Il papa sdogana l’islam, ma l’islam sdogana la chiesa? – un auspicio

papa Francesco sdogana i musulmani

da infedeli a fratelli

Ottocento anni fa, durante le Crociate, tra sangue e spade, si levò forte la voce di San Francesco anche “contro” la Chiesa che quelle guerre capeggiava. Oggi sono le diplomazie e i gesti di Francesco Papa, che si reca nel cuore dell’Islam, a sottolineare l’importanza del dialogo, della fraternità e della pace fra i popoli.

La posta in gioco è altissima: parla a nuora perché suocera intenda. In tutto l’Islam il vero problema è il riconoscimento delle comunità cristiane e la costruzione dei luoghi di culto. È la loro possibilità di “vivere” allo scoperto manifestando liberamente la propria fede senza timore.

Ad Abu Dhabi tutto il mondo musulmano guarda con attenzione le parole e i gesti di Bergoglio. Ma anche i cristiani osservano con altrettanta attenzione quello che sta avvenendo.

La strada intrapresa dall’Argentino ricalca quella che Francesco d’Assisi segnò 800 anni fa: allora “infedeli” oggi fratelli.

Il Papa sdogana l’Islam, ma l’Islam sdogana la Chiesa? E’ l’auspicio e il punto di domanda di questo viaggio apostolico. Bergoglio lo ha fatto sin dall’inizio: “un fratello da voi per costruire sentieri di pace“. È questa la posta in gioco e lo si fa con le parole attribuite a san Francesco: fa di me uno strumento della tua pace.

Parole che affondano le loro radici nel testo della Regola non Bollata che allora la Chiesa non volle approvare:

Perciò tutti quei frati che per divina ispirazione vorranno andare tra i saraceni e altri infedeli… I frati poi che vanno tra gli infedeli possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti né dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio (1 Pt2, 13) e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che, quando vedranno che piace a Dio, annunzino la parola di Dio…”.

Parole dettate dall’assisiate dopo il viaggio a Damietta nel 1219, senza se e senza ma.

L’esortazione “Né liti né dispute” è fondamentale in quanto il Santo auspicava che i frati si distinguessero dai crociati in armi. Non la ricerca di uno scontro, ma la costruzione di un terreno comune e umano su cui far nascere un’amicizia.

Le immagini che arrivano oggi da Abu Dhabi: il Grande Imam di Al-Azhar, Mohamed Ahmed al-Tayeb, il principe ereditario lo sceicco Mohammed Bin Zayed al Nahyan, e Papa Francesco che camminano mano nella mano rimarranno nella storia.

Immagini che siglano l’amicizia invocata da Francesco d’Assisi 800 anni fa. Le linee guida di allora diventano gli atteggiamenti di oggi. Non la strada dell’imposizione ma quella della condivisione.




p. Zanotelli chiede dove sono finiti circa 700 rom sgomberati senza alternative

i nostri fratelli rom
di Alex Zanotelli

 

In Italia i rom che vivono nelle baraccopoli sono 28mila. La presenza complessiva in Italia è stimata tra le 120.000 e le 180.000 unità. Sono dati che emergono dal Rapporto Annuale sulla condizione di rom e sinti in emergenza abitativa in Italia, effettuato dalla Associazione 21 luglio e presentato in Senato l’8 aprile in occasione della Giornata internazionale dei rom e dei sinti.
I 28.000 rom in emergenza abitativa rappresentano lo 0,05% della popolazione italiana e sono dislocati in 149 baraccopoli istituzionali, gestite dalle autorità pubbliche e presenti in 66 comuni; in 3 centri di raccolta; in insediamenti informali con 10mila persone, per il 90% di nazionalità rumena.
Le condizioni di vita dei rom che vivono in questi insediamenti sono nettamente al di sotto degli standard igienico-sanitari e l’aspettativa di vita è di 10 anni inferiore rispetto alla media della popolazione italiana.
Lo scorso aprile abbiamo fatto memoria della crocefissione di Gesù. Spesso, anche senza accorgerci, continuiamo a crocifiggere il povero Cristo degli impoveriti, degli emarginati, di quegli scarti che papa Francesco ama chiamare «la carne di Cristo».
Tra questi scarti in Italia ci sono senza dubbio i rom. Come Comitato campano con i rom, siamo impegnati da anni a denunciare le situazioni degradanti. L’ultima è quella relativa allo sgombero del campo rom di via Sant’Erasmo alle Brecce, nel quartiere Gianturco di Napoli. Vi vivevano circa 1500 persone in un contesto disumanizzante. Ho visto situazioni simili solo nelle baraccopoli in Kenya.
Lo scorso anno la Procura di Napoli ha deciso lo sgombero del campo di Gianturco perché ha valutato che sia un’area inquinata e non adatta per viverci. L’amministrazione comunale ha continuato a chiedere proroghe per guadagnare tempo e trovare soluzioni alternative. Nel frattempo, però, ha messo in atto una sorta di mobbing comunale, inviando al campo poliziotti e vigili urbani per sollecitare i rom ad andarsene. E in effetti non pochi rom se ne sono andati e hanno cercato altri spazi dove collocarsi.
Infine il comune ha aperto un campo attrezzato in via del Riposo, a fianco al grande cimitero di Poggioreale. Un campo che Amnesty International definisce «un lager», si tratta infatti di container allineati uno dietro l’altro… Comunque il 7 di aprile il comune ha accompagnato 130 persone rom in questo nuovo campo, annunciando che l’11 aprile avrebbe demolito quello di Sant’Erasmo alle Brecce. Invece la demolizione è avvenuta il 7 aprile stesso.
Per noi è stato un pugno allo stomaco. Anche per il silenzio che ha circondato l’intera vicenda, in particolare della regione, alla quale chiediamo da tempo la convocazione di un Tavolo per studiare soluzioni serie per i rom.
Per questo noi del Comitato campano con i rom e altre realtà della regione abbiamo deciso di manifestare l’11 aprile davanti al municipio di Napoli. Abbiamo portato alcune gigantografie della demolizione del campo, le abbiamo circondate di filo spinato e collocato una grande scritta “le ruspe del comune”. Abbiamo detto al sindaco Luigi de Magistris, che si vanta di una Napoli accogliente, che quella delle ruspe non si può definire accoglienza!
Ad oggi non sappiamo dove si trovino almeno 700 persone che erano nel campo di Sant’Erasmo alle Brecce. È chiaro che andranno a rimpinguare i ghetti che già ci sono o a formarne di nuovi.
Di questa vicenda voglio sottolineare un episodio. Quando ancora il campo rom di Gianturco era funzionante sono entrato con altri del Comitato e una donna ci ha urlato in faccia per dieci minuti: “Ci trattate come animali, ci schiacciate, ci disprezzate. Noi non siamo animali”.
Non dimenticherò questa voce. Nemmeno la celebrazione che della Pasqua che abbiamo fatto, insieme alla Chiesa valdese, il 15 aprile Sabato Santo, come segno di speranza, di resurrezione e di solidarietà con un popolo che non patria, non ha esercito, non ha mai fatto una guerra.
Possiamo stare certi che, se continuiamo a trattare i rom come stiamo facendo, siamo destinati a sbranarci a vicenda. O ci trattiamo tutti come fratelli o non c’è futuro.