frei Betto commemora François Houtart e Miguel d’Escoto
al servizio degli oppressi
da: Adista Documenti n° 26 del 15/07/2017
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in memoria di François Houtart e di Miguel D’Escoto,
figure chiave della Chiesa della liberazione
da: Adista Documenti n° 26 del 15/07/2017
Una dolorosa perdita per il mondo, per l’America Latina, per la Chiesa della liberazione, la scomparsa, ad appena due giorni di distanza l’uno dall’altro, il 6 e l’8 giugno scorso, del sacerdote e sociologo belga François Houtart, fondatore del Centro Tricontinental dell’Università Cattolica di Lovanio e della rivista Alternatives Sud, e Miguel D’Escoto, sacerdote ed ex ministro degli Esteri del governo sandinista. A rendere loro omaggio, facendo memoria della loro vita e della loro instancabile militanza, è il domenicano Frei Betto, che, in un commento pubblicato sul sito Gente de Opinião (12/6) e su altri altri organi di informazione, ripercorre i momenti più significativi del suo rapporto con le due grandi figure della Chiesa della liberazione. Così, Frei Betto ricorda come Houtart avesse abbandonato l’Europa «per vivere in America Latina e dedicarsi ai movimenti sociali dei Paesi del nostro continente, dell’Africa e dell’Asia», diventando uno dei più prestigiosi intellettuali del movimento altermondialista, grazie soprattutto alle sue lucide critiche nei confronti del modello di sviluppo dominante e alle sue puntuali riflessioni sulla necessità (al di là della pur importante adozione di misure dirette a risolvere problemi immediati) di avviare seriamente una transizione verso un nuovo paradigma centrato sulla realizzazione del Bene Comune dell’Umanità. Con conseguente distinzione, da parte del sociologo belga, tra misure tali da configurare veri «passi avanti verso un nuovo paradigma» e quelle tradotte appena in «un adattamento del sistema esistente a nuove esigenze ecologiche e sociali», particolarmente evidenti, queste ultime, nei Paesi latinoamericani governati da forze più o meno progressiste, convinte, a suo giudizio, «che non si possano sviluppare le forze produttive senza passare per la logica del mercato capitalista» (v. Adista Documenti n. 16/12).
Fedele al governo sandinista (malgrado le pesanti contraddizioni dell’amministrazione Ortega), come pure fedele alla Chiesa cattolica (malgrado la sospensione a divinis subita nel 1984 per il suo rifiuto a rinunciare all’incarico di ministro degli Esteri all’epoca della rivoluzione) è rimasto fino alla fine Miguel D’Escoto, il quale, nel 2014, si era visto accogliere da papa Francesco la sua richiesta di venire reintegrato nel sacerdozio ministeriale (v. Adista Notizie n. 30/14): auspicato lieto fine di una vicenda culminata con la sospensione a divinis decisa dal Vaticano nei confronti di d’Escoto e di altri due “ribelli”, i fratelli Fernando (scomparso il 20 febbraio del 2016, v. Adista Notizie n. 9/16) ed Ernesto Cardenal, rispettivamente ministri della Cultura e dell’Educazione del governo sandinista, tutti e tre convinti sostenitori della necessità di prestare tale servizio al loro Paese, a fronte di una tragica carenza di quadri intellettuali in conseguenza dell’analfabetismo endemico in cui il Nicaragua era precipitato sotto la sanguinosa dittatura di Somoza. Da allora, le strade dei tre sacerdoti-ministri si sarebbero poi divise: dopo la sconfitta della rivoluzione e la crisi del sandinismo, solo d’Escoto era rimasto nel Fronte sandinista, ricoprendo anche, con coraggio e fermezza, la presidenza dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, dal 2008 al 2009 (durante la quale aveva anche reso possibile, tra molte altre cose, l’approvazione unanime, da parte dell’Assemblea Generale, della risoluzione relativa alla Giornata Internazionale della Madre Terra, da celebrarsi il 22 aprile di ogni anno; v. Adista n. 56/09). I due fratelli Cardenal avevano invece abbandonato il Fronte in polemica con la gestione autoritaria del partito da parte di Daniel Ortega e uno di loro, Fernando, era stato riammesso, già nel 1996, dopo un anno di noviziato, nella Compagnia di Gesù, da cui era stato espulso nel 1984 dietro pressione della Santa Sede.
di seguito, in una traduzione dal portoghese di Adista, ampi stralci dell’articolo di Frei Betto in memoria dei suoi due amici:
François Houtart
François Houtart si è spento il 6 giugno scorso, in Ecuador. Aveva 92 anni e l’entusiasmo rivoluzionario di un giovane di 20. Il nostro ultimo incontro è stato a marzo, quando ho tenuto una serie di conferenze a Quito su invito del presidente Rafael Correa. François mi ha accompagnato tutto il tempo. Insieme siamo andati a Pucahuaico, dove è sepolto il corpo di mons. Leônidas Proaño, il vescovo degli indios identificato con la Teologia della Liberazione. La cappella, ai piedi del vulcano Imbabura, era piena di indigeni e di gente del popolo. Houtart aveva presieduto la celebrazione eucaristica.
(…). Ero stato alunno di François a Lovanio, in Belgio, dove per anni insegnò Sociologia e Scienze della Religione ad alunni provenienti dalla periferia del mondo, tra cui il colombiano Camilo Torres e il brasiliano Pedro Ribeiro de Oliveira, il quale racconta: «Nel 1975, tornai in Belgio per iniziare il dottorato. Durante la prima riunione di lavoro, Houtart, il mio relatore, smontò tutto quello che avevo preparato per la tesi sul cattolicesimo popolare. Disse che era insufficiente, perché non offriva una spiegazione sociologica. Per accrescere i miei timori, aggiunse: “Come saprai, solo la teoria marxista è realmente esplicativa. Le altre sono appena descrittive”. Uscii da lì stordito, senza riuscire a capire come un prete che era stato perito al Concilio e aveva persino collaborato alla stesura della Gaudium et Spes, fosse diventato marxista senza lasciare la Chiesa. A poco a poco compresi: opponendosi attivamente alla guerra degli Stati Uniti contro il Vietnam, aveva scoperto, nella teoria della lotta di classe, uno strumento teorico in grado di chiarire cosa vi fosse in gioco in quella guerra, nei movimenti anticolonialisti dell’Africa e dell’Asia e nelle dittature latinoamericane. La cosa migliore è che mi convinse una volta per tutte. L’ultima occasione in cui partecipammo insieme a un congresso di Sociologia della Religione, eravamo gli unici sociologi a usare lo strumentario marxista per spiegare fatti religiosi. Scherzai con lui, chiedendogli di aspettare ancora a lungo a lasciare questo mondo, per non lasciarmi solo a utilizzare Marx nell’analisi della religione…».
François era alto, aveva occhi molto chiari e sorrideva facilmente, anche nell’esprimere, al Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre, nel 2005, pertinenti critiche al governo brasiliano alla presenza dello stesso presidente Lula. Parlava pacatamente e argomentava in maniera didattica, avendo abbandonato l’Europa per vivere in America Latina e dedicarsi ai movimenti sociali dei Paesi del nostro continente, dell’Africa e dell’Asia. Nel 2016, aveva accompagnato il congresso nazionale del MST (Movimento dei Senza Terra), a Brasilia.
Partecipammo insieme a vari eventi in Brasile, a Cuba, in Nicaragua e in Bolivia. Mi chiedevo sempre come un uomo di più di 80 anni trovasse la forza di viaggiare per il mondo, spesso trascinando una pesante valigia con i suoi libri, senza mai lamentarsi di dormire in una tenda indigena nelle Ande, in un insediamento del MST in Brasile o in una capanna di coltivatori di riso in Vietnam.
Nei suoi anni di studio a Roma, François ebbe come collega un giovane chiamato Karol Wojtyla. Mi raccontò che il seminarista polacco aveva un’ossessione per l’apprendimento delle lingue. Approfittava delle ferie per recarsi in regioni europee in cui potesse imparare una nuova lingua. In un’occasione, accompagnò Houtart in Belgio, allo scopo di migliorare il suo francese e di conoscere il fiammingo.
Una notte, Wojtyla tornò a casa sotto una forte pioggia. Le sue scarpe si erano rovinate con l’acqua. François incontrò um seminarista belga che, portando lo stesso numero del polacco, poté cedergli un nuovo paio di scarpe. Decenni dopo, ormai sacerdote, il donatore chiese di essere ricevuto da Giovanni Paolo II. La burocrazia vaticana spiegò che l’agenda era piena. Inviando una nota al papa con il ricordo di quelle scarpe, le porte del Vaticano si aprirono.
Nel 2016, Houtart mi aveva invitato in Ecuador per un seminario sull’enciclica socioambientale Laudato si’ di papa Francesco. Il risultato del lavoro di quei giorni è stata la pubblicazione del libro, scritto a quattro mani, Laudato si’. Cambiamento Climatico e Sistema Económico (Quito, Centro de Publicaciones, Pontifícia Universidad Católica del Ecuador, 2016).
Durante il viaggio intrapreso lo scorso marzo nella regione andina dell’Ecuador, François mi aveva raccontato della sua partecipazione, a 15 anni, alla resistenza contro l’occupazione nazista in Belgio. Insieme a un amico aveva deciso di fabbricare una bomba artigianale per far deragliare un treno di soldati di Hitler. L’operazione non ebbe successo e gli valse una tirata d’orecchi da parte della madre. Mi aveva anche detto che aveva più di dieci fratelli. Dieci anni fa, quando erano tutti vivi, si erano riuniti per celebrare i mille anni che raggiungevano le loro età tutte insieme.
Durante la visita di Giovanni Paolo II a Cuba, nel gennaio del 1998, Fidel aveva invitato Houtart come assistente, insieme a Pedro Ribeiro de Oliveira, al teologo italiano Giulio Girardi e a me. Furono giorni di intenso lavoro comunitario.
Formazione operaia
Nel 2016, François mi aveva offerto un interessante racconto sulla sua formazione, che riporto qui di seguito:
«Negli anni di seminario a Malines (Belgio), partecipai, durante le vacanze, a numerose riunioni della JOC (Gioventù Operaia Cattolica) in Vallonia e a Bruxelles. Fu allora che scoprii la situazione della classe operaia dell’epoca (1944-1949). Nel dopoguerra, lo sforzo di ricostruzione dell’Europa era accompagnato da un forte sfruttamento del lavoro e le condizioni sociali dei giovani erano particolarmente scandalose. I congressi regionali e nazionali della JOC permettevano di informarsi sul quadro più generale della situazione economica e sociale. Inoltre, ebbi la possibilità di visitare diverse fabbriche e miniere di carbone. La JOC belga mi mise in contatto con il movimento in Francia, nei Paesi Bassi, in Inghilterra, in Germania, in Spagna e a poco a poco la dimensione internazionale si trasformò anch’essa in una parte importante del mio ingresso nel mondo del lavoro. In numerose occasioni, conversai con mons. Cardijn (fondatore della JOC) e rimasi molto impressionato dalla sua combattività, dalla sua insistenza sull’incompatibilità tra l’ingiustizia sociale e la fede cristiana e dalla sua conoscenza della vita dei giovani lavoratori. Scoprii anche il metodo pedagogico, quello di non partire dall’alto imponendo un sapere, ma dal basso, scoprendo la realtà: vedere, giudicare, agire.
Questa esperienza mi indusse, dopo l’ordinazione sacerdotale, a chiedere di intraprendere gli studi di Scienze Sociali e Politiche all’Università Cattolica di Lovanio. Vi passai tre anni, restando in permanente contatto con la JOC e viaggiando per l’Europa per gli incontri del movimento. Dedicai la mia tesi di laurea allo studio delle strutture pastorali di Bruxelles, avendo scoperto, da una parte, la loro assenza in ambienti operai e, dall’altra, l’identificazione della cultura religiosa cristiana con la cultura borghese, con conseguente divorzio dalla classe operaia e, particolarmente, dai giovani. (…). Dopo aver ottenuto una borsa di studio per l’Università di Chicago (1952-1953), al fine di continuare a studiare la Sociologia Urbana e la Sociologia della Religione, risiedetti in una parrocchia in cui lavorava il cappellano della JOC della città. Fu anche l’occasione per partecipare a numerosi incontri della JOC degli Stati Uniti. Durante le vacanze di Pasqua del 1953, andai all’Avana per assistere a un Congresso della JOC dell’America Centrale e dei Caraibi, alla presenza di Cardijn, tenendo riunioni con sezioni locali e incontrando il cappellano nazionale di Cuba.
È così che mi affacciai alla problematica latinoamericana, che desideravo conoscere da tempo. (…). Tenni lezioni per un semestre all’Università di Montreal e partecipai anche ad attività del movimento. Da lì mi trasferii di nuovo in America Latina e per 6 mesi percorsi quasi tutti i Paesi, dal Messico all’Argentina, sempre con la JOC, grazie ai contatti stabiliti durante i congressi internazionali. Fu una grande scuola la scoperta del continente dal basso. Una volta ancora, mi trovai di fronte all’abisso tra ricchi e poveri e al terribile sfruttamento dei giovani in ambito urbano e rurale. Rimasi colpito dal ruolo dei sacerdoti, impegnati nel rinnovamento di una Chiesa tanto distante dal popolo e tanto vicina alle élite e alle oligarchie sociali. Erano attivi in tutti i campi: sociale, liturgico, pastorale, biblico. Gran parte di questi sacerdoti apparteneva agli ordini religiosi e molti di loro avevano studiato in Europa. È stato questo contatto con l’America Latina a farmi intraprendere, nel 1958, uno studio socio-religioso sull’insieme del continente, con gruppi in ogni Paese e spesso con membri della JOC. Terminato nel 1962, fu pubblicato in quaranta volumi, finché il Consiglio Episcopale Latinoamericano non mi chiese di prepararne una sintesi in tre lingue da distribuire, all’inizio del Concilio Vaticano II, all’insieme dei vescovi e di accompagnarli come peritus durante nei 4 anni di lavoro conciliare.
Il card. Cardijn mi aveva chiesto nel frattempo di diventare il cappellano internazionale del movimento, ma, benché la proposta mi interessasse evidentemente molto, il mio vescovo, il card. Van Roey, non era di questo avviso. In seguito (…), mi misi in contatto anche con la JOC in Sri Lanka, in India, in Vietnam, in Corea del Sud, nelle Filippine. (…). In Sudafrica, in pieno apartheid, partecipai per 3 giorni a una riunione nazionale con giovani lavoratori bianchi, neri e meticci, malgrado fosse proibito, in un convento dei Padri Oblati, in Bloemfontein. Dovunque, in America Latina, Asia e Africa, mi riunii negli anni successivi con antichi membri della JOC, nei sindacati, nelle Ong o nel seno di partiti politici progressisti e anche rivoluzionari, come in Nicaragua o in Bolivia. Gli insegnamenti tratti dalla JOC sono stati numerosi e fondamentali. In primo luogo, la conoscenza del mondo operaio, delle sue lotte, delle sue organizzazioni. Quindi il metodo del “vedere, giudicare, agire”, che offre una cornice per la riflessione assai efficace in termini di analisi della realtà e di azioni a essa conformi. Se ho studiato Sociologia e ho portato avanti costantemente il lavoro di ricerca, è stato proprio per affinare il “vedere” in società molto diverse e complesse. E ciò mi ha anche permesso di scoprire che era possibile leggere la società non solo dall’alto, ma anche dal basso e che l’opzione del Vangelo era quella di guardare al mondo con gli occhi dei poveri e degli oppressi. Non esiste una scienza neutrale, soprattutto nel quadro delle scienze umane. La pedagogia della JOC e il suo adattamento all’ambiente specifico di giovani lavoratori, spesso a malapena alfabetizzati, mi ha insegnato a utilizzare un linguaggio semplice, a strutturare correttamente il ragionamento perché venga compreso, in una parola a scendere dal piedistallo accademico e a imparare anche da coloro che sono portatori di un sapere pratico, spesso disprezzato dal sapere cosiddetto colto.
Infine, è ancora la JOC che mi ha portato ad approfondire la dimensione sociale del Vangelo, e a comprendere come il Signore ci chieda un amore efficace. Non si tratta unicamente di un atteggiamento personale: questo amore implica la costruzione di una società giusta e l’impegno a seguire l’esempio offerto da Gesù all’interno della sua società, in cui annunciò i valori del Regno di Dio, l’amore per il prossimo, la giustizia, l’uguaglianza, la misericordia, la pace, combattendo tutti i poteri oppressivi, economici, sociali, politici e anche religiosi. Non morì invano sulla croce» (Quito, 1 marzo 2016).
La vita oltre
Nidia Arrobo Rodas, che lavorava con François alla Fundación Pueblo Indio del Ecuador, ha raccontato i suoi ultimi momenti:
«Il nostro amato François se ne è andato così come è vissuto, con una serenità totale, integro, lucido, diafano, in piedi… Il giorno prima, dopo un Atto di denuncia presso lo IAEN (Instituto de Altos Estudios Nacionales) sul genocidio Tamil, avevamo cenato come d’abitudine con la zuppa che tanto gli piaceva – per lui era imprescindibile, la sera, mangiarla insieme nella nostra mini residenza – e, come d’abitudine, era andato a dormire… Chiaramente nella sua stanza aveva continuato a lavorare… Non sappiamo fino a che ora… Fino alle 23 abbiamo ancora ricevuto sue e-mail. Al mattino, si era alzato per fare la doccia ma le forze gli erano venute meno… Si era seduto sulla poltrona vicino al letto e, con la mano sul cuore, è rimasto a dormire il sonno più profondo della sua vita, placidamente, senza alcun rumore, nel più profondo silenzio… Un infarto… Alle sette e mezzo della mattina… si è risvegliato in Dio. Eravamo stati dal cardiologo, su mia richiesta, proprio ad aprile, perché sentivo che si agitava molto e che era come se gli mancasse l’aria… Il cardiologo gli aveva detto che doveva operarsi perché l’arteria del cuore era ostruita, e il bypass non rispondeva più come quattro anni prima, quando gli era stato applicato. Gli avevo detto: François, l’operazione è urgente. Aveva scelto di farla in Belgio su suggerimento dello stesso cardiologo… Ma, per quanto insistessi, aveva deciso di non andare subito: “Ho molti impegni, devo finire le lezioni a giugno e poi vado”. Gli avevo detto che sarebbe passato molto tempo. Ma egli era padrone assoluto della sua volontà e delle sue decisioni… Aveva deciso di completare ciò che era previsto e di partire a giugno per la sua operazione, che, diceva, era un’inezia. Aveva già i biglietti e le valigie pronte per viaggiare il 9 giugno prima a Bogotá, poi una settimana a Cuba, poi una settimana in Brasile e infine in Belgio. Io sapevo che aveva scelto di vivere con noi, che era felice, che ha vissuto felicemente… e penso che in fondo al cuore volesse terminare qui i suoi giorni.
(…). Abbiamo goduto della sua presenza gioviale, piena di amicizia, di finezza di spirito, di delicatezza, di attenzioni, ma al tempo stesso so che anche lui è stato felice con noi… Ce lo diceva sempre e questo mi riempie di gioia e di gratitudine. Lo sentiamo tra di noi, è vivo e resterà vivo e resuscitato nelle lotte di liberazione di tutti gli impoveriti del mondo e nei dolori di parto dei popoli indigeni e della nostra Pachamama. Come risulta dal suo testamento, lo abbiamo cremato… e al più presto le sue ceneri riposeranno insieme a quelle della madre in Belgio».
Miguel D’Escoto
Due giorni dopo la scomparsa di Houtart, ho perso un altro amico, anche lui prete e rivoluzionario, padre Miguel D’Escoto, morto a 84 anni. Ministro degli Affari Esteri del Nicaragua sandinista tra il 1979 e il 1990, ha presieduto l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite negli anni 2008-2009.
Figlio di un diplomatico, D’Escoto era nato a Los Angeles nel 1933. Era stato ordinato sacerdote nella congregazione di Maryknoll ed era stato uno dei fondatori della casa editrice newyorchese Orbis Books, che, nel 1977, aveva pubblicato negli Stati Uniti il mio libro Lettere dalla prigione, con il titolo Against Principalities and Powers.
Fu D’Escoto a ricevere me e Lula a Managua, in occasione del primo anniversario della Rivoluzione Sandinista, nel luglio del 1980. Ci condusse alla casa di Sérgio Ramirez, allora vice-presidente del Paese, la sera del 19 luglio, quando conoscemmo e conversammo lungamente con Fidel Castro.
Nel gennaio del 1980, venne a São Paulo, in compagnia di Daniel Ortega, presidente del Nicaragua, per partecipare al primo congresso mondiale della Teologia della Liberazione. Fu uno degli oratori della Notte Sandinista, nel teatro dell’Università Cattolica di São Paulo.
Il 29 novembre del 1981, a Managua, lo incontrai nuovamente a casa sua (…), insieme a Daniel Ortega, al segretario generale del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale René Nuñez, ai teologi Gustavo Gutiérrez, Pablo Richard, Fernando Cardenal, Uriel Molina e al ministro del Benessere Sociale, p. Edgard Parrales.
D’Escoto, che era appena tornato dal Messico, aveva descritto in maniera dettagliata le conversazioni sull’America Centrale che avevano intrattenuto il presidente López Portillo e il general Alexander Haig, segretario di Stato degli Stati Uniti. Tra le persone presenti a casa di D’Escoto era palpabile la soddisfazione per l’efficienza dello spionaggio sandinista all’interno del governo messicano.
Parlammo della congiuntura della Chiesa, della campagna internazionale contro la Rivoluzione e della Gioventù Sandinista, affidata alle cure di Fernando Cardenal. Mi preoccupava il carattere meccanicistico del marxismo divulgato tra i giovani sandinisti, una mera apologetica di vecchi manuali russi. Posi l’accento sull’importanza che i sacerdoti al potere – D’Escoto, Parrales e i fratelli Cardenal – esplicitassero pubblicamente la loro vita di fede. Temevo che riflettessero un’immagine più politica che cristiana.
Il 16 novembre del 1984, a Managua, tornai a casa di D’Escoto. Gli chiesi per quale motivo non fosse andato alla riunione dell’OEA (Organizzazione degli Stati Americani, ndt) a Brasilia. «Per non legittimare l’OEA – rispose – che continua a servire da strumento nelle mani degli Stati Uniti contro la sovranità dei popoli dell’America Centrale».
Celebrammo l’eucarestia sotto la veranda di vimini del suo cortile. Leggemmo e meditammo Matteo 4, 25 ss. D’Escoto si sfogò: «Ho il corpo e la mente stanchi, perché non riesco più a seguire il ritmo accelerato imposto dalle circostanze. Sogno di godermi la solitudine, di aver tempo per me, di non dover stare sempre attento al telefono. So però che nel frattempo è solo un sogno. Dalla mia intimità con Gesù traggo le forze che mi sostengono».
Alla fine della celebrazione, mi disse: «Ti chiedo due cose. Sto leggendo con molto piacere l’ultimo libro di dom Pedro Casaldáliga. Ho saputo che, fra poco, andrà in Spagna. Chiedigli di passare prima per il Nicaragua. E insisti con dom Paulo Evaristo Arns perché venga all’insediamento di Daniel, il prossimo 10 gennaio».
«Perché non telefoniamo ora a dom Paulo?», suggerii. Tentammo, ma il cardinale di São Paulo non era in casa.
Undici giorni dopo trasmisi personalmente il messaggio a dom Paulo Evaristo Arns. L’anno successivo, dom Pedro Casaldáliga visitò il Nicaragua.
Nel marzo del 1986, lo incontrai nuovamente all’Avana, in compagnia di Rosario Murillo (attuale vice-presidente del Nicaragua e moglie di Daniel Ortega) e di Manuel Piñeiro, capo del Dipartimento per l’America del Comitato Centrale del Partito Comunista di Cuba. Parlammo a lungo della situazione del Nicaragua e dell’appoggio esplicito che i vescovi Miguel Obando e Pablo Antonio Vega davano alla politica aggressiva di Reagan. D’Escoto era dell’opinione che i preti, i religiosi e i laici dovessero affrontare coraggiosamente l’arcivescovo di Managua, passando, se necessario, alla disobbedienza ecclesiastica. Questo gli valse, successivamente, la sospensione dall’esercizio sacerdotale da parte di Giovanni Paolo II, misura revocata da papa Francesco.
Nel gennaio del 1989, all’Avana, ci vedemmo alla commemorazione dei 30 anni della Rivoluzione Cubana. Si intrattenne in una lunga conversazione con Leonardo Boff sulla teologia della Trinità. «È la base della mia spiritualità», gli sentii dire. E si lamentò della situazione del suo Paese: «La cosa più dura per il popolo del Nicaragua non è l’aggressione americana, ma la mancanza di appoggio da parte della Chiesa».
Ci sono stati altri incontri, successivamente, come all’epoca in cui presiedeva l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, perdendo completamente la fiducia nell’efficacia di questa importante istituzione, manipolata dagli interessi della Casa Bianca.
La scomparsa di François Houtart e Miguel D’Escoto è una perdita per l’America Latina, per la causa dei poveri e per la Teologia della Liberazione. L’eredità che ci lasciano riguarda il modo in cui vivere la fede cristiana in un mondo diviso tra pochi miliardari e una moltitudine di miserabili e ciò che significa essere discepoli di Gesù in questo tormentato inizio del XXI secolo.