“non posso respirare” – la testimonianza di frei Betto

nel mio Brasile non posso respirare

Frei Betto


sono state le ultime parole di George Floyd: “non posso respirare”. Neanch’io. Non posso respirare in questo Brasile gettato nell’ingovernabilità da militari che minacciano le istituzioni democratiche

 

l’articolo che segue è uscito sulla Folha di S. Paulo. L’autore, teologo, scrittore e politico brasiliano, nel 2003-2004 è stato consulente speciale del presidente Lula e coordinatore della mobilitazione sociale del Programma Fame Zero

Sono state le ultime parole di: “non posso respirare”. Neanch’io.

Non posso respirare in questo Brasile gettato nell’ingovernabilità da militari che minacciano le istituzioni democratiche e esaltano il golpe del 1964, che ha instaurato 21 anni di dittatura; lodano torturatori e miliziani, praticano scambi di favori, un “ prendi là – dammi qua”, con i famigerati politici corrotti dell’ala centrista; imitano in modo ostentato i nazisti; danneggiano simboli ebraici; complottano in riunioni ministeriali per agire in contrasto con la legge; usano parolacce negli incontri ufficiali come se fossero in un covo di gente di malaffare; prendono in giro chi osserva i protocolli di prevenzione della pandemia e scendono in strada indifferenti ai 30.000 morti e alle loro famiglie come per festeggiare una così grande mortalità.
“Non posso respirare” quando vedo la democrazia asfissiata; la Polizia Militare che protegge i neofascisti e attacca chi difende la democrazia; il presidente più interessato a rendere disponibili armi e munizioni più che risorse per combattere la pandemia; il Ministero dell’Educazione diretto da un semianalfabeta che minaccia di replicare “la notte dei cristalli” dei nazisti, afferma pubblicamente di odiare i popoli indigeni e propone di imprigionare i “vagabondi” del Supremo Tribunale Federale.
“Non posso respirare” nel vedere i comandanti delle Forze Armate restare in silenzio davanti a un presidente squilibrato che non nasconde di avere come priorità di governo la sicurezza propria e dei suoi figli, tutti sospettati di crimini gravi e di complicità con assassini professionisti.
“Non posso respirare” davanti all’inerzia dei partiti cosiddetti progressisti, mentre la società civile si mobilita in potenti manifestazioni di indignazione e per la difesa della democrazia.
“Non riesco a respirare” di fronte a questa comunità imprenditoriale che, con l’occhio ai profitti e indifferente alle vittime della pandemia, preme per l’immediata apertura dei suoi affari, mentre i letti d’ospedale sono pieni e le tombe raso terra si moltiplicano nei cimiteri come gengive sdentate di Tanatos.
“Non riesco a respirare” quando, in Brasile e negli Stati Uniti, i cittadini vengono picchiati, arrestati, torturati e assassinati per il “crimine” di essere neri e, quindi, “sospetti”. Mi manca il fiato quando vedo João Pedro, un ragazzo di 14 anni, che perde la vita in casa sua, colpito alla schiena da un fucile mentre gioca con gli amici. O i fattorini dei pacchi che vengono assassinati da agenti di polizia che ci considerano imbecilli nel provare a cercare una spiegazione per la morte di così tanti civili inermi.
“Non riesco a respirare” quando penso che il crimine barbaro commesso contro George Floyd si ripete ogni giorno e rimane impunito per non avere una macchina fotografica in grado di cogliere in flagrante simili omicidi. O nel vedere Trump, dall’alto della sua arroganza, reagire alle proteste anti-razziste minacciando di ridurre al silenzio i manifestanti con l’accusa di terrorismo e con l’intervento dell’esercito.
Come posso dare ossigeno alla mia cittadinanza, al mio spirito democratico, alla mia tolleranza, nel vedermi circondato da imitatori del Ku Klux Klan; generali che si improvvisano ministri della salute nel pieno di una tragedia sanitaria; manifestanti che infrangono, impuniti, la legge sulla sicurezza nazionale; e la Borsa che sale, mentre migliaia di bare scendono nelle tombe che accolgono le vittime della pandemia?
Ho bisogno di respirare! Non lasciare che soffochino la società civile, i media, la libertà di espressione, l’arte, i diritti civili, il futuro di questa generazione condannata a vivere in questo presente nefasto.
Respiro però quando leggo quello che lo stilista Marc Jacobs ha postato su Instagram dopo che uno dei suoi negozi è stato distrutto dalle proteste a Los Angeles: “Non lasciate mai che vi convincano che i vetri rotti o i saccheggi sono violenza. La fame è violenza. Vivere per strada è violenza. La guerra è violenza. Bombardare la gente è violenza. Il razzismo è violenza. La supremazia bianca è violenza. L’assenza di assistenza sanitaria è violenza. La povertà è violenza. Contaminare le fonti d’acqua per il profitto è violenza. Una proprietà può essere recuperata, le vite no”.
Faccio miei i versi di Cora Coralina: voglio “più speranza nei miei passi che tristezza nelle spalle”.

seminare oggi il futuro – frei Betto e il fallimento della modernità

il futuro nascerà dal seme che piantiamo

 

 

diventare seme perché altri possano avere un raccolto

alla ricerca del paradigma della post-modernità

 
da: Adista Documenti n° 22 del 17.06.2017

 Se «la storia del futuro sarà il risultato di quello che noi facciamo oggi, nel presente», il seme che ora siamo chiamati a piantare dovrà andare molto oltre quel paradigma di sviluppo proprio dell’età moderna da cui è derivata la «globocolonizzazione» in corso. Non ha infatti nessuna esitazione il domenicano brasiliano Frei Betto a proclamare il fallimento della modernità – evidentemente incapace di estendere all’insieme dell’umanità i benefici prodotti dai pur grandi progressi realizzati in questi secoli – e ad attribuirne la responsabilità al capitalismo. Ed è quanto mai significativo che tale riflessione Frei Betto l’abbia condotta a Cuba, la patria del socialismo, e precisamente a Guantánamo, dove si è recato su invito del Centro Martin Luther King, in occasione del trentesimo anniversario della sua fondazione. «Questa mattina – così il domenicano ha iniziato la sua conferenza, il 26 aprile scorso – ho potuto realizzare il primo di due sogni: sono potuto andare a Caimanera a conoscere la Baia di Guantánamo, e persino rivolgere uno sguardo agli invasori statunitensi. E ora spero di realizzare il secondo: vedere la Baia recuperata dal popolo cubano».

Una riflessione a tutto campo, quella di Frei Betto, che non ha mancato di soffermarsi sulla delicata congiuntura attuale dell’America Latina, segnata da quella che in più occasioni egli ha definito come «impasse dei governi progressisti», denunciando i limiti del modello neodesarrollista (ed estrattivista) seguito da questi ultimi, mirato sostanzialmente a fare dell’America Latina un’oasi di stabilità del capitalismo in crisi, ed evidenziando come tali governi, se hanno avuto indubbiamente il merito di adottare importanti misure a favore delle fasce più povere, non sono riusciti però a ridurre il potere di espansione del grande capitale, né a intaccare l’egemonia ideologica della destra. Scegliendo, infatti, la via dell’accesso al consumo di beni personali, anziché puntare prioritariamente a garantire beni sociali come istruzione, salute, trasporto, casa, i governi progressisti hanno rinunciato ad alimentare un più che mai necessario processo pedagogico di formazione e di organizzazione politica, finendo per intaccare i tradizionali simboli identitari della sinistra: l’organizzazione della classe lavoratrice, la garanzia dell’etica in politica e la realizzazione di cambiamenti strutturali.

È in questo quadro che, agli occhi di Frei Betto, Cuba si presenta ancora oggi come un «simbolo per tutti i militanti della speranza del mondo», un riferimento per «tutta la gente che sogna un altro mondo possibile». Convinto che i cambiamenti in corso nell’isola non condurranno a una sua trasformazione in una mini-Cina, un mix tutt’altro che emancipatore di governo socialista ed economia capitalista, quanto piuttosto al benefico passaggio da un’economia statalizzata a un’economia popolare, il domenicano invita i cubani a non perdere mai di vista la necessità di un’alfabetizzazione politica e ideologica, in quanto, sottolinea Frei Betto, il solo fatto di nascere in un Paese come Cuba non rende le persone «naturalmente socialiste»: «come diceva Lenin, l’amore è un prodotto culturale, è frutto di un’educazione».

Da qui l’impegno a «calzare i valori socialisti», che poi sono gli stessi valori evangelici: «Tutto il vangelo – afferma – si riassume in due valori: quello dell’amore per quanto riguarda le relazioni personali, e quello della condivisione per quanto riguarda le relazioni sociali. Per questo dico che il socialismo è il nome politico dell’amore».

Di seguito, in una traduzione di Adista dallo spagnolo, il testo della conferenza di Frei Betto, pubblicato su Resumen Latinoamericano/Cubadebate del 7 maggio scorso. 

 

Stiamo vivendo un cambiamento d’epoca

 

Stiamo vivendo qualcosa che i nostri nonni non hanno potuto sperimentare: se essi hanno conosciuto epoche di cambiamenti, noi stiamo vivendo un cambiamento d’epoca. Una cosa profondamente diversa. L’ultima volta che l’Occidente ha assistito a un cambiamento d’epoca è stato 500 anni fa, nel passaggio dall’epoca medievale a quella moderna.

Stiamo vivendo un’esperienza che hanno sperimentato persone che conosciamo solo per fama, come Copernico, Miguel de Cervantes, Erasmo da Rotterdam, Teresa d’Avila, Galileo Galilei, i quali hanno vissuto il passaggio dal Medioevo alla Modernità esattamente come noi stiamo vivendo quello dalla modernità alla postmodernità.

Ogni cambiamento d’epoca suscita problemi, incertezze e dubbi, a causa della difficoltà di comprendere i mutamenti di valori e di riferimenti…

Ma cos’è che caratterizza un’epoca? È il suo paradigma, come il palo centrale che sostiene il tendone del circo. Il paradigma del periodo medievale, durato mille anni, è stata la religione: da qui la supremazia della Chiesa, il potere del papa di nominare re e principi, la centralità della concezione teologica della natura.

I greci avevano già scoperto, tre secoli prima di Cristo, che la Terra era sferica e danzava intorno al sole. Ma la Chiesa adottò la cosmologia di Tolomeo, secondo cui il nostro pianeta era immobile ed era il sole a girargli intorno, passando sotto di esso di notte. Poiché infatti non conveniva alla Chiesa affermare che Dio si era incarnato in un pianeta qualsiasi, la Terra doveva essere il centro dell’universo. E d’altro canto i nostri sensi non colgono il fatto che la Terra si muova.

Finché non arriva Copernico, il quale aveva letto Paulo Freire! Perché lo dico? Perché, questo maestro dell’Educazione Popolare insegna che, quando cambiamo luogo sociale, cambiamo anche il luogo epistemico, ossia cambiamo il nostro modo di conoscere la realtà.

Se vivi a Guantánamo, guarderai alla realtà in un modo, se vai a vivere a Miami, la guarderai in un altro modo. È un principio dell’Educazione Popolare: la testa pensa dove poggiano i piedi. Se la gente non sta con il popolo, difficilmente penserà a favore del popolo.

Per questo dico che Copernico aveva letto Paulo Freire: fino a quel momento, gli scienziati avevano guardato al sistema solare tenendo i piedi sulla Terra. Copernico, al contrario, guardando al sistema solare con i piedi virtualmente sul Sole, vide tutto, scientificamente, in maniera diversa, prendendo atto che era il sole il centro del nostro sistema. E fu una rivoluzione.

Non è stata però solo la cosmologia di Copernico a determinare il cambiamento d’epoca. Bisogna ricordare anche le invasioni musulmane in Europa, con la conseguente diffusione della cultura orientale (fino all’arrivo degli arabi, nel XIII secolo, gli europei non conoscevano l’esistenza del numero zero).

Un altro fattore importante è stato quello dell’erosione dell’egemonia della Chiesa cattolica: proprio quest’anno stiamo celebrando i 500 anni della Riforma Protestante di Martin Lutero, iniziata con la presentazione, nel 1517, delle sue 95 tesi per la riforma della Chiesa. E infine un grande peso assumono anche le spedizioni marittime condotte dai Paesi della Penisola Iberica, con la scoperta di un nuovo continente. (…).

Il fallimento della modernità

Sono stati questi i fattori che hanno condotto al superamento del paradigma medievale, con la sostituzione della religione da parte della ragione, nei suoi due versanti della scienza e della tecnologia. E con il sorgere di un profondo ottimismo, dettato dalla convinzione che, una volta estromessa la superstizione religiosa, come sarebbe stata chiamata dagli illuministi, la scienza e la tecnologia avrebbero trovato una soluzione per tutti i problemi del mondo: le malattie, la peste, le guerre… Ma il fatto è che, guardando al passato e tracciando un bilancio di questi 500 anni, noi, figli della modernità, ci rendiamo conto che i progressi sono stati moltissimi – l’essere umano ha persino messo i piedi sul suolo lunare, la gente vive più a lungo, molte malattie come la peste sono state debellate – ma, ecco il problema, hanno beneficiato solo pochi.

A vivere su questo pianeta siamo oggi 7,2 miliardi di abitanti e di questi la metà, 3,6 miliardi di persone, non ha neppure accesso a diritti animali come mangiare, allevare la prole, ripararsi dal freddo e dalle intemperie. 3,6 miliardi di persone per cui è un lusso parlare di diritti umani. Si tratta di persone che passano la loro intera esistenza nello sforzo di garantirsi la conservazione biologica, di poter mangiare e dar da mangiare alla famiglia, come fanno il leone e l’elefante o un uccello che si allontana dal nido per cercare cibo per i piccoli. Si può dire pertanto che la modernità ha fallito e che ciò è avvenuto a causa del capitalismo.

È stato il capitalismo a far sì che le conquiste, reali e buone, restassero un privilegio del 10% dell’umanità. Chi può godere delle grandi conquiste della medicina? I più ricchi. Chi può utilizzare i più veloci mezzi di trasporto? Ancora i più ricchi. E chi ha accesso a tutta la tecnologia della comunicazione? Sempre loro, e scandalosamente. Secondo i dati dell’ong britannica Oxfam, appena 8 persone possiedono una ricchezza pari a quella di 3,6 miliardi di abitanti del pianeta, la metà dell’umanità.

La modernità è fallita. Ed è fallita perché, come evidenzia Thomas Piketty, l’autore del libro Il capitale nel XXI secolo, si registra una sempre maggiore accumulazione di ricchezza in poche mani, una brutale e crescente disuguaglianza.

Ci chiediamo allora se la modernità, con tutti i suoi progressi, non finirà per abbandonare questo paradigma della ragione, considerando che ad appropriarsene è stata la logica capitalista. Nell’economia classica, la relazione è la seguente: io, un essere umano, indosso una camicia, in funzione delle mie relazioni sociali con altri esseri umani. Quello che conta è, da un lato, l’essere umano con altri esseri umani e, dall’altro, le merci come strumenti di avvicinamento, di socialità, di comodità. Ma ora i termini si sono invertiti: non più essere umano-merce-essere umano, ma merce-essere umano-merce. La marca della mia camicia deve far sì che gli altri vedano che valgo perché indosso una merce di valore. In altre parole, se vengo a casa tua a piedi, ho un valore “Z”, se vengo con l’ultimo modello di Mercedes Benz, ho un valore “A”. La persona è la stessa, ma è la merce a decidere che valore ha come essere umano. Il che significa che, nella nostra cultura, un uomo o una donna che vivono in strada – in Brasile ve ne sono moltissimi, in attesa che qualcuno dia loro una moneta o un pezzo di pane – non hanno alcun valore. Sono esseri umani, frutto di una relazione d’amore tra due persone, ma non hanno valore perché non sono rivestiti di alcuna merce. E non hanno valore neppure per lo Stato capitalista. Uno Stato che ha due braccia: quello amministrativo, quello per cui chi vive in strada non vale nulla, e quello repressivo, che entra immediatamente in azione allorché chi vive in strada, mosso dalla fame, rompe la vetrina di una panetteria – una proprietà privata, e la proprietà privata è sacra – per mangiare qualcosa.

Si tratta di un capovolgimento completo: nella teologia classica di San Tommaso è questa persona che ha fame a essere sacra, mentre, nella logica capitalista, a essere sacra è questa panetteria, questo negozio, che non può essere toccato neppure se una persona ha fame.

Il futuro sarà il seme che piantiamo

Il futuro sfida ciascuno di noi, perché la storia non è già stata scritta: la storia del futuro sarà il risultato di quello che noi facciamo oggi, nel presente.

Questo vale per le nostre vite personali e per le nostre vite sociali. Quello che sarà il futuro è il risultato del seme che stiamo piantando oggi, e dobbiamo chiederci che seme sia, quale raccolto ci si aspetti, che tipo di umanità e di mondo si pensi di costruire.

Quale sarà il paradigma della postmodernità? Vorremmo che fosse la globalizzazione della solidarietà, anziché l’attuale globocolonizzazione, l’imposizione del modello consumista ed edonista delle società capitaliste. Dobbiamo lottare per tale obiettivo, ma non sarà un compito facile. Perché le nostre forze sono scarse rispetto a quelle di chi vuole che prevalga il paradigma del mercato, quella mercificazione di tutti gli aspetti della vita umana e della natura così appropriatamente denunciata da papa Francesco nella sua enciclica Laudato si’, il primo documento papale della storia della Chiesa sul tema socioambientale. Un’enciclica che il filosofo e sociologo Edgar Morin ha definito come il documento più avanzato nella storia dell’ecologia, in quanto, a differenza dei precedenti, non si limita solo a indicare gli effetti della degradazione ambientale, ma affronta anche e soprattutto le cause.

Se il mercato si impone come paradigma della postmodernità, per l’umanità non c’è più futuro. E oggi sappiamo che tutto è in funzione del mercato, l’unico ente che è senza frontiere, che non ha bisogno di passaporto, che non deve chiedere permesso per entrare non solo in qualunque Paese e in qualunque casa, ma anche nella nostra coscienza e nella nostra cultura.

Per questo, se ciascuno di noi è chiamato a rispondere alla domanda sul tipo di mondo che vuole lasciare alle future generazioni, può farlo solo in due modi. Può dire: “non mi importano le generazioni future, voglio solo godermi la mia vita”. Ma in questo modo, abbracciando un’opzione egocentrica, antietica e criminale, difficilmente sarà una persona felice, perché la felicità esiste solo per chi rende felici gli altri. E non si tratta di un’opzione: si è totalmente preda del neoliberalismo – che ci vuole convincere che la cosa più importante è la nostra vita personale – totalmente addomesticati dal sistema.

E poi c’è l’altra alternativa: “intendo costruire un mondo per tutti”. Quando finii in carcere, sognavo che il mio tempo personale sarebbe coinciso con il mio tempo storico, come avvenuto a Fidel e a Raúl. È molto raro che si possa avere un sogno, vivere la realtà di questo sogno e sopravvivere come hanno fatto loro. È molto raro! Non esiste un altro leader rivoluzionario nella storia a cui sia accaduto quanto avvenuto a Fidel. Oggi la penso come Che Guevara: devo essere un seme affinché altre generazioni possano avere un raccolto. Questa è la disposizione rivoluzionaria di oggi: fare della vita un seme perché gli altri abbiano vita.

Gesù lo ha detto nel Vangelo di Giovanni: che era venuto perché tutti avessero vita, e vita in abbondanza e pienezza. E ha incontrato una morte precoce per dare vita, perché altri avessero vita.

Gli errori dei paesi progressisti

Noi oggi viviamo all’interno di questo mondo globocolonizzato e dobbiamo analizzare per quale motivo l’esperienza socialista sia fallita in Europa Orientale. Sono stato quattro volte in Unione Sovietica e oggi mi chiedo cosa stiano facendo quei compagni che mi guardavano dall’alto in basso come se io, in quanto credente, non fossi sufficientemente rivoluzionario: staranno lottando per il socialismo o si saranno adeguati al sistema capitalista?

Non era quello il socialismo che vogliamo, perché non aveva radici. E neppure il socialismo della Cina, dove un’economia capitalista si è unita a un governo teoricamente socialista. Resta Cuba.

A volte mi chiedo se voi cubani siete consapevoli dell’importanza storica di questo Paese come simbolo per tutti i militanti della speranza del mondo, e non parlo solo della sinistra, ma di tutta la gente che sogna un altro mondo possibile. Cuba è un riferimento.

Se il socialismo fallisse a Cuba, l’unica alternativa sarebbe un futuro capitalista, che è il presente dell’Honduras, del Guatemala, di nazioni segnate da un alto livello di violenza, miseria, povertà, disuguaglianza. Negli ultimi anni, in questo blocco che chiamiamo America Latina e Caraibi, sono sorti molti governi progressisti (e in questo Cuba ha avuto un ruolo ispiratore): in Argentina, Ecuador, Bolivia, Brasile, Paraguay, Honduras, El Salvador, Nicaragua, Venezuela. Ma, sebbene si siano registrate molte conquiste importanti, ora si assiste a una crisi, a una impasse.

Prendiamo il caso del Brasile: se gli anni dei governi di Lula e Dilma sono stati i migliori di tutta la storia del Paese, sono stati però commessi anche grandi errori.

Per prima cosa, non è stato cambiato il paradigma di sviluppo. Alla scuola primaria si apprende che il Brasile è stato storicamente una nazione esportatrice di materie prime, cominciando dal pau brasil (un albero della famiglia delle Fabaceae, ndt) che ha dato il nome al Paese, per finire allo zucchero, all’oro, al caffè. E lo è ancora. L’unica cosa che è cambiata è che adesso non le chiamiamo più materie prime, ma commodities.

I nostri governi progressisti hanno commesso il grave errore di confidare eccessivamente su una congiuntura internazionale caratterizzata dall’alto prezzo di queste commodities (il Venezuela, per esempio, non immaginava che il prezzo del petrolio sarebbe crollato, incidendo pesantemente su tutta la sua economia). Un quadro, questo, in cui risultava più economico importare merci dalla Cina che fabbricarle al proprio interno, con la conseguenza che in alcuni Paesi, come il Brasile, si è registrato un devastante processo di de-industrializzazione, con relativa chiusura di fabbriche e perdita di posti di lavoro. Così, i prodotti che prima fabbricavamo noi ora dobbiamo acquistarli fuori.

Ma c’è un secondo errore. Immaginiamo una famiglia povera che vive in una baracca di legno di una favela di Rio de Janeiro: nella sua baracca la famiglia dispone di computer, cellulare, frigorifero, televisore, forno a microonde, ma vive pur sempre in una favela, non ha una vera casa, non ha accesso alla salute, all’educazione, al trasporto, alla cultura, alla sicurezza.

I nostri governi, insomma, hanno commesso l’errore di dare la priorità all’accesso delle persone ai beni personali, quando avrebbero dovuto invece seguire l’esempio di Cuba, privilegiando, in primo luogo, i beni sociali: educazione, salute, alimentazione, casa… Perché, in mancanza di accesso ai beni sociali, è assai difficile raggiungere un livello sufficiente di qualità di vita solo con i beni personali, soprattutto nel quadro del modello consumista e neoliberista, considerando per esempio che un cellulare diventa vecchio già dopo un anno. Così funziona il mercato: chi sta dietro al mercato ha bisogno che quanti hanno la possibilità di spendere acquistino sempre nuovi modelli dello stesso prodotto, ai fini del mantenimento del sistema.

Il terzo errore è che non abbiamo promosso l’alfabetizzazione politica del popolo. È venuto meno il lavoro, che qui porta avanti il partito, e anche il Centro Martin Luther King, di formazione ideologica e di organizzazione popolare.

Voi sapete che la neutralità non esiste: se io non vengo educato a una concezione solidale, altruista, socialista, significa che la mia formazione avverrà all’interno di una prospettiva individualista, egocentrica, consumista. Se l’apparato di formazione, o, piuttosto, di deformazione ideologica, è di gran lunga più potente dei nostri piccoli sistemi di educazione politica, bisogna ciononostante impegnarsi in tal senso, perché ciascuno di noi, nel suo cuore, ha dei valori ed è a partire da questi che imprimiamo una determinata direzione alle nostre vite. Solo la nostra coerenza con tali valori ci rende felici.

Torniamo all’esempio del Che: era in pace con la storia, aveva vissuto il successo della Rivoluzione Cubana, era sopravvissuto alla Sierra Maestra, era ministro del governo di Cuba; avrebbe potuto restare lì e magari essere ancora vivo, alla guida del governo di Cuba insieme a Raúl. Ma, come un San Francesco d’Assisi della politica, rinunciò a tutto per dare la propria vita affinché altri avessero vita. Prima va in Congo, poi in Bolivia, dove muore a 37 anni, sicuramente felice, perché a renderci felici è la motivazione interiore, sono i valori che ci portiamo dentro e non il denaro, né la funzione che esercitiamo. Ciascuno, durante la sua vita, risponde a questa domanda ontologica: la mia vita è soltanto per me stesso o è perché anche altri abbiano vita?

I nostri governi hanno ottenuto dei successi che è importante ricordare, ma più importante ancora, adesso, è correggere gli errori che sono stati commessi. Se il Brasile è oggi una nazione governata da un golpista di nome Temer, vuol dire che dobbiamo fare autocritica. Non so se in Unione Sovietica si sia fatta autocrítica, ma Dio non voglia che un giorno mi trovi a incontrare cubani che dicano di dover fare autocritica per il fallimento del socialismo a Cuba: sarebbe la fine di tutta la speranza storica dell’umanità.

Cuba è la speranza

Dobbiamo fare autocritica prima che fallisca ciò che avrebbe avuto la possibilità di avanzare. Non abbiamo promosso l’alfabetizzazione politica e ideologica perché pensavamo che il solo fatto di stare sotto un governo progressista rendesse le persone progressiste. È come pensare che a Cuba chiunque nasca sia, naturalmente, socialista. Non è vero. Ogni bambino cubano è naturalmente capitalista, perché, come diceva Lenin, l’amore è un prodotto culturale, è frutto di un’educazione.

Se hai un neonato in casa, sai bene che alle 3 di mattina, quando hai bisogno di dormire, egli avrà fame e vorrà il latte, e piangerà per averlo, indipendentemente dalla tua stanchezza e dal fatto che dovrai andare a lavoro, finché la sua richesta non verrà soddisfatta. Per questo il sistema capitalista ha tanta forza: perché risponde a ciò che di meno umano c’è nella nostra natura.

All’interno del contesto latinoamericano e mondiale di egemonia del mercato e del capitalismo, di crisi dei governi progressisti, come si presenta Cuba agli occhi di uno straniero che viene in questo Paese da 37 anni, condividendo molti momenti di difficoltà, soprattutto durante il Periodo Speciale, e conservando sempre una vicinanza profondamente fraterna a Fidel e Raúl?

Una volta, durante gli anni ’80, chiesi a Fidel se avessi potuto rivolgere una critica alla Rivoluzione ed egli mi rispose: «Tu, Betto, non solamente hai il diritto, ma hai anche il dovere di rivolgere le critiche che ritieni opportune». E da quel momento mi sono sentito molto a mio agio in questo Paese nel dire le cose in maniera chiara, senza eufemismi.

Cuba attraversa ora una fase di trasformazione, all’interno di questo contesto mondiale. Tant’è che, fuori dall’isola, le persone mi chiedono se, con tutti i cambiamenti in corso, l’apertura al capitale straniero, le relazioni con le transnazionali, Cuba non si trasformerà in una mini-Cina, sposando un’economia capitalista con un governo socialista (lo chiedevano anche dopo la caduta del Muro di Berlino, quando tutti parlavano di effetto domino e affermavano che Cuba sarebbe caduta subito dopo, e invece ha resistito, anche se non ho incontrato nessun capitalista disposto a riconoscerlo). Io rispondo di no, per due ragioni. La prima ragione è che questo Paese sta cambiando il proprio modello economico, ma è un errore pensare che stia uscendo da un’economia socialista per entrare in un’economia capitalista. In realtà, Cuba esce da un’economia statalizzata in direzione di un’economia popolare. La distinzione è semplice: in un’economia statalizzata, lo Stato fornisce tutto, mentre, in una popolare, lo Stato è, sì, fornitore, ma non interamente, perché ci sono anche imprenditori privati, cooperative, forme di economia solidale…, e molte altre forme che vanno crescendo dal basso verso l’alto.

Economia popolare nel quadro del socialismo significa che i protagonisti di questo processo devono avere uno spirito socialista molto radicato. Io dico sempre che il socialismo è il nome politico dell’amore. Quando ami la tua famiglia, non neghi ai tuoi figli da mangiare e da bere e tutti, benché diversi, hanno uguali diritti e uguali opportunità. Così deve essere per un popolo.

Fidel un giorno mi disse: «Abbiamo commesso l’errore di dare alla gente l’impressione che la Rivoluzione sia come una mucca con una mammella per ogni bocca». Così la gente aveva cominciato a pensare: «se vado a lavoro guadagno, se non vado guadagno ugualmente». Sono alcuni vizi legati alla creazione di questa tremenda dipendenza.

Ora no, ora assistiamo al protagonismo economico della gente, del popolo cubano con la sua creatività, con la sua capacità di iniziativa, con la sua capacità di inventare meraviglie dal niente – tutti gli stranieri che arrivano all’Avana si meravigliano nel vedere quelle auto che io guardavo quando avevo 6 anni -, un popolo che ha resistito a tante aggressioni e che resiste ancora… Ora la palla è vostra: per quanto il governo, malgrado tutte le difficoltà, possa incontrare le migliori soluzioni economiche per il Paese, siete voi che dovete prendere una decisione etica: trarrò beneficio da questo protagonismo per me o contribuirò a creare una cultura etica? Perché non c’è dubbio che il danno provocato dalla corruzione nei nostri governi progressisti sia irreparabile.

Ricordo Fidel quando diceva che un rivoluzionario può perdere tutto: può perdere la libertà andando in carcere e la famiglia andando in esilio, può perdere la salute ammalandosi e la scolarità non potendo seguire studi universitari, può perdere il lavoro, facendosi cacciare in quanto rivoluzionario, e persino la vita, ma solo una cosa non può perdere: l’etica. Non c’è via di uscita se un rivoluzionario perde la morale, se passa ad agire senza etica, a volte addirittura a nome della Rivoluzione, sì, a nome della Rivoluzione, perché ci sono persone che sono d’accordo con il processo non perché siano rivoluzionari, ma perché ne traggono profitti personali, esattamente come nella Chiesa vi sono molti vescovi e preti che sono lì non perché siano convinti e abbiano fede, ma perché risulta per loro conveniente.

Sono stato due anni nel governo Lula come consigliere speciale del programma Fame zero, e ho scritto due libri, La mosca azzurra, pubblicato anche a Cuba, e Calendario del potere, dove ho evidenziato quanto sia stata illuminante l’esperienza del potere. Per esempio, pensavo che il potere cambia le persone e invece ho scoperto che non è vero: il potere non cambia nessuno, fa solo sì che la persona si riveli per quella che è. Vale a dire che quella persona era già arrogante, egoista, autoritaria, oppressiva, ma non aveva ancora la possibilità di mettere tutto questo in  pratica. Tutto è sintetizzato in un detto spagnolo: se vuoi conoscere Juanito, dagli una carica.

Il potere fa questo. Ma il potere è questo: mettersi anonimamente al servizio di una causa di liberazione nel Congo e poi in Bolivia, come ha fatto il Che.

Quando ci si identifica con la propria funzione, e non importa di quale funzione si tratti, non parlo solo di coloro che stanno al governo, alla guida di un partito, no, parlo anche della direttrice di una scuola, del direttore di una banca, di un vigile urbano…, se la gente non viene educata a questa dimensione di servizio, il capitalismo arriva e con il suo potere di persuasione impedisce che un giorno l’umanità possa essere come una famiglia, dove persone con diversi livelli di intelligenza, e talenti e doni distinti, hanno tutti gli stessi diritti e le stesse opportunità. È così che un giorno deve diventare l’umanità. Ma per ottenerlo ci vuole un progetto storico.

Cosa dobbiamo fare quotidianamente per raggiungere tale scopo? Calzare i valori socialisti, che sono gli stessi valori evangelici. Esattamente la stessa cosa. Tutto il vangelo si riassume in due valori: quello dell’amore per quanto riguarda le relazioni personali, e quello della condivisione per quanto riguarda le relazioni sociali. Per questo dico che il socialismo è il nome politico dell’amore.

Noi cristiani preghiamo il Padre nostro, e chiediamo il nostro pane quotidiano. Dio è padre nostro, non mio, e lotto perché il pane sia un bene di tutti, non solamente mio; per questo un credente che non sia disposto a condividere e a lottare per una società in cui si condividano i beni non dovrebbe pregare il Padre nostro. Un credente del genere vive in una menzogna: egli crede in un idolo, un dio creato nella sua testa per giustificare la sua posizione anti-etica. Perché la preghiera di Gesù riguarda il Padre nostro e il pane nostro, il fatto cioè che tutti abbiano il necessario per la vita.

Termino con questa frase che poi dirò di chi è. «Sono i comunisti che la pensano come i cristiani. Cristo ha parlato di una società dove i poveri, i deboli, gli esclusi, siano loro a decidere. Non i demagoghi, non i barabba, ma il popolo, i poveri, che abbiano fede nel Dio trascendente oppure no, sono loro che dobbiamo aiutare per ottenere l’eguaglianza e la libertà». È quanto ha affermato papa Francesco nell’intervista concessa a La Repubblica l’11 novembre 2016.

Ed è curioso. «Sono i comunisti che la pensano come i cristiani»: è chiaro che, molto prima che ci fossero comunisti, vi furono, in tre secoli di Impero Romano, cristiani rivoluzionari che provocarono il crollo dell’Impero. Cristiani che non solamente condividevano i loro beni, ma che lottavano anche contro un potere oppressore, che era l’Impero Romano.

E finisco dicendo un’ultima cosa. Non c’è distinzione tra credenti e non credenti, se gli uni e gli altri hanno come scopo l’amore, anche per i nemici. Attenzione, però: amare i nemici non significa concordare con essi o sostenerli. Amare il nemico è sottrargli gli strumenti che gli permettono di essere un oppressore e restituirgli la dignità umana. Far sì, per esempio, che Trump si guadagni il salario lavorando! Perché, se Nerone ha dato fuoco a Roma e Hitler all’Europa, questo pazzo vuole ora dare fuoco a tutto il mondo. E noi non possiamo permetterlo.

frei Betto e il nostro mondo ‘globocolonizzato’

Il cristianesimo come progetto di civiltà

il cristianesimo come progetto di civiltà

da: Adista Documenti n° 20 del 28/05/2016

frei Betto, uno degli esponenti più prestigiosi della Chiesa della Liberazione brasiliana, durante la conferenza pronunciata il 15 marzo scorso all’Accademia Brasiliana delle Lettere, evidenzia opportunamente che: 

come «non fu il cristianesimo a convertire l’Impero Romano, all’epoca di Costantino», ma «furono i romani a convertire la Chiesa in potenza imperiale», così non è stato il cristianesimo ad evangelizzare l’Occidente, «ma è stato il capitalismo occidentale a impregnarlo del suo spirito profittatore, individualista e competitivo»

con i risultati che abbiamo tutti dinanzi agli occhi. E ciò malgrado il fatto che Gesù non sia venuto a portare tra noi una Chiesa o una nuova religione, ma

 

«un nuovo progetto di civiltà, basato sull’amore per il prossimo e per la natura e sulla condivisione dei beni della Terra e dei frutti del lavoro umano. Una nuova civiltà in cui tutti siano inclusi: storpi, ciechi, lebbrosi, mendicanti e prostitute. E in cui la vita, il più grande dono di Dio, sia da tutti goduta in pienezza»

 

Il Brasile è un Paese di matrice cristiana. Chiedete a chiunque quale sia la sua visione del mondo e, certamente, avrete una risposta intessuta di categorie religiose.

Il cristianesimo, nella sua versione cattolica, è arrivato nel nostro Paese in compagnia del progetto colonizzatore portoghese. Entrare a far parte della civiltà, così come veniva concepita nella Penisola Iberica, significava diventare cristiani. Era questa l’ossessione missionaria di Anchieta: annullare le convinzioni religiose dei popoli originari della terra brasiliana, considerate idolatriche, per introdurre il cristianesimo secondo la teologia europea occidentale, in un  atto di aggressione alla cultura indigena.

I colonizzatori portarono in Brasile gli africani come schiavi, i quali dovevano piegarsi al battesimo per entrare nell’inferno qui in Terra, con la promessa che, se fossero stati docili alla volontà e ai perversi capricci dei bianchi, avrebbero meritato il Paradiso celeste come ricompensa. Si predicava il Gesù crocifisso alla senzala (la dimora degli schiavi contrapposta alla casa-grande del padrone, ndt), affinché si rassegnasse ad atroci sofferenze, e il Sacro Cuore di Gesù alla casa-grande, perché mettesse i propri beni a disposizione delle opere della Chiesa.

IL FLAUTO E L’OSTIA CONSACRATA

All’inizio del XX secolo, un prete destinato a catechizzare un villaggio della regione dello Xingu rimase indignato nel constatare che il rituale religioso era centrato su un flauto suonato dallo sciamano, la cui musica stabiliva la connessione con il Trascendente. A donne e bambini, chiusi nelle capanne, era proibito assistere alla cerimonia.

Scortato da soldati, il missionario portò il flauto al centro del villaggio, fece venire donne e bambini e, dinanzi a tutti, spezzò lo strumento musicale, denunciandone la natura idolatrica, e predicò la presenza di Gesù nell’ostia consacrata.

Ebbene, cosa impedisce a un gruppo di indigeni di entrare nella chiesa della Candelária, aprire il tabernacolo, strappare le ostie consacrate e gettarle nella spazzatura? Appena la mancanza di una scorta sufficientemente armata.

FEDE E POLITICA

Noi occidentali abbiamo desacralizzato il mondo o, come dice Max Weber, lo abbiamo disincantato. Fino al punto di decretare “la morte di Dio”. Se abbracciamo paradigmi così profondamente cartesiani, fortunatamente in crisi, ciò non costituisce un motivo per “spezzare il flauto” dei popoli che prendono sul serio le loro radici religiose.

Oggi, sbaglia l’Oriente per il fatto di ignorare la conquista moderna della laicità della politica e della reciproca autonomia tra religione e Stato. E sbaglia l’Occidente per il fatto di “sacralizzare” l’economia capitalista, divinizzare la “mano invisibile” del mercato e disprezzare le tradizioni religiose, pretendendo di confinarle nei templi e nella vita privata.

Gli orientali commettono un errore a confessionalizzare la politica, come se le persone si dividessero tra credenti e non credenti (oppure tra adepti alla mia fede e tutti gli altri). La linea divisoria della popolazione mondiale sta nell’ingiustizia che segrega 4 su 7 miliardi di abitanti.

A loro volta, gli occidentali commettono un grave errore nel pretendere di imporre a tutti i popoli, con la forza e con il denaro, il proprio paradigma di civiltà fondato sull’accumulazione della ricchezza, sul consumismo e sulla proprietà privata al di sopra dei diritti umani.

UN CRISTIANESIMO A IMMAGINE E SOMIGLIANZA DEL CAPITALISMO

Molti dei presenti in questa sala dell’Accademia Brasiliana delle Lettere sono figli e figlie del XX secolo e sono nati in famiglie cattoliche. Siamo stati battezzati e cresimati, abbiamo fatto la prima comunione, abbiamo imparato a pregare e abbiamo appreso la devozione ai santi e alle sante.

Questo cristianesimo si sposava perfettamente con la morale borghese che separava il personale dal sociale, il privato dal pubblico. Era peccato masturbarsi, ma non pagare un salario ingiusto a una lavoratrice domestica confinata in una stanzetta irrespirabile, sprovvista di tutele e obbligata a svolgere molteplici compiti. Era peccato saltare la messa la domenica, ma non impedire a un bambino nero di frequentare il collegio religioso dei bianchi. Era peccato fare cattivi pensieri, ma non pagare, in una notte, per una bottiglia di vino, quanto il cameriere che portava i bicchieri guadagnava in tre mesi di lavoro.

Come evidenziato da Max Weber, il cristianesimo ha dotato di spirito il capitalismo. Bisogna aver fede nella mano invisibile del mercato, così come si crede in un Dio che non si vede. Bisogna essere convinti che tutto dipende dai meriti personali e che la povertà deriva da peccati capitali come la pigrizia e la lussuria. Bisogna tener presente che molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti a godere, già sulla Terra, le gioie che il Signore promette nelle dimore celesti…

Non fu il cristianesimo a convertire l’Impero Romano, all’epoca di Costantino. Furono i romani a convertire la Chiesa in potenza imperiale. Allo stesso modo, non fu il cristianesimo a evangelizzare l’Occidente, ma fu il capitalismo occidentale a impregnarlo del suo spirito usuraio, individualista, competitivo. E cosa ci presenta la storia come risultato?

Tutte le nazioni schiavocratiche della modernità erano cristiane. Erano cristiane le nazioni che promossero il genocidio indigeno in America Latina. È cristiano il Paese che ha commesso il più grave attentato terroristico di tutta la storia, calcinando migliaia di persone con le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Erano cristiani i governi che hanno scatenato le due grandi guerre del XX secolo. Ostentavano la qualifica di cristiane le dittature che, il secolo scorso, hanno proliferato in America Latina, patrocinate dalla CIA. Sono cristiani i Paesi che più devastano l’ambiente. Così come sono cristiani quelli che più producono pornografia e alimentano il narcotraffico. Sono cristiane molte nazioni, tra cui il Brasile, in cui la disuguaglianza sociale è clamorosa.

Di che diavolo di cristianesimo stiamo parlando? Certamente non di quello chiamato a riflettere la prassi e i valori testimoniati da Cristo.

GESÙ È VENUTO A FONDARE UNA RELIGIONE?

Siamo stati educati nell’idea che Gesù venne a fondare una religione o una Chiesa. Ma ciò non coincide con quanto dicono i vangeli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni, le principali fonti sulla persona di Gesù.

In tutti e quattro i vangeli la parola Chiesa appare solo due volte, e solo in Matteo. E i vangeli stanno a indicare come Gesù fosse un severo critico della religione dominante nella Palestina del suo tempo, basti leggere il capitolo 23 di Matteo.

Già l’espressione “Regno di Dio” (o “Regno dei cieli”, in Matteo) appare più di cento volte in bocca a Gesù. Il teologo Alfred Loisy diceva che Gesù aveva predicato il Regno, ma che ciò che si era avuto era stata la Chiesa…

Gesù visse, morì e resuscitò sotto il regno di Cesare, un titolo concesso ai primi 11 imperatori romani. A partire dall’anno 63 prima della nostra era, la Palestina si trovava sotto il dominio dell’Impero Romano. Era una provincia fortemente controllata da Roma, politicamente, economicamente e militarmente. Tutta l’azione di Gesù si svolse sotto il regno dell’imperatore Tiberio Claudio Nerone Cesare, al potere dall’anno 14 all’anno 37. La Palestina nella quale visse Gesù era governata da autorità nominate da Tiberio, come il governatore Ponzio Pilato (il quale, curiosamente, è stato immortalato nel Credo cristiano) e la famiglia del re Erode. La società era diretta da un potere centrale che si manteneva con le imposte riscosse dal popolo, dalle comunità rurali e dalle città.

Pertanto, parlare di un altro regno, quello di Dio, all’interno del regno di Cesare aveva l’effetto che avrebbe oggi parlare di democrazia in tempi di dittatura. E questo spiega la ragione per cui tutti noi cristiani siamo discepoli di un prigioniero politico. Gesù non è morto di epatite nel suo letto, né in un disastro di cammelli lungo una strada di Gerusalemme. Come tanti perseguitati dai governi autoritari, arrestati, torturati e uccisi, egli pure è stato arrestato, torturato, giudicato da due poteri politici e condannato a morte sulla croce. La domanda da porre è questa: che tipo di fede hanno, oggi, i cristiani, se neppure reagiscono a questo disordine stabilito in cui, secondo l’Oxfam, 62 famiglie possiedono una fortuna pari al reddito di 3,6 miliardi di persone, metà dell’umanità?

Al contrario di ciò che molti pensano, per Gesù il Regno di Dio non era solo qualcosa là in alto, nel Cielo. Era, soprattutto, qualcosa da conquistare in questa vita e su questa Terra. «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10, 10). Ed egli fu l’uomo nuovo per eccellenza, il prototipo di ciò che dovranno essere tutti gli uomini e tutte le donne del “Regno” futuro, la civiltà dell’amore, della giustizia e della solidarietà.

Le basi di questo progetto di civiltà e dei suoi valori si trovano rispecchiate nella prassi e nelle parole di Gesù. Se operiamo come lui, questo nuovo mondo dovrà diventare realtà. È questa l’essenza della promessa di Gesù.

LA CENTRALITÀ DELL’UMANO

Si può non avere una fede cristiana e persino provare avversione per la Chiesa. Ma a imboccare il sentiero di Gesù è qualunque persona affamata di giustizia, libera da qualsivoglia pregiudizio nei confronti degli esseri umani, capace di condividere i propri beni con chi ne ha bisogno, di preservare l’ambiente, di avere compassione e saper perdonare, di essere solidale con le cause che difendono i diritti dei poveri.

Gesù non è venuto ad aprirci la porta del cielo. È venuto a riscattare l’opera originaria di Dio, che ci ha creati perché vivessimo in un paradiso, come indica il libro della Genesi. Se il paradiso non si è realizzato, è perché abbiamo abusato della nostra libertà anelando a trasformare in proprietà privata ciò che, di diritto, è di tutti.

Gesù non è venuto come un extraterrestre per portarci un catalogo di verità estranee al nostro mondo. È venuto a ri-velare, disvelare, togliere il velo, cioè a farci vedere ciò che è già parte del nostro procedere, del nostro quotidiano, ma del cui valore trascendente non avevamo idea.

È venuto ad avvisarci: il mondo che Dio vuole ha questo profilo, queste caratteristiche! Un mondo in cui non ci siano esclusi, affamati, vittime di ingiustizia. Un mondo in cui la solidarietà regni sulla competitività e la riconciliazione sulla vendetta.

Questo progetto di Dio, annunciato da Gesù, ha il suo centro non in Dio, ma nell’essere umano, fatto a immagine e somiglianza di Dio. Solo nella relazione con il prossimo si può amare, servire e onorare Dio.

I missionari che colonizzarono l’America Latina bruciarono indigeni, come il capo indio Hatuey, a Cuba, colpevoli di rendere culto a un Dio diverso da quello dei cristiani. Ebbene, Gesù non predicò ai farisei e ai sadducei un altro Dio, differente da quello a cui rendevano culto gli ebrei nel Tempio di Gerusalemme. Predicò che, per l’essere umano, l’essere supremo è lo stesso essere umano. In Matteo 25, 31-46, Gesù si identifica con l’affamato, l’assetato, lo straniero, l’ignudo, l’infermo, il prigioniero. E chiarisce che è al servizio di Dio chi libera il prossimo da un mondo che produce tali forme di oppressione e di esclusione.

Pertanto, ciò che Gesù è venuto a portare tra noi non è stata una Chiesa o una nuova religione. È stato un nuovo progetto di civiltà, basato sull’amore per il prossimo e per la natura e sulla condivisione dei beni della Terra e dei frutti del lavoro umano. Una nuova civiltà in cui tutti siano inclusi: storpi, ciechi, lebbrosi, mendicanti e prostitute. E in cui la vita, il più grande dono di Dio, sia da tutti goduta in pienezza.

Come raggiungere tale progetto di civiltà? Gesù ha posto nitidamente l’accento sul fatto che a tale scopo è necessario rinunciare, come valori o obiettivi di vita, all’avere, al piacere e al potere, simbolizzati nell’episodio delle tentazioni nel deserto (Lc 4,1-13). E, al contrario di ciò che si presuppone, chi lo fa incontra ciò che ogni essere umano desidera di più, la felicità, o, nei termini del Vangelo, la beatitudine, esplicitata da Gesù in otto vie che imprimono un senso altruista alle nostre vite (Mt 5,3-12). Bisogna essere solidali con gli esclusi, come il buon samaritano; compassionevoli, come il padre del figliol prodigo; spogliati di tutto, come la vedova che dona al Tempio il denaro che le era necessario. Bisogna assicurare a tutti condizioni degne di vita, come nella condivisione dei pani e dei pesci. Bisogna denunciare coloro che mettono la legge al di sopra dei diritti umani e fanno della casa di Dio una spelonca di ladri. Bisogna trasformare la nostra carne e il nostro sangue in pane e vino affinché tutti, come fratelli e sorelle, intorno alla stessa mensa, condividano il miracolo della vita uniti da un solo Spirito.

Ebbene, se siamo d’accordo sul fondamento di tutta la predicazione di Gesù – il fatto che l’essere supremo è lo stesso essere umano – allora non resta che chiederci perché tanti esseri umani, in questo mondo globocolonizzato in cui viviamo, siano condannati da strutture ingiuste alla miseria, all’esclusione, alla migrazione forzata, alla morte precoce e, insomma, a una vita di sofferenza e di oppressione.

E che abbiano o meno fede in Dio, tutti coloro che si impegnano a combattere le cause dell’ingiustizia compiono la volontà di Dio secondo la parola di Gesù. E credono che questo “regno di Cesare” debba essere abolito per far spazio a un altro regno, le cui strutture assicureranno a tutti una vita in pienezza. E in questo si riassume il progetto di Dio per la storia umana e l’utopia annunciata da Gesù.

frei Betto: vivere la speranza come atteggiamento critico

In forza della speranza

frei Betto

                     

In forza della speranza (Frei Betto)
fa sempre bene e riempie il cuore di speranza rinnovata rileggere (anche se un po’ datate) pagine come queste di frei Betto, da noi sconosciuto ma notissimo invece nell’America latina che nei decenni passati ha vissuto la ‘fatica spirituale’ – nel contesto della ‘teologia della liberazione’ – di coniugare la propria fede cristiana coll’impegno liberante in regimi politici di violenza strutturale: anche la virtù della speranza ha vissuto questo approfondimento e riscatto verso ogni possibile ‘spiritualizzazione’ e idealizzante onirica fuga dalla realtà:
“con il progredire della modernità e nella misura in cui l’essere umano si è sentito padrone della tecnica e della scienza, si è imposta l’idea che si possa non solo migliorare la convivenza sociale, ma anche prefigurare un modello ideale di vita verso cui tendere”
“un’utopia che si radica nelle promesse di Dio non teme le negatività, le ombre e i fallimenti. Sa di essere una speranza “crocifissa”, ma non sconfitta, perché aperta alla prospettiva della risurrezione” :
 

Un cristiano vive questa virtù come atteggiamento critico. Nessuna realizzazione umana lo può soddisfare pienamente e tenderà sempre verso qualcosa d’altro, da conquistare e da ricevere in dono.

  

La speranza, una delle tre virtù teologali, ha molto in comune con la fede. In brasiliano le due parole fanno rima (esperança = confiança); in altre lingue hanno stretti legami di parentela. Si spera ciò in cui si crede e si crede in ciò che si spera.

Per Gesù, la speranza è un atteggiamento virtuoso da giocarsi “qui” e “ora”, nel contesto del Regno di Dio che avanza come anticipazione della pienezza della storia, non in un “altrove” e “domani”, come vorrebbero coloro che negano o rifiutano la realtà di questo mondo.

Oggi l’espressione “Regno di Dio” ha una connotazione vaga, quasi metaforica. Ben diversa l’eco che queste parole dovettero avere al tempo dell’impero romano. Annunciare un regno che non fosse di Cesare aveva gravi ricadute anche politiche. Per questo Gesù fu messo a morte.

Oggi “speranza” ha una connotazione molto laica, al punto da preferirle la parola “utopia”. Con la desacralizzazione del mondo e la morte degli dèi (frutti del Rinascimento), si è fatta impellente la necessità di ipotizzare un mondo futuro. Con il progredire della modernità e nella misura in cui l’essere umano si è sentito padrone della tecnica e della scienza, si è imposta l’idea che si possa non solo migliorare la convivenza sociale, ma anche prefigurare un modello ideale di vita verso cui tendere. L’uomo moderno si concepisce come uno scultore che, davanti a un pezzo di marmo grezzo, ha già in mente il capolavoro che vuole creare e ha fiducia di poterlo realizzare. Nella sua opera monumentale, Il principio speranza, il filosofo marxista Ernest Bloch scrive che «la speranza è sostegno indispensabile della ragione umana».

Il marxismo è stata la prima grande religione laica in grado di tradurre la speranza in un ideale sociale. Grazie a questa visione del mondo, è entrata nella cultura occidentale la percezione del tempo come processo storico: l’uomo prefigura la propria esistenza come un divenire e una continua lotta contro ogni ostacolo che impedisce la realizzazione di ciò che spera di realizzare.

Per il cristiano, la speranza del Regno supera ogni altra utopia laica (sia essa politica, tecnologica o scientifica). Tale speranza porta il credente a credere che le promesse di Dio si realizzeranno in questo mondo (hic et nunc), fino a trasfigurare radicalmente tutta la realtà. Forte di queste promesse, magnificamente espresse nella Sacra Scrittura, il cristiano mantiene una costante posizione critica nei confronti di ogni loro parziale attuazione: non esiste un modello di sviluppo umano che lo possa accontentare del tutto.

La nuova persona e il nuovo modello di mondo “sperati” dal cristiano sono, al contempo, frutto dello sforzo umano e dono di Dio: sforzo che non termina mai e dono che non cessa di sorprendere. Esiste sempre un domani migliore dell’oggi. Chi spera in Cristo non assolutizzerà mai una data situazione acquisita o un modello da conseguire: ogni progresso fatto è relativo e, quindi, suscettibile di ulteriore perfezionamento. Il divenire (questo svolgersi della salvezza che Dio dona e che l’uomo realizza dentro la Storia) avrà fine soltanto quando l’universo tornerà nelle mani del suo Creatore.

La speranza ha bisogno della memoria. Chi spera, ricorda e commemora. Yahvé non è uno dei tanti dèi dell’Olimpo. È un Dio che ha una storia e che ricorda: egli è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Anche noi, che speriamo nella realizzazione del Regno, ricordiamo le grandi opere da lui compiute. Questa memoria alimenta la coscienza critica, cioè la consapevolezza della disparità tra l’oggi raggiunto e il domani da ricevere in dono e da costruire, della inadeguatezza del “già” e dell’infinitezza del “non ancora”.

Un’utopia che si radica nelle promesse di Dio non teme le negatività, le ombre e i fallimenti. Sa di essere una speranza “crocifissa”, ma non sconfitta, perché aperta alla prospettiva della risurrezione. Dice bene san Paolo: «Nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» (Romani 8,24-25). Anche la Lettera agli Ebrei ci ricorda che «la fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede» (11,1). Charles Péguy, scrittore, poeta e politico francese, scriveva: «La Fede vede ciò che è. / Nel Tempo e nell’Eternità. / La Speranza vede ciò che sarà. / Nel Tempo e per l’Eternità».

Sperare è camminare nella fede verso ciò che si spera e si crede. La fede ci dà la certezza che Gesù ha vinto la morte e la speranza ci dona la forza di superare ogni segno di morte (ingiustizie, oppressioni, preconcetti…). Il nostro cammino è punteggiato di dubbi e di sofferenze, di conquiste e di gioie. È vero che siamo prigionieri della finitezza. Ma fede e speranza riempiono il nostro cuore di infinito. E se camminiamo lungo i sentieri dell’amore, sappiamo di avere Dio come guida.

Frei Betto

(da Nigrizia, maggio 2009)

il ‘credo’ di frei Betto

calle viola

UN NUOVO CREDO
di Frei Betto

Credo nel Dio liberato dal Vaticano e da tutte le religioni esistenti e che esisteranno. Il Dio che è antecedente a tutti i battesimi, preesistente ai sacramenti e che va oltre tutte le dottrine religiose. Libero dai teologi, si dirama gratuitamente nel cuore di tutti, credenti e atei, buoni e cattivi, di quelli che si credono salvati e di quelli che si credono figli della perdizione, e anche di quelli che sono indifferenti al mistero di ciò che sarà dopo la morte.
Credo nel Dio che non ha religione, creatore dell’universo, donatore della vita e della fede, presente in pienezza nella natura e nell’essere umano. Dio orefice di ogni piccolo anello delle particelle elementari, dalla raffinata architettura del cervello umano fino al sofisticato tessuto dei quark.
Credo nel Dio che si fa sacramento in tutto ciò che cerca, attrae, collega e unisce: l’amore. Tutto l’amore è Dio e Dio è il reale. E trattandosi di Dio, non si tratta dell’assetato che cerca l’acqua ma dell’acqua che cerca l’assetato.
Credo nel Dio che si fa rifrazione nella storia umana e riscatta tutte le vittime di tutti i poteri capaci di far soffrire gli altri. Credo nella teofania permanente e nello specchio dell’anima che mi fa vedere gli altri diversi dal mio io. Credo nel Dio, che come il calore del sole, sento sulla pelle, anche se non riesco a contemplare la stella che mi riscalda.
Credo nel Dio della fede di Gesù, Dio che si fa bambino nel ventre vuoto della mendicante e si accosta nell’amaca per riposarsi dalle fatiche del mondo. Il Dio dell’arca di Noe, dei cavalli di fuoco di Elia, della balena di Giona. Il Dio che sorpassa la nostra fede, dissente dei nostri giudizi e ride delle nostre pretese; che si infastidisce dei nostri sermoni moralisti e si diverte quando il nostro impeto ci fa proferire blasfemie.
Credo nel Dio che, nella mia infanzia, piantò una acacia in ogni stella e, nella mia giovinezza, si mise in ombra quando mi vide baciare la mia prima innamorata. Dio festeggiatore e bisboccione, lui che creò la luna per adornare la notte della delizia e l’aurora per incorniciare la sinfonia del volo degli uccelli all’albeggiare.
Credo nel Dio dei maniaci-depressi, dell’ossessione psicotica, della schizofrenia allucinata. Il Dio dell’arte che denuda il reale e fa risplendere la bellezza pregna di densità spirituale. Dio ballerino che, sulla punta dei piedi, entra in silenzio sul palcoscenico del cuore e, cominciata la musica, ci afferra fino alla sazietà.
Credo nel Dio dello stupore di Maria, del camminare laborioso delle formiche e dello sbadiglio siderale dei fiorellini neri. Dio spogliato, montato su un asino, senza una pietra dove appoggiare il capo, atterrato dalla sua stessa debolezza.
Credo nel Dio che si nasconde nel rovescio nella ragione atea, che osserva l’impegno dei scienziati per decifrare il suo gioco, che si incanta con la liturgia amorosa dei corpi che giocano per ubriacare lo spirito.
Credo nel Dio intangibile all’odio più crudele, alle diatribe esplosive, al cuore disgustoso di quelli che si alimentano con la morte altrui. Dio, misericordioso, si fa quatto fino alla nostra piccolezza, supplica un soave messaggio e chiede una ninna nanna, esausto davanti alla profusione delle idiozie umane.
Credo, soprattutto, che Dio crede in me, in ognuno di noi, in tutti gli esseri generati per il mistero abissale di tre persone unite per amore e la cui sufficienza traboccò in questa creazione sostenuta, in tutto il suo splendore, dal filo fragile del nostro atto di fede.

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