Nome di Merzarje. Solo che i rifugiati, i migranti, i viaggiatori senza diritti che sono accampati alla meno peggio tra le foreste della Bosnia, in un limbo umidiccio e nebbioso, non se la sono scelti loro di essere gli emarginati del mondo, gli invisibili da confinare lontano dalla vita “normale”.

Andare in Bosnia a visitare i campi profughi, come ho fatto con alcuni colleghi del Parlamento europeo (Pietro Bartolo, Alessandra Moretti, Pierfrancesco Majorino) è il minimo sindacale che uno che fa il nostro mestiere deve fare. Il problema è che si torna indietro con la prova provata del fallimento dell’Ue sulla politica migratoria. Di quel modello di esternalizzazione della gestione dei flussi migratori, che forse è l’unico possibile di fronte a 12 paesi europei che hanno la sfacciataggine di chiedere soldi per costruire muri, ma che continua a essere quello più sbagliato di sempre.

Dalla Siria, dal Pakistan, dall’Afghanistan i viaggiatori senza diritti con mezzi di fortuna e molto con i piedi (spellati e incancreniti) arrivano in Bosnia con la speranza di attraversare la frontiera con la Croazia per entrare finalmente nell’Unione europea e nei paesi desiderati, Italia, Francia, Spagna. Ma il “gioco” della vita è balordo e non perdona: alla frontiera con la Croazia la polizia continua a perpetrare violenze, così raccontano, a picchiare e derubare i migranti che arrivano e a “pushbeccarli” (pushback), cioè a rispedirli al mittente. Pochissimi i vincitori del GAME, quelli che arrivano a Trieste, e ottengono il premio; poter forse raggiungere la meta 

Ibrahim, un insegnate pakistano di inglese, mi dice che ha provato ad attraversare la frontiera 26 volte, e che ci riproverà. Racconta di essere stato picchiato e soprattutto denudato e poi in mutande rimandato indietro. Ha una moglie e un padre in Grecia, la figlia e la madre in Turchia, e chiede che a Lipa almeno le docce abbiano l’acqua calda, altrimenti chi se la fa tutti i giorni la doccia con l’acqua gelata? Mi fermo con alcuni di loro e colpisce la dignità con cui ti rivelano l’unica loro colpa: la sfiga di essere nati in un posto di serie B, rispetto a quelli della Premiere League.

La situazione di Lipa, il campo noto per le immagini di bambini coi piedi nudi sulla neve dello scorso gennaio, è migliorata, va detto. Organizzazioni come OIM e UNHCR stanno costruendo anche con finanziamenti europei un nuovo insediamento con spazi comuni adeguati e riscaldati e container per la notte piccoli ma certamente preferibili rispetto alle tende montate alla meno peggio. L’impegno di associazioni come IPSIA, Croce Rossa, Caritas, SOS è insostituibile e sono loro i nostri referenti per visitare e capire.

Ma l’impressione rimane quella del confino, del confinamento dei migranti lontano dal resto del mondo, sospesi nel tempo e nello spazio. E rimangono molte ambiguità sulla gestione dei 90 milioni trasferiti dal 2018 dall’Ue alla Bosnia, in un paese in cui i livelli di corruzione sono giganteschi. Ci proviamo con tutta la nostra insistenza e antipatia a chiedere al sindaco di Bihàc e al Governatore del Cantone di Una Sana. La risposta è sempre troppo vaga.

Nei centri per minori la situazione è migliore rispetto a Lipa. I bambini e i ragazzi vanno a scuola e le famiglie stanno insieme (anche se, stacci tu in tre famiglie in una stanza). Una bimba, Halima, di tre anni, mi segue ovunque, ha capito che faccio alcuni scatti e appena riesce si mette davanti a me in posa per farsi ritrarre, come una attrice consumata. Velocissima, spunta fuori da tutte le parti e si fa fotografare decine di volte. Con la spensieratezza di una bimba di 3 anni che forse non ha visto altro che quelle stanze e quel refettorio, e non ha sentito che quell’odore.

Provo a scacciare l’immagine dei miei figli, per evitare un contrasto insopportabile e tiro dritto prendendo una marea di appunti. E provo a scacciarla ancora quando incontriamo la famiglia Adday, siriana, separata per un puro incidente del destino in Grecia e infilata in un’odissea che neanche ad ascoltarla ci credi. Madre a Berlino e un ricongiungimento che sembra impossibile. Quel papà e quei tre ragazzi che giganteggiano in dignità e vengono a scusarsi per averci fatto piangere. Ma come?

Tenere insieme le contraddizioni di un’Europa che si è finalmente svegliata dopo la pandemia e che ha sterzato con NextGenEu verso una solidarietà concreta, ma che si porta dietro queste ombre e gli eterni egoismi di governi incapaci di guardare oltre la frontiera del consenso immediato non è semplice. La rotta balcanica e il GAME sono lì a ricordarci che il puzzle ancora non torna, che i tasselli non si compongono l’uno con l’altro. Anzi.

il sogno di papa Francesco di un’Europa sanamente laica

la lettera del papa all’Europa:

sii te stessa, ritrova i tuoi ideali


nella lettera al cardinale Parolin sulla Unione Europea:
“Sogno un’Europa sanamente laica, in cui Dio e Cesare siano distinti ma 

Il Papa all'Europa: sii te stessa, ritrova i tuoi ideali

L’Europa ha avuto e deve ancora avere “un ruolo centrale”: lo sottolinea papa Francesco in una lettera al cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, in occasione di alcuni anniversari: il 40° anniversario della Commissione degli Episcopati dell’Unione Europea, il 50° anniversario delle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e l’Unione Europea e il 50° anniversario della presenza della Santa Sede come Osservatore Permanente al Consiglio d’Europa.

IL TESTO INTEGRALE DELLA LETTERA DEL PAPA

“Tale ruolo – sottolinea il Pontefice parlando dell’Europa – diventa ancor più rilevante nel contesto di pandemia che stiamo attraversando. Il progetto europeo sorge, infatti, come volontà di porre fine alle divisioni del passato. Nasce dalla consapevolezza che insieme e uniti si è più forti, che l’unità è superiore al conflitto e che la solidarietà può essere uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita”.

“Nel nostro tempo che sta dando segno di ritorno indietro, in cui sempre più prevale l’idea di fare da sé, la pandemia – dice il Papa – costituisce come uno spartiacque che costringe a operare una scelta: o si procede sulla via intrapresa nell’ultimo decennio, animata dalla tentazione all’autonomia, andando incontro a crescenti incomprensioni, contrapposizioni e conflitti; oppure si riscopre quella strada della fraternità, che ha indubbiamente ispirato e animato i Padri fondatori dell’Europa moderna, a partire proprio da Robert Schuman“.

Il Papa lancia, quindi, un appello all’Europa affinché ritrovi sé stessa. “All’Europa allora vorrei dire: tu, che sei stata nei secoli fucina di ideali e ora sembri perdere il tuo slancio, non fermarti – scrive il Papa nel messaggio al Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, per condividere con lui delle riflessioni in occasione delle celebrazioni di alcuni anniversari – a guardare al tuo passato come a un album dei ricordi. Nel tempo, anche le memorie più belle si sbiadiscono e si finisce per non ricordare più. Presto o tardi ci si accorge che i contorni del proprio volto sfumano, ci si ritrova stanchi e affaticati nel vivere il tempo presente e con poca speranza nel guardare al futuro. Senza slancio ideale ci si riscopre poi fragili e divisi e più inclini a dare sfogo al lamento e lasciarsi attrarre da chi fa del lamento e della divisione uno stile di vita personale, sociale e politico”.

“Europa, ritrova te stessa! Ritrova dunque i tuoi ideali – prosegue il Papa – che hanno radici profonde. Sii te stessa!”

“Non avere paura della tua storia millenaria che è una finestra sul futuro più che sul passato. Non avere paura del tuo bisogno di verità che dall’antica Grecia ha abbracciato la terra, mettendo in luce gli interrogativi più profondi di ogni essere umano; del tuo bisogno di giustizia che si è sviluppato dal diritto romano ed è divenuto nel tempo rispetto per ogni essere umano e per i suoi diritti; del tuo bisogno di eternità, arricchito dall’incontro con la tradizione giudeo-cristiana, che si rispecchia nel tuo patrimonio di fede, di arte e di cultura”.

Sogno un’Europa sanamente laica, in cui Dio e Cesare siano distinti ma non contrapposti. Una terra aperta alla trascendenza, in cui chi è credente sia libero di professare pubblicamente la fede e di proporre il proprio punto di vista nella società” scrive ancora papa Francesco nella Lettera al cardinale Parolin.

“Sono finiti i tempi dei confessionalismi, ma – si spera – anche quello di un certo laicismo che chiude le porte verso gli altri e soprattutto verso Dio, poiché è evidente che una cultura o un sistema politico che non rispetti l’apertura alla trascendenza, non rispetta adeguatamente la persona umana. I cristiani hanno oggi una grande responsabilità: come il lievito nella pasta, sono chiamati a ridestare la coscienza dell’Europaper animare processi che generino nuovi dinamismi nella società. Li esorto dunque a impegnarsi con coraggio e determinazione a offrire il loro contributo in ogni ambito in cui vivono e operano”.

l’ipocrisia dell’ “aiutiamoli a casa loro”

aiutarli a casa loro?

non c’è bisogno, basterebbe restituire quello che noi occidentali abbiamo rubato in Africa

E qualcuno ha fatto anche due conti: 70.000 miliardi (si scrive così: 70.000.000.000.000)…!

 

Aiutarli a casa loro

Aiutarli a casa loro? Il problema non è aiutarli a casa loro. È liberare casa loro. E restituire il maltolto. E che maltolto!

L’africa ha tutte le ricchezze possibili: oro, diamanti, petrolio e gas, metalli e minerali anche rari.  E’ (ed è sempre stato) il continente più ricco del mondo. Eppure è alla fame… Perché? Per lo sfruttamento di noi occidentali. Uno sfruttamento che non immaginate neanche quanto vale.

Ma qualcuno quattro conti li ha fatti, e ci ha scritto un libro.

«QUANTO L’EUROPA DEVE RESTITUIRE ALL’AFRICA»
 Un libro importante (scaricabile in rete) di Paola Caforio e Maurizio Marchi con i contributi di Jeff Hoffman e Lucy Pole

Quanto deve restituire l’Europa all’Africa

Gli autori e le autrici, dopo aver tracciato un quadro aggiornato e particolareggiato, da un punto di vista economico, storico e culturale dell’Africa nel colonialismo, nel neo-colonialismo e nei rapporti attuali con l’Europa, abbozzano una sorta di «Processo di Norimberga» dei misfatti europei nei secoli, arrivando a “tirare le somme” di quanto l’Europa deve restituire al continente nero. Una cifra enorme, ma realistica, fondata e perfino prudente, quantificata in oltre 70.000 miliardi di euro: se gli africani ottenessero questo risarcimento (è questa la parola chiave del libro) avrebbero diritto almeno a 70.000 euro ognuno, uomo, donna, bambino, vecchio. La vita cambierebbe per tutti, per gli africani ma anche per gli europei e per un mondo che ha fatto finora dell’ingiustizia e della sopraffazione la sua linea guida.

La tratta degli schiavi, la colonizzazione storica, lo scambio ineguale di merci a prezzi fissati dagli europei, i genocidi di interi popoli inermi o resistenti, fino all’emigrazione forzata, un vero espianto degli organismi migliori (più giovani e forti) dal tessuto sociale africano: sono questi i principali crimini che vanno risarciti all’Africa, un continente ricchissimo di risorse umane e naturali che è stato ridotto nell’estrema povertà dall’aggressione europea e dal neoliberismo, recentemente dall’indebitamento e dalla militarizzazione.

Un libro indispensabile per chi vuole reagire all’ondata razzista e xenofoba montante con la ragione e moltissime ragioni.

Maurizio Marchi, nato a Rosignano nel 1948 da una famiglia di lavoratori Solvay, ha compiuto studi di storia, filosofia, economia all’Università di Pisa, senza poterli concludere per ragioni familiari; ha lavorato per quasi 40 anni al ministero dell’Economia a Livorno; ha sempre militato volontariamente a sinistra; ha al suo attivo oltre 15 libri sui temi dell’ambiente, della salute, della pace e dei diritti umani. Con Paola Caforio e Jeff Hoffman fa parte dell’associazione nazionale Medicina democratica.

Paola Caforio, nata a Pisa nel 1962; si è laureata in Psicopedagogia all’Università di Firenze, è Counselor Olistico e insegnante di Scuola Primaria; ha scritto una ventina di libri di storia locale e ha gestito alcune associazioni di volontariato nella zona di Cecina; attualmente fa parte di Medicina Democratica, del Tavolo della Pace della Bassa Val di Cecina ed è Presidente della Associazione Encuentrarte.

Hanno dato un contributo al libro anche Jeff Hoffman (Coordinatore del Tavolo per la Pace della  Val di Cecina) con un capitolo dedicato al ruolo non sempre trasparente di alcune ONG; e Lucy Pole con una serie di interviste ad alcuni giovani migranti della zona di Cecina.

 

Al seguente link è disponibile il libro di Caforio, Marchi, Hoffman, Pole

https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/saggistica/508904/quanto-leuropa-deve-restituire-allafrica/

il cristianesimo avrà un futuro in Europa? la grande crisi del cristianesimo in epoca di secolarizzazione

il futuro del cristianesimo in Europa

Christoph Theobald

Si può pensare a un futuro del cristianesimo in Europa solo se si ha ben chiara la crisi della Chiesa. Gettare lo sguardo al futuro significa sicuramente ben più di una semplice gestione della crisi, ma presuppone che apprendiamo qualcosa dalla crisi attuale

Analisi storico-sociologiche in merito alla nostra situazione circolano da tempo. Personalmente, sono più familiare con le indagini sul tema in lingua francese e con gli studi europei sui valori.

La novità, però, risiede nel fatto che oggi anche coloro che hanno responsabilità nella Chiesa ammettono che stiamo attraversando una crisi sistemica e che molti credenti, duramente scossi nella loro fiducia a motivo della pedo-criminalità tra le gerarchie ecclesiali, oramai ne parlano apertamente.

Tuttavia, non è facile analizzare questa crisi che esiste già da lungo tempo. Essa si propone a diversi livelli e vi è il pericolo che gli aspetti oggi più visibili (lo scandalo degli abusi, il loro occultamento, il clericalismo e la sacralizzazione del ministero) finiscano col nascondere tutti gli altri.

Al di sotto di questa superficie si annuncia una condizione di minoranza delle comunità cristiane che non viene percepita e accolta come un’opportunità dai credenti e dal clero, e quindi non viene elaborata in maniera positiva. E se ci si chiede quali siano le ragioni di tutto ciò, ci si imbatte inevitabilmente nella difficoltà che la tradizione cristiana ha nel raggiungere la vita quotidiana degli uomini e delle donne. Una difficoltà, questa, che spinge i sociologi a parlare di «ex-culturazione» del cristianesimo in Europa.

In questo contributo procedo muovendomi secondo tre temi. Inizio con la condizione di minoranza dei cristiani nell’Europa occidentale, passo poi ad analizzare il rapporto fra Vangelo e vita quotidiana, e infine vorrei dire qualcosa sulla crisi sistemica della Chiesa.

Chiesa in diaspora
Mi sembra che Karl Rahner, in maniera profetica, abbia già detto tutto l’essenziale sulla nostra condizione odierna di minoranza in un testo del 1954: «Il cristianesimo (anche se in misura diversa) è ovunque nel mondo e sulla terra in diaspora. Nella sua realtà è dappertutto, numericamente, una minoranza; non ha di fatto un ruolo guida che gli permetta di imporre con potenza il suo sigillo degli ideali cristiani sul tempo.

La Chiesa della diaspora, sociologicamente, ha il carattere di una “setta” (rispetto alla Chiesa popolare di massa a cui appartiene già sempre ogni cosa, e che si presenta sociologicamente di fronte alla singola persona non come qualcosa fatto e portato da lei, ma come ciò che è presente in maniera del tutto indipendente da essa). Con i vantaggi di questo dato di fatto e con il dovere di dover superare sempre di nuovo i pericoli legati a esso» (SW 10, 260-265).

Il concetto di diaspora è sociologico e contrassegna gruppi religiosi, nazionali, culturali o etnici di persone che si trovano all’estero/esterno, dopo che essi hanno abbandonato la loro patria tradizionale e, nel frattempo, si ritrovano disseminati in varie parti del mondo. Per molti secoli, questo termine è stato riferito unicamente all’esilio del popolo ebreo; ma, a partire dal XIX secolo, esso è stato ampliato anche in senso sociologico.

Se si utilizza il concetto di diaspora in riferimento alle Chiese cristiane, allora bisogna relativizzare l’idea di un paese di origine e di una «terra santa». Il sepolcro è vuoto e da allora, per il cristianesimo (a differenza dell’ebraismo), non c’è più alcuna regione del mondo che abbia un carattere sacro. La Galilea diventa «Galilea delle genti», «Galilea di tutte le nazioni in cui si realizza la Signoria di Dio».

Secondo Karl Rahner, la nostra condizione di diaspora ha il carattere di una «necessità» teologica – nel senso evangelico del «Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (Lc 24,26). Con il sorgere di una situazione planetaria e di globalizzazione del cristianesimo, il principio della vita cristiana «nel mondo, ma non del mondo» si deve concretizzare in altro modo. Nel corso del Medioevo e nel secondo millennio della storia umana, questo principio si incarnò tra la cristianità, da un lato, e il resto del mondo, dall’altro.

Il pericolo della condizione di minoranza
Oggi, ma a dire il vero già dagli inizi della modernità, questo principio cristiano «nel mondo, ma non del mondo» si concretizza all’interno di ogni paese – con tutte le resistenze prodotte da questa forma di vita escatologica.

Per dirla con le parole di Rahner: «Nel momento in cui inizia a diventare Chiesa di tutti i pagani, la Chiesa incomincia anche a essere ovunque tra i pagani». Rahner rimanda così alla questione decisiva di questa condizione di minoranza che rientra nella prospettiva storico-salvifica: ossia, il rischio della setta. Un cattolicesimo di minoranza può diventare una setta (tra molte altre); ma può diventare anche una significativa comunità missionaria.

A questo punto decisivo possiamo già gettare uno sguardo sul futuro del cristianesimo in Europa. Dipende dalle nostre comunità e dalle forme cristiane di socializzazione se, nel prossimo futuro, saremo condannati a vivere un’esistenza settaria irrilevante, oppure se riusciremo a diventare una significativa minoranza missionaria all’interno delle nostre società europee.

Questo presuppone, però, un processo individuale e collettivo di consapevolezza e di conversione: il futuro non appartiene a un cristianesimo che si riproduce da sé (e alle strategie pastorali legate a questa concezione). Il cristianesimo di oggi e di domani è un «cristianesimo di scelta», che si edifica sulla persuasione interiore dei fedeli. Solo se la condizione di minoranza, o diaspora, viene assunta con pacatezza e tranquillità (il che vuol dire non con indifferenza, o in maniera aggressiva o stravolta), ossia se si tratta di una libera scelta (perché corrisponde al “deve” divino), si può allora chiedere come il cristianesimo possa far fronte al rischio di diventare una setta, così che esso possa invece diventare missionario. E questo nel senso inteso da papa Francesco nel primo capitolo della Evangelii gaudium, quando parla di una «riconfigurazione missionaria della Chiesa».

Siamo così giunti alla questione decisiva del rapporto del Vangelo con la vita quotidiana degli uomini e delle donne.

Riguadagnare il rilievo del Vangelo per la vita quotidiana
La tesi sociologica dell’«ex-culturazione», di cui abbiamo già fatto cenno, rimanda ai profondi fossati esistenti tra le esperienze quotidiane dei nostri contemporanei e l’annuncio ecclesiastico, centrato sulla liturgia, della Chiesa.

Un futuro del cristianesimo in Europa è però possibile solo se e quando questi fossati verranno superati, senza rinnegare il carattere escatologico della forma cristiana del vivere.

Questo presuppone che i cristiani stessi percepiscano e rispettino le dimensioni «spirituali» profonde dei loro contemporanei. La condizione di diaspora del cristianesimo nelle nostre regioni non significa affatto la scomparsa di ogni «spiritualità» intorno a lui. Al contrario. L’indebolimento delle istanze regolative ecclesiali, sociali e politiche, osservato dai sociologi, permette l’emergere e il divenire visibile di nuove correnti «religiose» o «spirituali».

E anche se si prescinde da ciò, diventa oggi palese che non è possibile una vita senza una fede elementare nel fatto che vale la pena di vivere, o quanto meno merita di andare avanti a vivere. La «fede» è così un fenomeno originariamente antropologico (1), non necessariamente religioso; che emerge nella nostra «apertura» e «vulnerabilità» (2).

Essa prende la forma di un’interrogazione sull’«orientamento» nel mondo della nostra vita e di una domanda sul «senso» della nostra esistenza, anticipandone l’intero senza potervi disporre (3).

«Fede» si dà a vedere laddove tale indisponibilità del «senso» e dell’«intero» non viene accantonata e liquidata come qualcosa di non interessante (categoria dell’indifferenza) o viene lasciata in balìa di un’indecisione agnostica.

La fede elementare
Chiediamoci dapprima come sorge tale fede «antropologica». Nonostante tutta la routine che caratterizza la nostra quotidianità, essa rimane però esposta a tutta una serie di «interruzioni» che ci ricordano il quadro complessivo delle correlazioni della nostra vita, e richiedono una fede elementare nella vita stessa.

Tutto questo accade sempre in un contesto evenemenziale di incontri e rapporti, nel quale l’altro gioca un ruolo particolare. Un ruolo in cui l’altro rispetta la competenza ermeneutica di «chiunque» e, in molti casi, la deve addirittura attivare.

Le «interruzioni» del quotidiano, nelle quali dobbiamo sempre mettere all’opera la nostra fede nella vita, si possono ricondurre a tre momenti decisivi.

Il primo sono le «crisi» (più o meno pesanti) che si vivono tra le singole fasi psico-fisiche o le diverse tappe delle nostre storie di vita, quando un precario equilibrio raggiunto mostra il suo limite e bisogna trovarne un altro. Si tratta di uno sbilanciamento relativo tra due stati di relativo equilibrio. Questa è la definizione medica della «crisi», che rende possibile un incremento della vita o una nuova, ma che può anche rivelarsi fatale.

Il secondo momento è collegato ai progetti aperti al futuro che portiamo avanti, talvolta con passione profonda, nel corso della nostra storia di vita: trovare un lavoro, costruire rapporti, trovare un appartamento o costruire una casa, fare sport o pianificare una vacanza.

Mentre viviamo le fasi biologiche della nostra esistenza in maniera sostanzialmente passiva, ma poi possiamo – fino a un certo punto – integrarle nella nostra storia di vita, i nostri piani e progetti dipendono invece dalla nostra stessa immaginazione. Ma anche in questo ambito vi sono delle «interruzioni». Non solo il fallimento di un progetto, ma anche la sua riuscita, oppure l’accadere di qualcosa che supera ogni nostra attesa – come la nascita di un figlio.

In molti modi le «interruzioni» dei nostri piani sono particolarmente complesse, perché la loro realizzazione implica una qualche forma di collaborazione, e noi molto spesso siamo «invischiati» nei progetti di altre persone. Si sviluppano delle strategie, ma si dà inizio anche a forme di agire comunicativo così che l’altro non sia uno strumento funzionale al mio progetto, ma sia possibile superare le incomprensioni e la potenziale violenza che si annidano nei nostri rapporti.

Il terzo momento è rappresentato da quei molteplici, piccoli o grandi eventi che «interrompono» il corso della nostra vita. Un incontro, innamorarsi (la lingua francese rimarca il carattere evenemenziale dell’innamoramento quando lo esprime con «on tombe amoureux» – si cade nella condizione di essere innamorati), una realizzazione, essere coinvolti in un incidente, fare tombola, e così via. Detta in breve: si tratta dei molti avvenimenti occasionali che, non di rado, danno una piega inaspettata alle nostre storie di vita.

Il quotidiano interrotto e l’irruzione inattesa
L’uniformità quotidiana, con i suoi riti e le sue abitudini, passa dunque attraverso una serie di «interruzioni» nelle quali, non di rado, la propria vita o quella di un’altro si rivela inaspettatamente come una totalità. Si tratta di situazioni di apertura o di rivelazione. In inglese si parla delle cosiddette disclosure situations.

Con esse si intendono «momenti», o frammenti di tempo più o meno lunghi, che fanno vedere la nostra vita, come attraverso una finestra, nel suo essere un tessuto indisponibile di connessioni e rapporti. La morte e la nascita, ossia i due dati limite di ogni vita, si annunciano in questi momenti improvvisi di apertura e ci ricordano che abbiamo solo una vita. Non scelta, ma destinata, questa sola vita mi viene ogni volta di nuovo offerta in scelta in queste situazioni. Certo, possiamo lasciarci scorrere addosso questi momenti come se nulla fosse. Ma, allo stesso modo, possiamo consegnarci a essi senza riserve e senza volontà di disporvi.

Riconosciamo che questa consegna non è affatto qualcosa di scontato; soprattutto quando le «interruzioni» o le «situazioni di rivelazione» hanno un carattere negativo e danno un tono drammatico alla nostra domanda sul senso: vale la pena davvero di vivere? Di andare avanti con la vita? La vita data/inferta è in grado di mantenere la sua promessa? Il mero impulso di sopravvivenza non basta in questi casi. Riconoscere questo fatto fa diventare visibile la «profondità dell’esistenza» e rende possibile il sorgere di una «fede elementare nella vita».

Quest’ultima nasce quando in queste «situazioni di rivelazione» il Vangelo viene reso percepibile: si tratta della nuova, e sempre di nuovo nuova notizia di un radicale essere-buono (Eu-angellion) che, davanti al male e al dolore presenti nel mondo, non può essere annunciata da nessuno in proprio nome. Solo colui che chiamiamo «Dio» la può, infatti, garantire. Ma se essa viene annunciata in quanto tale, allora il fossato tra l’annuncio di Gesù e la vita quotidiana dei nostri contemporanei viene improvvisamente colmato.

Generati alla fede elementare
Sono sempre gli altri che generano in noi questo atto necessario alla vita che è la fede elementare, senza però poterlo porre al nostro posto. Qui entra in gioco l’ospitalità: dapprima quella dei nostri genitori, ma anche l’ospitalità di altre figure nelle nostre personali storie di vita – e, così almeno speriamo –, anche lo spazio ospitale della Chiesa.

Non si tratta mai di strategie che perseguono un interesse, ma di una pura «presenza» (parousia), di un semplice essere-qui. Nella consapevolezza che questa presenza umana è necessaria alla vita, ma che essa non può mai sostituire la fede elementare dell’altro. Entra così in gioco la credibilità dello stare l’uno di fronte all’altro.

Tutte le strategie sono insufficienti, solo la gratuità (e si sente risuonare il termine grazia) rende possibile la fede (anche quella biblico-cristiana) e mai necessaria. Infatti, questo atto così fragile e minacciato, nel cuore della nostra vulnerabilità, quando accade è qualcosa come un «miracolo» che ci «sorprende» (se solo abbiamo un po’ allenato il nostro senso per la fede). La fede accade dove non ce lo saremmo mai aspettati.

Due modi di fede
A questo punto diventa necessario fare una differenziazione tra due diversi modi di fede: la fede «elementare» nella vita, senza la quale l’esistenza umana è impossibile (anche se essa non si genera mai automaticamente), e la fede in Cristo dei cristiani. Il primo modo di fede non conosce né il rapporto tra il «maestro» e i/le «discepoli/e», e neanche un’esplicita relazione con Dio.

La fede in Cristo implica tre caratteristiche specifiche: 1) un’effettiva sequela di Gesù; 2) con e in Gesù, l’accesso all’abissale intimità con Dio, lo spazio della gratuità abitato dallo Spirito Santo; 3) una disposizione diaconale di fondo. Nessuno viene battezzato per se stesso.

Fede in Cristo e conformità con lui fanno dei cristiani dei «discepoli missionari» – così il nuovo concetto di papa Francesco. Il «discepolo missionario» è a servizio della fede elementare nella vita di molti dei suoi contemporanei. Egli mette in esercizio oggi, nei suoi ambiti di vita e secondo le condizioni odierne, quel servizio e dedizione all’umano che Gesù ha praticato in Galilea verso i suoi contemporanei.

Mi sembra opportuno tornare sul titolo di questo contributo – «Il futuro del cristianesimo in Europa» –. Non si tratta solo del futuro della Chiesa, ma del futuro di una Chiesa a servizio dei nostri contemporanei. È chiaro che «cristianesimo» qui non deve essere identificato con «Chiesa», poiché noi come Chiesa dobbiamo tenere sempre conto dell’agire, che ci precede, dello Spirito nelle dimensioni profonde della vita quotidiana dei nostri contemporanei.

La distinzione fra «fede elementare nella vita» e sequela di Cristo può essere fatta risalire ai sinottici e anche a Giovanni. Accanto ai discepoli e alle discepole vi sono molti simpatizzanti di Gesù. Sono figure individualizzate, come ad esempio l’emorroissa o la donna siro-fenicia. Figure che sentono soltanto la parola di conferma di Gesù: «Figlia mia, la tua fede ti ha salvata» (Mc 5,34).

Non siamo di fronte a un vuoto spirituale
Proprio questa distinzione, che potrebbe essere spiegata e precisata ulteriormente con una serie di esempi, ci rende avvertiti del fatto che noi cristiani della diaspora non ci troviamo davanti a un vuoto «spirituale», ma che, come Gesù in Galilea, abbiamo a che fare con le dimensioni profonde della singolare avventura umana di molti nostri contemporanei.

E quanto è stato detto sulla fede elementare dei nostri contemporanei si lascia trasporre anche alle nostre società secolari, la cui tenuta si basa anch’essa su una fiducia elementare.

Questo significa però che non possiamo limitare l’annuncio alla liturgia e alla catechesi, ma dobbiamo sviluppare una pedagogia dell’incontro e del «colloquio spirituale» nel grigiore del quotidiano. Nel nostro ambito ecclesiale, questo richiede una profonda trasformazione della nostra consapevolezza e una conversione di fondo, poiché molto spesso siamo ancora fissati quasi esclusivamente sulla liturgia e sulle celebrazioni para-liturgiche all’interno del nostro spazio ecclesiale; e solo raramente viviamo i nostri incontri quotidiani come «discepoli missionari».

Ampliare le aree di contatto con la società
La crisi sistemica di cui parlavamo all’inizio è quella che riguarda la forma estensiva e coestensiva della Chiesa latina, scaturita dalla riforma dell’XI e del XII secolo, con un’unica liturgia internazionale, con un clero unitario internazionale e un catechismo unico internazionale. In questa forma della Chiesa le situazioni locali e singolari degli uomini hanno un carattere del tutto secondario, fino all’irrilevanza.

I principi mediante i quali può nascere un’altra Chiesa come Chiesa di Chiese, la cui forma corrisponda sia alla cultura globalizzata sia alle culture locali, sono stati in parte formulati dal Concilio Vaticano II, e devono essere sviluppati oggi ulteriormente nel senso espresso da papa Francesco (si vedano i suoi quattro principi in Evangelii gaudium).

Una Chiesa che nasce dalla passione per il Vangelo
Concluderei con alcune brevi osservazioni in merito. La Chiesa presuppone una passione per il Vangelo di Dio. Un Vangelo che si destina a tutti gli uomini e le donne, ma che può essere udito da ogni persona solo a suo modo. Questa passione, che viene da Cristo e ci è comunicata nel battesimo, rappresenta la base della fondamentale uguaglianza di tutti i cristiani e le cristiane. Papa Francesco parla, infatti, di «discepoli e discepole missionari/e».

Questa passione per il Vangelo di Dio implica contemporaneamente un interesse ardente e gratuito per la vita quotidiana dei nostri contemporanei e per la loro «fede elementare». Insieme alla passione per il Vangelo, questo interesse rappresenta la base del servizio di Gesù in Galilea da realizzare nell’oggi delle nostre società.

Verso una Chiesa in stato nascente
La fine della «cultura parrocchiale» deve essere letta come il principio di una possibile Chiesa e parrocchia intese come comunità di comunità. In primo luogo, si tratta di adattare l’edificazione della comunità cristiana allo spazio e al territorio in cui i nostri contemporanei vivono il loro quotidiano.

Questo porta a una pluralizzazione delle forme: nelle nostre metropoli, nelle complesse periferie cittadine, nelle piccole città, nelle zone rurali – non è più possibile avere una forma che vale dappertutto.

D’altro lato, dobbiamo imparare anche ad adattarci all’esistenza nomadica di molti nostri contemporanei.

Inoltre, bisogna tenere conto del fatto che i modelli di socializzazione sono oggi molteplici e, con essi, anche le forme di appartenenza e gli schemi temporali dell’esistenza umana.

Quello che ci sta davanti è un compito che possiamo realizzare come Chiesa solo se entriamo in un processo permanente di ecclesiogenesi: edificare la Chiesa su ciò che è effettivamente dato, ossia essere Chiesa in cammino e quindi missionaria.

Questo è possibile solo se impariamo ad agire sinodalmente a tutti i livelli, fidandoci del sensus fidei fidelium. Il che implica anche un cambiamento di prospettiva per ciò che concerne il ministero nella Chiesa.

Di quale ministero e servizio presbiterale e diaconale abbiamo bisogno, quali ministeri sono necessari, affinché le nostre «parrocchie» e «comunità» possano venire trasformate dall’auto-riproduzione di un cristianesimo parentale a un cristianesimo di scelta in cui tutti sono discepoli e discepole missionari?

Europa malata di indifferenza

 papa Francesco

l’Europa malata di indifferenza e chiusura, serve misericordia

Udienza al Pontificio Comitato per i Congressi Eucaristici internazionale:

oggi nel mondo un «fiume carsico di miseria» provocato da «tante forme di paura, sopraffazione, arroganza, malvagità, odio». I cristiani siano un «balsamo» per l’umanità ferita

salvatore cernuzio

Famiglie in difficoltà, giovani e adulti senza lavoro, malati e anziani soli, migranti: sono tante le situazioni in questa «Europa malata d’indifferenza e attraversata da divisioni e chiusura» nelle quali i cristiani sono chiamati a «versare il balsamo della misericordia con opere spirituali e corporali». Ancora una volta Papa Francesco posa lo sguardo sulle categorie umane più ferite, segnate «da fatiche e violenze e altre povertà», e nel suo discorso ai membri del Pontificio Comitato per i Congressi Eucaristici internazionali, ricevuti in udienza questa mattina in Vaticano, richiama la responsabilità di tutti i credenti a compiere azioni concrete in nome di quella misericordia che, seppur sia una «parola quasi tolta dal dizionario della cultura attuale», dev’essere iniettata nuovamente nelle vene del mondo.  

Occorre riportare «in superficie parole di Vangelo che le nostre città hanno spesso dimenticato»: questa è, secondo il Papa, l’urgenza per il tempo attuale in cui «tutti si lamentano per il fiume carsico di miseria che percorre l’esperienza della nostra società». «Si tratta – evidenzia il Pontefice – di tante forme di paura, sopraffazione, arroganza, malvagità, odio, chiusure, noncuranza dell’ambiente, e così via. E tuttavia i cristiani sperimentano ogni domenica che questo fiume in piena non può nulla contro l’oceano di misericordia che inonda il mondo».

In questo scenario drammatico «i cristiani rinnovano prima di tutto, di domenica in domenica, il gesto semplice e forte della loro fede: si radunano nel nome del Signore riconoscendosi fratelli. E si ripete il miracolo: nell’ascolto della Parola e nel gesto del Pane spezzato anche la più piccola e umile assemblea di credenti diventa corpo del Signore, suo tabernacolo nel mondo». Ogni celebrazione dell’Eucaristia diventa così «incubatrice degli atteggiamenti che generano una cultura eucaristica», una cultura, cioè, che «spinge a trasformare in gesti e atteggiamenti di vita la grazia di Cristo che sì è donato totalmente». Che porta quindi alla comunione, alla fraternità e alla misericordia, tutti valori apprezzabili e percepibili anche al di là dell’appartenenza ecclesiale.

La comunione in particolare, spiega Papa Bergoglio, è una «vera sfida» per la pastorale eucaristica, perché si tratta di aiutare i fedeli a vivere in Cristo e con Cristo «nella carità e nella missione». Da ciò, dalla logica cioè del «corpo donato» e offerto per molti, si entra nella logica del servizio: «I cristiani servono la causa del Vangelo inserendosi nei luoghi della debolezza e della croce per condividere e sanare», afferma il Pontefice. Essi diventano «servitori dei poveri, non in nome di una ideologia ma del Vangelo stesso, che diventa regola di vita dei singoli e delle comunità, come testimonia l’ininterrotta schiera di santi e sante della carità».

In questo modo «la misericordia», dice il Papa, entra «nelle vene del mondo e contribuisce a costruire l’immagine e la struttura del Popolo di Dio adatta al tempo della modernità».

A conclusione, Francesco ricorda il prossimo Congresso Eucaristico Internazionale che si terrà nel 2020 a Budapest, in Ungheria (all’udienza è presente infatti la Delegazione del comitato ungherese guidata dal cardinale Peter Erdő). «Questo evento – rileva il Pontefice – sarà celebrato nello scenario di una grande città europea, dove e comunità cristiane attendono una nuova evangelizzazione capace di confrontarsi con la modernità secolarizzata e con una globalizzazione che rischia di cancellare le peculiarità di una storia ricca e variegata».

Portando avanti «una storia più che centenaria», il prossimo Congresso è chiamato pertanto ad «indicare questo percorso di novità e di conversione, ricordando che al centro della vita ecclesiale c’è l’Eucaristia», mistero «capace di influenzare positivamente non solo i singoli battezzati, ma anche la città terrena in cui si vive e si lavora». Auspicio del Papa è dunque che l’appuntamento eucaristico di Budapest possa «favorire nelle comunità cristiane processi di rinnovamento» che si traducano nel diffondersi di una «cultura eucaristica capace di ispirare gli uomini e le donne di buona volontà nei campi della carità, della solidarietà, della pace, della famiglia, della cura del creato».

Europa terra da evangelizzare

l’altro

In Occidente l’altro è una cosa tra le cose, senza storia, volto e voce. Facilmente sostituibile perché considerato solo nel suo ruolo e non nella sua esistenza. Ma se non si riconosce l’altro non si riconosce neanche Dio.

quando arriverà il vangelo in Europa?

Di prima mattina la civiltà occidentale scatta al semaforo per precedere l’altro. Sulle strade non circolano esseri umani ma piloti di Formula Uno alla ricerca di record personali. C’è una gara da vincere e un piedistallo da conquistare. Il capoufficio aspetta, si deve far di tutto per entrare nelle sue simpatie magari svelando le negligenze vere o presunte del collega. Che poi è lo stesso con il quale a pranzo si critica (rigorosamente alle spalle) proprio il capoufficio. L’uomo evoluto crede che la dignità si trovi nella conquista. La luna, la terra, le risorse e il destino altrui. È sufficiente non guardare i morti che si lasciano per strada. Occorre scalare e se necessario calpestare. I complimenti e i riconoscimenti cancellano eventuali rimorsi ma ancora più efficaci sono le paroline magiche: funziona così. Cinismo? Funziona così. Prevaricazione? Funziona così. L’uomo occidentale tiene famiglia e soprattutto deve pagare le rate della macchina. Lo trovi perennemente davanti allo specchio mentre incensa il suo “io”, corruttibile e senza respiro. In Occidente l’altro è una cosa tra le cose, senza storia, volto e voce. Facilmente sostituibile perché considerato solo nel suo ruolo e non nella sua esistenza. Ma se non si riconosce l’altro non si riconosce neanche Dio. Infatti a preoccupare prima dell’affermazione delle radici cristiane dell’Europa dovrebbero essere i frutti contraddittori e decisamente antievangelici. La cultura, la prassi e la società occidentale risultano, ad oggi, le più ostili all’azione della grazia.

la ‘teologia della liberazione’ non è morta, anzi sembra sempre più necessaria anche in Europa

Teologia della Liberazione in Europa: nuove sfide, stessa urgenza teologia della liberazione in Europa

nuove sfide, stessa urgenza

 da: Adista Documenti n° 5 del 10/02/2018
 
  «Finché ci saranno poveri ed emarginati e finché esisterà il Vangelo – ha affermato una volta Pedro Casaldáliga, già vescovo di São Félix do Araguaia, Brasile –, ci sarà la Teologia della Liberazione. Scomparirà solo il giorno in cui non resterà nessuno da liberare». E considerando quanto quel giorno appaia lontano, oggi ancor più che in passato, non sorprende che la TdL abbia ancora molto da dire. Tuttavia, se in America Latina questa teologia, data ripetutamente per moribonda o addirittura per morta, gode invece di buona salute e di insospettabile vitalità, con tutta l’evoluzione di temi, di metodi e di stili che si è registrata al suo interno – dalla teologia pluralista della liberazione alle teologie indigene, femministe ed ecologiche – si può dire lo stesso rispetto all’Europa? È a questa domanda che cerca di rispondere l’ultimo numero di Voices – la rivista di teologia dell’Associazione ecumenica di teologi e teologhe del Terzo Mondo (Eatwot o Asett) – interamente dedicato al tema della “Teologia della Liberazione in Europa”, evidenziando come nel Vecchio Continente sia comune, secondo quanto scrive il teologo tedesco Stefan Silber, «considerare la TdL come un tema del passato, al massimo come un episodio della storia della Chiesa latinoamericana», o tutt’al più come una teologia valida nel suo contesto e nel suo tempo, ma che non può funzionare in ambito europeo. Non a caso, nota il gesuita Felice Scalia, «l’Europa (e in essa l’Italia) non è un Continente “oppresso”. Anzi fa parte integrante di quell’Occidente “predatore” di cui gli oppressi si vogliono liberare». «Una eventuale TdL, dal versante europeo – sostiene Scalia – dovrebbe partire dalla coscienza che anche il predatore è un oppresso dai suoi idoli e dalle sue ideologie disumane. Cose tutte che uccidono umanità e creano schiavitù a catena nelle stesse fila dei cosiddetti privilegiati. Una simile analisi non struttura però il pensiero comune che così si rivela privo di “profezia”». E un ruolo determinante lo ha giocato, in tal senso, il pontificato di Giovanni Paolo II, con la sua scelta – su cui si sofferma nel suo intervento il teologo e sacerdote spagnolo Benjamín Forcano – «di restaurare, ricristianizzare l’Europa, ricondurre tutto al passato», offrendo come rimedio ai mali del presente «l’immagine di una Chiesa preconciliare: una Chiesa centralizzata, androcentrica, clericale, compatta, ben uniformata e obbediente, antimoderna».

Cosicché, come scrive il teologo cileno Luis Martínez Saavedra in relazione alle Chiese francofone – ma il discorso vale in generale – «la cosiddetta “generazione Giovanni Paolo II” di sacerdoti e vescovi si aggrappa a un modello ecclesiale autoreferenziale piuttosto impermeabile all’ecclesiologia del Vaticano II, specialmente della Gaudium et Spes, di una Chiesa al servizio dell’umanità e attenta ai segni dei tempi e ancor più della Chiesa dei poveri». E lo stesso si può dire dei teologi, che rimangono «rinchiusi in una teologia piuttosto accademica, deduttiva e senza ancoraggio né nell’azione pastorale né nell’impegno nel mondo e nelle grandi sfide relazionate alla sorte dei poveri».

Eppure, tutto ciò non rende meno necessario, osserva ancora Silber, il compito di costruire un’autentica Teologia della Liberazione europea, non come mera applicazione della metodologia latinoamericana ai nostri contesti, ma come creazione di una specifica maniera di «liberare la teologia dalla sua prigionia eurocentrista e sviluppare una teologia che contribuisca alla liberazione dei poveri».

Ma il punto di partenza, sottolinea il teologo tedesco, «deve essere lo stesso: l’opzione per i poveri», perché tale opzione «non è un’invenzione di alcuni teologi latinoamericani, ma la struttura fondamentale della Chiesa di Gesù Cristo». E se questa opzione va declinata in tutte le diverse forme della povertà e dell’esclusione proprie dei contesti europei, dalla disoccupazione alla violenza di genere, dal razzismo alla xenofobia, si deve anche tener conto di quella fusione dei contesti locali e globali che chiama in causa necessariamente le responsabilità del Vecchio Continente, in relazione tanto allo sfruttamento capitalista e all’imperialismo neocoloniale quanto al cambiamento climatico e alla distruzione degli ecosistemi.

Tutto questo senza dimenticare altre due sfide importanti che la Teologia della Liberazione in Europa è chiamata a raccogliere: quella legata alla crescita dell’estrema destra e del fondamentalismo, «tanto nella religione quanto nella società, spesso tra loro interconnesse», e quella relativa alla necessaria autocritica rispetto al «peso doloroso dell’eurocentrismo nella nostra filosofia e nella nostra teologia».

Di seguito, l’intervento di Franco Barbero (fondatore, nel 1974, della comunità cristiana di base di Pinerolo, quindi, nel 2014, della comunità di base “Casa dell’Ascolto e della Preghiera”), e le riflessioni di Santiago Villamayor (della comunità di base di Saragozza, Spagna) e del teologo spagnolo naturalizzato nicaraguense José María Vigil.

* Dipinto di Maximino Cerezo Barredo, per gentile concessione dell’autore

Dal sistema cristianità alla Chiesa della liberazione

dal sistema cristianità alla Chiesa della liberazione

 
 da: Adista Documenti n° 5 del 10/02/2018 
 

Il decennio 1960-1970 ha rappresentato per la Chiesa di base italiana un laboratorio di fede e di cultura assai promettente. Si intrecciavano esperienze, narrazioni, letture ed elaborazioni molto diverse.

Attorno alla “teologia politica” (Metz-Girardi-Diez Alegria-Gonzales Ruiz), alla crescita dei preti operai, ai circoli politici dei “cristiani sociali”, nel fervore dei gruppi biblici di quartiere, molte parrocchie e parecchi centri di spiritualità raccolsero le voci del dissenso radicale e costruttivo che stava diffondendosi dal nord al sud dell’Italia. Furono questi cristiani che, nel decennio successivo, parteciparono con una acquisita coscienza di laicità ai referendum sull’aborto e sul divorzio. Fu la stagione dei “gruppi spontanei che fiorirono un po’ ovunque. I messaggi e le proposte dei teologi esperti al Concilio Vaticano II facilitarono la costruzione di un dialogo con la teologia della liberazione di cui in quegli anni eravamo in attento ascolto. Percepivamo una profonda parentela, sia pure nelle nostre dislocate e differenti realtà.

Le iniziative dei cristiani critici contro il Concordato e l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole della Repubblica, il rinato interesse per i protagonisti del “modernismo”, il 1968-’69, il superamento del partito unico dei cattolici, le lotte operaie e le prime voci dissonanti delle teologie femministe, parecchie riflessioni critiche rispetto all’enciclica Humanae vitae, ci fecero gustare la gioia di essere anche accompagnati da alcuni pastori capaci di camminare insieme al popolo di Dio. Era esattamente ciò che avveniva anche in America Latina dove alcuni vescovi rompevano, in nome del Concilio e in nome del popolo oppresso, il fronte della continuità. Sembrò allora che il “vento” del Concilio soffiasse inarrestabile. In realtà la stroncatura lenta e progressiva delle aperture conciliari non tardò a farsi sentire. Le voci profetiche che giungevano dal Cile, dall’Argentina, dal Brasile, da Cuba, dal Nicaragua e da El Salvador… ci resero progressivamente più attenti a ciò che nel capitalismo stava avvenendo. La cultura e la stagione del progresso sicuro ed illimitato diventavano ai nostri occhi una illusione. L’oppressione metteva in atto un progetto planetario sotto l’egemonia degli USA. Il nuovo nome della salvezza diventava progressivamente la liberazione “dalla schiavitù d’Egitto”.

Gli anni ‘70 videro un vasto “circuito” di realtà ecclesiali di base, parrocchie e comunità religiose, coinvolgersi in modo più esplicito e concreto nella scelta dei poveri in una Chiesa povera. In quel contesto nacquero in Italia le Comunità cristiane di Base e i “cristiani per il socialismo”.

La ricostruzione storica di quel tempo spesso si sofferma sulle esperienze che ebbero maggiore notorietà, ma fu il tessuto meno appariscente che lavorò con grande impegno e profondità sul terreno teologico, biblico e sociale.

Scattò la reazione

Già Paolo VI tuonò contro quella che definì “la rivoluzione teologica”, ma fu soprattutto la sua interpretazione restrittiva delle aperture conciliari a tentare di arginare i fermenti di novità e ad emarginare le “punte” più avanzate.

In ogni caso, fu il pontificato di Woytila che ingaggiò tutti i partigiani della reazione. Iniziò l’emarginazione dei teologi aperti e conciliari, nei seminari e nelle facoltà teologiche si avviò un controllo assoluto con una selezione rigorosa.

Tutto ciò determinò una grande corrente di scoramento mentre veniva favorita ogni operazione di squalifica della Chiesa di base. La Chiesa gerarchica molto presto cominciò ad affiancare i potenti ed a emarginare le esperienze critiche e creative. Le esperienze conciliari cercarono di praticare una spiritualità della resistenza, ma sovente la paura e il clima repressivo allontanarono dalla comunità ecclesiale energie preziose. Le intelligenze critiche facevano paura ad una istituzione che cercava con ogni mezzo di ricompattarsi.

La Chiesa della liberazione

Avevamo ancora nelle orecchie le voci di Milani e Mazzolari quando risuonarono altre testimonianze significative: Turoldo, Dossetti, Balducci, Giancarla Codrignani, Lidia Menapace, Pellegrino, Cuminetti, Raniero La Valle, Giovanni Franzoni, Vittorio Bellavite, Lercaro, Enrico Peyretti, José Ramos Regidor, Luigi Sandri, Enzo Mazzi tennero alta la prospettiva del Concilio Vaticano II. Sul piano culturale molte riviste e periodici svolsero un lavoro prezioso di controinformazione e di approfondimento, fungendo anche da ponte tra le varie Chiese della liberazione. Adista, Confronti, Tempi di Fraternità, Testimonianze, Il Gallo, Il Foglio, Quale vita, Rocca, Il Tetto, Concilium, Esodo…: ecco alcune testate tra le tante.

Lo stesso seminario per l’America Latina di Verona funzionò come laboratorio e come centro di divulgazione delle teologie dell’America Latina. Allora teologi come Mesters, Gutiérrez, Boff, Barros, Assmann, Ellacuría, Freire, Proaño, Richard, Vigil, Gebara… divennero come teologi di casa nostra e compagni di viaggio della nostra esperienza.

Esplosione delle lotte

Da Conversano a Favara, da Pettorano sul Gizio a Roma, da Gioiosa Ionica a Lavello, da Parma a Trento, da Palermo a Milano, da Genova a Pinerolo, da Firenze a Torino, da Bergamo a Voghera, da Livorno a Verona… nacquero esperienze di contestazione del potere sacrale, occupazione di Chiese, preti portati in tribunale per lotte operaie e antimilitariste… Mentre si svolgevano queste lotte, il teologo Rosino Gibellini curò, per l’edizione Queriniana, le più significative produzioni teologiche provenienti da tutte le aree del pianeta, favorendo un costante approfondimento ed ampliamento della mappa culturale e teologica.

Fu sempre nel decennio 1970-1980 che in parecchie città del Sud d’Italia si avviò un processo politico e teologico di crescente dissociazione dalle mafie. Negli anni successivi preti e magistrati furono perseguitati e uccisi perché avevano osato contrastare gli interessi delle organizzazioni criminali. Fu proprio negli anni ’70 che Ciro Castaldo diede vita al Bollettino di collegamento nazionale dei gruppi e comunità cristiane di base: uno strumento che facilitò un confronto costante tra le varie realtà nazionali.

In questi anni diventò sempre più determinante l’impegno e l’apporto delle teologie femministe e la voce delle donne che promossero una radicale critica al patriarcato dominante nella società e nelle Chiese.

Le ricerche femministe sono sempre state al centro del movimento delle Comunità cristiane di Base. Momenti particolarmente stimolanti nella vita delle comunità sono stati i convegni regionali, nazionali e i seminari di studio.

Il cammino delle comunità non potrebbe certo dimenticare l’apporto di teologi e teologhe come Hans Küng, Edward Schillebeeckx, Elisabeth Schüssler Fiorenza, Tissa Balasuriya, John Hick, Ortensio da Spinetoli, Giuseppe Barbaglio, Adriana Valerio…

Tensioni e problemi

Una certa tendenza anti-istituzionale, una difficile comunicazione tra comunità ed esperti, sensibilità diverse ed anche profonde divergenze sulle priorità del movimento stesso hanno creato nel corso degli anni delle difficoltà non indifferenti. A metà degli anni settanta, su iniziativa del teologo Amilcare Giudici e di pochi altri, fu avanzata la proposta di trasformare il collettivo teologico che aveva elaborato e scritto il volume Massa e Meriba in un laboratorio nazionale permanente per la formazione di animatori e animatrici delle comunità. L’idea non trovò seguito, ma nacquero qua e là seminari teologici e corsi biblici (quello di Torino compie 40 anni). La Chiesa di base oggi in Italia sta compiendo il difficile ma fecondo cammino verso un’accoglienza reciproca delle differenze, facendo i conti con reali divergenze sul piano politico e sul terreno religioso.

Anni ’80: repressione e paure

Negli anni ’80 le grandi iniziative pontificali, con una visibilità mediatica straordinaria, determinarono una svolta clericale in cui sembrò che la Chiesa istituzionale fosse riuscita ad imbrigliare la profezia del Concilio che, invece, per noi costituiva soltanto un sentiero aperto verso il futuro. Cominciò allora il funesto periodo della mariolatria, della santomania, della papolatria e del devozionalismo. Le ricerche sulle strutture della Chiesa, sulle cristologie, sui linguaggi liturgici, sul ruolo delle donne, sulla famiglia, sulle unioni civili e il matrimonio omosessuale… diventarono terreni “pericolosi”. Furono preferiti quei teologi e quei monaci accondiscendenti, verniciatori del vecchio catechismo e “buoni per tutte le stagioni”.

Mentre nei seminari e nelle facoltà teologiche si registrò e si registra tuttora una grave decadenza della teologia scientifica: teologi e monaci allineati trovano una presenza e una visibilità vasta su tutti i mezzi di comunicazione, determinando un’informazione che nasconde le novità critiche e le ricerche più pungenti sui terreni scottanti che la realtà dell’oggi pone alle Chiese e alle religioni. È sufficiente non “toccare”, non affrontare con rigore certi argomenti che attengono al piano etico o dogmatico, ed allora puoi vivere tranquillo.

Nonostante la voce profetica di papa Francesco su temi centrali della convivenza umana e cosmica, nonostante il suo appassionato richiamo ad una Chiesa in uscita, le nostre Chiese locali sono spesso sonnolente, piene di santi e madonne, di rosari, di processioni, di apparizioni, di feste patronali… continuano come prima le cappellanie militari, il Concordato tra Stato italiano e Chiesa cattolica, la scuola di religione cattolica, il catechismo ufficiale… Il passaggio a una Chiesa che operi un annuncio ed una testimonianza dalla fede ai sacramenti è appena avviato. Regna ancora una prassi pastorale che mette al centro la sacramentalizzazione, ma il passaggio è in atto e necessita di tempi medio-lunghi.

Una opportunità straordinaria

Lo spirito disumanizzante del capitalismo ha totalmente permeato il vissuto quotidiano con la religione del “benesserismo” e con la globalizzazione dell’indifferenza. Il clima diffuso batte anche alla porta delle nostre comunità e delle nostre vite personali. Ma in realtà, accanto a chi cede a questa idolatria, accanto a chi vive il tramonto della “societas christiana” come delusione o rimpianto, esiste una realtà minoritaria, ma capillarmente sparsa, di donne e di uomini che vivono l’attuale stagione come una difficile sfida e una grande opportunità.

Nella fatica, nella scarsità dei frutti, molte donne e molti uomini, a tutti i livelli della nostra Chiesa, vivono con speranza attiva il servizio evangelico della semina del granello di senape e la loro testimonianza nelle vie del mondo.

Uomini, donne, presbiteri, pastori, catechisti: c’è una multiforme e dispersa comunità che non cede alla tentazione “panottica”, cioè della grande immagine scenica, ma vive ogni giorno in costante riferimento alla esistenza degli ultimi, immersa nelle lotte per i diritti, contro le disuguaglianze. Esistono, quasi totalmente silenziate dalle voci ufficiali, una ricerca cristologica, un dialogo ecumenico di base, ricerche di nuovi linguaggi per dire Dio oggi in cui si gioca una partita importante. In questo contesto lentamente si crea dal basso una nuova ministerialità, anzi una nuova comunità.

“Chiesa di tutti chiesa dei poveri” non è un cartello, ma un sentiero che vuole mettere in rete, in comunione, tutte quelle esperienze che tentano di liberare il cristianesimo dalla idolatria del potere e del dogma. Molti, senza illusioni lavorano, studiano, pregano e operano in questa direzione, affidando a Dio i tempi del cammino.

Mi sembra che questa sia autentica spiritualità della liberazione. Si tratta di un’opportunità storica di passare dalla prevalenza di un cristianesimo sociologico alla fede personale e comunitaria nel Dio della liberazione che, per noi cristiani, si è manifestato in Gesù di Nazareth e nelle persone più emarginate, fragili ed oppresse.

* Fronte di copertina dell’opera collettanea Massa e Meriba. Itinerari di fede nella storia delle comunità di base (Tempi di Fraternità 1980)

Dal nazionalcattolicesimo al postcristianesimo. Le CdB in Spagna e la TdL

dal nazionalcattolicesimo al postcristianesimo

le CdB in Spagna e la TdL

 da: Adista Documenti n° 5 del 10/02/2018
 

Introduzione

La Teologia della Liberazione è la conseguenza più onesta del Vaticano II, nata in parte nelle catacombe romane ed emarginata dalla curia romana fin dal primo momento. Tutto il potere e tutto il peso della Basilica di San Pietro sarebbero ricaduti a piombo negli anni successivi su questo sottosuolo evangelico. (…). L’espressione più rilevante di questo rinnovamento è stata la formazione di un grande movimento dalla duplice militanza, cristiana e politica, sotto forma di piccole comunità. Alle frontiere della stessa Chiesa, molti catechisti, religiosi/e e sacerdoti si sono avvicinati ai poveri, agli indigeni, agli abitanti delle baraccopoli e ai contadini che con fatica si guadagnavano il pane e che per le loro proteste perdevano facilmente la vita. Il martirologio latinoamericano mostra la radicalità e la santità che hanno caratterizzato la sequela di un Gesù di Nazaret sempre nuovo, povero e sovversivo, profeta al servizio del popolo.

In Spagna l’esempio latinoamericano si diffuse rapidamente soprattutto tra i cristiani a cui il Concilio aveva dato speranza. Erano i settori che si andavano distaccando dall’ortodossia e dal concubinato politico con il regime franchista: una piccola borghesia sinceramente religiosa, lavoratori dell’industria dalla religiosità ancora profondamente rurale, professionisti liberali, studenti contestatari e i resti della sinistra che aveva perso la guerra ma che non per questo aveva rinunciato alla sua cultura cristiana.

Si originò allora una dinamica di avvicinamento alla “classe operaia”, di proletarizzazione e di prossimità nelle periferie. Il misticismo rivoluzionario si fece spazio ispirandosi all’Esodo e ai Profeti. (…).

Influenza della Teologia della Liberazione in Spagna

Il libro Marx e la Bibbia di José Porfirio Miranda non è il più importante della TdL, ma è di certo uno dei più rilevanti per le comunità. Significativamente, poneva la giustizia interumana come principio etico comune al marxismo e al cristianesimo. «Fede significa credere che questo mondo ha un rimedio». L’analisi marxista delle alienazioni e l’interpretazione materialista della storia iniziarono a costituire la mediazione di cui la teologia aveva bisogno per uscire dalle eteree e screditate interpretazioni metafisiche. Si scopriva così un «amore più universale e pertanto più divino» di quello legato alle classi potenti il cui Dio era seduto alla «mensa del padrone». La sociologia marxista e la rivoluzione dei cristiani si collocavano così nell’occhio del ciclone ecclesiastico e politico.

Con questo avvicinamento strutturale ai poveri sorge anche un nuovo paradigma, una sincera chiave di interpretazione della realtà, al tempo stesso molto semplice e molto potente: quello in base a cui non è il pensiero quello che determina la maniera di essere o di vivere, ma è l’esistenza reale, la condizione sociale, a determinare il modo di pensare e pertanto di agire. (…).

Tale paradigma (…) impregnò l’esperienza cristiana in modo tale che, malgrado la profonda trasformazione delle società, persiste ancora oggi, sebbene con nuovi modi di espressione: con minore radicalità, forse, ma con maggiore estensione. (…).

E diciamo anche che questa teologia è venuta per riconciliare la Chiesa con la sinistra, poiché fino agli anni Sessanta l’esclusiva del cattolicesimo l’aveva la destra. È venuta per fare da ponte tra il cristianesimo sincero di alcune famiglie e gli “eroi rossi” sconfitti in guerra. E ciò nonostante l’episcopato e la gerarchia in generale, malgrado papa Francesco, facciano ancora resistenza. Ed è venuta anche per costruire l’istmo di un umanesimo liberatore universalista. Un movimento che assume e supera le religioni e le ideologie, il teismo e l’ateismo, e che unisce “greci, ebrei e gentili” in una convocazione plurale e indefinita interpretata dalle comunità sotto le metafore del Regno e del Padre. Vale a dire, animata dal cielo stellato della fraternità universale e mossa dalla memoria della migliore “buona volontà” dentro di noi (Kant).

Traiettoria delle Comunità di base in Spagna

a) La rottura con il nazionalcattolicesimo, anni ’60-’70

Il nazionalcattolicesimo è nato dalla simbiosi tra il regime franchista vincitore della guerra civile e la Chiesa spagnola schierata in difesa dei valori più tradizionali del cattolicesimo e della legittimità di tale guerra, definita come una crociata. (…). Una dittatura cattolica. Una “triplice alleanza”: tra l’esercito golpista, il potere economico beneficiato dalla guerra e la Chiesa anticomunista e tridentina. (…)

Da questo cattolicesimo borghese, centrato sul culto, sulla salvezza individuale, sul moralismo, soprattutto sul terreno della sessualità, e sull’”altro mondo” – da conquistare attraverso la reiterazione magica dei sacramenti –, si è passati a un cristianesimo della solidarietà tra fratelli, impegnati a conquistare la propria dignità e a ricercare insieme una liberazione dalle proprie condizioni di vita. Un passaggio sperimentato congiuntamente nel seno di una comunità.

Per questo quasi si può dire che fu un miracolo uscire da quella situazione di oscurità. Ma il miracolo ci fu, a partire dagli anni ’60, grazie a diverse e decisive circostanze (…), a cominciare dalla scoperta della povertà estrema nei quartieri periferici in virtù delle missioni catechetiche. (…).

In questo divorzio con il regime assume un ruolo di rilievo José María de Llanos, il mons. Romero spagnolo, come potremmo chiamarlo. E con lui José María González Ruiz, parroco di periferia e canonico della cattedrale di Malaga, il teologo spagnolo forse più influente al Vaticano II (…) e José María Díez Alegría, fratello di due illustri generali dell’esercito vittorioso (…), che passò dalla direzione degli esercizi spirituali di Franco alla periferia più povera di Madrid, il Pozo del Tío Raimundo, dove sposò la causa dei lavoratori e delle loro lotte ed entrò nel sindacato Comisiones Obreras, e successivamente nel Partito Comunista. Fu uno scandalo per il regime e una follia per la fede, di grande impatto sul nascente cristianesimo popolare delle comunità. Un percorso simile a quello di un altro gesuita, “Paco el Cura”, Francisco García Salve, figlio di una guardia civile assassinata dagli anarchici (…), che diventò membro del Comitato Centrale del Partito Comunista e della direzione di Comisiones Obreras, e, come tale, condannato nel famoso «processo 1001» del 1973 (quello con cui il Tribunale di Ordine Pubblico condannò al carcere dieci dirigenti del sindacato clandestino Comisiones Obreras per delitto di associazione illecita, ndr).

In Europa è imminente il “Maggio del ’68” e negli Stati Uniti esplode la contestazione della guerra in Vietnam. A Cuba trionfa Fidel e in Spagna i seminari entrano in ebollizione. (…). La HOAC (Hermandad Obrera de Acción Católica) e la JOC (Juventud Obrera Cristiana) si avvicinano alle cattive compagnie della sovversione marxista. I “preti operai” abbracciano con grande sacrificio il lavoro manuale salariato. Gruppi di religiosi e religiose (…) vanno a vivere in appartamenti condividendo la vita quotidiana, il mercato e la strada con le altre persone. Si cedono i locali parrocchiali alla lotta operaia, allora clandestina, e i loro ciclostili stampano più volantini che fogli parrocchiali.

La “Parola di Dio”, la buona semente, non viene più lasciata con devota parsimonia sui banchi della chiesa, ma è lanciata con rabbia sulle strade, all’alba. Ed è in questo contesto che irrompe la Teologia della Liberazione. E che si forgiano le Comunità di Base e altri gruppi simili.

Tanto in America Latina quanto in Spagna furono momenti di mistica messianica. Gesù era un rivoluzionario come il Che, come Fidel, come, allora, Daniel Ortega. (…). E se c’erano resistenze nei riguardi del marxismo, si prendeva come esempio la non violenza di Gandhi o di Martin Luther King. Gli Stati Uniti erano il Leviatano capitalista. (…). Credere era impegnarsi, partecipare alle lotte operaie e di quartiere e celebrare la memoria sovversiva di Gesù di Nazaret. (…).

Nelle facoltà di teologia, oltre al marxismo, si insegnava la psicoanalisi e l’evoluzionismo di Teilhard de Chardin. Si leggeva Camus, Sartre, Simone de Beauvoir. Con John Arthur Thomas Robinson e il suo libro Honest to God, ci avvicinammo a Bonhoeffer e a Tillich. Nelle comunità e nei loro gruppi di formazione si divulgavano questi scritti e si leggevano direttamente i teologi più pastorali: Hélder Câmara, Roger Garaudy, Giulio Girardi, García Nieto e Comín, che danno avvio in Spagna al movimento dei “Cristiani per il socialismo”. Proliferano i quaderni di formazione come la Teologia Popolare di José María Castillo, le riviste della HOAC, Noticias obreras, Exodo e Utopía, quest’ultima delle nostre comunità. Julio Lois, Juan José Tamayo, Pedro Casaldáliga, Ivone Gebara, González Faus e i quaderni di “Cristianismo y Justicia”, per fare alcuni esempi, avrebbero portato avanti successivamente questa pedagogia della liberazione. Le poesie di Ernesto Cardenal o le canzioni di Víctor Jara, Violeta Parra, Carlos Mejía Godoy e poi Silvio Rodríguez o Pablo Milanés, tra altri, ci trasmettevano, molte volte, più teologia di molti scritti accademici.

b) La alternativa cristiana. Le CdB, anni ’70 e ’80

Le Comunità di Base vivono il loro apogeo in questi due decenni. (…). Il libro La alternativa cristiana di José María Castillo (…) rappresenta assai bene ciò a cui si mirava in quel periodo. Un’alternativa alla Chiesa tradizionale. Una rinascita del cristianesimo a partire dal popolo, ma senza abbondonare quella Chiesa. Ci ponevamo in un’appartenenza critica. Volevamo essere “l’altra voce della Chiesa” e compensare l’eccessiva loquacità di destra della gerarchia, che quasi sempre metteva in cattiva luce il vangelo. (…).

L’assassinio di mons. Romero nel 1980 fu uno dei momenti più importanti, per ciò che significava come esempio di conversione al vangelo dei poveri a partire da un’alta sfera dell’Istituzione. La sua morte diede vita ai Comitati Oscar Romero, che portarono la Teologia della Liberazione in tutto il mondo. Qualcosa di simile avviene con l’assassinio dei gesuiti e delle due donne che li aiutavano in El Salvador. (…). Alla fine degli anni ’80 inizia un lavoro meno vistoso e più efficace sul terreno istituzionale. (…). Nelle comunità si va diffondendo a poco a poco un clima di disincanto e di desolazione. Soprattutto nella misura in cui Giovanni Paolo II va stravolgendo lo spirito del Vaticano II e attaccando e umiliando la Teologia della Liberazione nella persona di Ernesto Cardenal, durante la sua visita in Nicaragua. La Spagna entra in un’epoca di prosperità economica che va ampliando le classi medie, con le quali si impone un profilo più conformista. (…).

c) La cooperazione internazionalista, dal ’90 al 2005 Il cristianesimo della liberazione si dispiega in nuovi movimenti sociali e nella pre-politica mondialista. Gli sguardi si rivolgono al Sud. (…).

La caduta del muro di Berlino e con essa il discredito dei Paesi del socialismo reale pone fine alla rivoluzione intesa in modo classico e apre la porta al pensiero unico e alla globalizzazione. Fukuyama pubblica La fine della storia per confermare il trionfo del capitalismo. Ma parallelamente sorgono anche i movimenti antiglobalizzazione, i forum sociali e l’altermondialismo: il Vertice di Rio nel 1992, le proteste di Seattle nel 1999 e il primo Forum Sociale Mondiale a Porto Alegre nel 2001 (…).

A poco a poco si va imponendo anche una nuova cultura, la postmodernità. La liberazione compete con il gusto per la vita e i costumi si liberano dalla religione. (…). L’individualismo, la solitudine e l’anonimato si espandono per le città sempre più cosmopolite. Si consolidano i tratti che successivamente Bauman riassumerà nel concetto di “società liquida”.

Le comunità affrontano questi momenti di difficoltà con molteplici iniziative. Revisione delle proprie basi identitarie, gruppi di formazione e di preghiera, giornate statali di riflessione. Ogni incontro statale diventa motivo di speranza esprimendo una volontà di rilancio, benché domini la nostalgia del profetismo di un tempo. (…). Negli ultimi anni del XX secolo alcune visioni teologiche acquistano una speciale importanza. Cresce l’interesse per la ricerca di nuovi simboli, considerando il logoramento dei sacramenti classici. La disaffezione dalla Chiesa diventa sempre più forte e la funzione del sacerdote non viene più riconosciuta. (…). La celebrazione dell’eucarestia si rinnova completamente. Diventa qualcosa che appartiene a tutta la comunità: la riflessione, la preghiera e un pasto comune in memoria dell’ultima cena di Gesù. Non si tratta di pasque ebraiche né cristiane, né tantomeno di sacrifici redentori e le donne iniziano a presiedere la celebrazione. A poco a poco si perde il carattere sacro e si valorizza maggiormente la dimensione comune derivante dalla condivisione dell’azione sociale e dell’opzione per i poveri. Non ci sono consacrazioni né liturgie. Si tratta di nuovi simboli vincolati alla gratuità e all’amore disinteressato, soprattutto di carattere civico. E le comunità passano a concentrarsi sull’aiuto ai migranti e sull’accoglienza ai rifugiati.

Con le nuove tecnologie dell’informazione, le reti sociali e i cellulari, l’attivismo sociale cresce nel mondo virtuale e si proietta sulla realtà. Le nuove tecnologie, le neuroscienze e la robotica annunciano un mondo ancora più contraddittorio rispetto ai vecchi racconti biblici ed emancipatori. La TdL, che aveva eclissato i problemi metafisici ed esistenzialisti, torna ad affrontare le questioni radicali della finitezza e del limite, ora passati per il setaccio della vita reale e collettiva: un altro mondo è possibile? Quanto dureranno le conquiste popolari? (…). Cosa o chi garantisce che il mondo trovi un rimedio? L’oppressione e l’ingiustizia sono viste nell’ottica del tradizionale problema del male, e il paradiso comunista o comunitario entra nell’incertezza del mistero e dell’enigma. Il pluralismo religioso pone sul tappeto la questione della relatività delle risposte religiose.

La fede che cerca di comprendere si sente sola e insicura. I cristiani, non più tanto della base, sono ora compagni di viaggio di agnostici e anateisti.

d) Post-religione e umanesimo universalista. Dal 2005 a oggi

Il cristianesimo si è sempre rinnovato. E se tante volte è entrato in crisi, generalmente a causa del potere, che lo si chiami ricchezza, autoritarismo o egocentrismo, altrettanto spesso ha assistito al ritorno dei profeti. Ma ora la crisi e la mutazione che l’accompagna appaiono più profonde, avendo a che fare con aspetti essenziali del credo cristiano, compreso di di ciò che si credeva fosse il messaggio originario del Vangelo. Le coordinate o paradigmi che reggono il mondo sono cambiati profondamente. La globalizzazione della povertà si manifesta attraverso un’enorme forbice di disuguaglianza tra l’1% rappresentato dal potere finanziario e il 99% degli impoveriti. L’intero pianeta si trova in estremo pericolo. E d’altra parte l’intelligenza artificiale, l’ingegneria genetica, i bigdata e via dicendo sembra vogliano condurci al bordo del “transumanesimo”, dell’affermazione di un’intelligenza artificiale.

In questo panorama molti si spingono ad affermare che ci troviamo in un nuovo tempo assiale. In una fase convulsa di metamorfosi che, nel caso del cristianesimo, si traduce in una decostruzione del grande racconto della Salvezza e in un imminente volo della farfalla verso la convergenza dell’umanità. Le comunità non respirano più al ritmo dei grandi avvenimenti salvifici enunciati nella prima teologia paolina.

La Bibbia è per noi una grande metafora: non ha la ragione, ma ha anima di liberazione. La creazione, il peccato, l’incarnazione, la redenzione o la resurrezione e la vita eterna non sono sequenze di una grande epopea storica. Sono simboli delle costanti esistenziali della condizione umana e dell’invito alla fraternità.

Le opere di Lenaers, Spong, Knitter, Hick e altri, che le comunità hanno potuto conoscere grazie a Servicios Koinonia, alla biblioteca Relat (Revista Latinoamericana de Teología) e ai successivi incontri con José María Vigil nelle sue visite in Spagna rappresentano l’ultimo passo dell’influenza della TdL nelle comunità. Tali letture ci hanno provocato in un primo momento uno sconcerto profondo e doloroso, ma ci hanno permesso l’accesso a un nuovo paradigma post-religionale e sovra-religionale che genera in noi sollievo e fa nascere un nuovo spirito di liberazione. È la grande onda della massimizzazione dell’amore civico che si esprime in tutta la sua purezza quando abbraccia i più sfavoriti.

Appendice

La speleologia della speranza

“…E arrivarono tempi oscuri

in cui tutte le nostre conquiste furono distrutte

da orde di ciechi mercenari

al servizio del potere del denaro.

Una volta ancora la speranza

fu costretta a cercare rifugio

nella grotta più profonda

per evitare che l’avidità la demolisse

cancellandone la memoria;

e fu necessario mantenere il silenzio,

lontano dalle cose, in modo che il silenzio ci restituisse

la coscienza semplice dell’amore

e il senso compiuto della parola”.

(Frammento di una poesia trovato nelle rovine di Babilonia, presso la porta di Ishtar).

Doveva essere questo il titolo di questo articolo: “La speleologia della speranza”, ma mi sembrava troppo magniloqente. Non lo è però qui, come epigrafe di un’appendice. Uso questo termine, “speleologia”, del tutto intenzionalmente, perché il compito che presuppone è quello della ricerca e della creatività. Perché la “teologia” si indebolisce nella misura in cui crescono l’antropologia e la sociologia delle molteplici trascendenze umane. Come tali mirano all’assoluto, senza arrivare a toccarlo o a macchiarlo. E ci dobbiamo abituare a restare nella caverna cercando di uscirne. Siamo incomprensione e limitazione, carne di relatività che dice Dio, Libertà. Siamo umanità scissa a causa dell’ingiustizia in attesa di un’integrazione fraterna.

Uso questo termine anche perché la speranza non può che essere attrattiva. Come possiamo entusiasmarci per qualcosa che ci oltrepassa se viene annunciato a partire da una sofferenza obbligata e dall’impotenza di una “missione impossibile”?

Cerchiamo allora attraverso le crepe della complessa ingiustizia di questo tardo capitalismo, finanziario e distruttore, soluzioni economiche e di pace; guardiano ai filoni della contingenza per scoprire aperture di libertà duratura. La speleologia è un magnifico lavoro di scoperta che richiede una luce potente sul proprio casco, intensa suspense e lavoro pericoloso.

La fede che nasce tra i poveri si chiama speranza. Il potente vive nella sicurezza dei cieli luminosi, conosce Dio, sa chi è e lo chiama per nome, perché sta con lui. Il povero ne avverte l’assenza, va a tentoni e lo attende e lo ama senza una sufficiente ragione. La Prassi della Liberazione ha aperto nella caverna umana filoni di fede profonda e di compassione attiva, ogni giorno più vasti.

* Basílica de Nuestra Señora del Pilar a Saragozza in una foto [ritagliata] di LeyLeyLey, tratta da Pixabay

L’America Latina dinanzi alla ricezione della TdL in Europa

l’America Latina dinanzi alla ricezione della TdL in Europa

da: Adista Documenti n° 5 del 10/02/2018
 

Qualche parola ulteriore dall’America Latina, per (…) esprimere con fiducia alcune convinzioni latinoamericane che affiorano nel nostro cuore dopo questo “dialogo con l’Europa” in cui consiste di fatto questo numero di Voices dedicato alla ricezione della Teologia della Liberazione in Europa.

Di fronte a una ricezione così varia e multiforme (…), nascono in noi queste parole fraterno-sororali, da TdL a TdL, rivolte a tanti fratelli e sorelle e a tante comunità che pensano, pregano e praticano questa teologia uguale e al tempo stesso diversa, che ci unisce nella lotta per la stessa Causa, l’Utopia di Gesù.

1. TdL, una teologia veramente latinoamericana

Teologie ve ne sono molte in America Latina, ma la TdL è quella che più propriamente può essere definita davvero latinoamericana, cioè nata e cresciuta qui e identificata pienamente con valori tipicamente latinoamericani. Altre teologie possono magari vantare più adepti e un maggiore appoggio istituzionale, ma sono teologie nate in un altro luogo, teologie importate e a volte imposte.

Per quanti di noi l’accompagnano dalla sua nascita, riveste un grande significato per questo continente: è il primo corpus sistematico di teologia elaborato al di fuori dell’Europa. E non è il risultato di una mera applicazione del Concilio Vaticano II al continente latinoamericano: l’applicazione effettivamente realizzata dalla II Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano di Medellín è risultata molto creativa e ha rappresenta  to un salto qualitativo verso un nuovo paradigma (storico, critico, liberatore, a partire dall’opzione per i poveri…) realmente nuovo, nella storia non solo del continente, ma della Chiesa intera. Ha aperto prospettive nuove che non erano presenti nel testo conciliare che sembrava dovesse “semplicemente” applicare.

Nei primi anni ’80 si discusse ampiamente della differenza specifica (se ci fosse e quale fosse) tra la TdL e la cosiddetta teologia progressista europea, che, senza dubbio, aveva contribuito notevolmente all’apparizione della TdL. Sappiamo bene che, in una sana teologia, non è possibile una novità assoluta. E sappiamo bene anche che la TdL non ha un “padre”, né riconosce alle sue origini alcun maestro che abbia creato intorno a sé questa “scuola teologica”, bensì è andata sorgendo collettivamente, un po’ ovunque in America Latina, a partire dall’esperienza spirituale e dalla prassi di un popolo “oppresso e credente” come quello latinoamericano. Un’esperienza che è stata un “atto primo” di cui la TdL che è sorta in America Latina sarebbe un atto secondo.

Ma questo atto secondo non avrebbe potuto aver luogo se non fosse stato per il Concilio Vaticano II che si intendeva applicare (e che di certo ha avuto molto poco di latinoamericano), e per i primi sviluppi della teologia europea postconciliare, i quali non erano sconosciuti ai teologi e alle teologhe dell’America Latina che accompagnarono il proceso.

Di certo, il risultato non è stato una copia, bensì ha presentato novità sostanziali, fondamentalmente a causa della differenza tra il contesto socioeconomico e socioculturale latinoamericano e quello europeo, per il diverso “luogo sociale” all’interno della società mondiale a cui guardava ciascuna delle due teologie. Di fatto Rockefeller reagì con furia contro Medellín e contro la TdL, non contro altre teologie. Nell’ottica dell’America Latina, ci sembra di vedere che questo popolo simultaneamente “oppresso e credente” – nella consapevolezza della dialettica oppressione/liberazione e dell’opzione per i poveri – sia la differenza specifica alla base del marchio di fabbrica della TdL, del salto qualitativo che questa ha potuto compiere, senza disconoscere né sottovalutare per questo l’aiuto inestimabile che ha significato la teologia progressista europea.

In ogni caso, la TdL latinoamericana può essere considerata a ragione come un contributo di questa Chiesa cristiana continentale all’intera Chiesa universale, trovandosi in effetti presente oggi in tutti i continenti.

Non si è trattato di un’esclusiva cattolica, dal momento che lo stesso processo è stato vissuto nello stesso periodo dalle Chiese protestanti, nella Conferenza di Uppsala, nel “Movimento Chiesa e Società” del Consiglio Ecumenico delle Chiese a Ginevra… Le innumerevoli realizzazioni accademiche e pastorali “ecumeniche”, tra cattolici e protestanti, in materia di TdL non sono mai cessate fin dai primi momenti della sua apparizione. Anzi, senza che nessuno abbia voluto “esportarla”, la incontriamo anche in altre religioni, come l’islam, l’ebraismo, l’induismo, il buddhismo…

Pur essendo la teologia latinoamericana per antonomasia, è chiaro anche che non è solamente latinoamericana, bensì presenta anche altre radici – tra cui quelle europee –, e soprattutto molti rami, carichi di frutto, che si sono innestati nei luoghi più diversi, in tutti i continenti.

2. TdL: senza trionfalismo

Per dire la verità, neppure negli anni ’70 e ’80 la TdL è arrivata a occupare egemonicamente il continente latinoamericano. Ha, sì, assunto un chiaro protagonismo, grazie alla pubblicità dei mezzi di comunicazione che ne hanno fatto una novità giornalistica, ma neanche allora è stata una teologia maggioritaria tra il popolo di Dio latinoamericano. E ancor meno lo è stata istituzionalmente. Però, questo sì, ha portato, quasi da sola, la palma del martirio: era dai primi tempi della Chiesa che non assistevamo a una «così grande nube di testimoni», il martirologio latinoamericano, la prova di credibilità massima della spiritualità della liberazione (l’atto primo della TdL).

Negli anni ’70 e ’80 si pensava che la CLAR (Conferenza Latinoamericana dei Religiosi e delle Religiose) fosse totalmente egemonizzata dalla TdL; in realtà, analisi più dettagliate hanno rivelato come solo un quarto dei religiosi/e aderisse – profondamente, questo sì – alla TdL: la grande maggioranza si limitava semplicemente a seguire le persone che erano convinte oppure si opponeva loro. E lo stesso potremmo dire del grosso delle diocesi della Chiesa cattolica e delle denominazioni e congregazioni della Chiesa protestante. La realtà della TdL è stata spesso significativa, e in sé molto valida, ma non ha mai raggiunto una presenza di massa e ancor meno totalizzante. I nemici politici e gli avversari ecclesiastici istituzionali non sono mancati e questo ha reso particolarmente duri alcuni decenni dell’inverno ecclesiale che abbiamo attraversato. Tutto ciò spazza via ogni trionfalismo nel parlare della TdL: lo stesso atteggiamento con cui ascoltiamo i resoconti e le cronache della presenza e della ricezione della TdL in Europa. È il cammino del Vangelo: sempre privo di trionfalismo.

3. TdL: con umiltà

La TdL è stata frequentemente celebrata come un ritorno al cristianesimo del Vangelo, alla Chiesa primitiva, quella dei poveri, slegata da ogni alleanza con l’Impero. Ma se tali riconoscimenti sono veri, devono anche essere accolti con umiltà, perché non si possono chiudere gli occhi di fronte alla sua impotenza rispetto alla realtà di peccato del nostro continente.

L’America Latina, il continente famoso per la TdL, è altrettanto tristemente famoso per essere il continente economicamente più diseguale del mondo. Il Brasile, il Paese che è giunto ad avere – si diceva – più di 80mila Comunità Ecclesiali di Base – è il Paese che registra la maggiore concentrazione di reddito, e in cui l’1% della popolazione possiede il 28% della ricchezza del Paese, secondo i dati del 2015, anche dopo il livellamento in termini di equità che ha significato il governo di Lula, con più di 40 milioni di poveri che hanno fatto ingresso nella classe media. La TdL latinoamericana deve parlare con umiltà, perché i postulati teorici su cui si basa sono assai lungi da una traduzione effettiva in risultati socio-economici giusti e in efficaci e concrete strutture politiche. E ciò malgrado questa contraddizione tra religione cristiana e ingiustizia sociale non appartenga solo al continente latinoamericano, ma a tutto il complesso socio-culturale occidentale, essendo purtroppo l’Occidente la culla e il supporto del capitalismo mondiale, noto in tutto il mondo come massimo responsabile della disuguaglianza, dello sfruttamento dei popoli e del colonialismo. La TdL, tanto in America Latina quanto in Europa o in qualunque altra parte del mondo, deve essere umile perché non può vantare il merito di aver realizzato storicamente molte trasformazioni socio-economico- politiche, benché possa, al tempo stesso, essere umilmente orgogliosa di stare dalla parte giusta della necessaria trasformazione del mondo, dallo stesso lato in cui si schierò Gesù di Nazaret, che pure lui fallì.

Specialmente dinanzi all’Europa, la TdL non può essere arrogante né pretendere di dare lezioni a priori, poiché di fatto l’Europa, pur essendo una delle regioni che producono più diseguaglianza a livello mondiale, e pur trovandosi attualmente in un processo di inequità crescente, è ancora la regione del mondo a cui le statistiche attribuiscono la minore disuguaglianza sociale. Malgrado tale indice non sia l’unico importante in una realtà così complessa come quella della politica socioeconomica, vi sono analisti che indicano l’Europa come esempio da seguire per altri continenti nella lotta alla disuguaglianza nel mondo, per quanto riguarda l’introduzione di un regime di tassazione progressiva e l’aumento delle imposte sull’eredità, oltre a un maggior rigore nel controllo dell’evasione fiscale. L’equità sociale, come elemento del Regno di Dio predicato da Gesù, utopia della TdL, pare non essersi ancora rivelata possibile in modo stabile, duraturo e integrale in nessun regime politico ispirato dalla TdL o sulla linea della TdL. Non abbiamo alcuna realtà politica di cui inorgoglirci.

È all’interno di questo atteggiamento di umiltà che va accolta la presenza della TdL in Europa (…), come una presenza in ogni caso assai positiva, che si sforza di rinnovare tanto la Chiesa quanto, soprattutto, la Società, come è compito della TdL, che è sempre stata una teologia “in uscita”, verso l’altro mondo possibile, verso l’Utopia di Gesù.

4. La TdL non è l’“ultima” parola

Nei primi decenni della sua apparizione in America Latina è sembrato ad alcuni che la TdL e la spiritualità della liberazione fossero “l’ultima” parola e continuassero a esserlo quasi per sempre… Il mondo ha registrato una svolta socio-economico-ideologica importante nel 1989, e a partire da allora è sopraggiunto un forte calo dell’ammirazione che la TdL riceveva all’estero. La prima critica che allora le venne mossa è che non evolveva, che ripeteva – magari approfondendoli – i temi fondamentali, senza presentare novità.

Vi fu una prima reazione della TdL a questa presa di distanza da parte di quelli che fino ad allora erano stati i suoi ammiratori, quella rappresentata dalla sorpresa della diversificazione dei suoi soggetti, i “nuovi soggetti emergenti”, come si disse: le donne con la loro teologia femminista, gli indigeni con la loro teologia india, gli afroamericani con la loro teologia nera… Fu una sorta di sdoppiamento, una diversificazione, non una divisione ma un arricchimento in termini di profondità, cosicché, per quanto si possa parlare oggi di teologie della liberazione, al plurale, ha anche senso mantenere il singolare, per la forte e sostanziale unità che unisce tutte loro.

Anche così, tale sdoppiamento non era una novità rispetto alla TdL, ma solo un approfondimento. Presto tornò a ripetersi la critica contro di essa: non evolve, è rimasta nel mondo degli anni ’80-’90, non accoglie né dà risposta alle nuove e profonde questioni epistemologiche, ai “nuovi paradigmi” che stanno apparendo da alcuni decenni, sebbene alcuni vengano da molto lontano, dai secoli passati. Per fare solo un esempio: la TdL classica, fin dalla sua origine, essendo una “derivazione” di un’applicazione del Concilio Vaticano II, non poteva non essere inclusivista e cristocentrica. In quegli anni, dopo il superamento recente del millenario esclusivismo tipico del cristianesimo, non esisteva un’altra prospettiva a cui richiamarsi: il paradigma pluralista neppure si intravedeva all’orizzonte. Tuttavia, verso la fine degli anni ‘80 apparve la teologia del pluralismo religioso, e con essa il paradigma pluralista, che presto iniziò a occupare spazi nella teologia. In non pochi settori ecclesiali, la TdL classica fu presa dallo sconcerto, senza sapere cosa fare; molti confusero la fedeltà alla TdL con la chiusura al nuovo, e con il timore a mescolarsi, a confrontarsi e a riconvertirsi. Ma vi furono anche autori e autrici legati alla TdL che accettarono la sfida di confrontarsi con questo nuovo paradigma: nella raccolta Per i molti cammini di Dio (tiempoaxial.org/Por-LosMuchosCaminos), della EATWOT (cinque volumi in senso progressivo, con oltre 70 autori/autrici) si presenta una Tdl impegnata a confrontarsi con il pluralismo, non più necessariamente inclusivista.

E insieme al paradigma pluralista sono presenti oggi sullo scenario vari altri “nuovi paradigmi”, i quali im pongono sempre più chiaramente la loro presenza, suscitando la resistenza di quanti preferiscono non affrontare cambiamenti drastici (i cambiamenti di paradigma sono, per definizione, i più radicali), e restare fedeli alla TdL “di sempre”, quella “originale”, quella degli anni ’80, come se fosse l’“ultima parola”. Insieme a quello pluralista, esistono il paradigma femminista, quello post-teista, quello non dualista, quello ecocentrico, il nuovo paradigma archeologico biblico, il nuovo paradigma epistemologico…

Le pagine di questa rivista testimoniano che, sebbene sia l’America Latina il luogo in cui è più noto e più assunto come proprio questo confronto della TdL con i nuovi paradigmi, anche in Europa vi sono Paesi entrati – a partire dalle Comunità di Base più che dai cattolici accademici – in questo processo di sviluppo di una TdL che non costituisce più “l’ultima parola”, bensì che dialoga con le nuove sfide teoriche generate dal rinominato nuovo “tempo assiale” (tiempoaxial.org) per cui stiamo transitando. Forse è questa l’ora di intraprendere una collaborazione tra Europa e America Latina in relazione a questo nuovo “sviluppo della TdL” a metà del XXI secolo.

5. L’America Latina dinanzi al kairos europeo

È già da alcuni anni che in America Latina alcuni di noi stanno dicendo che, dopo vari decenni in cui l’Europa ha guardato alla TdL e alle Comunità di base come un kairos, un segno dei tempi che ha illuminato e sostenuto tante lotte europee, il vento sta ora soffiando in un’altra direzione.

Questo è (anche) il momento che l’America Latina guardi attentamente all’Europa, perché il processo di secolarizzazione che lì si è registrato è anch’esso un kairos in cui lo Spirito parla al nostro continente. Senza rendercene conto, dopo l’ammirazione che la TdL ha suscitato in questi decenni, ci resta inconsciamente l’idea che non vi siano nuovi segni dei tempi al di fuori dell’America Latina (perché la TdL continuerebbe a essere l’ultima parola…), ma non è così.

L’attuale laicizzazione dell’Europa è di tale portata da far già considerare la “post-religionalità” come un nuovo paradigma in grado di iniziare a coprire l’intero territorio continentale: la religione rimarrebbe confinata solo nelle fasce più anziane, chiamate a scomparire. La “trasmissione della fede” è praticamente scomparsa dall’ambiente culturale dei giovani in Europa. Che ne sarà del cristianesimo europeo fra 30 anni?

Per noi, in America Latina, questa domanda è molto seria, perché, sebbene non pochi lo dubitino, siamo in molti a ritenere che, in quanto anche noi appartenenti all’Occidente, il fenomeno della laicizzazione non solo arriverà anche qui, ma sta già avvenendo, e più rapidamente di quanto possa sembrare. Le statistiche, in quasi tutti i Paesi, confermano questo dato con una nettezza impietosa.

In questa trama di ciò che potremo chiamare come l’apparizione della post-religionalità, vorremmo trovare in Europa un orientamento affinché quello che da lì si sta avvicinando a noi possa avvenire qui in un altro modo. È in questo senso che pensiamo che oggi sia l’America Latina a dover guardare all’Europa, per scrutare il nuovo cammino che potremmo far derivare dalla sua evoluzione religiosa attuale.

Così, la relazione tra la TdL latinoamericana e l’Europa, lungi dall’essere univoca, è invece una relazione bidirezionale, reciproca, fraterno-sororale.

* Cappella Maggiore del Seminario dell’Arcidiocesi di Medellin (Colombia) in una foto di John Nicolas del 2011, tratta da Wikimedia Commons

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