il commento al vangelo della domenica

l’enorme potenza di una fede minuscola


L'enorme potenza di una fede minuscola
il commento di E. Ronchi al vangelo della ventisettesima domenica del tempo ordinario

In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? (…)».

Accresci in noi la fede. Invocazione eterna di ogni discepolo: aumenta, aggiungi, rinsalda la fede, è così poca, così fragile. Non c’è preghiera più limpida, ma Gesù non la esaudisce. La fede non è un “pacco-dono” che arriva da fuori, è la mia risposta ai doni di Dio, la mia risposta al suo corteggiamento amoroso.
«Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “sradicati e vai a piantarti nel mare” e vi obbedirebbe”. Gusto la bellezza e la forza del linguaggio di Gesù e della sua carica immaginifica: il più piccolo tra tutti i semi intrecciato a grandi alberi che danzano sul mare! Un granello di fede possiede la potenza di sradicare gelsi e la leggerezza del seme che si schiude nel silenzio; un niente che è tutto, leggero e forte. Ne basta poca di fede, anzi pochissima, meno di un granello di senape, una formichina, come dice il poeta J. Twardowski: «anche il più gran santo/ è trasportato come un fuscello/ dalla formica della fede».
Ho visto alberi volare, ho visto gelsi in volo sul mare come uno stormo di gabbiani. Ho visto, fuori metafora, discepoli del Nazareno, vivere su frontiere in fiamme e salvare migliaia di vite; uomini e donne fidarsi l’uno dell’altra e affrontare problemi senza soluzione con un coraggio da leoni; madri e padri risorgere a vita dopo la morte di un figlio; disabili con occhi luminosi come stelle; una piccola suora tutta rughe rompere i millenari tabù delle caste. E questo non accadeva per sopravvenuti, inattesi prodigi, ma per il miracolo continuo, unico che ci serve, di amori che non si arrendono.
Lo sottolineano parole difficili: quando avete fatto tutto dite “siamo servi inutili”.
Inutili, nella nostra lingua, significa che non servono, incapaci, improduttivi. Ma non così nella lingua di Gesù: non sono né incapaci né inutili quei servi che arano, pascolano, preparano da mangiare. E mai è dichiarato improduttivo il servizio. “Servi inutili” significa: servi che non cercano il proprio utile, senza pretese, senza rivendicazioni, che di nulla hanno bisogno se non di essere se stessi. Non cerco il mio interesse, non è la ricompensa ma il servizio ad essere vero! Il servizio è più vero dei suoi risultati, più importante del suo riconoscimento.
Il nostro modo di sradicare alberi e farli volare? Scegliere, in questo mondo che parla il linguaggio del profitto, la lingua del dono; in un mondo che percorre la logica della guerra, battere la mulattiera della pace.
Allora per sognare il sogno di Dio mi bastano i grandi campi del mondo, la formica della fede, e occhi di profeta: e lo vedrò, il sogno di Dio, come una goccia di luce impigliata nel cuore vivo di tutte le cose.
(Letture: Abacuc 1, 2-3; 2, 2-4; Salmo 94; 2 Timoteo 1,6-8.13-14; Luca 17, 5-10)

la pandemia da coronavirus e la sospensione della triade classica della pastorale: catechesi, liturgia, carità

una chiesa in aspettativa?

di Gilberto Borghi 

Sospese le messe. Sospese le attività catechistiche. Fortemente limitate anche quelle caritative. Colpita al cuore la triade classica della pastorale: catechesi, liturgia, carità. Ma non siamo tutti chiamati a vivere il vangelo, a prescindere dallo specifico del ruolo ecclesiale?

Sospese le messe. Sospese le attività catechistiche. Fortemente limitate anche quelle caritative. Colpita al cuore la triade classica della pastorale: catechesi, liturgia, carità. Con tanto dispiacere accetto questa situazione e credo che si dovesse davvero fare così, soprattutto dopo la decisione di “blindare” l’Italia. Milioni di persone colpite economicamente, psicologicamente, spiritualmente. Non mi sarei mai immaginato di vivere in queste condizioni in Italia. Ma accetto. E provo a continuare a vedere cosa si possa imparare da questa situazione.
Una chiesa che non può più vivere i propri ruoli interni nelle forme ormai codificate da tempo, sembra una chiesa “in aspettativa”. E’ di questi giorni lo “sfogo” di un amico prete: “Va bene, capisco la questione sanitaria, ci mancherebbe. Ma se mi tolgono la messa, il catechismo e gli incontri io che faccio?” Provo ad immaginare che abbia una sua ragione per dirlo. Formati ed educati a vivere il sacerdozio come condizione per espletare le funzioni specifiche che lo riguardano, i preti possono anche faticare a cogliere il senso della loro esistenza fuori da tale specifico. Ma forse la stessa domanda potrebbe farsela anche un laico, un catechista, ad esempio, che si trova senza ruolo specifico da svolgere, e che di fronte a questa “tempesta” inaudita può pure lui sentirsi svuotato dell’ordinario modo di essere cristiano.
Ma non siamo forse tutti battezzati? Anche il prete? E come tali non partecipiamo tutti della regalità, profezia e sacerdozio universale dei fedeli? Cioè, siamo tutti chiamati a vivere il vangelo, nella sua essenza di fondo, a prescindere dallo specifico del ruolo ecclesiale. In un bel post di fb, don Cristiano Mauri chiarisce, molto meglio di quanto posso fare io, cosa significa vivere il vangelo fuori dai ruoli ecclesiali “in aspettativa”.

“Guardo con meraviglia e sorpresa uomini e donne di fede che non si sono troppo scomposti all’arrivo della “tempesta”. Certo, gli è sobbalzato il cuore in petto, hanno vissuto lo smarrimento della sorpresa, si sono preoccupati e si preoccupano dei loro cari, hanno conosciuto il turbamento profondo e la paura di perdersi. Ma poi, son tornati semplicemente a “fare il Vangelo” che stavano facendo.
Pregano il Padre, così come gli viene, come hanno sempre fatto con umiltà, libertà e fiducia nel suo amore. Amano i fratelli e le sorelle in tutto, così come riescono, non per spirito eroico, ma perché è l’unico modo che ritengono buono per dar senso alla vita. La “tempesta” per loro non è la fine di tutto. Solo un luogo diverso in cui “fare Vangelo”. Un luogo più faticoso, pieno di scuotimenti, carico di rischi, è vero. Ma non la ragione per smettere il Vangelo come un vestito inadatto.
E non cessano di amare. I fratelli, il Padre, come un unico movimento. Perché il Padre non abbandona e i fratelli non si possono abbandonare. Lo fanno come riescono e come possono. E son così abituati a farlo che reinventare modi, gesti, parole, iniziative di vicinanza e di amore non gli viene poi così difficile. Anzi, trovano perfino una grazia nella possibilità di aprire strade nuove.
Non si preoccupano troppo di distinguersi dagli altri, anzi sono più beati se non vengono riconosciuti. Non nascondono le loro inadeguatezze, sanno i loro limiti, ma non ne hanno soggezione né vergogna. Non si ritengono meritevoli di ammirazione, pensano semplicemente che stanno facendo quel che devono. Non pretendono l’esclusiva del bene ma si sentono alleati di tutti coloro che stanno lavorando per salvare, guarire, proteggere, li considerano come fratelli senza guardare al loro credo, e lodano il Padre perché vedono quanto la sua Opera sia molto più grande delle loro opere.
Guardo queste donne e questi uomini, che mi stanno insegnando molto, con grande riconoscenza e ammirazione. E poi guardo a chi, sbandierando la propria fede, grida e si lamenta perché «ci stanno impedendo di essere cristiani». Mi chiedo, sommessamente, che cosa mai stessero davvero facendo questi prima della “tempesta”, per non saper che fare durante. Molti chiedono parole di Speranza. Ma se non ho letto male il Vangelo, la Speranza cristiana, più che un discorso, è una vita donata per amore. La Speranza cristiana forse si dice, ma anzitutto si fa. E io sono grato a chi, in questo tempo, col suo fare, “fa sperare”. Che creda, o no”.
Grazie don Cristiano.

in tempi di coronavirus fede e preghiera, sì, ma non fanatismo personale ed ecclesiale

 

 

“così papa Francesco ci insegna a riscoprire il divino che è in noi”

intervista a Alberto Maggi

a cura di Paolo Rodari
in “la Repubblica” del 28 marzo 2020

«Le messe senza popolo online? Non mi piacciono. Purtroppo molti preti sono stati abituati così. Per loro non c’è salvezza senza un Dio che da fuori viene a salvare l’uomo. Se si toglie loro la celebrazione della messa non sanno cosa fare. Non capiscono che il Signore è già in noi, si fa pane nella parola. Egli è dentro l’uomo e chiede solo di andare ad aiutare gli altri».

Alberto Maggi, fine biblista, sacerdote e teologo, commenta il momento presente. Il Papa ha detto che è possibile, in attesa che tutto torni alla normalità, chiedere perdono a Dio dei propri peccati pregando nel silenzio. Un ritorno alla preghiera personale e intima spesso elusa da una Chiesa che vuole invece avere il controllo sui fedeli.

Padre Maggi, alcune cronache raccontano di sacerdoti che celebrano con i fedeli di nascosto. Cosa pensa?

«Assurdo. Danno anche la comunione sotto le due specie, bevendo dal calice sostenendo che tanto è sangue di Cristo e come tale non può trasmettere il virus. Questa non è fede, è fanatismo. Giocano a fare i cristiani delle catacombe e non sanno che provocano un’ecatombe».

Un errore grossolano di visione di sé, di Dio e del mondo? 

«Pensano di essere gli unici intermediari fra la gente e Dio, ma il Signore non ha bisogno di intermediari. Dio è stato per troppo tempo visto come esterno all’uomo e lontano. Gesù ha superato ciò. Giovanni dice che a chi ama il Padre, Gesù e lo stesso Padre verranno in lui. Dio si manifesta non quando alziamo le mani al cielo, ma quando ci rimbocchiamo le maniche e aiutiamo gli altri».

Per un certo clero tutto ciò significherebbe perdere il controllo sui fedeli e per certi fedeli uscire da una visione clericale della fede.

«Se Dio sta nel cuore dell’uomo non lo puoi controllare. Ma quando scopri Dio dentro di te tutto cambia. Non devi più cercarlo e vivere per lui, ma vivi di lui. Dio non ti chiede più nulla».

A cosa serve chiedere a Dio di fermare la pandemia?

«Dio non può fermarla, non può cambiare il corso della storia, ma può dare all’uomo la sua forza per viverla».

Come si spiega questo tempo così difficile?

«I danni del coronavirus sono anche il prodotto di una politica che all’inizio ha privilegiato gli interessi economici di pochi a discapito del bene comune. Francesco in Laudato Sì chiede una cura per la casa comune che pochi perseguono. Il paradiso perduto è da guadagnare adesso».

In che senso?

«Francesco fa sua una lettura profetica del racconto della creazione. Il libro della Genesi non guarda al passato, non è storia ma teologia. L’autore non descrive il rimpianto per un passato, ma la profezia per il paradiso da costruire»

fede e\o religione – un libro interessante

«spogliare la fede dalla religione»

un libro di Paolo Cugini

 da: Adista Notizie n° 40 del 23/11/2019

di Luca Kocci 

Liberarsi dalla religione per abbracciare la fede e incontrare Dio. È quello che ha fatto Gesù, «desacralizzando la religione» e «distruggendo il tempio», simbolo del potere sacerdotale. Ed è quello che devono continuare a fare i credenti cristiani oggi, per poter «dire Dio nell’epoca del cambiamento».

È la tesi che Paolo Cugini, prete di Reggio Emilia con una lunga esperienza di frontiera in Brasile e in Italia, ha espresso nel bel libro pubblicato dalle Edizioni dehoniane di Bologna

(Visioni postcristiane. Dire Dio e la religione nell’epoca del cambiamento, postfazione di Piergiorgio Paterlini, Edb, pp. 172, 16€; il libro può essere acquistato presso Adista: tel. 06/6868692; e-mail: abbonamenti@adista.it)

Un volume che, ricorda Paterlini, richiama alla memoria un libro all’epoca dirompente, pubblicato dalla laica Feltrinelli nel 1976 e scritto da Sandro Vesce, prete operaio e poi psicanalista: Per un cristianesimo non religioso. Ma che fa anche un passo avanti. «Di cosa stiamo parlando alla fine?», si chiede Paterlini, a proposito del testo di Cugini. Di «spogliare la fede dalla religione, e in questo senso “purificarla”, renderla essenziale, farle perdere accessori e orpelli e divagazioni ed equivoci perché sia più chiaro il nocciolo, il nocciolo identitario si direbbe oggi, perché sia più netto e visibile ciò che è costitutivo della fede cristiana».
Ed è quello che fa Cugini, attraverso cinque «visioni»: «Visioni bibliche sul presepio» (alcuni temi: «Maria la donna del no»; «Nasce Gesù, ovvero la desacralizzazione della religione»); «Pensare e capire la diversità» («La verità, questa sconosciuta»; «I divergenti salveranno il mondo»); «Visioni sull’educazione» («La distanza tra Vangelo e cristianesimo»; «Indottrinati: della distruzione delle giovani anime»); «Il dramma della religione atea» («La fuga nel sacro»; «Decostruire la religione per incontrare Dio»); «Visioni prospettiche sulla Chiesa» («La Chiesa ha davvero ancora bisogno di preti?»; «La profezia dell’ordine sacro femminile»; «Vogliono solo vivere. Riflessione sui cristiani lgbt»).
Si tratta di visioni che sparigliano e che consentono di recuperare l’essenza del cristianesimo in una società e in una cultura occidentale che si stanno secolarizzando sempre più in fretta. Dal canto proprio, invece, spiega Cugini, «l’incapacità cronica dell’istituzione ecclesiale di capire il cambiamento sta creando lo spazio per tutti quei movimenti tradizionalisti che si aggrappano al nulla pur di mantenere in piedi ciò che ormai è crollato al suolo. E così, mentre ci sarebbe bisogno di porre le basi per un nuovo cammino ecclesiale e spirituale, nell’oggi di questa fase così delicata sono i movimenti di tipo fondamentalista a trovare spazio e ad alzare la voce nella Chiesa».
È stato questo il cammino di Gesù. «Sino all’arrivo di Gesù c’era una distinzione ben precisa tra sacro e profano», spiega Cugini. La sua nascita in una mangiatoia «rappresenta la distruzione del sacro, la distruzione di ogni tipo di distanza e di separazione tra sacro e profano». Allora «non abbiamo più bisogno di sacralizzare gli spazi religiosi, perché la sacralizzazione è stata un processo della religione ancestrale spesso e volentieri manipolata da chi gestiva il potere religioso»; perché Dio, essendosi umanizzato in Gesù, «ha dato a tutti l’accesso al divino, ha tolto il dominio religioso di qualcuno, per donarsi a tutti e a tutte»; e perché «Gesù è venuto per distruggere il Tempio, quel luogo che nel tempo è divenuto simbolo di disuguaglianza e ingiustizie sociali». È questo l’obiettivo del cammino cristiano: «Uscire dalla religione negativa, dalla religione che fa male, dalla religione del Tempio che, invece di essere stimolo per l’uguaglianza, diviene spazio per ogni forma d’ingiustizia e discriminazione». Ed è questo anche il cammino che dovrebbero realizzare le comunità cristiane: «Abbandonare le forme eccessive di sacralizzazione religiosa per dare spazio a forme di accoglienza, segno della misericordia di Dio manifestatasi nel suo Figlio Gesù». Un «cammino divergente» che dovrebbe essere il compito della Chiesa tutta in questa epoca postcristiana: «Aiutare gli uomini e le donne a liberarsi delle fandonie della religione, a offrire strumenti affinché ognuno possa toccare con mano l’amore di Dio, la sua giustizia, la sua libertà».
È ottimista Cugini, che considera un «dono del Signore» l’opportunità di vivere «in questo tempo di cambiamento epocale, perché i cristiani avranno la possibilità di vivere il Vangelo in un modo più autentico e profondo rispetto a prima», perché «l’essere cristiano, discepolo e discepola del Signore, sarà sempre di più una scelta personale, più che una necessità sociale». E «mentre le città occidentali piene zeppe di monumenti ecclesiali diventeranno mete turistiche per ammirare un passato glorioso, noi, i cristiani, avremo modo di sperimentare la bellezza della vita evangelica rimanendo sotto i riflettori dello sguardo amoroso del Padre».

la fede alienante e morta senza le opere

in prima fila

“se un fratello è senza vestiti e sprovvisto del cibo quotidiano e uno di voi gli dice: «Va in pace, riscaldati e saziati»,ma non date lui il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta”

Gc 2

 

Quelli bravi, molto religiosi che osservano tutti i precetti degli uomini meno quelli di Cristo sulla carità.

Quelli che conoscono a memoria tutti i dogmi, i dibattiti teologici, le eresie ma non sanno dove si rifugiano i poveri dopo le loro consuete attività illegali: tipo mendicare o semplicemente esistere.

Quelli che fanno teoria che magari si battono pure per lo ius soli ma non sanno come si vive nei Cie o che mercanteggiano sul salario della c.d. badante.

Quelli che considerano normale “pagare” una messa per una intenzione personale e poi si infastidiscono per un disperato dentro un sacco a pelo.

Quelli che preferiscono inginocchiarsi, secondo necessità, davanti al capoufficio o al Vescovo, piuttosto che davanti a Dio e al suo Vangelo.

Quelli che si lamentano per l’apertura in parrocchia delle docce per i poveri preferendo sale da affittare per conferenze o balli di gruppo.

Quelli che, proiettando se stessi, aspettano Dio venire dall’alto su un carro alato, o più modernamente su un elicottero, mentre dimenticano che attualmente si trova rinchiuso in un qualsiasi carcere, o agonizzante in un qualsiasi ospedale.

Quelli che pensano di meritarsi la salvezza come una promozione aziendale mentre Dio non premia ma dona (a chi non merita).

Quelli che parlano dei poveri ma non con i poveri, che frequentano molti convegni ma non i tuguri.

Quelli che conoscono tutto sul fenomeno povertà eccetto il suo odore.

Quelli che si occupano dei poveri dall’altra parte di un vetro.

Quelli che stanno compulsivamente nelle prime file di tutto, che sgomitano, che calpestano pur di emergere mentre Dio li aspetta nelle retrovie, tra gli sconfitti, nei lati bui dell’esistenza.

la fede del popolo rom – in Belgio il C.C.I.T. sulla pietà popolare vissuta dai rom

il C.C.I.T. 2018 nella ‘Lourdes dei rom’ a Banneux, in Belgio

la religiosità popolare vissuta dai rom

“la pietà popolare, culto e devozione”

Nel santuario di Banneux, il più grande santuario mariano del Belgio, ha avuto luogo – dal 6 all’8 aprile 2018  con la partecipazione di circa 120 persone animatrici della pastorale tra i rom e i sinti, rappresentative di 18 paesi europei – il 41° C.C.I.T. (Comitato Cattolico Internazionale per l’evangelizzazione del popolo Zingaro) – in coincidenza della giornata mondiale dedicata dall’ ONU al popolo rom.

Il santuario di Banneux è meta annuale di tanti rom, provenienti soprattutto dai paesi dell’est europeo da diversi anni in pellegrinaggio devoto – ogni 15 di agosto – a ‘Nostra Signora di Banneux la Vergine dei poveri’, la ‘Madonna dei rom’, nella ‘Lourdes del Belgio’.

‘La pietà popolare, culto e devozione’ dei rom e dei sinti è stata la tematica che ci ha visto dialogare e riflettere in accoglienza rispettosa e grata dei segni di autentica fede che, a saper leggere nella sua vita quotidiana, ci vengono spesso da questo popolo. Segni e messaggi che  – come la nostra religiosità considerata dai noi più strutturata, ‘seria’, istituzionalizzata e significativamente ritualizzata ma pur sempre, a ben riflettere, mescolata a tanti aspetti di ‘magia’ e superstizione – ci vengono da loro e utili a rendere più autentica anche la nostra fede.

Il pomeriggio del 6 aprile il C.C.I.T. si è aperto, come da programma, con un reciproco saluto e accoglienza amichevoli di tanti amici venuti da lontano e con la cena conviviale.

La consueta ‘preghiera introduttiva’ ai lavori di riflessione e dialogo è stata animata dal gruppo pastorale del Belgio, con una caratteristica e suggestiva processione aux flambaux alla statua della Madonna dello stesso santuario, per concludere la serata con il consueto ‘bicchiere dell’amicizia’ che – come da suggerimento paolino – ‘laetificet cor hominis’.

La giornata del sabato 7 aprile si è aperta con i saluti formali in assemblea generale del gruppo animatore ospitante del Belgio cui ha fatto seguito il Messaggio del Consiglio Pontificio Vaticano presieduto dal cardinal Turkson (che sarà presente la domenica 8 aprile si lavori conclusivi del C.C.I.T.), ma letto da suor Alessandra dell’ufficio di tale Consiglio, e l’Introduzione dei lavori da parte del Presidente pro tempore del C.C.I.T., il sacerdote rom Claude Dumas.

Nella seconda parte della stessa mattina di sabato ha avuto luogo la presentazione da parte di p. Agostino Rota Martir di una serie di immagini col programma power point illustrative delle modalità semplici, essenziali, quotidiane che il popolo rom usa, con gesti, parole, formule, per esprimere e vivere la propria fede viva e sentita, ancorché lontana dai ‘circuiti tradizionali religiosi’.  Chi si accosta a questo popolo con occhi e orecchi ‘spirituali’ sa cogliere spazi inediti di culto e di fede ordinaria che fanno toccare con mano “quello che lo Spirito ha seminato nella loro vita”.

Quasi superfluo osservare quanto questa presentazione sia stata fortemente stimolante ed apprezzata. Stimoli e apprezzamento che hanno occupato i cosiddetti ‘carrefour’, i gruppi di studio diversificati per gruppi linguistici (data la da sempre presente la non indifferente difficoltà di intesa linguistica di ben 18 e più provenienze diverse).

Il pomeriggio del sabato ha tenuto occupato il C.C.I.T. con la conferenza del teologo Hans Geybels, insegnante alla facoltà di scienze religiose presso l’Università Cattolica di Lovanio, su “la fede ordinaria: sorprendentemente attuale!”.

Di grande importanza è apparsa a tutti la distinzione focalizzata dal relatore tra ‘fede’ e ‘superstizione’, superstizione che in ogni modalità di espressione religiosa (quella dei rom come anche quella nostra ancorché più formalizzata e istituzionalizzata) è inevitabilmente presente’:

“La differenza tra fede e superstizione è la seguente. Nella superstizione le persone pregano con precisi testi e seguono determinati rituali con l’intenzione di portare Dio dalla propria parte, di manipolarlo. Nella fede le persone pregano e praticano certi rituali restando ben consapevoli che questi non possono strumentalizzare Dio. Esse pregano per avere energia e forza, per ottenere qualcosa, ma tengono sempre in primo piano il ‘sia fatta la tua volontà … ‘.  In una pratica superstiziosa si è sempre convinti che se si rispetta perfettamente il rituale, si otterrà realmente ciò che si desidera”.

I Carrefour a seguito della relazione hanno cercato di approfondire e incarnare, anche autocriticamente, questo criterio fondamentale di carattere generale.

La celebrazione eucaristica presieduta dal vescovo mons. Hoogmrtens e la serata festiva sono stati il più bel coronamento di questa densa giornata.

La domenica 8 aprile ha visto la dettagliata e puntuale descrizione della ‘situazione’ dei sinti e rom in Belgio e della attività pastorale e catechetica della chiesa locale da parte del relatore Pierre Deleu:

Leòn Tambour insieme alla moglie Elisa (ambedue da sempre attivi promotori e collaboratori del C.C.I.T. fin dalla nascita (quello di questo anno è il 41° C.C.I.T.) ci hanno presentato nelle sue linee essenziali la storia e la spiritualità del C.C.I.T. con le sue “difficoltà, problemi, dubbi e rotture” che nel suo nascere e cfrescere ha visto e vissuto, per diventare, nella sua maturità, uno spazio di AMICIZIA, di GRATUITA’, di LIBERTA’, la cui missione è ancora fortemente attuale perché trova ala sua radice nel vangelo:

“essere piccolissimo seme piantato con una gioia fraterna e una fiducia incondizionata, un seme che sarà tanto più fecondo quanto più è piccolo, fragile e discreto”

perché

“quello che è importante per il C.C.I.T. non è il C.C.I.T. in se stesso: sono gli zingari, la loro realizzazione nel nostro mondo”.

 

Le conclusioni del Presidente del C.C.I.T. Claude Dumas, l’eucarestia presieduta dal card. Turkson e la visita turistica di Liege hanno concluso il 41° C.C.I.T. dandoci tutti appuntamento al C.C.I.T. 2019 in Croazia (a meno di sorprese per un C.C,I,T. straordinario: ma come tutte le sorprese anche questa deve rimanere tale … se no che sorpresa sarebbe?!

 

 

 

 

 

fede e opzione per i poveri

papa Francesco

la fede è tangibile se si concretizza in servizio ai poveri

lo afferma in udienza alla delegazione del Consiglio Metodista mondiale
«Siamo fratelli che, dopo un lungo distacco, sono felici di ritrovarsi e di riscoprirsi a vicenda»
«La fede diventa tangibile soprattutto quando si concretizza nell’amore, in particolare nel servizio ai poveri e agli emarginati»
Lo ha detto il Papa ricevendo in udienza il Consiglio Metodista mondiale. «Quando, Cattolici e Metodisti, accompagniamo e solleviamo insieme i deboli e gli emarginati, coloro che, pur abitando le nostre società, si sentono lontani, stranieri, estranei, rispondiamo all’invito del Signore», ha sottolineato il Papa.  

Parlando del cammino tra metodisti e cattolici, il Papa ha messo in evidenza: «Il dialogo vero incoraggia continuamente a incontrarci con umiltà e sincerità, desiderosi di imparare gli uni dagli altri, senza irenismi e senza infingimenti. Siamo fratelli che, dopo un lungo distacco, sono felici di ritrovarsi e di riscoprirsi a vicenda, di camminare insieme, aprendo con generosità il cuore all’altro. Così proseguiamo, sapendo che questo cammino è benedetto dal Signore: per Lui è iniziato e a Lui è diretto».

‘fede’ e ‘dubbio’ fanno sempre a pugni?

Quel patto segreto tra fede e dubbio che ci rende umani

di Vito Mancuso

in “la Repubblica” del 17 settembre 2016

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Comunemente si ritiene che fede e dubbio siano opposti, nel senso che chi ha fede non avrebbe dubbi e chi ha dubbi non avrebbe fede. Ma non è per nulla così. L’opposto del dubbio non è la fede, è il sapere: chi infatti sa con certezza come stanno le cose non ha dubbi, e neppure, ovviamente, ha bisogno di avere fede.

Così per esempio affermava Carl Gustav Jung a proposito dell’oggetto per eccellenza su cui si ha o no fede: «Io non credo all’esistenza di Dio per fede: io so che Dio esiste» (da “Jung parla”, Adelphi, 1995). Chi invece non è giunto a un tale sapere dubita su come stiano effettivamente le cose, non solo su Dio ma anche sulle altre questioni decisive: avrà un senso questa vita, e se sì quale? La natura persegue un effettivo incremento della sua organizzazione? Quando diciamo “anima” nominiamo un fenomeno reale o solo un arcaico concetto metafisico? Il bene, la giustizia, la bellezza, esistono come qualcosa di oggettivo o sono solo provvisorie convenzioni? E dopo la morte, il viaggio continua o finisce per sempre? Dato che i più su tali questioni non hanno un sapere certo, generalmente si risponde “sì” all’insegna della fede oppure “no” all’insegna dello scetticismo, in entrambi i casi privi di sapere, al massimo con qualche indizio interpretato in un modo o nell’altro a seconda del previo orientamento assunto. Così, sia coloro che hanno fede in Dio sia coloro che non ce l’hanno, fondano il loro pensiero sul dubbio, cioè sull’impossibilità di conseguire un sapere incontrovertibile sul senso ultimo del mondo e della nostra esistenza. La fede, in altri termini, positiva o negativa che sia, per esistere ha bisogno del dubbio. La tradizionale dottrina cattolica però non la pensa così. Per essa la fede non si fonda sul dubbio ma sul sapere che scaturisce da una precisa rivelazione divina mediante cui Dio ha comunicato se stesso e una serie di ulteriori verità dette “articoli di fede”. Tale rivelazione costituisce il depositum fidei, cioè il patrimonio dottrinale custodito e trasmesso dalla Chiesa. Esso conferisce un sapere denominato dottrina che illumina quanti lo ricevono su origine, identità, destino e morale da seguire. Non solo; a partire da tale dottrina si configura anche una precisa visione del mondo: l’impresa speculativa delle Summae theologiae medievali, di cui la più nota è quella di Tommaso d’Aquino, vive di questa ambizione di possedere un sapere certo su fisica, metafisica ed etica, di essere quindi generatrice di filosofia. Tale impostazione regnò per tutto il medioevo ma venne combattuta dalla filosofia moderna e dalla rivoluzione scientifica. Il fine non era negare la fede in Dio bensì il sapere filosofico e scientifico che si riteneva discendesse da essa, per collocare la fede su un fondamento diverso, senza più la presunzione che fosse oggettivo: Kant per esempio scrive di aver dovuto «sospendere il sapere per far posto alla fede» ( Critica della ragion pura, Prefazione alla seconda edizione, 1787), mentre più di un secolo e mezzo prima Galileo aveva dichiarato che «l’intenzione dello Spirito Santo è d’insegnarci come si vada al cielo, e non come vada il cielo » (Lettera a Cristina di Lorena del 1615). Non furono per nulla atei i più grandi protagonisti della modernità, tra cui filosofi come Bruno, Cartesio, Spinoza, Lessing, Voltaire, Rousseau, Kant, Fichte, Schelling, Hegel, o scienziati come Copernico, Galileo, Keplero, Newton. Il loro obiettivo era piuttosto di ricollocare la religiosità sul suo autentico fondamento: non più un presunto sapere oggettivo, ma la soggettiva esperienza spirituale. A tale modello di fede non interessa il sapere, e quindi il potere che ne discende, ma piuttosto il sentire, e quindi l’esperienza personale. Non è più l’obbedienza a una dottrina dogmatica indiscutibile a rappresentare la sorgente della fede, ma è il sentimento di simpatia verso la vita e i viventi. In questa prospettiva, ben prima di creden- za, fede significa fiducia. Quando diciamo che una persona è “degna di fede”, cosa vogliamo dire? Quando alla fine delle nostre lettere scriviamo “in fede”, cosa vogliamo dire? Quando un uomo mette l’anello nuziale alla sua donna e quando una donna fa lo stesso con il suo uomo, cosa vogliono dirsi? C’è una dimensione di fiducia che è costitutiva delle relazioni umane e che sola spiega quei veri e propri patti d’onore che sono
l’amicizia e l’amore. Se non ci fosse, sorgerebbero solo rapporti interessati e calcolati: nulla di male, anzi tutto normale, ma anche tutto ordinario e prevedibile. Solo se c’è fiducia-fede nell’altra persona può sorgere una relazione all’insegna della gratuità, creatività, straordinarietà, e può innescarsi quella condizione che chiamiamo umanità. E la fede in Dio? Quando si ha fiducia-affidamento nella vita nel suo insieme, percepita come dotata di senso e di scopo, si compie il senso della fede in Dio (a prescindere da come poi le singole tradizioni religiose concepiscano il divino). Nessuno veramente sa cosa nomina quando dice Dio, ma credere nell’esistenza di una realtà più originaria, da cui il mondo proviene e verso cui va, significa sentire che la vita ha una direzione, un senso di marcia, un traguardo. Credere in Dio significa quindi dire sì alla vita e alla sua ragionevolezza: significa credere che la vita proviene dal bene e procede verso il bene, e che per questo agire bene è la modalità migliore di vivere. Ma questa convinzione è razionalmente fondabile? No. Basta considerare la vita in tutti i suoi aspetti per scorgere di frequente l’ombra della negazione, con la conseguenza che la mente è inevitabilmente consegnata al dubbio. In tutte le lingue di origine latina, come anche in greco e in tedesco, il termine dubbio ha come radice “due”. Dubbio quindi è essere al bivio, altro termine che rimanda al due: è vedere due sentieri senza sapere quale scegliere, consapevoli però che non ci si può fermare né tornare indietro, ma che si è posti di fronte al dilemma della scelta. Ha affermato il cardinale Carlo Maria Martini: «Io ritengo che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, che si interrogano a vicenda, che rimandano continuamente domande pungenti e inquietanti l’un l’altro. Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa» (dal discorso introduttivo alla Cattedra dei non credenti). Ragionando si trovano elementi a favore della tesi e dell’antitesi, e chi non è ideologicamente determinato è inevitabilmente consegnato alla logica del due che genera il dubbio. Il dubbio però paralizza, mentre nella vita occorre procedere e agire responsabilmente. Da qui la necessità di superare il dubbio. Il superamento però non può avvenire in base alla ragione che è all’origine del dubbio, ma in base a qualcosa di più radicale e di più vitale della ragione, cioè il sentimento che genera la fiducia che si esplicita come coraggio di esistere e di scegliere il bene e la giustizia. Ma perché alcuni avvertano in sé questo sentimento di fiducia verso la vita e altri no, rimane per me un mistero inesplicabile.

giovani di poca fede: da una ricerca di Garelli

cattolici ma non troppo

l’Italia dei giovani non crede più

una ricerca di Franco Garelli sulla religiosità tra i 18 e i 29 anni. Il fenomeno è più diffuso al Nord e tra quanti hanno frequentato l’università

Secondo la ricerca Eurisko su un campione di 1500 giovani, nel 2015 gli atei dichiarati erano il 28% (il 23% nel 2007); quelli che credono solo per tradizione famigliare il 36,3%, ma di questi il 22% afferma di non credere davvero in Dio

 di andrea tornielliGarelli

 Nel nostro paese Piccoli atei crescono. S’intitola così la ricerca curata dal sociologo Franco Garelli sulla religiosità degli italiani con età compresa tra i 18 e i 29 anni (Il Mulino, pp. 231, € 16). I risultati attestano che, in effetti, la secolarizzazione avanza tra i giovani del Belpaese, pur avendo ricevuto questi ultimi, per oltre il 90%, battesimo e prima comunione, e per il 77%, la cresima. L’Italia, un tempo «cattolicissima», è dunque ancora densamente popolata di battezzati sempre meno evangelizzati.

La ricerca, realizzata da Eurisko su un campione di circa 1500 giovani, è interessante sotto vari aspetti. Il 72% degli intervistati dichiara di credere in Dio (anche se ormai la fede intermittente prevale su quella certa); oltre il 70% si definisce in qualche modo «cattolico»; circa un giovane su quattro (27%) afferma di pregare alcune volte la settimana o più. Il dato sulla frequenza settimanale ai riti è decisamente più basso, coinvolgendo il 13% dei giovani (a cui segue un 12% che vi partecipa almeno una volta al mese), pur risultando il migliore nel panorama europeo. Siamo di fronte a una generazione ancora complessivamente «cattolica», osserva Garelli. Non si può pertanto parlare di un tracollo religioso, quanto piuttosto di una prosecuzione della «secolarizzazione dolce».

Perché allora quel titolo? Lo spiega il dato dei giovani non credenti, cresciuto di ben cinque punti percentuali in pochi anni: sono passati dal 23% del 2007 al 28% del 2015. I non credenti sono ormai uno dei gruppi più numerosi che si ottengono distinguendo i giovani a seconda del loro rapporto con la religione. Sono più dei «credenti convinti e attivi», ormai ridotti a una piccola minoranza del 10,5%. E sono più numerosi anche dei «credenti non sempre o poco praticanti», che rappresentano uno degli stili religiosi più diffusi nella nazione. I «piccoli atei» risultano secondi soltanto a un altro stile religioso in voga tra gli adulti ma anche tra i giovani: quello dei «credenti per tradizione e educazione» (36,3%), quanti cioè credono più per ragioni ambientali o anagrafiche o familiari che per motivi religiosi o spirituali. Vale inoltre la pena sottolineare che ben il 22% di questi «cattolici per tradizione e educazione» afferma in realtà di non credere in Dio, rientrando quindi in quella singolare forma religiosa che va sotto il nome di «appartenenza senza credenza». Se si sommano i non credenti dichiarati ai credenti per tradizione che però ammettono di non credere in Dio, si può concludere che i non credenti a livello giovanile siano oltre un terzo del totale.

Questi giovani non credenti sembrano rappresentare, osserva Garelli, «l’avanguardia moderna dell’Italia giovane, essendo maggiormente presenti nelle zone geografiche più dinamiche e produttive, tra quanti hanno un’istruzione elevata e nelle famiglie di medio-buona condizione socioculturale». Ad esempio, l’ateismo o l’indifferenza religiosa coinvolgono il 37% dei giovani del Nord, rispetto al 21% dei giovani del Mezzogiorno; e il 37% dei giovani che ancora studiano o hanno frequentato l’università, rispetto al 27% di quanti già lavorano e al 20% di chi non lavora.

La ricerca fa anche emergere una significativa difficoltà nel trasmettere ai figli la propria fede, specialmente quando è convinta e praticata. Al contrario, ateismo o religiosità soft si trasmettono più facilmente. Più della metà delle famiglie i cui genitori sono non credenti, infatti, hanno figli non credenti. E più della metà delle famiglie caratterizzate da un cattolicesimo culturale e poco religioso hanno figli che si riconoscono in questa stessa matrice religiosa.

Diversa è invece la situazione delle famiglie che si identificano in un cattolicesimo convinto e attivo. Solo il 22% di queste ha figli che si dichiarano «cattolici convinti e attivi». Tendenze, spiega Garelli, dalle quali si potrebbe concludere che le famiglie distanti da una prospettiva di fede hanno più probabilità delle famiglie religiosamente impegnate di trasmettere ai figli il proprio orientamento culturale. Sembra dunque più facile trasmettere da una generazione all’altra la «non credenza» o una «credenza debole» che un orientamento religioso più impegnato.

 

 

il cardinale in crisi nera di fede di fronte a 336 bare

 

il cardinale Montenegro

“di fronte alle 366 bare a Lampedusa ho avuto una crisi di fede e ho scritto al Papa”

cardinale-Montenegro

Di fronte alle 366 bare di migranti morti durante il naufragio del 3 ottobre 2013 a Lampedusa “ho avuto una grossa crisi di fede, che ancora mi segna”: lo ha confidato, davanti a un’aula magna gremita di studenti, il cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento e presidente di Caritas italiana, durante il colloquio sulle migrazioni organizzato ieri sera dal Centro Astalli alla Pontificia Università Gregoriana.
Trovarsi davanti a 366 bare ti fa sentire schiacciato e impaurito – ha raccontato -. Stare sul molo di Lampedusa e vedere quei volti mi ha provocato una crisi di fede; non solo ho sentito Dio lontano ma non l’ho proprio sentito.
Poi ho visto un poliziotto piangere come un bambino.
Quella sera stessa ho scritto al Papa, dicendogli la mia difficoltà, come vescovo che avrebbe dovuto aiutare gli altri e che invece si è ritrovato con il cuore spento”.
Quanto sta accadendo oggi in Europa, ha proseguito, è “una storia pesante che non possiamo mettere sotto la voce ‘carità’ ma dobbiamo mettere sotto la voce ‘giustizia’.
Il problema non è la migrazione ma l’ingiustizia nel mondo e il mondo si regge su questa ingiustizia. Se non cominciamo a combattere l’ingiustizia le soluzioni non si trovano”. “Noi ci siamo lavati le mani ma continuiamo a stare sugli spalti come al Colosseo – ha affermato -, e con il pollice in alto o in basso decidiamo la sorte di chi può vivere o morire”.  Al contrario, ha concluso, “dobbiamo cominciare a vivere la cultura dell’accoglienza, che è la capacità di guardare l’altro negli occhi, e l’altro è contento perché vede riconosciuta la sua dignità di uomo”.

 

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