le teologhe italiane di fronte ai femminicidi

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“uomini che uccidono le donne”

Perché ancora si raccontano i femminicidi normalizzando i gesti degli assassini? Perché l’idea che l’esistenza delle donne valga meno di quella dei maschi non è affatto tramontata, e si infila dappertutto. Allora ci sono dei passi seri da fare, ci sono delle responsabilità a cui nessuno può sottrarsi. Chiese e “uomini perbene” inclusi.
 

Se a qualche persona fosse sfuggito il fatto che non solo “altrove”, ma qui – qui da noi, nelle nostre città, nelle nostre case – c’è una tragedia che si consuma quotidianamente, le cronache delle ultime settimane avrebbero dovuto togliere ogni velo dagli occhi: 8 donne uccise in dieci giorni. Se contiamo dall’inizio dell’anno sono 86, di cui 72 uccise in ambito familiare-affettivo; e in 51 casi l’assassino è il partner o l’ex.

Morte non perché si trovavano a passare in mezzo a una sparatoria o a un attentato. Ma perché ciò che i loro assassini hanno voluto sopprimere era il loro essere donne: la parola “femminicidio” – diceva già anni fa Michela Murgia – non indica il sesso della morta; indica il motivo per cui è stata uccisa.

Il punto è questo, ormai dovremmo saperlo, e non è più tollerabile che lo si dimentichi e non lo si assuma in tutta la sua portata.

E invece siamo ancora qui – per fortuna insieme a tante altre – a denunciare il modo in cui questi crimini vengono raccontati sui mass media. I quali sì, lo vedono bene che si tratta di una faccenda tra uomini e donne; ma la normalizzano. Perché lei era “bella e impossibile” o aveva un top nero, lei voleva lasciarlo (poi magari in una riga in mezzo all’articolo si scopre che erano anni che lui la picchiava) e lui soffriva tantissimo, ed è un brav’uomo che salutava sempre (quindi lei l’ha sicuramente esasperato, altrimenti non sarebbe successo) e ha avuto un raptus, e lei non aveva cucinato e usciva troppo, e lui non sopportava che lei avesse un altro… Quindi, per forza che poi succede che la uccide, no?

“Per forza” in che senso?

Eh, no. “Per forza” si dice quando ti sfugge un oggetto dalle mani e la gravità lo fa cadere a terra. Non per un femminicidio, non per lo stupro, non per le forme molteplici di violenza domestica e nelle relazioni intime, non per le infamie perpetrate da gruppi di maschi su Telegram, non per il catcalling (che sarebbe ad esempio quando cammini per strada pensando ai fatti tuoi e dei maschi ti urlano «abbèlla, non sai che ti farei…» e sostengono che è un complimento mentre tu ti disfi di paura, di umiliazione, di rabbia; e loro lo sanno, lo sanno fin troppo bene, altro che complimento).

A meno che… a meno che anche quando un uomo uccide o violenta o molesta sessualmente una donna non si presupponga che c’è una legge forte e insindacabile quanto quella gravitazionale, a cui coloro che raccontano e commentano sia adeguano. La legge per cui il mondo è del maschio, e quello che una donna vive, sente, desidera non conta. La sua vita, la sua dignità, il suo corpo, la sua libertà, il suo consenso non contano, o comunque contano meno. E tutto sommato quello che un uomo fa per riportare una donna “al suo posto” (il posto deciso da lui) va bene. Magari uccidere no – quello si condanna – ma solo perché è un eccesso, non perché sia sbagliato il sistema in sé. È questo che ancora ci arriva – condito spesso da disgustoso voyerismo – dalle tastiere di tante redazioni.

Allora questo “per forza” va continuamente svelato per quello che è: la prova certa che una cultura patriarcale, sessista e violenta abita i nostri mondi privati e pubblici e fa da humus alle manifestazioni estreme che ben conosciamo. Le rende “ovvie” – al pari degli stupri di guerra, che di ovvio non hanno proprio niente. È per questo che l’indignazione dell’opinione pubblica, quando c’è, fatica a tradursi in coscienza collettiva, in azioni condivise, in cambiamenti strutturali.

Da teologhe cristiane diciamo

In sintonia con altre realtà di donne impegnate nell’analisi e decostruzione dell’universo simbolico e pratico che sorregge tale sistema, le teologhe femministe da molto tempo lavorano perché le Chiese prendano coscienza delle proprie complicità – passate e presenti – rispetto a un ordine gerarchico fra i sessi che non è compatibile né con i diritti umani né con il vangelo[1].

Alcune prospettive in particolare ci sembrano oggi irrinunciabili:

  • La violenza contro le donne riguarda le Chiese

Sembra scontato, ma non lo è: nelle Chiese cristiane – seppure con differenze fra le diverse confessioni – la violenza maschile contro le donne non è considerata una priorità, e anzi persistono ampie sacche di negazionismo e minimizzazione (sia in generale che rispetto ai numerosissimi casi che avvengono dentro le Chiese).

Spesso anche nei contesti e nei documenti più sensibili alla qualità delle relazioni – dal livello privato a quello politico – essa è dimenticata o evocata solo con brevi accenni che ne oscurano il carattere pervasivo, strutturale e paradigmatico.

C’è quindi bisogno di un lavoro sistematico e condiviso, che grazie al lavoro di tante studiose anche italiane può avvalersi di numerosi e qualificati strumenti utili per rileggere la tradizione, le teologie, le pratiche pastorali, l’ecclesiologia, l’uso dei testi biblici ecc. Perché il paradigma del dominio e della “voce unica” si infila anche nelle catechesi più moderne, nelle omelie più ispirate, nei convegni più illuminati, nei tiktok e nei blog più frizzanti.

  • Come e a cosa educhiamo?

Sappiamo che in molti modi la cultura occidentale trasmette ai maschi una mentalità di violenza contro le donne addestrandoli al dominio, al controllo, all’“onore”, alla superiorità; e questa stessa cultura tende a insegnare alle donne la sottomissione a questa violenza, ad accettare legami ingiusti, a esporsi a ciò che non le fa vivere e a credere che la sottomissione al desiderio maschile sia una via di realizzazione personale e un mezzo per rendere migliore il mondo.

Siamo quindi di fronte a un’emergenza anzitutto educativa, che richiede un livello di intervento profondo e costante, paziente e inesorabile per lavorare sui modelli culturali, per decostruire stereotipi di genere che annientano la vita, per imparare a essere uomini e donne in modo nuovo, insieme.

Riteniamo fondamentale l’impegno di coloro che – nell’ottica del comma 16 della L. 107/2015, dell’Obiettivo 5 dell’Agenda 2030 e della Convenzione di Istanbul – si spendono per una pedagogia e una didattica capaci di decostruire quei messaggi e sostenere relazioni educative e paradigmi culturali fondati sulla parità, la dignità, la libertà e l’inclusione.

Crediamo però che anche nei contesti ecclesiali sia necessaria la stessa cura e attenzione nei percorsi educativi e formativi che coinvolgono l’infanzia, le fasce giovanili e le generazioni adulte, famiglie comprese: una generica “attenzione alla persona” non basta a decodificare e mutare la realtà.

  • La questione è maschile

La violenza contro le donne e il sistema che la sostiene non sono una “questione femminile”. Le donne ne fanno le spese, certo; possono adeguarsi; possono anche esserne complici, andando contro sé stesse.

Ma la questione è maschile, e sono gli uomini innanzitutto che devono assumerla, perché riguarda la costruzione della loro maschilità, l’eredità ricevuta, le scelte che si possono e si vogliono fare per uscire dalle gabbie di un’identità che è stata strutturalmente legata al dominio e al controllo sulle donne, all’autorità, all’illusione della non parzialità e dell’invulnerabilità. In questo senso nessun uomo, per quanto “perbene”, può sentirsi a posto e pensare che la cosa non lo riguardi.

Lentamente gli uomini cristiani stanno cominciando a seguire l’esempio dei gruppi maschili che da qualche tempo lavorano in questa direzione.

Auspichiamo che i passi di alcuni diventino di molti e di tutti, per avviarsi verso una maschilità che non tradisca, come invece è successo finora, quella paradigmatica di Gesù[2].

Molto del futuro delle Chiese – su cui grava anche la millenaria e distorcente associazione fra maschile e sacro – dipende dall’ampiezza e dalla profondità di questa conversione.

* * * *

[1] Si veda ad es. Elizabeth E. Green, Cristianesimo e violenza contro le donne, Claudiana, Torino 2015; Paola Cavallari (a cura di), Non solo reato, anche peccato. Religioni e violenza contro le donne, Effatà, Cantalupa 2018.

[2] La illustra ampiamente Simona Segoloni RutaGesù, maschile singolare, EDB, Bologna 2020.

il quotidiano Libero merita una risposta ferma e forte da parte in particolare delle donne

Grasso chiede scusa per gli stupri e Libero (quello della doppia penetrazione) si inalbera

il presidente del Senato parla delle responsabilità maschili e il quotidiano di Feltri considera le sue parole brutali generalizzazioni

Violenza su una donna

violenza su una donna

Ieri il Presidente del Senato ha detto che la violenza sulle donne: “È un problema che parte da noi uomini e solo noi uomini possiamo porvi rimedio. Scusateci tutti”. Ma secondo questa parte della società che sui social sfoga la propria rabbia contro i violentatori a corrente alternata si tratta di: una generalizzazione brutale, “alla Boldrini”.

Sì, nel titolo del quotidiano appare il nome della Presidente della Camera come fosse un aggettivo negativo. La stessa donna vittima di commenti sessisti e minacce di stupro appare con un’accezione negativa. Un’altra vittima che diventa responsabile.

Il presidente Pietro Grasso nel suo discorso si riferiva all’ultima assurda morte, quella di Nicolina, la 15enne uccisa in provincia di Foggia. “A 15 anni si ha diritto di andare a scuola con la testa piena di sogni. Avevi tutta una vita davanti ma un uomo ha scelto di spezzarla con una violenza inaudita. Un enorme dolore per la tua famiglia, per i tuoi amici, per tutti noi. Purtroppo non sei la sola ad aver avuto questo terribile destino. Tante, troppo donne sono morte o sono rimaste profondamente segnate da violenze, discriminazioni, molestie, stupri”. “Tutto ciò  limita una donna nella sua identità e libertà. È una violenza di genere alla quale non esistono attenuanti, giustificazioni e soprattutto non esistono eccezioni. Finché tutto questo verrà considerato un problema delle donne, non c’è speranza. Non abbiamo ancora imparato che siamo noi uomini a dover evitare queste tragedie. A dover sradicare quel diffuso sentire che vi costringe a stare attente a come vi vestite o a non poter tornare a casa da sole di sera”.

Chi trova assurdo il pensiero di Grasso crede dunque che le violenze si dividano in due categorie: quelle brutali, da doppie penetrazioni compiuti dagli immigrati (sporchi neri che andrebbero castrati chimicamente come chiedono Salvini e Meloni) e quelli dove le responsabili sono le vittime “che se la sono cercata”, perché  magari a violentarle sono stati italiani, magari benestanti, acculturati oppure militari, perché la ragazza magari indossava la minigonna e non si faceva accompagnare ma camminava sola per strada dopo il tramonto.

Caro Libero, mi rivolgo a te per rivolgermi a tutti coloro che la pensano come te: il problema di tutte le violenze non è un problema di noi donne. E’ un problema degli uomini. E’ un problema delle madri e dei padri che hanno figli maschi. E’ un problema degli insegnanti che devono educare i loro ragazzi al rispetto delle donne. Grasso non ha detto nulla di sbagliato. Se continuate a fare distinguo continueranno le violenze, perché ci sarà una parte della società maschile che a seconda della vittima si sentirà autorizzato ad abusare di una donna.

Mi rivolgo alle colleghe del quotidiano, combattiamo insieme questa battaglia, smettiamola di giudicare gli stupri o le botte o i femminicidi a seconda di chi sia la vittima o l’aggressore. Non esistono attenuanti e distinzioni quando compi un gesto così atroce. Non esistono traumi meno dolorosi a seconda della storia, il lavoro, la provenienza, la religione del carnefice. Forse prima di scrivere per esempio di violenze sessuali i giornalsiti dovrebbero incontrare delle vittime, parlare con loro e vedere come la loro vita è cambiata dopo quel crimine. Capirebbero che lo stupro è l’unico crimine che non può essere contestualizzato, giustificato, compreso, è il male assoluto chiunque lo compia su qualunque corpo.

Non esistono se o ma, ci sono omicidi che puoi spiegarti con la legittima difesa, ma violentare una persona no. Nulla può giustificare un gesto simile, non violenti per difenderti, violenti per umiliare e sottomettere e macchiare per tutta la vita una persona. Se non capiamo tutti e tutte questo, passeranno ancora decenni e noi donne continueremo ad avere paura e vergogna e sensi di colpa anche solo se qualcuno ci palpeggia.

Non c’è prigione peggiore del proprio corpo e pensieri dominanti come questo che differenzia le violenze possono trasformarsi in una gabbia infernale per metà della popolazione.

perché alla fin fine gli uomini uccidono le donne

essenzialmente corpi

di Lea Melandri
Lea Melandriin “il manifesto” del 2 luglio 2016

non dovremmo meravigliarci se gli uomini uccidono le donne. Finché sono identificate (e nell’immaginario dominante lo sono tuttora) con la sessualità e la maternità, considerate dall’uomo doti femminili «al suo servizio», o a lui finalizzate, è scontato che esploda la possessività nel momento in cui le donne decidono (separandosi) di non essere più quel corpo a disposizione. È questa idea della donna, posta a fondamento della nostra, così come di tutte le civiltà finora conosciute, che va scalzata in modo radicale, dalla cultura alta, come dal senso comune, e da quella rappresentazione di sé e del mondo forzatamente fatta propria anche dal sesso femminile. È sulla «normalità», dentro cui la violenza è meno visibile, ma per questo più insidiosa, che va portata l’attenzionelibro

Di che altro parlano i pensatori che ancora fanno testo nelle nostre scuole? L’educazione delle donne, dice Rousseau nell’Emilio, deve essere in funzione degli uomini: «La prima educazione degli uomini dipende dalle cure che le donne prodigano loro; dalle donne infine dipendono i loro costumi, le loro passioni, i loro gusti, i loro piaceri, la loro stessa felicità. Così tutta l’educazione delle donne deve essere in funzione degli uomini. Piacere e rendersi utili a loro, farsi amare e onorare, allevarli da piccoli, averne cura da grandi, consigliarli, consolarli, rendere loro la vita piacevole e dolce (…) L’uomo deve essere attivo e forte, l’altra passiva e debole. È necessario che l’uno voglia e possa, è sufficiente che l’altra opponga poca resistenza. Il più forte è apparentemente il padrone ma di fatto dipende dal più debole». Tanto meno le donne possono sentirsi parte della vita sociale, da cui sono state escluse per secoli, essendo stata fin dall’inizio appannaggio esclusivo di una comunità di uomini. Oggi si parla molto di «educazione di genere», ma si potrebbe dire che la scuola lo ha sempre fatto, con la differenza che lo statuto di «genere», appartenenza a un gruppo pensato come un tutto coeso – è stato a lungo applicato, anche nelle più qualificate dottrine pedagogiche, soltanto al sesso femminile.

Ne è un esempio l’analisi di Erik H. Erikson, autore di un testo, Infanzia e società (Armando Editore, Roma, 1966), rimasto a lungo riferimento importante per chi insegnava. Nonostante gli vada riconosciuto il merito di aver sostenuto la necessità di un’analisi che non separasse dati biologici, storia sociale e sviluppo dell’individuo, quando si tratta di definire ruoli e «competenze» di «genere», sono di nuovo le diversità anatomiche e fisiologiche ad avere il sopravvento. Gli attributi della «mobilità» e della «staticità», che differenzierebbero il comportamento maschile da quello femminile, sono presentati come «reminiscenze», «modi strettamente paralleli alla morfologia degli organi sessuali». Se il «fare sociale», che è dell’uomo, comporta «l’attacco, il piacere della competizione, l’esigenza della riuscita, la gioia della conquista», quello della donna appare legato unicamente alla seduzione, al «desiderio di essere bella e di piacere», ma soprattutto alla «capacità di assecondare il ruolo procreativo del maschio», capacità che fa della donna una «compagna comprensiva e una madre sicura di sé». Rendersi indispensabili, «far trovare buona la vita all’altro» è stato a lungo il modo alienante con cui le donne hanno cercato di riempire il vuoto apertosi all’origine nell’amore di sé. Nell’illusione di «foggiare se stesse» hanno impegnato tutte le loro energie nello sforzo di aiutare l’altro a divenire se stesso. La dedica che Andrè Gorz scrive nel libro dedicato alla moglie, Lettera a D. Storia di un amore, dice: «A te, Kay che, dandomi te, mi hai dato Io».

libro1

Per capire quanto sia profonda la convinzione che il dovere della donna sia di rendere buona la vita all’uomo, basta leggere i giudizi che due uomini illustri, Benedetto Croce ed Emilio Cecchi, danno di Sibilla Aleramo. «Non faccio il moralista a buon mercato; e intendo e scuso perfino – dice Croce – il fallo commesso nell’impeto della giovinezza sensuale e fantastica, quando avete abbandonato vostro marito e vostro figlio (…) Comunque il fatto era fatto; e voi avevate avuto un’ottima occasione per formarvi una nuova vita; quando stavate col Cena. Ma voi volevate amare il Cena, quando il vostro dovere era invece di aiutarlo e sacrificarvi a lui». E Cecchi: «Nessuna servitù materna, o dono incondizionato, che la faccia rivivere nell’altro, negandola. Non ha bisogno che di sé». Ma quanto è estesa la maternità delle donne se, oltre a bambini, malati, anziani sono chiamate a curare, sostenere psicologicamente e moralmente uomini in perfetta salute? Come si può pensare che questo corpo femminile presente nella vita dell’uomo dalla nascita alla tomba, passando per la la scuola, l’assistenza nelle malattie, cioè attraverso i bisogni primari dell’umano, non alimenti, più o meno consapevolmente pulsioni di fuga, aggressività, fantasie omicide, in chi ne teme la stretta quanto l’abbandono?

TRE OMICIDI SU 10 IN ITALIA HANNO COME VITTIMA UNA DONNA. 38MILA LE DENUNCE DI STALKING, IL 77% PRESENTATE DA DONNE

Circa il 30% degli omicidi commessi in un anno in Italia (505) ha come vittima le donne. E’ quanto emerge dai dati diffusi in occasione della conferenza stampa di Ferragosto al Viminale. Dall’entrata in vigore della legge sullo stalking sono state 38.142 le denunce presentate, di cui 9.116 dal primo agosto del 2012 al 31 luglio del 2013. A denunciare nel 77% dei casi sono le donne. Ultima tragedia al contrario a Firenze, protagonisti due romeni: lei, 27 anni, lo aveva denunciato per stalking, lui (34 anni) dopo averla perseguitata si impicca davanti casa.

 

 

anche oggi il suo femminicidio

 

 

credere di far bene

ancora donne uccise, ancora cadaveri, ancora femminicidi, ancora donne che l’Italia non riesce a difendere dall’ ‘more violento e cieco’ dei maschi

sembra che ogni giorno ci riservi la sua pena e la sua tragicità

così Michela Marzano nel bell’articolo odierno su ‘La Repubblica’:

 

 

NON BASTA UN DECRETO

(MICHELA MARZANO).

 

Cristina, Erika e le altre quelle vittime innocenti che l’Italia non sa proteggere.
La strage.

IL CORPO di Lucia Bellucci è stato trovato chiuso nell’auto dell’ex fidanzato. L’ennesimo cadavere. L’ennesimo femminicidio.

UN’ENNESIMA tragedia che — come si dice sempre dopo — forse si poteva evitare. Dopo, sì. Se Lucia avesse denunciato l’ex compagno. Se la sua denuncia per stalking fosse stata ascoltata davvero. Se, soprattutto, le vittime fossero realmente protette. Ma le loro storie, così diverse, hanno spesso una solitudine in comune. Cristina Biagi, uccisa a Massa dall’ex marito il 28 luglio scorso, aveva sporto denuncia per stalking. Esattamente come Erika Ciurlo, assassinata a Taurisano il 29 luglio. L’aveva fatto anche Tiziana Rizzi, accoltellata in provincia di Pavia l’8 luglio e Marta Forlan, uccisa con diversi colpi di arma da fuoco in provincia di Cuneo. Sono donne e ragazze che, anche dopo aver denunciato i propri mariti, compagni, amanti ed ex, continuano a morire non solo a causa della gelosia, della smania di possesso e della violenza insopportabile degli uomini, ma anche per colpa della mentalità e dell’inefficienza di un paese che non riesce ancora a trovare un modo per ascoltarle, aiutarle e proteggerle. Ormai è quasi ogni due giorni che, in Italia, si registra un femminicidio: sono 78 dall’inizio dell’anno. Nonostante le denunce. Nonostante la legge contro lo stalking in vigore dal 2009 e tutte le altre misure recentemente adottate.
Certo, l’8 agosto, il Consiglio dei Ministri ha approvato un decreto che riguarda proprio la lotta contro la violenza nei confronti delle donne. Certo, questo nuovo decreto, che la Presidente della Camera ha annunciato di voler incardinare in Aula tra il 19 e il 20 agosto, prevede querele irrevocabili nei confronti degli uomini violenti, arresti obbligatori per maltrattamento e stalking, molteplici aggravanti nei confronti dei coniugi e compagni, processi più rapidi verso i presunti colpevoli. Ma si può anche solo immaginare che la repressione possa permettere di risolvere questa piaga contemporanea? Non è solo con un decreto che si possono proteggere veramente le vittime della violenza maschile e prevenire tragedie come quelle cui si sta assistendo impotenti da ormai troppo tempo.
Il dramma delle violenze contro le donne è sintomatico di una società che ha ormai perso tutta una serie di parametri di riferimento. Non è solo una questione di ignoranza e di non-rispetto delle regole della civiltà. È anche e soprattutto un problema di immaturità e di narcisismo. Sono troppi coloro che, insicuri e forse bisognosi di affetto, considerano come un proprio diritto impossessarsi dell’altro e di trasformarlo in un oggetto. Sono troppi coloro che, respinti e allontanati, vivono il rigetto con rancore e risentimento, come se il semplice “no” di una donna li svuotasse di senso. Ecco perché non si tratta di un problema solo legato al tradizionalismo maschilista del passato, ma anche alla fragilità identitaria dell’uomo contemporaneo. Al giorno d’oggi, gli uomini violenti appartengono a qualunque classe sociale e ceto, e alcuni sono anche celebri professionisti. Non conta né il rango sociale, né la situazione economica. Conta la loro incapacità di sopportare la perdita, come se il semplice fatto di perdere la propria donna significasse una perdita d’identità. Il dramma della violenza non lo si può solo combattere con il rigore delle leggi — anche se le denunce per stalking dovrebbero implicare una reale protezione delle vittime, impedendo per esempio il contatto con gli uomini che le hanno minacciate. Non ci si può solo limitare ad annunciare pene più severe, perché nonostante il carattere dissuasivo delle pene non è mai la legge che ha potuto impedire l’esistenza di crimini e delitti. Per contrastare le violenze contro le donne, c’è bisogno di ripensare anche le relazioni umane.
La violenza non la si può eliminare del tutto. Ma la si può e la si deve contenere. E per farlo, la chiave è e sarà sempre l’educazione. Per far capire a tutti e tutte, fin da piccoli, che il proprio valore è intrinseco e non strumentale; che ogni persona, a differenza delle cose che hanno un prezzo, non ha mai un prezzo ma una dignità; che la dignità non dipende da quello che gli altri pensano di noi, da quello che gli altri ci dicono o meno, da quello che gli altri ci fanno. Non si può combattere la violenza se non si educano le donne alla consapevolezza del proprio valore e della propria libertà. Esattamente come non si può combattere la violenza se non si educano gli uomini alla consapevolezza del valore e della libertà altrui.

Da La Repubblica del 13/08/2013.

a proposito di violenza sulle donne

 

ancora papaveri

un rapporto dell’O.N.U. dice che l’Italia è uno dei posti più sicuri per le donne, se ci si rapporta al femminicidio; ma siccome per scurezza si intende, di solito, l’oggettiva condizione di assenza di pericolo, allora le cose stanno in modo molto diverso

basta confrontare i dati ISTAT sulla violenza sulle donne nel 2007

interessanti riflessioni sul femminicidio e sulla violenza contro le donne da parte di M. De Maglie

(vedi link qui sotto)

Femminicidio

LA STRAGE DELLE DONNE E I NEGAZIONISTI (Adriano Sofri).

viviamo oggi in un mondo decisamente affrancato da pregiudizi rispetto a un tempo passato, e più libero per tutti? A.Sofri ne dubita motivatamente, anzi il fatto che “le uccisioni di donne sono molto più frequenti al nord che al sud segnala una relazione complicata se non inversa fra liberazione dei costumi e insofferenza maschile”

LA STRAGE DELLE DONNE E I NEGAZIONISTI (Adriano Sofri)..

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