un po’ più di silenzio non guasterebbe

Enzo Bianchi:

“Gesù non ha mai parlato dei gay

la Chiesa taccia

sì alle unioni civili”

Enzo BianchiIl priore di Bose Enzo Bianchi sostiene le ragioni del riconoscimento delle unioni civili tra persone omosessuali ed anche la separazione tra coniugi che non vanno più d’accordo. Lo ha affermato nel corso di una assemblea pastorale diocesana tenutasi a Trento, secondo quanto riporta L’Adige. «La Chiesa non può avvallare il divorzio, ma se due persone non stanno bene assieme, e si avvelenano reciprocamente l’esistenza, è meglio che si separino. – scrive il quotidiano trentino – Diversamente, se due persone dello stesso sesso si vogliono bene e sono propense ad aiutarsi ed a sostenersi reciprocamente è giusto che lo Stato preveda una regolarizzazione del loro rapporto». Il priore della comunità monastica di Bose ha tenuto una lezione magistrale dedicata interamente al valore cristiano della misericordia, poi ha risposto alle domande dei presenti.

«Dobbiamo chiedere scusa – ha detto Bianchi – alle famiglie per la presunta superiorità mostrata dai religiosi nei tempi passati: la vita di coppia è molto difficile, e noi dobbiamo essere in grado di riconoscere il grande merito di chi sceglie di costruire un nucleo famigliare. Tuttavia, in una realtà in cui tutto è precario, dal lavoro alle relazioni, non possiamo aspettarci che l’amore o la famiglia non lo sia. Su questo, però, non possiamo permetterci in alcun modo di giudicare, né, tantomeno, di escludere» riporta ancora l’Adige.

Enzo Bianchi ha spiegato che «se Cristo nel Vangelo parla del matrimonio come unione indissolubile nulla dice in merito all’omosessualità. L’onestà, quindi, ci obbliga ad ammettere l’enigma, a lasciare il quesito senza una risposta. Su questo, io vorrei una Chiesa che, non potendo pronunciarsi, preferisca tacere. Che la Chiesa faccia il matrimonio per persone dello stesso sesso – ha concluso – è una cosa senza senso. Tuttavia, se lo Stato decide di regolarizzare una realtà affettiva, lasciamo fare, applicando la misericordia come vuole il Vangelo, non come la vogliamo noi».

si aprirà l’islam alla realtà dei gay?

imam e gay

“la mia rivoluzione nell’Islam”

intervista a Ludovic-Mohamed Zahed

di Luca Tancredi Barone

Omosessuale. Musulmano. Algerino emigrato in Francia. Imam. Sposato e divorziato. Un master in psicologia cognitiva. Due dottorati: antropologia religiosa (con una tesi non sorprendentemente centrata sull’Islam e l’omosessualità) e l’altro in psicologia sociale delle religioni. A Ludovic-Mohamed Zahed (nato Lotfi Mohamed), 38 anni, non manca davvero nessun elemento per cortocircuitare le sovrastrutture delle sue multiple identità.

Effeminato, lo hanno sempre preso in giro a scuola. Il fratello grande lo picchiava perché fosse “più uomo”. Durante la guerra civile si unisce alla comunità salafita e impara l’arabo e a leggere il Corano. Fu allora che decise di diventare imam, guida spirituale per gli altri fedeli, e di dedicarsi all’esegesi del Libro sacro. Ma capisce anche con dolore e violenti rifiuti che quello che sente per alcuni suoi fratelli salafiti non è solo amore spirituale. Si allontana anche dal salafismo, troppo ideologico per lui. Si avvicina per un breve periodo al buddismo. Tornato a Marsiglia, a 19 anni ingenuamente si innamora, senza saperlo, di un votante del Front National. Che, mentendogli, gli contagia il virus dell’Hiv. Fa un difficile coming out in famiglia, anche se oggi entrambi i genitori lo accettano e “hanno capito che l’omosessualità non è una scelta, una malattia, un peccato o una moda”, racconta.

Nel 2012 diventa famoso in tutto il mondo per aver fondato a Parigi la “Moschea inclusiva dell’unità”, la prima moschea gay-friendly in Europa: “un luogo di protezione e adorazione, con preghiere comuni praticate in un contesto egualitario e senza alcuna forma di discriminazione basata sul genere, e basata su una interpretazione progressista dell’Islam”, secondo la sua definizione.

Lei è un coacervo di stigmi. In quale delle identità si sente più a suo agio? Quale comunità la accetta di più?

Tutto è difficile. Ma è paradossale: è più facile quando sei discriminato su più fronti, perché sei più forte e sei capace di superare ogni stigma. Lo stigma può spazzarti via dalla faccia della terra o farti più forte. Dopo che hai affrontato la prima discriminazione, poi la seconda, la terza… cominci a capire cosa c’è alla base di ogni discriminazione. Il meccanismo è sempre lo stesso, solo la facciata cambia.

Come è diventato imam? Chi l’ha scelto?

Ho fondato la prima moschea inclusiva in Europa a Parigi, e avevo studiato teologia islamica 5 anni in Algeria. La mia comunità e l’organizzazione di omosessuali musulmani di cui ero parte mi hanno detto: abbiamo bisogno di un imam, e io ho detto: d’accordo, ma solo se studierete con me per diventare anche voi imam. Poi si sono aggiunte molte persone che volevano pregare con noi, anche etero che volevano sapere di che parlavamo. Perché, quando si parla di islam, si parla di cose che vogliamo applicare alla nostra vita. E quindi eravamo gay e transessuali che curiosamente eravamo la avanguardia del nuovo islam riformato in Francia. Oggi comunque non sono più l’imam principale. Io volevo solo istruire altre persone e dire loro: ora siete liberi di fare quello che pensate sia meglio per voi. Io ora mi concentro più sulla ricerca.

Si può smettere di essere imam?

Ci sono diversi tipi di imam. L’imam che guida le preghiere, l’imam che fa le fatwā – quindi ricerca, pubblicazioni, eccetera: un teologo – e infine l’imam che insegna ad altri imam nella madrasa. Prima guidavo più le preghiere, oggi faccio più ricerca e insegnamento.

La moschea dell’unità che ha fondato è realmente significativa nel mondo musulmano o è un’eccezione?

Mi piacerebbe dire che ogni moschea è un’eccezione perché come noto non esiste un clero nell’islam. C’è piena libertà, con tanti svantaggi: ciascuno può dire di essere un imam e che ucciderà tutti perché gliel’ha detto Dio. Ma allo stesso tempo, se invece vuoi riformare la visione dell’islam, è molto semplice. Basta avere una comunità alle spalle.

Sembra che la posizione dell’Islam sull’omosessualità sia abbastanza chiara: incompatibilità assoluta. Come riesce a far convivere le sue due identità?

Spesso si indicano Sodoma e Gomorra, nell’antica Mesopotamia. Secondo lo storico Erodoto, la gente di quelle città adorava una dea dell’amore e della guerra, che era una rappresentazione molto violenta della loro religione. Le offrivano la verginità e la sessualità dei loro figli e delle loro figlie per fertilizzare i campi. A quei tempi, i preti usavano già il loro potere per controllare le identità della gente. La vera gente di Sodoma e Gomorra non era omosessuale. Gli uomini, le donne e i bambini erano interessi da sacrificare.

C’è un verso importante nel Corano: Dio parla agli abitanti di Sodoma e Gomorra attraverso la bocca degli angeli. Non c’è alcuna referenza all’omosessualità nel Corano. Menziona soltanto lo stupro di uomini, donne e bambini nel nome di un’ideologia. Esattamente quello che fanno i leader musulmani fascisti e immorali oggi nel nome dell’islam. Sono loro i veri sodomiti, non gli omosessuali.

Nonostante le dichiarazioni di molti accademici musulmani, la posizione dell’islam sull’omosessualità è molto complicata. Benché molti musulmani credano che Allah abbia una netta preferenza a che i fedeli si impegnino in matrimoni eterosessuali date le lodi che ne fa, in realtà né Allah né il Profeta (che la pace discenda su di lui) hanno mai apertamente bandito le relazioni omosessuali per i musulmani, né Allah ha mai condannato identità sessuali alternative.

Alcuni accademici musulmani invece bandiscono del tutto l’omosessualità basandosi sulla loro interpretazione dei versi 4:15-16 del Corano [che condannano uomini e donne che hanno relazioni fuori dal matrimonio, ndr] e sulla loro lettura sbagliata della storia di Lot [che nella Bibbia scappa da Sodoma e Gomorra e la cui moglie si trasforma in statua di sale, ndr].

La posizione del Corano e dell’Hadíth [l’insieme dei racconti sulla vita di Maometto che costituisce la Sunna, parte integrante del diritto islamico assieme al Corano, ndr] sull’omosessualità è molto più complessa di quanto si immaginino molti musulmani. Tra i compagni del Profeta, c’erano i “mukhannathun”, gruppo di omosessuali travestiti, talvolta mal tradotti con la parola “eunuchi”, ermafroditi o uomini effeminati. Anche se è chiaro che molti dei compagni erano loro fortemente ostili, il Profeta ne protesse almeno uno da un linciamento. Non solo li tollerava, ma – secondo un verso del Corano – ne impiegò uno in casa. Dopo la morte del Profeta, molti mukhannathun ebbero un ruolo molto importante nella vita e nella cultura della città di Medina. I mukhannathun, che il Profeta si rifiutò di eliminare nonostante le pressioni dei suoi compagni, sopravvivono ancora oggi nei paesi musulmani.

Lei sostiene spesso che se oggi fosse vivo, Maometto sposerebbe le coppie gay. Come può esserne tanto certo?

Ne sono certo perché era una persona pragmatica che rispettava il benessere delle persone, secondo la tradizione. Cinque anni fa fondai l’organizzazione degli Omosessuali musulmani di Francia perché non volevo rifiutare né la mia omosessualità né il mio islam. Quando scoprii che potevo essere entrambe le cose, trovai pace. La Fratellanza salafita era molto importante in Algeria negli anni Novanta. Quando ero adolescente, ero molto affascinato dall’islam, e fu per questo che mi unii a loro nelle moschee, e diventai salafista. Allora era l’unico islam disponibile. È così che imparai l’arabo e a leggere il corano a memoria. Sfortunatamente tutta la filosofia di vita bellissima di rispetto contenuta nell’islam era macchiata da un’ideologia che era il contrario della spiritualità religiosa. Oggi rifiuto totalmente una rappresentazione fascista o politica della mia tradizione spirituale che so essere ispirata dalla pace.

Per lei l’islam sociologicamente non esiste. L’islam sono i suoi fedeli, come lei. Per cui dice che chiunque voglia escludere per esempio gay o donne si mette fuori dall’islam. Come possiamo essere sicuri che non sia lei a essere fuori dalla fede?

Sociologicamente, l’islam non è vivo e non parla. La nostra relazione con il divino è unica per ciascun essere umano, senza maestri fra Dio e ciascuno di noi. In arabo lo chiamiamo Tawhid: unicità di Dio che rispecchia l’unità umana, attraverso il pluralismo e la diversità. Questa è la mia rappresentazione dell’islam: “essere in pace”, come dicevo. La sfida maggiore di oggi nelle società arabo-musulmane è il fascismo, che è una minaccia comune a tutte le società che vivono una crisi economica e politica. Ma questo non ha nulla a che fare con l’islam o la cultura araba in sé. Alcuni vogliono imporre un’ideologia fascista attraverso l’islam. Purtroppo questo succede continuamente in molte culture e religioni. Loro cercano di mostrare una facciata di bontà e felicità, ma pensano solo a se stessi, sono concentrati sulle loro paure e fobie. E hanno bisogno di trovare capri espiatori, e di solito sono le minoranze religiose o etniche. Il vero problema è che la società islamica è perduta. Un giorno forse troveremo il modo di risolvere questo problema, Insh’Allah, con la volontà di Dio. Io sono sicuro che Dio rispetta la mia scelta perché per me l’islam aiuta ciascuno di noi nella sua ricerca della felicità, mentre il fascismo pretende solo di normalizzare e poi controllare le sessualità.

Da giovane lei fu un salafita. Oggi difende un islam spirituale invece di un islam dogmatico. Mi spiega che significa?

Essere salafista a 12 anni voleva solo dire imparare il Corano e tornare al “salaf”, la fonte dell’islam. Non voleva dire essere fascista. La differenza fra i due tipi di islam è la politica. Islam, come ho già detto, significa essere in pace. E non potrebbe mai essere usato per controllare la libertà delle persone. È basato sulla conoscenza di sé, degli altri e del rispetto proattivo della diversità. Di conseguenza, la conoscenza dell’islam, in particolare della rappresentazione che cercano di stabilire le “nuove teologie islamiche” può contribuire a combattere pacificamente l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia incoraggiando ciascun individuo a trovare in lui o lei l’interpretazione più giusta del messaggio divino rispetto alla nostra umanità. In questa conoscenza della teologia islamica della liberazione, e in particolare il contributo degli attivisti e degli intellettuali LGBT o delle femministe, può apportare alla materia un valore aggiunto alla coscienza umana. In una parola, il Tawhid islamico può permettere agli individui, che appartengano o no a una minoranza sessuale, di vivere meglio e accettarsi. L’islam è un fattore di emancipazione che incoraggia all’autodeterminazione, non un fattore d’oppressione. Quando apparve l’islam, fu una vera rivoluzione. Lo è ancora: musulmano è progressista e inclusivo.

Torniamo alla Francia. Come crede che stia gestendo la convivenza con il mondo musulmano? Crede che il modello laicista francese possa essere esportato?

Sono trent’anni che in Francia stiamo cercando un rinnovato equilibro stabile tra la laicità e il cosiddetto “islam francese”: non un islam importato, ma una rappresentazione del nostro background adattato alle nostre leggi e al nostro contesto culturale qui e ora. Abbiamo ancora questioni aperte come può immaginare.

Una cosa che viene in mente pensando alla Francia di oggi è anche l’attentato contro la rivista Charlie Hebdo. È possibile secondo lei ridere di un gay musulmano?

Credo proprio di sì. Anni fa avevamo una striscia comica regolare nella newsletter quadrimensile di HM2F. Può cercarle, si trovano ancora online.

Un paio di domande personali, se mi permette. Come spiega l’essersi innamorato in più di una occasione di votanti del Front National? Lo dico evidentemente con tutto il rispetto per le scelte emozionali di ciascuno.

Molto semplicemente perché come può immaginare nessuno di loro si presenta dicendo: “mi chiamo … e, a proposito, voto FN”.

E il suo coming out? Immagino non sia stato semplice.

Vengo da una famiglia, in Algeria, molto conservatrice. I miei genitori, musulmani, però sono in un certo senso più liberali. Sono loro ad avermi insegnato che l’islam è fatto più di spiritualità che di dogmi religiosi. Ma – lo racconto nella mia autobiografia – ero un bambino timido ed effemminato. Mio padre mi insultava spesso per questo. Mio nonno paterno era anche peggio: a volte era anche fisicamente aggressivo. Ecco perché decisi di fare il mio coming out a 21 anni. Fu proprio l’essere attaccato violentemente che mi ha spinto a prendere coraggio per fare questo passo. Sembra strano, ma so che anche ad altri succede di decidere di fare questo passo quando vengono attaccati fisicamente. Io ero attaccato e discriminato in casa perché gay; fuori casa dovevo sopportare anche l’islamofobia perché sono musulmano e arabo. Ho fatto coming out perché avevo la necessità di trovare il mio posto nella società. Poi, per fortuna, ho avuto la fortuna di poter lavorare, studiare e viaggiare. Oggi ho ritrovato un equilibrio interiore, precario come per tutti, e sono molto più forte, con una vita sociale più bilanciata.

(10 dicembre 2015)

 

questo è davvero mancato nel profetico e coraggioso viaggio in Africa

Uganda: gay inascoltati da Papa Francesco

la delusione della comunità gay dell’Uganda: nessuna risposta all’appello di Frank Mugisha

uno sguardo ‘altro’ sulla realtà del viaggio che merita di essere accolto e ascoltato
Presidente-Museveni_Papa-Francesco

la visita in Africa di Papa Francesco è stata caratterizzata da ‘spettacolarità’ quasi scontate per quanto riguarda il Kenya. Visita alla baraccopoli di Nairobi, appelli alla pace e contro il terrorismo. Evidente, secondo gli osservatori locali dell’opposizione, la volontà politica di non toccare i reali problemi quali, ad esempio, la sistematica violazione dei diritti umani e le esecuzioni extra-giudiziarie attuate dal Governo keniano contro le comunità somala e mussulmana sulla costa accusate di favorire il terrorismo o gli intrecci e connivenze tra il Governo keniano e la mafia italiana ben istallata sempre sulla costa

La visita in Uganda nasconde aluni retroscena poco noti. Primo tra tutti l’intreccio di interessi tra il partito al potere (National Revolutionary Mouvement – NRM) e la Chiesa Cattolica in sostegno alla vittoria elettorale del Presidente Yoweri Museveni. Proprio in Uganda, il Papa degli ‘ultimi’ ha ricevuto un appello alla giustizia dalla comunità gay, da anni sotto pressione.  Un appello lanciato dal attivista Frank Mugisha leader carismatico di Sexual Minorities Uganda  che raggruppa varie associazioni ugandesi in difesa dei diritti delle minoranze sessuali. Mugisha chiede a Papa Francesco di lanciare un messaggio di tolleranza e amore invertendo così la politica omofobica adottata dalla Chiesa cattolica ugandese. L’appello del attivista e intellettuale africano ha trovato ampio spazio sui media africani (tra i quali ‘Allafrica’) e su quelli internazionali, quali ‘Aljazeera’, scontrandosi con un muro di silenzio da parte del Vaticano.

Mugisha ha sempre avuto il pregio di parlare chiaro. Anche in questo caso dimostra fedeltà e coerenza ai suoi principi, rivelando, senza fanatismo, intolleranza o condanne di parte, il vero volto della Chiesa Cattolica in Uganda riguardo le minoranze sessuali. Un volto che contrasta con le affermazioni riconciliatorie di Papa Francesco verso l’universo gay racchiuse nella sua famosa farse: «Chi sono io per giudicare?»

In Occidente la Chiesa si è schierata contro la legge ugandese anti gay denominata ‘Kill the gay bill’ che prevedeva prima la pena di morte e successivamente l’ergastolo per i gay recidivi. La realtà in Uganda è esattamente l’opposto. La Chiesa cattolica ha allacciato una indissolubile alleanza con gli elementi più radicali della Chiesa protestante e dell’Islam impegnati nella condanna e nel rafforzamento delle discriminazioni e repressioni della comunità LGBTI nel Paese africano. La Chiesa cattolica, qui in Uganda, si è trasformata, dal dicembre 2013, in una gran cassa per la caccia alle streghe rivolta contro gay, lesbiche e transessuali, promuovendo tra i fedeli atteggiamenti violenti contro le minoranze sessuali. Attività delle quali non si parla in Occidente.

Il vescovo di Kampala, Cyprian K. Lwanga, artefice della visita di Papa Francesco in Uganda, nel 2012 spostò la posizione della Chiesa cattolica in Uganda dal campo contrario alla legge repressiva contro gli omosessuali al campo anti-gay capitanato dalla Chiesa Anglicana e da varie sette evangeliche americane. Questo nuovo orientamento determinò una alleanza di istituzioni religiose ampliata alle frange più radicali del Islam, dando vita a una vera e propria crociata contro gli omosessuali.

Nel luglio 2012 il Vescovo Lwanga firmò, insime con altri leader protestanti e musulmani, una lettera indirizzata al Presidente Museveni, dopo la decisione del Presidente di ostacolare l’approvazione della legge per timore di ricadute negative a livello internazionale. Una seconda lettera, pure questa firmata dal Vescovo Lwanga, fu indirizzata il 17 gennaio 2014 al Presidente Museveni per chiedere di approvare la legge votata in tutta fretta nel dicembre 2012 dal Parlamento grazie ad una procedura anticostituzionale (mancanza di quorum) ideata dal Presidente del Parlamento Rebecca Kadaga.
La legge fu approvata nel febbraio 2014 per convenienze politiche del Presidente Museveni e successivamente abrogata dalla Corte Costituzionale, dietro richiesta dello stesso Museveni. L’iter nebuloso e contraddittorio di questa legge di breve durata rientra nella classica gestione politica del Grande Vecchio. Da una parte ha accontentato l’opinione pubblica e i potentati religiosi approvando la legge contro i diritti umani degli omosessuali, dall’altra ha evitato frizioni con la Comunità Internazionale impartendo discreto e confidenziale ordine alla Corte Costituzionale di abrogarla.  Attualmente rimane in vigore la legge contro gli atti ‘immorali’, del periodo coloniale che considera l’omosessualità un atto criminale ma si dimostra mite nei provvedimenti legali.

 

la saggezza umana ed evangelica di p. E. Bianchi

“sui gay la Chiesa è meglio che taccia”

p. Enzo Bianchi

 

 enzo bianchi il priore della comunità monastica interconfessionale di Bose già in passato si era espresso contro “l’ipocrisia religiosa di una chiesa complice con la xenofobia“: questa volta alla sua Chiesa suggerisce, non proprio pacatamente, di “tacere” su questioni delicatissime come l’omosessualità

intervenendo all’Assemblea pastorale diocesana di Bolzano, Enzo Bianchi ha rilasciato dichiarazioni che hanno fatto scalpore: come riferisce l’Adige, parlando dei divorziati risposati il religioso ha spiegato che

“se due persone dello stesso sesso si vogliono bene e sono propense ad aiutarsi ed a sostenersi reciprocamente è giusto che lo Stato preveda una regolarizzazione del loro rapporto”

non solo:

“in una realtà in cui tutto è precario, dal lavoro alle relazioni, non possiamo aspettarci che l’amore o la famiglia non lo sia. Su questo, però, non possiamo permetterci in alcun modo di giudicare, né, tantomeno, di escludere”

durissime le parole riservate alla Chiesa sulla questione dell’omosessualità:

“Se Cristo nel Vangelo parla del matrimonio come unione indissolubile – ha chiosato Bianchi – nulla dice in merito all’omosessualità. L’onestà, quindi, ci obbliga ad ammettere l’enigma, a lasciare il quesito senza una risposta. Su questo, io vorrei una Chiesa che, non potendo pronunciarsi, preferisca tacere”.

 

aprirsi alla modernità snatura o emancipa la chiesa?

perché non è solo questione di sesso

piazza_san_pietro-vaticano

di Walter Siti
in “la Repubblica” del 5 ottobre 2015

 

 quando si parla dell’atteggiamento della Chiesa nei confronti degli anticoncezionali, o verso i fedeli divorziati, è immancabile la riflessione sui cambiamenti epocali avvenuti nella società; è curioso che quando invece si parla del suo atteggiamento nei confronti degli omosessuali, l’omosessualità sia ancora vista come qualcosa di monolitico e immobile, da accogliere o rifiutare in blocco

 Negli anni Sessanta e Settanta gli omosessuali erano in maggioranza “promiscui”, oscillavano tra terrore e voglia di liberazione, si sentivano provocatori e dinamitardi; tranne poche eccezioni, consideravano la Chiesa un impaccio e un giudice importuno, e il matrimonio come una poco auspicabile istituzione borghese. Ogni omosessuale “promiscuo” ricorda preti che, spogliati dell’abito, frequentavano le nostre stesse saune o erano clienti dei medesimi marchettari. Si era tutti colpevoli di “concupiscenza” (o meritevoli di “desiderio eversivo”), eroi o peccatori, in ogni caso lontani da qualunque monogamia. Parecchi giovani omosessuali pensavano al sacerdozio come male minore, che li avrebbe giustificati in società del loro mancato commercio con donne e avrebbe dato scopo e funzione alla propria personale infelicità. Oggi l’ideale figura di riferimento sociale è piuttosto l’omosessuale monogamo, che ha un compagno fisso con cui intende condividere la vita. Non si vanta della “concupiscenza” e pensa di costruire una famiglia, magari allietata dalla presenza di figli. Monsignor Charamsa, che l’altro giorno ha presentato alla stampa il suo bel compagno, e che è uscito dall’armadio col sorriso forzato di chi vuole esibire una lietezza ancora ostaggio dell’inquietudine, appartiene con tutta evidenza a questi omosessuali 2.0. Ormai le associazioni di omosessuali cattolici sono parecchie e trovano sempre più spesso sacerdoti che le ascoltano con interesse. Insoddisfatte della dottrina tradizionale, per cui un omosessuale per non essere condannato dalla Chiesa dovrebbe astenersi da ogni realizzazione degli impulsi, quel che ormai chiedono alle gerarchie non è più di essere peccatori continuamente perdonati ma di non considerare più peccato l’amore quando ha la stessa solidità affettiva delle coppie eterosessuali. Per monsignor Charamsa c’è in più, ovviamente, la questione del celibato. Ma saremmo ipocriti se non ammettessimo che la società considera più grave per un prete convivere con un uomo che con una donna; così come il “disordine affettivo” di un giovane seminarista è considerato più grave dai direttori spirituali se si rivolge a un uomo invece che alle prevedibili tentazioni femminili. La tempestività del suo coming out pone il problema di “a chi giova ?”: è un ballon d’essai estremista studiato per favorire i riformisti che possono così passare per mediatori, o è una forma di terrorismo ideologico che finirà per favorire i conservatori che potranno contare sulla paura di un’apocalisse nella Chiesa? Forse monsignor Charamsa, semplicemente, non ne poteva più: e ha fatto un molto terreno calcolo politico, di porre la questione omosessuale in primo piano nel prossimo Sinodo. Solo dallo svolgimento di questo sapremo quanto il calcolo fosse giusto. La questione di fondo è la secolarizzazione: seguire la modernità emancipa o snatura la Chiesa? Quel che penso è che la Chiesa non può permettersi di giocare questo enorme problema soltanto sul piano esiguo, e in ultima analisi misero, della sessualità. I suoi compiti nella modernità mi sembrano molto più impegnativi: obbligare il mondo alla speranza, mostrare che la vita si può donare in nome di una fede, e ricordare a tutti (credenti o no) che l’avvento del Regno non potrà essere che rivoluzionario. Concedere ai sacerdoti un celibato volontario, riconoscere che la complementarità uomo/donna non deve necessariamente attuarsi tra le coperte, accogliere famiglie diverse da quella tradizionale. Queste aperture (o cedimenti) forse sono il prezzo giusto da pagare per non chiudersi in una ottusa trincea che allontanerebbe definitivamente la Chiesa dal compito che Cristo le ha dato, di essere fuoco e lievito per tutta la società.

la stampa italiana e il monsignore gay

caso Charamsa

ecco tutti i commenti dei media

(non solo cattolici)

di Giovanni Bucchi

Caso Charamsa, ecco tutti i commenti dei media (non solo cattolici)

C’è il low profile di Avvenire, la derubrucazione a notiziola di seconda fascia di Famiglia Cristiana, il roboante titolo di apertura del Corriere della Sera (“Teologo gay, un caso mondiale”) che gonfia il petto per l’intervista esclusiva, quindi le informate analisi di Andrea Tornielli su La Stampa. Il giorno dopo lo scoop, l’outing di monsignor Krzysztof Olaf Charamsa, il 43enne teologo polacco che alla vigilia del Sinodo sulla famiglia ha annunciato urbi et orbi la sua omosessualità e di avere un compagno, tiene banco sui media italiani.

I TRE GIORNALONI

Dei tre principali quotidiani, solo il Corriere dedica la prima pagina al teologo ormai ex ufficiale della Congregazione per la dottrina della fede. Il motivo è semplice: dopo la conferenza stampa di venerdì pomeriggio con i media polacchi, monsignor Charamsa ha concesso al giornale di via Solferino un’ampia intervista, la vera bomba a orologeria scagliata in Vaticano. C’è spazio, nel quotidiano diretto da Luciano Fontana, anche per un’ampia intervista firmata da Aldo Cazzullo all’ex presidente della Cei, cardinale Camillo Ruini;  lapidario il suo commento sulla vicenda che, dice, gli ha suscitato “un’impressione di pena più che di sorpresa, soprattutto per il momento che ha scelto”. Tuttavia, sottolinea Ruini, “sul Sinodo non avrà alcun influsso sostanziale”.
Anche Repubblica dà spazio alla notizia, riportando in prima pagina la foto di monsignor Charamsa con il compagno Eduardo durante la conferenza stampa romana di ieri e puntando nel titolo sulla defenestrazione dagli incarichi vaticani. La Stampa invece, oltre a pubblicare un intervento di padre Enzo Bianchi dal titolo “Provocazione che non aiuta il Sinodo”, si affida al vaticanista Tornielli che svela – come fa anche l’editorialista del Corsera, Massimo Franco – la strategia di questa operazione mediatica. “La scelta del timing non poteva essere più indovinata: alla vigilia dell’apertura del Sinodo e con un libro già pronto con i dettagli della sua storia. È evidente la volontà di porre all’attenzione dei padri sinodali almeno due temi: quello del celibato sacerdotale e quello dell’omosessualità”. Tornielli aggiunge poi che “qualche giorno fa, Charamsa aveva pubblicato sul settimanale cattolico polacco di Cracovia, Tygodnik Powszechny, un lungo articolo critico contro i toni ‘omofobi’ di alcuni preti della Polonia, suscitando le ire dei vescovi di quel Paese. Intanto, già da qualche tempo aveva assicurato l’esclusiva del suo coming out a un settimanale polacco e negli ultimi giorni non era più andato al lavoro in Congregazione dandosi per malato”.

GLI ALTRI QUOTIDIANI ITALIANI

Dei quotidiani romani, solo il Messaggero decide di dedicare l’apertura al caso di monsignor Charamsa con il titolo “Preti gay, terremoto in Vaticano”, mentre il Tempo lo relega in un piccolo richiamo di spalla. L’Unità in versione renziana pubblica in prima un fotone con il Papa per annunciare l’apertura del Sinodo ricordando “la questione gay”, senza però alcun riferimento diretto alla vicenda; segno che il quotidiano diretto da Erasmo D’Angelis non ne vuole fare una bandiera. Nella stampa di centrodestra, il Giornale affida al giornalista cattolico di area ciellina Renato Farina l’articolo di punta sul tema dedicandogli l’apertura del giornale con titolo “Ciclone gay sul Sinodo”, mentre Libero parla di “Gay Pride in Vaticano” e interpella il giornalista cattolico paladino degli anti Bergoglio, Antonio Socci, per demolire il Sinodo di Papa Francesco. Chiudono il cerchio il Fatto Quotidiano con una foto in prima pagina e il Sole24Ore che invece non fa menzione della notizia in copertina, preferendo dare spazio all’intervento sul Sinodo del vescovo e teologo di area progressista monsignor Bruno Forte.

IL QUOTIDIANO DEI VESCOVI

Emblematico il trattamento riservato all’outing di monsignor Charamsa da parte di Avvenire. Il quotidiano dei vescovi italiani ne riporta un breve richiamo in prima pagina (senza fotografia) bollando il tutto come “Annuncio di un prete di Curia”, quasi a volere sminuire la portata della notizia. All’interno Gianni Santamaria firma due pezzi, entrambi nel taglio basso della pagina, parlando di “dichiarazioni choc” del teologo, puntando tutto sull’intervento del portavoce vaticano padre Federico Lombardi e spiegando come monsignor Charamsa “non pago dell’intervista”, poi ha convocato una conferenza stampa. Quindi riporta la Gazeta Wyborcza, quotidiano polacco, che “ipotizza che l’accaduto sia una reazione agli attacchi ricevuti in patria per un recente articolo di difesa degli omosessuali. E sostiene che sarebbe stato ‘onesto’ dichiararsi allora”. Sempre Santamaria di Avvenire intervista monsignor Mauro Cozzoli, ordinario di Teologia Morale alla Pontificia Università Lateranense (quindi non una di quelle dove insegna don Charamsa) che usa parole molto nette: “Sorprende – dice infatti – che un ministro ordinato della Chiesa, il quale ben ne conosce la teologia, la tradizione e il magistero, riduca a scoop mediatico un problema abbastanza complesso e degno di intelligente attenzione come quello dell’orientamento e della relazione omosessuale”.

GLI ALTRI MEDIA DI AREA CATTOLICA

Nel suo seguito blog Settimo Cielo e pure nelle pagine da lui curate sul sito dell’Espresso, il noto vaticanista Sandro Magister fino a questa mattina non ha fatto menzione del caso Charamsa. Qualche attenzione gliel’ha dedicata il portale di Famiglia Cristiana, che però si è limitato a riportare la notizia della rimozione dagli incarichi vaticani. Tempi.it diretto da Luigi Amicone ha invece affidato ad Aldo Vitale un articolo con sei osservazioni, l’ultima delle quali invita la Chiesa e i cattolici ad essere “pronti a ri-accoglierlo”. Il Sussidiario, portale di area ciellino-carroniana, sceglie don Federico Pichetto, insegnante di religione a Rapallo, per intervenire sul tema. “E’ evidente – fa notare il giovane sacerdote – che esiste qualcuno – dal di dentro della curia romana – che proprio come ai tempi di Benedetto XVI tenta di sabotare la Chiesa, di pilotarla riducendone la portata sul mondo e sulla storia. Potenzialmente il dilagare di questi gesti clamorosi è più pericoloso dello stesso scandalo della pedofilia perché racconta di una fede che non regge l’umano, che lo soffoca, che lo comprime per farlo definitivamente scomparire”. Su La Bussola Quotidiana è invece il medico Renzo Puccetti a scriverne, con una conclusione insolita: “Intendo rivolgere a mons. Charamsa il mio personale ringraziamento per avere rivelato il suo conflitto d’interessi. Adesso tifo perché chi è nelle sue condizioni non continui a tradire la Chiesa”.

papa Francesco, vogliono la tua benedizione: accontentali

scialpi905

Scialpi, una lettera a Papa Francesco postata sui social

“ho formato una famiglia con il mio compagno. Dammi la tua benedizione”

Il musicista ha indirizzato una lettera a Papa Francesco e al suo genitore scomparso con un “gioco epistolare” di accenti tra ‘Papa’ e ‘papà’

A pochi giorni dall’annucio delle sue prossime nozze, il cantante Giovanni Scialpi, in arte Shalpy ha scritto una lettera al Papa su Facebook e con un gioco d’accenti l’ha dedicata anche al padre scomparso. L’intento della missiva, subito pubblicata sulle varie piattaforme social, è quello di ricevere una benedizione per il futuro matrimonio con Roberto Blasi, compagno e manager di Shalpy. “Caro Papa Francesco mi perdoni, ma da quando ho sentito per la prima volta il Suo nome alla TV per la Sua proclamazione in un attimo di profonda commozione, il mio pensiero è andato subito al mio povero padre che si chiamava come Lei e che è mancato ormai da anni”, la lettera prosegue con i complimenti del cantante a Bergoglio per poi annunciare un cambio del soggetto “Ora che sento il desiderio di scriverLe, mi permetta questo gioco epistolare che consiste nell’aggiungere un semplice accento sulla ‘à, in modo di rivolgermi a Lei come se fosse il mio vero padre“.

La lettera ora assume anche un significato liberatorio per lo stesso Shalpy: “Caro papà Francesco, lo so che il nostro rapporto è sempre stato conflittuale, sin da piccolo tra le tue prese di posizione e le mie idee che mi portavano lontano, io non vedevo il tuo amore e tu non vedevi il mio. Non bastava un tuo dono, non bastava portarmi in Chiesa per sentirmi amato, non c’era il tuo giudizio positivo sulla mia pagella portata a casa con grande ‘orgogliò; come non c’eri quando avevo bisogno di risposte mentre scoprivo i miei primi sentimenti. Ci siamo sempre allontanati l’uno dall’altro, arrivando a non condividere neppure i punti più formativi ed emotivi della mia esistenza. Sono diventato grande frequentandoti, ma nel medesimo tempo non contemplandoti. E proprio adesso che sto per affrontare il momento più felice del mio percorso, la decisione di formare una Famiglia con il mio compagno, quanto mi manca la tua Parola, la tua benedizione ed il tuo abbraccio perché sai quanto ti voglio bene. Per sempre il tuo Giovanni”.

signor vescovo, non le sembra di esagerare!

l’arcivescovo di Trieste: «I matrimoni gay sono un suicidio dell’umanità»

 

«Gli attacchi al matrimonio come unione di un uomo e una donna rappresentano una sorta di suicidio dell’umanità stessa, soprattutto nei nostri Paesi occidentali». È quanto affermato dall’arcivescovo di Trieste, Giampaolo Crepaldi, durante un’omelia pronunciata al santuario di Monte Gria.

Secondo il personale parere del religioso, «dal punto di vista cristiano è erroneo affermare che la relazione fondamentale tra uomo e donna sia soltanto un prodotto culturale o sociale, un “dono” di un governo o la costruzione dell’uomo. I governi non possono soppiantare la primordiale responsabilità dei genitori per i loro figli, né possono negare ai bambini il diritto di crescere con una mamma e un papà». Crepaldi ha poi sostenuto che «in Cristo lo stato naturale del matrimonio, il naturale legame tra un uomo e una donna uniti in matrimonio, è elevato a sacramento».

Prosegue così l’ondata di critica che la Chiesa Cattolica ha deciso di lanciare dopo l’approvazione del matrimonio egualitario in Irlanda. Da nord e sud, una serie di prelati è pronta ad aizzare i fedeli contro il diritto alla felicità altrui, sostenendo che il principio fondamentale della famiglia non sia la sua funzione sociale ma l’eterosessualità dei componenti. Poi poco importa se i genitori costringono alla prostituzione i figli o se un padre picchia i propri familiari: l’essere eterosessuali è motivo di grazia dinnanzi a Dio in una sorta di nuova razza Ariana.

Parole dure e pericolose per chi dovrebbe ispirarsi alle predicazioni di Gesù, un bambino nato in una famiglia che è stata tutto fuorché una «famiglia tradizionale». Giuseppe non è il padre biologico di Gesù e la tanto sbandierata verginità di Maria (che ha persino portato ad uno scisma della Chiesa) è un motivo sufficiente che oggi spingerebbe la Sacra Rota a ritenere nullo il loro matrimonio. Per i leghisti che tanto si impegnano ad organizzare convegno omofobi, Gesù non sarebbe stato altro che un extracomunitario da ritenere colpevole del reato di clandestinità qualora avesse osato mettere piede in Italia. Ma ovviamente tutto ciò non importa a chi vuole usare Dio per tutelare i propri interessi, in una guerra all’umanità in cui l’amore viene additato come il nemico da abbattere.
Eppure è la Bibbia stessa a ricordarci che «nell’amore non c’è timore» (I Giovanni 4, 18) o che «chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre» (I Giovanni 2,9). Ma soprattutto ci ricorda come il volersi alla tradizione sia un errore imperdonabile: «le cose vecchie sono passate: ecco ne sono nate di nuove» ci viene ricordato nella seconda lettera ai Corinzi.

amore sano e amore malato da curare?

etero o gay il vero amore non ha bisogno di essere curato

di Michela Marzano
in “la Repubblica” del 5 giugno 2015

gay

Mentre nella cattolicissima Irlanda sono stati una valanga i “sì” al matrimonio gay, in Italia, tutto resta terribilmente immobile. Anzi, forse peggiora. Come se il riconoscimento progressivo della necessità di rispettare ognuno di noi per quello che è, fosse intollerabile. E che lo sia per chi, invece di aprirsi alla tolleranza, utilizza la fede per imporre a tutti un rigido “dover essere”. Non solo allora, dopo il referendum, si è dovuto assistere al laconico commento del Cardinal Parolin, Segretario di Stato Vaticano, che non ha esitato a parlare di una “sconfitta dell’umanità”. Ma in questi giorni sembra anche tornare in auge l’assurda idea della possibilità di guarire dall’omosessualità. «Lasciatevi aiutare dal Signore. Voi non siete gay, ma solo persone con un problema», si sente dire al Centro di Spiritualità Sant’Obizio, come ha raccontato Repubblica. L’omosessualità come una malattia da sradicare, una ferita da curare, un problema da risolvere. Per poter così tornare alla normalità, ripristinando la mascolinità e la femminilità. Ma di che cosa stiamo parlando esattamente? Chi dovrebbe guarire esattamente da cosa? Perché ormai lo sappiamo bene che l’omosessualità, esattamente come l’eterosessualità, è solo un orientamento sessuale. È un modo di essere e di amare. Qualcosa che non si sceglie, non si cambia, non si cura. Perché non c’è niente da cui guarire o da curare. C’è solo qualcosa da riconoscere e accettare. Qualcosa che fa parte della propria identità, quella con la quale prima o poi tutti dobbiamo fare i conti, anche quando ci sono cose che vorremmo che fossero diverse, cose che magari non sopportiamo di noi stessi, cose con le quali, però, non possiamo far altro che convivere. Ma questo, appunto, riguarda sia gli omosessuali, sia gli eterosessuali. Senza che qualcuno venga a spiegarci che, da bambini, qualcosa non ha funzionato. Un padre distante o una madre assente. Un padre severo o una madre assillante. Tanto, quando eravamo bambini, sicuramente qualcosa non ha funzionato per ognuno di noi. E non è colpa di nessuno. È la vita. E così che vanno le cose. E, in fondo, va bene. A patto che non ci sia poi chi, senz’altro con le migliori intenzioni — ma, si sa, è l’inferno che è lastricato delle migliori intenzioni — non intervenga per farci sentire colpevoli, aggiungendo così ulteriore sofferenza alla sofferenza che, forse, si è già vissuta. Ancora una volta indipendentemente dal fatto che siamo omosessuali o eterosessuali. «La guarigione dipende da quanto si apre il nostro cuore a Gesù», dicono ancora i leader del gruppo Lot di Sant’Obizio. Ma chi lo chiude il proprio cuore a Gesù? Chi non fa altro che prendere atto di ciò che è e di chi ama — chiedendo agli altri rispetto, accettazione, riconoscimento e diritto di esistere così com’è — oppure chi decide che non va bene, che si deve cambiare, che ci si deve sforzare, che basta un piccolo sacrificio e poi tutto torna a posto? Difficile accettarsi quando intorno a noi c’è solo commiserazione. Difficile persino raccapezzarsi con le parole che si trovano nel Vangelo, dove in fondo è sempre questione di inclusione e di carità, quando si sentono invocare, nel nome della fede, la “sconfitta dell’umanità” o l’“abominio” della propria malattia. Anche se, ovviamente, non c’è proprio nulla da riparare o da correggere. A parte forse lo sguardo giudicante di chi, dimenticando persino la pietà, ci chiede di essere diversi da quello che siamo.

il primo caldo dà alla testa

una donna ha fatto causa contro tutti i gay della Terra in nome di Dio: “hanno infranto le regole morali e religiose”

 

GAY MEN

 

 Identificandosi come ambasciatrice di Dio e Gesù Cristo, una donna in Nebraska ha intentato una causa federale contro tutte le persone omosessuali del pianeta per aver infranto “le regole morali e religiose”.

Sylvia Ann Driskell di Auburn spiega, in una petizione scritta di 7 pagine consegnata alla Corte del Distretto di Omaha, che “l’omosessualità è un peccato e che gli omosessuali sanno che è peccato vivere una vita come omosessuali”, secondo quanto riporta il “Lincoln Journal Star”. “Perché altrimenti nasconderebbero il segreto(?)

L’Omaha World Herald riporta che la 66enne, che nella causa si rappresenta da sola, cita nella sua lettera piena di errori e puntualizzazioni sia il dizionario Webster come anche una serie di passaggi della Bibbia. La donna sfida il giudice del Distretto John M. Gerrard a non “giudicare Dio come un bugiardo”, e apostrofa i gay come “mentitori, imbroglioni e ladri” nel caso, che è stato chiamato semplicemente come “Driskell contro Omosessuali”.

“Non ho mai pensato che avrei visto il giorno in cui la nostra Grande Nazione del nostro Grande Stato del Nebraska sarebbe diventata così accondiscendente verso i comportamenti osceni di alcune persone”, ha scritto la donna. “E’ grazie all’indulgenza del Signore che non siamo arsi, perchè la sua compassione è infinita”.

Clicca qui per vedere la petizione completa.

La corte non ha emesso un mandato di comparizione, secondo quanto riporta la Nbc. Ovviamente, questo non ha impedito che innumerevoli scrittori gay di alto profilo rispondessero ironicamente alla causa.

Stevem Payne, del Daily Kos, ha detto che lui e suo marito, Brian, liquiderebbero la loro attività per un legale che difenda la causa che, ha suggerito scherzando, è materia per la Suprema Corte.

“Anticipiamo che l’ammenda chiesta a questa donna ci butterà sul lastrico”, ha detto scherzando.

Lo schietto autore e attivista per i diritti dei gay, lesbiche, bisessuali e transgender Dan Savage ha reagito in modo simile alla notizia, twittando:

Questo articolo è stato pubblicato su The Huffington Post Usa e tradotto dall’inglese.

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