Hamas e Netanyahu si nutrono a vicenda

quando l’odio ha bisogno di un nemico

di Tonio Dell’Olio in “www.mosaicodipace.it” del 10 ottobre 2023

La verità è che Hamas e Netanyahu si nutrono a vicenda. Per esistere hanno bisogno l’uno dell’altro. L’odio, per esistere e rafforzarsi, ha sempre necessità di un nemico capace di odiare almeno quanto lui. Le politiche oppressive dei governi israeliani contro la prigione a cielo aperto di Gaza costituiscono il carburante per il reclutamento massiccio di terroristi e le azioni di questi sono il tesoretto del pacchetto elettorale di Netanyahu. E in queste condizioni è inutile esercizio puerile chiedersi chi ha cominciato per primo, puntare il dito, distribuire patenti di carnefici. Sembra che ciascuno non vedesse l’ora. Tragico è che tanto Hamas quanto Netanyahu rendono il peggiore dei propri servizi ai rispettivi popoli. Riescono a garantire solo paura, sofferenza, lutti e distruzioni. E sia ben chiaro che queste considerazioni non sono dettate dall’opportunità diplomatica politicamente corretta di equidistanza, quanto da una vicinanza assoluta alle popolazioni israeliana e palestinese. Per quanto possa sembrare tragico, in questi giorni si sta seminando la brutalità che si consumerà domani. La speranza è sempre che qualcuno riesca a trovare il coraggio di rinunciare alla violenza della rappresaglia, della vendetta, della violenza sorprendendo il suo dirimpettaio e sparigliando le carte.




massacrare per puro piacere puro terrorismo i stato

GAZA

“ho colpito civili per puro piacere”

KAFAR AZZA, ISRAEL - JULY 28: An Israeli soldier sits on a tank on July 28, 2014 near Kafar Azza, Israel. As Israel's operation "Protective Edge" in Gaza continues, the international community struggles to find a truce agreement. (Photo by Andrew Burton/Getty Images)

Gruppo di soldati riuniti di fronte a un carro armato a Gaza

Ariè fa parte della sessantina di soldati che hanno accettato di testimoniare per l’Ong Breaking the Silence sul soggetto dell’operazione “Margine di protezione”, condotta nell’estate del 2014 nella striscia di Gaza. Ariè ha confidato al mondo la sua esperienza come tiratore a bordo di un carro armato. La sua testimonianza è confermata in numerosi punti dalla stessa Ong

«Sono tiratore a bordo di un carro armato. Ho seguito una formazione classica di quattro mesi, poi altri quattro di formazione specialistica. C’è molto balistica, calcolo delle distanze, esercizi pratici. Sei tu che controlli l’arma, occorre essere calmi e precisi. C’è un pulsante che permette di accendere il cannone. Quando si accende, significa che si è vicini al bersaglio. La regola elementare è: non si scherza, si spinge quel tasto solo se si deve sparare. Per farlo, serve l’ordine del comandante. Diventa istintivo. Ho anche appreso che tutto va messo a rapporto. Ho appreso a scannerizzare un paesaggio, da sinistra verso destra, e fare rapporto. La decisione di sparare è successivamente presa da un superiore. 
Quando sono stato chiamato nel luglio del 2014, siamo stati riuniti nel Golan (nord di Israele). Abbiamo atteso che i camion arrivassero, poi siamo partiti verso sud, in prossimità della striscia di Gaza. Abbiamo cominciato a preparare i carri. Nessuno ci ha parlato della missione. Tutto è sfogato, discutiamo tra soldati, parliamo delle nostre paure, condividiamo i nostri pensieri. Un generale si avvicina e ci dice: “Domani sera, entriamo nella striscia di Gaza. Dobbiamo, pensare alle nostre famiglie. È per loro che lo facciamo, per la loro sicurezza”. Ci ha parlato delle regole. “C’è un cerchio immaginario di 200 metri intorno alle nostre forze. Se vediamo qualcosa all’interno dobbiamo ucciderlo”.

Esplosione nel cuore di Gaza

Ero l’unico a trovare tutto questo bizzarro: “Se una persona vede un carro e non fugge, non è innocente deve essere uccisa”. Ai suoi occhi, non c’erano civili. Se qualcuno era in torto, doveva essere ucciso. Il margine di manovra era ampio. Dipendeva da me e dal mio comandante. Non indagavamo sul bersaglio come mi era stato insegnato durante la formazione. Era più tipo: vedo qualcosa di strano dalla finestra, quella casa è troppo vicina, ho voglia di sparare. “Ok!”, diceva il comandante. Era questa la catena di decisione nella nostra unità.Avevamo mitragliatrici calibro 50 e i 7-62, per le zone aperte. Non abbiamo mai visto umani vicini a noi, tranne nel caso in cui tornavano a casa in sicurezza. Ci vedevano, continuavano ad avanzare. Avevamo paura di possibili attentati kamikaze. Ho preso la mitragliatrice sparando vicino a loro per intimidirli, perché avevamo paura anche noi. Anche se i soldati politicamente di destra erano dispiaciuti per i civili, eravamo in mezzo a loro e ai combattenti di Hamas. Che i combattenti vadano a farsi fottere! Abbiamo sempre paragonato Hamas con lo Hezbollah libanese, che è visto come l’élite. Hamas, ci fa paura lo stesso. Vittime del conflitto a Gaza

Non ho mai visto un combattente di Hamas. Si spostano nei tunnel. Entri in una zona aperta, e di colpo, ti sparano sopra. Ti giri, e non c’è più nessuno. E poi ci sono i cecchini sui tetti. Ne ho ucciso uno. Il cecchino è un semi-combattente. Spesso, vediamo persone sui tetti, che parlano al telefono. Verifichiamo se siano uno dei nostri e poi sparavamo. È successo molto spesso nella mia zona. Non potevamo prendere rischi.Sparavamo sui palazzi ma non era permesso sparare su quello delle Nazioni Unite. Nemmeno puntare il cannone nella loro direzione, poteva partire un colpo per sbaglio. Stessa cosa per l’ospedale o la centrale elettrica e i palazzi internazionali. Ci serviva l’autorizzazione per rispondere.Siamo entrati nella Striscia di Gaza il 19 luglio. Cercavamo dei tunnel di Hamas costruiti tra Gaza e Israele. Dovevamo distruggere le infrastrutture di Hamas e causare danni importanti al paesaggio, all’economia e alle infrastrutture per far pagare il prezzo più alto ad Hamas. Ufficialmente, ci dicevamo di dover evitare vittime civili ma nello stesso tempo dovevamo fare più danni possibili. Ero l’unico nel mio battaglione che era turbato dalla cosa. Tutti gli altri dicevano: “Dobbiamo farlo, o loro o noi, finiremo per essere uccisi altrimenti”. Era veramente triste. Tentavo di capire perché. Forse sono più maturo di loro, o è semplicemente la mia educazione. Molti cercavano solo di sopravvivere, giorno per giorno.Siamo entrati nella notte a Gaza, era molto caotico. C’erano molte discussioni in radio. Avevamo paura. Dopo qualche ora nelle quali sparavamo senza mai essere stati sparati, la mia vigilanza era meno stretta. Un giorno abbiamo tentato di uscire dal carro armato perché avevamo un problema al motore. In quell’istante diversi proiettili hanno sfiorato il mio orecchio e mi sono gettato a terra. La prima settimana uscivamo solo per pisciare e una volta ci siamo fatti un caffè. Dormivamo nel carro armato. Faceva un caldo terribile, non avevamo aria condizionata.


Siamo entrati all’interno della striscia di Gaza. Ci dividevamo e partivamo per missioni di qualche ora, verso il sud e verso Al-Bourej. Ho visto un tunnel di attacco di Hamas. Era talmente largo che praticamente poteva entrarci un carro. Ho anche visto piccoli tunnel a Juhor ad-Dik, sotto un palazzo che ospitava una farmacia della CroceRossa. Siamo rimasti in quella zona due settimane e mezza. La maggior parte del tempo, i carri pattugliavano la zona. Avevamo molta paura delle incursioni di Hamas.

Per tutta l’operazione, i tiratori nei carri armati erano felici di poter sparare dato che non potevano farlo normalmente poiché costa troppo. Io l’ho fatto solo a sei riprese durante la ma formazione. Era una buona occasione per verificare le nostre competenze. Durante l’operazione ho sparato 20-25 volte dal carro.

Nella terza settimana, ci eravamo appostati in un luogo in cui vedevamo la strada per Salaheddine, la grande arteria che attraversa la striscia di Gaza da nord a sud. La gente circolava perché era in una zona fuori dal conflitto. Eravamo in tre nel carro. Ci siamo detti: “Ok vediamo chi colpisce un veicolo o una bicicletta”. Il comandante ha detto: “Ok, rendetemi fieri!”. Il mio carro armato era datato 1980, non poteva raggiungere i bersagli spostandosi velocemente. Dovevo calcolare tutto nella mia testa in cinque secondi per anticipare la traiettoria. E non vedevo una parte della strada. C’era un ciclista. Lo abbiamo puntato con la mitragliatrice calibro 50. Ho sparato davanti e dietro, senza colpirlo. Ha iniziato a pedalare più veloce di Armstrong. È l’episodio del quale mi vergogno di più.

Quando ho lasciato Gaza, ero triste di quello che era successo. Ma ero sollevato di tornare alla vita civile. La maggior parte dei componenti della mia compagnia sono di destra. Considerano Breaking the Silence come un’organizzazione antisionista. “Crimini di guerra?” Sono grandi parole. Ma ho la percezione di aver fatto cose orribili sul piano internazionale. Ho colpito civili, solo per il gusto di farlo.

Ho provato a parlarne. Ma nel mio ambiente, nessuno vuole sentire queste cose. “Sei un eroe, hai fatto quello che dovevi…”. Anche i miei mi hanno detto la stessa cosa. Lì, tutto il sistema dei valori era capovolto. La gente per strada mi diceva che ero un eroe. Io, ero seduto all’interno di un carro armato tutto il giorno. Mi sono abituato a sparare. Non avevo una finestra. Il mio mondo a Gaza, era una scatola di 20 centimetri. Vedevo tutto attraverso un mirino, con una croce. Avevo la consapevolezza di fare qualcosa di male. Non c’era legge. Certo non è che stupravamo donne o uccidevamo bambini. Ma potevamo sparare su palazzi vuoti o sparare su una strada. Se uccidevamo qualcuno, potevamo avere qualche complicazione. Ma niente di più.




due popoli divisi dal loro odio

 

 

Gaza massacro 

“non guerra, ma massacro!”

“Quello che sta succedendo a Gaza” dichiara all’Agenzia Fides Sua Beatitudine Michel Sabbah, Patriarca emerito di Gerusalemme dei Latini, “non è una guerra, ma è piuttosto un massacro. Un massacro inutile, che non farà avanzare nemmeno di un passo Isrele verso la pace e la sicurezza. Al contrario, con tutti questi sacrifici umani, i cuori di israeliani e palestinesi si sono riempiti di nuovo odio”.
con l’aiuto del sito ‘finesettimana’ riporto qui sotto alcuni link che rimandano a interessanti articoli su questa tremenda realtà che va avanti da circa 60 anni:

Gaza

 

 

 

 

 

 

http://www.youtube.com/watch?v=VK758hUBnkE

a Gaza il massacro non fa crescere solo i morti ma anche l’odio verso Israele: così l’israeliano Geries Koury nel video qui sopra riportato

Gaza: smascherare le menzogne, rompere il muro dell’omertà di Ingrid Colanicchia in Adista n. 28 del 26 luglio 2014 (Notizie)

Il vero obiettivo di Israele è, secondo la maggior parte degli analisti, far naufragare il governo di unità nazionale Hamas-Fatah sancito dall’accordo di riconciliazione firmato ad aprile. D’altronde non è certo un’invenzione di Israele la strategia del divide et impera. Fermare il linguaggio violento. Stop alle armi italiane ad Israele. La disinformazione di massa.
«Ormai israeliani e palestinesi non si conoscono più, non si parlano più. Sono sempre più divisi, lontani. Non c’è niente di peggio. Quando arrivai in Israele, noi ebrei andavamo a fare trekking in Cisgiordania. Tel Aviv era piena di arabi. Palestinesi e israeliani condividevano molte cose. Era tutto diverso».
Ieri, quando il picchetto d’onore ha fatto il saluto militare al funerale di Eitan Barak, morto a vent’anni, ho capito fino a che punto avevamo sbagliato a pensare che la guerra in questo Paese fosse qualcosa che appartiene al passato…



GAZA: SMASCHERARE LE MENZOGNE

Gaza

ROMPERE IL MURO DELL’OMERTÀ

faccio mie le riflessioni che l’agenzia di stampa Adista fa in merito al teatro bellico e ai troppi massacri nella striscia di Gaza, e credo opportuno farle circolare per delle più precise e oggettive coordinate per meglio leggere questa realtà così cupa:

 

 Una cosa è certa: checché ne dicano i media mainstream piegati alla versione israeliana, nella punizione collettiva scatenata da Netanyahu in queste settimane, c’entrano ben poco i razzi lanciati dalla Striscia di Gaza. Il vero obiettivo di Israele è, secondo la maggior parte degli analisti, far naufragare il governo di unità nazionale Hamas-Fatah sancito dall’accordo di riconciliazione firmato ad aprile. D’altronde non è certo un’invenzione di Israele la strategia del divide et impera. Ma uno dei risultati dei fatti cui stiamo assistendo, e di processi già in atto da anni, potrebbe anche essere – come rileva Nahed Hattar su al-Akhbar (16/7) – la fine della cristallizzazione della politica palestinese attorno ai due poli costituiti da Hamas e Fatah, ognuno alle prese con i propri problemi interni e indotti alla riconciliazione proprio dal progressivo indebolimento. 

Quali scenari apra questa possibilità non è facile a dirsi, anche considerato che sul movimento politico palestinese pesa la mancanza di un vero leader in cui tutto il popolo possa riconoscersi. L’unico che abbia le caratteristiche necessarie, a detta di molti, è il prigioniero politico Marwan Barghouti che Israele, nonostante le pressioni internazionali (v. Adista Segni nuovi n. 26/14), non ha nessuna intenzione di liberare.

Ma se sul futuro gravano queste incognite, il presente, cadenzato dalla conta dei morti dell’operazione “Bordo di protezione”, è più cupo che mai. Ormai sepolte le speranze che la giornata di preghiera dell’8 giugno scorso possa avere risvolti concreti, papa Francesco, al termine dell’Angelus del 13 luglio, è tornato a rivolgere un accorato appello per la Terra Santa, parlando dei «tragici eventi» di questi giorni. Esortando autorità locali e internazionali «a non risparmiare la preghiera e alcuno sforzo per far cessare ogni ostilità», ha poi auspicato che non ci sia «mai più guerra» e ha invocato «il coraggio di compiere gesti concreti per costruire la pace»: «Rendici disponibili – ha detto – ad ascoltare il grido dei nostri cittadini che ci chiedono di trasformare le nostre armi in strumenti di pace, le nostre paure in fiducia e le nostre tensioni in perdono.». E ovviamente non è stato il solo. 

Il vero crimine è l’occupazione

«In Israele e Palestina – scrive la Commissione Giustizia e Pace dell’Assemblea degli Ordinari cattolici di Terra Santa in un documento diffuso l’8 luglio – riecheggia il pianto delle madri e dei padri, dei fratelli e delle sorelle, di quanti amavano uno dei giovani caduti vittima dell’ultimo round del ciclo di violenza che affligge questa terra. I volti di alcuni di loro sono ben noti perché i media hanno dato conto fin nel minimo dettaglio della loro vita, intervistando i genitori, facendoli vivere nella nostra immaginazione, mentre gli altri, di gran lunga più numerosi, sono mere statistiche, senza nome e senza volto». La Commissione Giustizia e Pace condanna quindi «il linguaggio violento» di chi in Israele «chiede vendetta», «alimentato da una leadership che porta avanti politiche discriminatorie che promuovono i diritti di un gruppo e l’occupazione, con tutte le sue disastrose conseguenze». «I leader coloniali sembrano credere che l’occupazione possa vincere schiacciando l’aspirazione del popolo alla libertà e alla dignità. Sembrano credere – prosegue Giustizia e Pace – che la loro determinazione alla fine metterà a tacere l’opposizione e renderà giusto ciò che è sbagliato». Allo stesso modo gli Ordinari cattolici condannano «il linguaggio violento» di chi in Palestina «chiede vendetta», «alimentato da coloro che hanno perso ogni speranza di vedere una giusta soluzione al conflitto attraverso i negoziati. Coloro che cercano di costruire una società monolitica e totalitaria, in cui non c’è spazio per alcuna differenza o diversità e che ottengono il sostegno popolare sfruttando questa situazione di disperazione». «Dobbiamo riconoscere – proseguono – che il rapimento e l’assassinio a sangue freddo dei tre giovani israeliani e il brutale assassinio per vendetta del giovane palestinese sono prodotti dall’ingiustizia e dall’odio che l’occupazione instilla nei cuori di chi compie simili gesti». «Utilizzare la morte di tre israeliani per compiere una punizione collettiva contro il popolo palestinese e il suo legittimo desiderio di libertà significa sfruttare una tragedia e si traduce in ancora più violenza e odio». 

Stessi richiami di Munib A. Younan, a capo della Chiesa evangelica luterana in Giordania e Terra Santa, il quale in un comunicato del 16 luglio scorso, ricorda che «questo Paese e la sua gente hanno attraversato 65 anni di violenza, rappresaglie e contro-rappresaglie», e sottolinea che «la situazione di stallo politico esistente tra Israele e Palestina non può essere risolta militarmente». 

E sulla stessa lunghezza d’onda è anche il segretario generale del World Council of Churches, Olav Fykse Tveit: «Condanniamo fermamente gli attacchi indiscriminati da parte dell’esercito israeliano contro la popolazione civile di Gaza, come condanniamo l’assurdo e immorale lancio di razzi da parte di militanti di Gaza verso zone abitate in Israele», si legge nel comunicato diffuso l’11 luglio scorso. «Quello che sta accadendo a Gaza non è una tragedia isolata», puntualizza Tveit: «Questi eventi devono essere visti nel contesto dell’occupazione dei Territori palestinesi iniziata nel 1967. Il World Council of Churches ha sempre chiesto di porre fine a questa occupazione illegale e al blocco imposto alla Striscia di Gaza da parte di Israele. Senza porre fine all’occupazione – conclude Tveit – il ciclo della violenza continuerà».

Il Wcc era già intervenuto l’8 luglio scorso con un documento che incoraggia le Chiese a fare scelte responsabili circa gli investimenti che hanno un impatto sulla regione, contribuendo «a ridurre la violenza e a promuovere la pace per entrambi i popoli», riconoscendo però il forte squilibrio di forze in campo, a tutto vantaggio di Israele. Il richiamo del Wcc è al boicottaggio di quelle aziende che traggono profitto dall’illegale occupazione della Cisgiordania, così come deciso recentemente sia dalla Chiesa presbiteriana che dalla Chiesa metodista statunitensi, con lo scopo, scrive il Wcc, di «portare una pace giusta che andrà a beneficio sia della Palestina che di Israele».

Stop alle armi italiane a Israele

Ben altro dovrebbe fare invece il nostro Paese che ha precise responsabilità in questo massacro considerato che Israele è uno dei nostri principali acquirenti di armi. Ed è precisamente su questo aspetto che verte l’appello al governo della Rete Italiana per il Disarmo, che raggruppa le principali organizzazioni italiane impegnate sui temi del disarmo e del controllo degli armamenti, e che insieme alla Rete della Pace il 16 luglio scorso ha organizzato fiaccolate, presidi e altre iniziative in circa 50 città italiane. «L’Italia – scrive la Rete – è oggi il maggiore esportatore dell’Unione europea di sistemi militari e di armi leggere verso Israele e proprio nei giorni scorsi, durante i raid aerei israeliani su Gaza, l’azienda Alenia Aermacchi del gruppo Finmeccanica ha inviato i primi due aerei addestratori M-346 alla Forza Aerea israeliana». Rete Disarmo «chiede che alle doverose parole di condanna degli attacchi aerei sulle aree civili faccia immediatamente seguito un’azione inequivocabile da parte del governo italiano come la sospensione dell’invio di sistemi militari e di armi nella zona. Il nostro governo, che in questo semestre ha l’incarico di presiedere il Consiglio dell’Unione europea, si faccia subito promotore di un’azione a livello comunitario per un embargo europeo di armi e sistemi militari verso tutte le parti in conflitto, per proteggere i civili inermi e riprendere il dialogo tra tutte le parti». 

Disinformazione di massa

Ma come sottolinea Pax Christi in un commento apparso sul sito il 14 luglio scorso – facendo eco alla dichiarazione diffusa in questi giorni da alcuni cooperanti italiani che vivono e lavorano in Palestina – parte del problema risiede altrove: nell’informazione totalmente manipolata dei media occidentali. «Chi legge i principali giornali o guarda i principali Tg dell’Occidente può farsi solo un’idea vaga e sbagliata di quello che sta succedendo. Ma questo è problema annoso nel caso della Palestina, lo sa bene chi da anni segue e magari periodicamente visita quella Terra che alcuni si ostinano a chiamare Santa». Ed ecco una piccola lista di perle della nostrana disinformazione: «Dopo i primi due giorni di bombardamenti il Tg1 in prima serata ha sostenuto che la cosa più grave fosse rappresentata dal lancio da Gaza di missili verso Tel Aviv. Lancio che non aveva  provocato alcun danno mentre a Gaza già più di 40 erano i morti, fra cui molti civili inermi. La Stampa ha pubblicato sul suo sito resoconti che sono vere e proprie traduzioni letterali delle comunicazioni di una delle due parti coinvolte: quella israeliana. Repubblica ha titolato a tutto campo che i razzi punterebbero minacciosamente alle centrali nucleari. Le centinaia di testate nucleari che lo Stato di Israele possiede non hanno mai avuto così tanta enfasi come i razzi artigianali che partono da Gaza senza una precisa destinazione». 

«Alla giusta empatia mostrata verso i tre ragazzi uccisi – prosegue il commento – non è corrisposta altrettanta commozione per i palestinesi morti prima, durante il rapimento e adesso nel bombardamento indiscriminato di Gaza. Anzi soprattutto della fase precedente non si ricorda nulla ma proprio nulla. Forse perché si trattava di provocazioni di ordinaria quotidianità». «Smascherare le falsità e rompere il muro d’omertà – conclude – è il compito unico che ci spetta, anziché occupare la nostra mente in sterili proposte di soluzione che non spettano a noi». (ingrid colanicchia)

 




preghiera per i bambini di Gaza

 

“risparmiali, proteggili, guariscili”

preghiera del rabbino Levi Weiman-Kelman di Kol HaNeshama, Gerusalemme

 

Gaza

 

 

Se c’è mai stato un tempo per la preghiera, questo è quel tempo.

Se c’è mai stato un luogo abbandonato, Gaza è quel luogo.

 

Signore che sei il creatore di tutti i bambini, ascolta la nostra preghiera in questo giorno maledetto.

Dio che noi chiamiamo Benedetto, volgi il tuo volto verso questi, i bambini di Gaza, affinché possano conoscere le tue benedizioni, e il tuo rifugio, affinché possano conoscere la luce e il calore, dove ora c’è soltanto oscurità e fumo, e un freddo che taglia e stritola la pelle.

 

Onnipotente che fai eccezioni, che noi chiamiamo miracoli, fa’ un’eccezione per i bambini di Gaza.

Proteggili da noi e dai loro.  Risparmiali.  Guariscili. Fa’ che stiano al sicuro.

Liberali dalla fame e dall’orrore e dalla furia e dal dolore.

Liberali da noi e liberali dai loro.

Restituisci loro l’infanzia rubata, il diritto alla nascita,

che è una promessa di paradiso.

 

Ravviva nella nostra memoria, o Signore, le sorti del bambino Ismaele, padre di tutti i bambini di Gaza. Come il bambino Ismaele è stato senz’acqua e lasciato a morire nel deserto di Beer-Sheba, talmente privato di ogni speranza che sua madre non poteva sopportare di vedere la sua vita perdersi via nella sabbia.

Sii quel Signore, il Dio del nostro consanguineo Ismaele, che ha udito il suo grido e ha mandato il Suo angelo a confortare sua madre Agar.

Sii quel Signore, che fu con Ismaele quel giorno, e tutti i giorni a seguire.

Sii quel Dio, il Misericordioso, che aprì gli occhi di Agar quel giorno, e le mostrò il pozzo dell’acqua, cosicché ella poté dare da bere al bambino Ismaele e salvargli la vita.

 

Allah, che noi chiamiamo Elohim, tu che doni la vita, che conosci il valore e la fragilità di ogni vita, invia i tuoi angeli a questi bambini.

 

Salvali, i bambini di quel luogo,

 di Gaza la più bella, di Gaza la dannata

 

In questo giorno, quando la trepidazione e la rabbia e il lutto che è chiamato guerra afferra i nostri cuori e li ricuce in cicatrici, noi ci rivolgiamo a te, Signore, il cui nome è Pace:

Benedici questi bambini, e tienili lontano dal male.

Volgi lo sguardo verso di loro, Signore.

Mostra loro, come se fosse per la prima volta, la luce e la bontà,

e la tua benevolenza travolgente.

Guardali, Signore. Permetti loro di vedere il tuo volto.

E, come se fosse per la prima volta, dona loro la pace.

 

(preghiera del rabbino Levi Weiman-Kelman di Kol HaNeshama, Gerusalemme,a cura di Bradley Burston, del quotidiano Haaretz)

 

 




sangue e morte a Gaza

Gaza

 

Israele. “Le nostre mani sono sporche di sangue”

Alcuni cittadini israeliani scrivono una lettera aperta alla famiglia di Mohammed Abu Khadr, il giovane palestinese arso vivo da un gruppo di coloni. Sfidando il pensiero dominante nella società, e nel tentativo di fermare l’ultima offensiva su Gaza.

  Le nostre mani grondano di sangue. Le nostre mani hanno dato fuoco a Mohammed. Le nostre mani hanno soffiato sulle fiamme. Viviamo qui da troppo tempo perché si possa dire “non lo sapevamo, non lo abbiamo capito prima, non eravamo in grado di prevederlo”. Siamo stati testimoni dell’enorme macchina di incitamento al razzismo e alla vendetta messa in moto dal governo, dai politici, dal sistema educativo e dai mezzi di informazione.

Abbiamo visto la società israeliana diventare povera e in stato di abbandono, fino a quando la chiamata alla violenza è diventata uno sfogo per molti, adulti e giovani senza distinzioni, in tutte le sue forme.

Abbiamo visto come l’essere “ebreo” sia stato totalmente svuotato di significato, e radicalmente ridotto a nazionalismo, militarismo, una lotta per la terra, odio per i non-ebrei, vergognoso sfruttamento dell’Olocausto e dell’“Insegnamento del Re (Davide, ndt)”.

Più di ogni altra cosa, siamo stati testimoni di come lo Stato di Israele, attraverso i suoi vari governi, ha approvato leggi razziste, messo in atto politiche discriminatorie, si è adoperato per custodire con forza il regime di occupazione, preferendo la violenza e le vittime da ambo le parti ad un accordo di pace.

Le nostre mani sono impregnate di questo sangue, e vogliamo esprimere le nostre condoglianze e il nostro dolore alla famiglia Abu Khadr, che sta vivendo una perdita inimmaginabile, e a tutta la popolazione palestinese.

Ci opponiamo alle politiche di occupazione del nostro governo, e siamo contro la violenza, il razzismo e l’istigazione che esiste nella società israeliana.

Ci rifiutiamo di lasciare che il nostro ebraismo venga identificato con questo odio, un ebraismo che include le parole del rabbino di Tripoli e di Aleppo, il saggio Hezekiah Shabtai che ha detto: “Ama il tuo prossimo come te stesso” (Levitico, XVIII).

Questo amore reciproco non si riferisce soltanto a quello di un ebreo verso un altro, ma anche verso i nostri vicini che non sono ebrei. E’ un amore che ci insegna a vivere con loro e insieme a loro perseguire il benessere e la sicurezza. Non è soltanto il buonsenso che ce lo richiede, ma è la Torah stessa, che ci ha ordina di condurre la vita in modo armonioso, nonostante e contro le azioni dello Stato e le parole dei nostri rappresentanti di governo.

Le nostre mani grondano di sangue.

Per questo ci impegniamo a continuare la nostra battaglia all’interno della società israeliana – ebrei e palestinesi –  per cambiare la società dal suo interno, per lottare contro la sua militarizzazione e per diffondere una consapevolezza che oggi risiede soltanto in una esigua  minoranza.

Lotteremo contro la scelta di muovere ancora guerre, contro l’indifferenza nei confronti dei diritti e delle vite dei palestinesi, e il continuo favorire gli ebrei in tutto questo ciclo di violenza.

Dobbiamo combattere per offrire un legame umano – un legame che sia anche politico, culturale, storico, israelo-palestinese ed arabo- ebraico; un legame che può essere raggiunto attraverso la storia di molti di noi che hanno origini ebraiche ed arabe, e per questo, fanno parte del mondo arabo.

La nostra scelta è quella della lotta per l’uguaglianza civile e il cambiamento economico, in nome dei gruppi emarginati e oppressi nella nostra società: arabi, etiopi, mizrahim (di discendenza araba), donne, religiosi, lavoratori migranti, rifugiati, richiedenti asilo e molti altri. 

Di fronte a questa situazione il lato più forte è quello che ha la capacità di usare la nonviolenza per abbattere il regime razzista e il vortice di violenza. Di fronte alla compiacenza di molti israeliani, cerchiamo e scegliamo la nonviolenza, mentre gli altri preferiscono permettere al regime di ingiustizia di rimanere saldo al proprio posto, e aspettano soluzioni che in qualche modo fermino la spirale infinita di violenza – che mostra la sua faccia ora in questa nuova guerra contro Gaza – soltanto per avere nuove morti e appelli alla vendetta da ambo le parti e allontanando un possibile accordo sempre più lontano.

Le nostre mani grondano di sangue, e il nostro desiderio è quello di creare una lotta congiunta con qualsiasi palestinese che voglia unirsi a noi contro l’Occupazione, contro la violenza del nostro regime, contro il disprezzo dei diritti umani.

Questa sarà una lotta per mettere fine all’Occupazione, o con l’istituzione di uno Stato palestinese indipendente o attraverso la creazione di uno Stato unico in cui tutti saremo cittadini di pari diritti e dignità.

Le nostre mani sono piene di questo sangue. Affermandolo così forte nella nostra società saremo sempre accusati dalla propaganda nazionalista di essere unilaterali, e di condannare soltanto i crimini israeliani e non quelli commessi dai palestinesi.

A queste persone noi rispondiamo così: colui che sostiene o giustifica l’uccisione dei palestinesi, supporta e incoraggia di conseguenza anche l’uccisione degli israeliani ebrei. E viceversa. La giostra della violenza è grande e si muove velocemente, ma noi ci opponiamo ad essa, e crediamo che l’unica soluzione sia la nonviolenza.

Andare contro i metodi di Netanyahu non significa necessariamente sostenere Hamas: la realtà non è dicotomica. Altre opzioni esistono nell’asso tra questi due. Allora sottolineiamo ancora di più che siamo cittadini israeliani e il centro della nostra vita è Israele. Per questo la nostra più grande critica è rivolta alla società israeliana, che cerchiamo di cambiare.

Questi assassini si nascondono tra di noi, fanno parte di noi. Ci sono, ovviamente, spazi in cui si possono criticare anche le altre società. Ma crediamo, ciononostante, che il dovere di ogni persona sia di esaminare prima da vicino e in modo critico la propria società, e solo dopo si possa permettere di approcciarsi alle altre (…).

Le nostre mani grondano di questo sangue, e sappiamo che la maggior parte dei palestinesi innocenti uccisi negli ultimi 66 anni da noi israeliani ebrei non hanno mai ricevuto giustizia.

I loro assassini non sono stati arrestati, neanche processati, a differenza dei ragazzi sospettati per l’omicidio di Mohammed. La maggior parte di questi innocenti è morta per mano di uomini in uniforme mandati dal governo, dai militari, dalla polizia o dallo Shin Bet.

Questi omicidi, avvenuti per mezzo di aerei, artiglieria o di persona vengono definiti come “errori umani” o “problemi tecnici”. E quando ci si riferisce ad essi a volte si include soltanto una fiacca scusa. La maggior parte dei casi viene raramente posta sotto inchiesta e quasi tutti finiscono senza rinvii a giudizio, dissolvendosi nell’aria. Tanti, troppi sono ignorati dai media, dalle agenzie giudiziarie, dall’esercito.

La ragione per cui i sospettati della morte di Mohammed sono stati arrestati è semplice: non portavano un’uniforme. 

Ad eccezione dei soldati condannati per il massacro di Kafr Qasam nel 1956 e rimasti in prigione per non più di un anno, raramente ci sono stati altri processi nelle Corti israeliane contro uomini dello Stato, anche per la maggior parte degli odiosi massacri a cui questa terra ha assistito.

Le nostre mani sono impregnate di quel sangue. Quando Benjamin Netanyahu esprime le sue condoglianze e condannare l’omicidio di Mohammed, lo fa con lo stesso respiro di sempre, comunicando una rivendicazione pericolosa e razzista sulla superiorità morale di Israele nei confronti dei suoi vicini.

Non c’è posto per simili assassini nella nostra società. In questo noi ci distinguiamo dai nostri vicini. Nelle loro società questi assassini sono visti come eroi e hanno delle piazze dedicate ai loro nomi. Ma questa non è l’unica differenza. Noi perseguiamo coloro che incitano all’odio, mentre l’Autorità Palestinese, i loro media ufficiali e sistema educativo fanno appello alla distruzione di Israele”.

Netanyahu ha dimenticato che diverse persone sospettate di essere criminali di guerra hanno servito in vari governi israeliani, alcuni sotto la sua stessa leadership, e che il numero di persone innocenti assassinate negli ultimi 66 anni di conflitto dipinge un quadro molto diverso.

Quando guardiamo il numero di ebrei israeliani e di palestinesi uccisi, vediamo che il numero dei palestinesi è molto più elevato.

Netanyahu dimentica anche, o cerca di farci dimenticare, l’incitamento diffuso propagato dal suo governo nelle ultime settimane, e le sue parole di vendetta dopo la scoperta dei corpi dei tre ragazzi ebrei rapiti – Gilad Shaar, Naftali Fraenkel ed Eyal Yifrah – quando tutti noi eravamo in stato di profondo shock: “Satana non ha ancora inventato una vendetta per il sangue di un bambino, né per il sangue di questi ragazzi giovani e puri” (…).

Le nostre mani hanno sparso questo sangue, e invece di dichiarare giorni di digiuno, lutto e pentimento, il governo ha ora deciso di lanciare un’operazione militare a Gaza, che ha chiamato “Operazione Bordo Protettivo”.

Chiediamo al governo di fermare questa operazione subito e di lottare per una tregua e per un accordo di pace, a cui il governo israeliano si è sempre opposto negli ultimi anni.

Gaza è la storia di tutti noi; è anche l’oblio della nostra storia. E’ il posto più segnato dal dolore in Palestina e in Israele (…). Gaza è la nostra disperazione.

Le nostre origini comuni sembrano essere state spazzate via sempre più lontano: dopo 40 anni di possibilità di un compromesso storico doloroso tra i due movimenti nazionali, quello palestinese e quello sionista, questa opzione è gradualmente evaporata. Il conflitto viene reinterpretato in termini mitologici e teologici, in termini di vendetta, e tutto ciò che ora possiamo promettere ai nostri figli sono molte altre guerre per le generazioni a venire, nuove uccisioni tra entrambi i popoli, e la costruzione di un regime di apartheid che richiederà ancora più decenni per essere smantellato.

Le nostre mani hanno sparso questo sangue (…), cerchiamo di lavorare contro questa tendenza. Lo facciamo attraverso le varie comunità della nostra società: ebrei e palestinesi, arabi e israeliani, Mizrahi e Ashkenazi, tradizionalisti, religiosi, laici e ortodossi.

Abbiamo scelto di opporci ai muri, alle separazioni, alle espropriazioni e deportazioni, al razzismo e alla colonizzazione, per offrire un futuro comune come alternativa all’attuale stato depressivo, oppressivo e violento della nostra società.

Vogliamo costruire un avvenire che non si arrenda al ciclo di violenza e di vendetta, ma che al suo posto offra la giustizia, la riparazione, la pace e l’uguaglianza; un futuro che attinge agli elementi comuni della nostra cultura, umanità e tradizioni religiose in modo che le nostre mani non serviranno più a spargere sangue, ma a ricongiungerci l’uno con l’altro in pace, con l’aiuto di dio, Insha’Allah.

 

*Traduzione dall’ebraico all’inglese di Idit Arad and Matan Kaminer. La lettera, pubblicata originariamente sul sito Haokets , è stata pubblicata in inglese sul magazine israeliano +972mag , che ringraziamo per la gentile concessione. Al link originale la lista dei cittadini israeliani firmatari della lettera. La traduzione in italiano è a cura di Stefano Nanni e Anna Toro. La foto pubblicata è di Lia Tarachansky, e mostra una manifestazione anti-militarista a Tel Aviv nei giorni scorsi.