no alla guerra!

perché No alla guerra in Libia 

alcune proposte costruttive

zanotelli (2)

noi rappresentanti di movimenti, associazioni e gruppi del mondo della pace e della nonviolenza siamo preoccupati delle pressioni esercitate sul nostro governo perché assuma un ruolo guida nell’intervento militare in Libia a fianco di altre potenze occidentali. Il Presidente del Consiglio ha detto che “non è in programma una missione militare italiana in Libia”. Ne prendiamo atto. Ma i problemi restano: – il contrasto all’espansione del terrorismo del sedicente Stato islamico; – una minaccia alla sicurezza del nostro paese; – la stabilizzazione della nazione nordafricana. La guerra non è il mezzo adeguato per sconfiggere il terrorismo né tantomeno per portare stabilità alla Libia. Basterebbe guardare alla storia di questi ultimi anni per capire che gli interventi militari non hanno risolto i problemi, li hanno invece aggravati

A partire dalla dissennata guerra lanciata dalla Nato nel 2011 contro il regime di Gheddafi che avrebbe dovuto inaugurare un’era nuova di pace e democrazia. Invece la Libia è precipitata nel caos e nella guerra intestina. Non solo. Quella guerra ha posto le basi per altri conflitti. È ormai risaputo e documentato che il saccheggio di vasti arsenali di armi del colonnello durante l’operazione della Nato ha alimentato la guerra civile in Siria, rafforzato gruppi terroristici e criminali dalla Nigeria al Sinai e destabilizzato il Mali.

Tresoldi

Di fatto nessuno dei conflitti iniziati dal 1991 ad oggi – Iraq, Somalia, Balcani, Afghanistan, Siria – ha risolto i problemi sul campo, anzi sono tragicamente aggravati. Il fallimento di tali operazioni è sotto gli occhi di tutti: milioni di profughi abbandonati al loro destino che fuggono a causa delle nefaste conseguenze delle recenti guerre.

Oggi poi, un eventuale secondo intervento armato in Libia avrebbe gravi ripercussioni anche sulla vicina Tunisia che teme il debordare della crisi libica oltre i suoi confini, mettendo a repentaglio il suo fragile equilibrio politico e il faticoso cammino verso la democrazia avviato in questi ultimi anni.

Inutile e ovvio dire che saranno i civili a pagare il prezzo più alto di imprese militari, anche nel caso di attacchi effettuati dai droni. Per quanto si voglia far credere che la precisione di tale velivoli a pilotaggio remoto non causerà vittime tra la popolazione, i fatti dimostrano l’esatto contrario. Indagini condotte su una lunga serie di attacchi hanno messo in evidenza che per un terrorista colpito i droni uccidono altre trenta persone circa, tra cui donne e bambini.

Se un intervento armato di polizia internazionale in Libia ci dovrà essere, sarà da considerarsi come estrema ratio, fatta nell’ambito delle Nazioni Unite e in seguito alla esplicita richiesta del governo unitario libico. Senza la quale – ammoniscono le autorità del governo di Tripoli – “qualsiasi tipo di operazione militare si trasformerebbe da legittima battaglia contro il terrorismo a palese violazione della nostra sovranità nazionale”.

Va aggiunto che la lotta al terrorismo dello Stato Islamico non potrà mai essere vinta con un dispiegamento di forze militari. Anche la macchina bellica più potente è inefficace di fronte al fanatismo e alla capacità di mimetizzarsi dei terroristi in grado di colpire ovunque nel mondo cittadini inermi con attentati sanguinari. La nostra penisola è in una posizione particolarmente vulnerabile perché è la più esposta per la sua vicinanza geografica alle coste libiche.

Per i motivi esplicitati qui sopra, ci rivolgiamo al governo italiano perché assuma un ruolo guida per indicare alla comunità internazionale la ricerca paziente e perseverante di una soluzione politica alla grave crisi libica.

Vermigli

A tale scopo proponiamo con urgenza che l’Italia si impegni:
  • a ricostruire l’assetto statuale della Libia, sostenendo con la diplomazia e la politica l’iniziativa per un accordo tra le controparti e la formazione di un governo unitario tra i governi di Tobruk e di Tripoli;

  • a coinvolgere gli stati membri della Lega araba e dell’Unione africana anche al fine di bloccare i finanziamenti ai movimenti terroristici islamici che provengono da Arabia saudita e Qatar, dal commercio di petrolio e di droga;

  • a valorizzare la partecipazione della società civile della Libia nel processo di ricostruzione della loro nazione;

  • a garantire da parte dell’Europa l’apertura delle frontiere per accogliere e assistere i profughi, mettendo in campo un’operazione di salvataggio in mare.

Valpiana

Sulla base della nostra Carta costituzionale che sancisce che «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa della libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» chiediamo al governo di adoperarsi con determinazione e concretamente al fine di promuovere e restituire pace e giustizia al popolo della Libia. Lavoro al quale partecipano da tempo schiere di cittadini che a vario titolo e in diverse organizzazione operano per la promozione della pace e della giustizia tramite l’educazione nelle scuole, con corsi di formazione alla nonviolenza attiva, con la disseminazione di informazione, con la ricerca, il monitoraggio e la denuncia di vendita illegale di armi e con una variegata gamma di iniziative e progetti.

Rota

Infine desideriamo rivolgere un appello a papa Francesco che negli anni del suo pontificato non si è stancato di dichiarare la propria ferma opposizione alla guerra. Che anche in questo caso levi la sua voce profetica per denunciare l’assurdità e l’immoralità di un intervento armato in Libia, sollecitando la comunità internazionale a cercare soluzioni pacifiche e giuste.

Valpiana Zanotelli

Efrem Tresoldi, direttore di Nigrizia

Mao Valpiana, direttore di Azione nonviolenta

Alex Zanotelli, direttore di Mosaico di Pace

Mario Menin, direttore di Missione Oggi

Filippo Rota Martir, direttore di Missionari Saveriani

Marco Fratoddi, direttore di La nuova ecologia

Antonio Vermigli, direttore di In dialogo

Pietro Raitano, direttore di Altreconomia

Luigi Anataloni, direttore di Missioni Consolata e segretario della Federazione Stampa Missionaria Italiana

la guerra non risolve nessun problema! occorre alzare la voce contro

sul precipizio!

di Tommaso Di Francesco
in “il manifesto” del 2 marzo 2016

Tommaso Di Francesco

 

la guerra altro non è che seminagione d’odio. Nessuno dei conflitti proclamati dall’Occidente dal 1991 ad oggi — Iraq, Somalia, Balcani, Afghanistan, Libia, Siria — ha benché minimamente risolto i problemi sul campo, anzi li ha tragicamente aggravati

Senza l’intervento in Iraq del 2003, ha confessato «scusandosi» lo stesso ex premier britannico Tony Blair, tanto caro al rottamatore Matteo Renzi, lo Stato islamico nemmeno esisterebbe. Gli «Amici della Siria», vale a dire tutto lo schieramento occidental-europeo più Arabia saudita e Turchia, hanno fatto l’impossibile per fare in tre anni in Siria quel che era riuscito in Libia, alimentando e finanziando milizie e riducendo il Paese ad un cumulo di macerie alla mercé di gruppi più o meno jihadisti e con così tanti errori commessi da permettere alla fine il coinvolgimento in armi e al tavolo negoziale perfino della Russia di Putin.guerra1

I rovesci in Libia tornano addirittura nelle elezioni statunitensi, con il New York Times che, con focus su Hillary Clinton, ricorda la posizione favorevole alla guerra di fronte ad un recalcitrante Obama. Senza dimenticare la tragedia americana dell’11 settembre 2012 a Bengasi. Quando Chris Stevens, l’ex agente di collegamento con i jihadisti che abbatterono Gheddafi grazie ai raid della Nato, cadde in una trappola degli integralisti islamici già alleati e venne ucciso con tre uomini della Cia. Hillary Clinton, allora Segretario di Stato uscì di scena e venne dimissionato l’allora capo della Cia David Petraeus. Perché la guerra ci ritorna in casa. Avvitandosi nella spirale del terrorismo islamista. Dalle «nostre» guerre fuggono milioni di esseri umani. Quando partirono i primi raid della Nato sulla Libia a fine marzo 2011, cominciò un esodo in massa di più di un milione e mezzo di persone, tante quelle di provenienza dall’Africa centrale che lavoravano in territorio libico, ne fu coinvolta la fragilissima e da poco conquistata democrazia in Tunisia. Quell’esodo, con quello da Iraq e Siria, prova disperatamente ogni giorno ad attraversare la barbarie dei muri della fortezza Europa. Tutto questo è sotto la luce del sole. Come il fatto che l’alleato, il Sultano atlantico Erdogan, da noi ben pagato, preferisca massacrare i kurdi che combattono contro l’Isis piuttosto che tagliare gli affari e le retrovie con il Califfato. Eppure siamo di nuovo in procinto di innescare un’altra guerra in Libia. Dopo che il capo del Pentagono Ashton Carter ha schierato l’Italia sostenendone la guida della coalizione contro l’Isis e per la sicurezza dei giacimenti petroliferi. Il ministro Gentiloni si dichiara «pronto».guerra

In altri tempi si sarebbe detto che un Paese dalle responsabilità coloniali non dovrebbe esser coinvolto. Adesso è motivo d’onore: siamo al neo-neocolonialismo. Motiveremo questa avventura nel più ipocrita dei modi: sarà una «guerra agli scafisti». Sei mesi fa quando venne annunciata, Mister Pesc Mogherini mise le mani avanti ricordando, com’è facile immaginare, che ahimé ci sarebbero stati «effetti collaterali». Nasconderemo naturalmente il business e gli interessi strategici ed economici. Ormai siamo alla rincorsa della pacca sulle spalle Usa e delle forze speciali francesi, britanniche e americane già sul terreno. L’Italia ha convocato nei giorni scorsi il suo Consiglio supremo di difesa e prepara l’impresa libica. Con un occhio all’Egitto sotto il tallone di Al Sisi, ora in ombra per l’assasinio di Giulio Regeni. C’è da temere che la giustizia sulla morte di Giulio Regeni venga ulteriormente ritardata e oltraggiata, e di nuovo silenziata la verità sul regime del Cairo, criminale quanto l’Isis. Perché l’Egitto — anche con i suoi silenzi? — resta fondamentale per la guerra in Libia: è la forza militare diretta o di supporto al generale Haftar, leader militare del governo e del parlamento di Tobruk che
ancora ieri ha rimandato il suo assenso (che alla fine arriverà) ad un esecutivo libico «unitario». È una decisione formale utile solamente a richiedere l’intervento militare occidentale. Perché la Libia resta spaccata almeno in tre parti, con Tripoli guidata da forze islamiste che temono che un intervento occidentale diventi un sostegno alle forze dello Stato islamico posizionate a Sabratha, Derna, Sirte, già impegnate nella propaganda anti-italiana prendendo senza vergogna in mano la bandiera e le gesta di Omar Al Muktar, l’eroe della resistenza al colonialismo fascista italiano. Mancano pochi giorni al precipizio. Chi ha a cuore l’articolo 11 della Costituzione, chi è contro la guerra, una delle ragioni per ricostruire e legittimare lo spazio della sinistra, alzi adesso la voce.

vescovi italiani denunciano la stoltezza della guerra

“denunciamo la follia della guerra”

«Stiamo vivendo giorni di bombardamenti e devastazioni atroci su molte città. Tragedie che ci richiamano alla Costituzione del Concilio Vaticano II ‘Gaudium et spes’ e alla sua condanna della guerra totale, l’unica condanna in un Concilio ‘pastorale’»

Bettazzi

Inizia così un appello dei vescovi di Pax Christi Italia che condanna i bombardamenti e le violenze che in questi giorni devastano tante città e tanti territori, con sofferenze indicibili per le popolazioni

I vescovi continuano: «Essa così afferma al n. 80: “Ogni atto di guerra, che mira indiscriminatamente alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e con fermezza e senza esitazione deve essere condannato”». «Il Concilio continua denunciando la corsa agli armamenti, che preparano gli interventi distruttivi. “E’ necessario pertanto ancora una volta dichiarare: la corsa agli armamenti è una delle piaghe più gravi dell’umanità e danneggia in modo intollerabile i poveri; e c’è molto da temere che, se tale corsa continuerà, produrrà un giorno tutte le stragi, delle quali va già preparando i mezzi”. (n. 81)Bona
Come vescovi successivamente responsabili di Pax Christi, movimento cattolico internazionale per la pace, più che mai impegnato contro ogni forma di guerra, ma ancor prima come ‘uomini di buona volontà’, mentre deploriamo e condanniamo queste distruzioni che servono ad utilizzare i nostri armamenti e ad esaltare i nostri poteri e le nostre supremazie, chiediamo con forza che cessino queste devastazioni e si usino invece gli strumenti della politica e della diplomazia, forse più faticosi ma rispettosi delle vite umane, da soccorrere non da bombardare, come insiste papa Francesco, il quale pochi giorni fa, col Patriarca Ortodosso Cirillo esortava ‘la Comunità Internazionale ad unirsi per porre fine alla violenza e al terrorismo e, nello stesso tempo, a contribuire attraverso il dialogo ad un rapido ristabilimento della pace civile’.

Dobbiamo pregare, ma dobbiamo anche operare. Valentinetti
Invitiamo tutti ad operare, con la preghiera ed il digiuno, ma anche con l’impegno, la sollecitazione nel denunciare la follia della guerra, anche con manifestazioni, appelli ed esponendo anche le bandiere della pace, come segno visibile di un impegno che scuote ognuno nella propria coscienza».

L’appello,in data 18 febbraio 2016, è firmato dai vescovi
Giovanni Ricchiuti, Vescovo di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti presidente di Pax Christi

Giudici vescovo
Luigi Bettazzi, Vescovo emerito di Ivrea, già presidente di Pax Christi
Diego Bona, Vescovo emerito di Saluzzo, già presidente di Pax Christi
Tommaso Valentinetti, escovo di Pescara-Penne, già presidente di Pax Christi
Giovanni Giudici, Vescovo emerito di Pavia, già presidente di Pax Christi

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gli uomini più feroci degli animali

Gino Strada

‘la guerra è sempre un crimine

gli uomini più feroci degli animali nell’uccidere’

Gino Strada ha concesso una lunga e interessante intervista sulla sua attività, sulla guerra, sulle sue cause e il suo contrasto, al quotidiano svizzero Blick. Ecco come è stata sintetizzata su Giornalettismo.

ha raccontato al quotidiano svizzero Blick la sua esperienza di medico impegnato da 25 anni nella cura dei feriti nelle zone di guerra, così come ha spiegato i suoi motivi per opporsi a ogni tipo di conflitto armato.

Il medico fondatore di Emergency, Gino Strada, ha concesso una lunga intervista al più diffuso giornale della Svizzera, Blick. Nel colloquio con il quotidiano elvetico Gino Strada spiega di non trovare attrattivi i luoghi di guerra dove opera, come Gaza, Afghanistan o l’Iraq, ma di considerare un suo dovere offrire un aiuto medico là dove manca.

Da oltre 25 anni trascorro dieci mesi ogni anno nei territori di guerra. Non so più se la mia patria sia l’Italia o l’Afghanistan. La guerra è la mia realtà, il mio lavoro.

 

Gino Strada rimarca come la guerra lo renda furioso, perchè i politici ignorano spesso come il 90% delle vittime dei conflitti siano civili, e non soldati.

Se si buttano giù bombe da un’altezza di 10 mila metri, si colpiscono i civili. Non c’è nessuna città che si chiama Terror City da bombardare.

Il fondatore di Emergency evidenzia di non giudicare chi cura, perchè il suo dovere da medico è solo quello di aiutare i feriti.

Mi interessano quelli che sono stati colpiti dalle bombe, non chi le lancia.

Gino Strada illustra la sua posizione di ferma contrapposizione alle guerre, anche se rimarca di non essere un pacifista, ma solo una persona contraria a ogni intervento bellico.

Tutti coloro che muovo guerra sono in fondo uguali. La parola terrorista sta per il male, la parola soldato invece sta per il bene. Entrambi uccidono, entrambi esercitano violenza contro altri uomini. Li chiamiamo solo in modo diverso.

Gino Strada sottolinea come dalla sua esperienza di medica abbia notato come gli uomini non abbiano ancora afferrato come la violenza contro un altro uomo rappresenti sempre un crimine, e come provochi nuova, ulteriore violenza.

Con la legittima difesa giustifichiamo questo crimine. Ci immaginiamo di essere i buoni, gli altri invece sono i cattivi, i buoni devono ucciderli.

Per il fondatore di Emergency questo atteggiamento così radicato è la causa del continuo scoppio di nuovi conflitti, visto che chi viene colpito poi si organizza per contrattaccare.

Da 15 anni iniziamo guerre dappertutto, uccidiamo e feriamo migliaia di persone, distruggiamo i Paesi e spingiamo alla fuga masse di uomini impoveriti. Ci ringraziano? No, contrattaccano!

Gino Strada rimarca come gli uomini siano più brutali degli animali, per la sistematicità della violenza organizzata contro altri uomini. In merito all’ISIS Gino Strada spiega come

Il problema non sia questo o quel mostro. Tra tre anni nessuno parlerà di ISIS. Ci sarà un nuovo mostro. Tre anni fa nessuno parlava dell’ISIS. Allora erano i Talebani i mostri. Oggi invece i Talebani ci dovrebbero aiutare per sconfiggere ISIS. Cambiare il mostro ogni due anni è una strategia pericolosa.

Per Strada ISIS si può sconfiggere fermando i loro flussi finanziari, così come non vendendo più loro armi.

Per ISIS gli attentati di Parigi erano una vendetta per i bombardamenti francesi contro la Siria. Ogni gruppo utilizza le armi che ha a disposizione. Avessero avuto i caccia, avrebbero bombardato Parigi.

Gino Strada rimarca come per porre fine alle guerre bisogna cancellare l’idea che una parte debba sconfiggere l’altra.

Tutti devono deporre le armi. La radice del male si trova nella nostra convinzione che noi abbiamo ragione e gli altri invece no. Che noi siamo il bene, e gli altri il male.

Gino Strada si definisce comunque ottimista sulla possibilità di vivere in un mondo senza guerre, visto che milioni di persone scendono per le strade per la pace, non per i conflitti.

 

la guerra uccide soltanto non risolve niente

«la guerra non è la medicina giusta

non cura, uccide e va abolita»

Gino Strada

Gino Strada: «La guerra non è la medicina giusta. Non cura, uccide. E va abolita»

«La guerra non è scritta nel destino dell’umanità. Abolire la guerra non è un’utopia, anzi, è qualcosa di molto realista. E non esiste la guerra giusta»

È Gino Strada che parla, con passione, in una intervista esclusiva su Left in uscita il 12 dicembre. Il fondatore di Emergency, testimone diretto della disumanità della guerra che miete vittime tra i civili, lancia un appello alle Nazioni Unite. «Perché non sono mai intervenuti? Devono stabilire che la guerra è come la schiavitù e dobbiamo capire come liberarcene». Il medico chirurgo paragona la guerra al cancro: «Occorre cercare la soluzione. E la violenza non è la medicina giusta: non cura la malattia, uccide il paziente». Nell’ampio sfoglio dedicato al pacifismo di fronte alla violenza dell’Isis, Left pubblica un “Dialogo per pacifisti pieni di dubbi” tra il critico Filippo La Porta e lo storico Alberto Castelli, sul concetto di guerra “giusta”. Abbiamo poi scritto di pacifisti “concreti” che nella storia hanno evitato conflitti armati, quelli che alla crisi del pacifismo hanno risposto con la nonviolenza.  Infine le cifre: l’Italia spende per militari e armamenti 23,6 miliardi di euro all’anno, per la cooperazione allo sviluppo 3 miliardi e per la diplomazia 1,8 miliardi.

Dalla guerra al lavoro, o meglio alle dichiarazioni del ministro del Lavoro Giuliano Poletti che non sono banalità o provocazioni ma parte di un vero manifesto politico che ripete come fosse un mantra: lo studio è inutile, così come il tempo libero e la vita privata, conta solo la dimensione utilitaristica e produttiva. Poi il racconto di un fenomeno tristemente in ascesa e poco contrastato nel nostro Paese: la tratta di esseri umani. Left pubblica la “storia di G.” una ragazza nigeriana venduta da bambina ad una maman e arrivata poi in Italia. Giacomo Russo Spena è entrato in una delle prime Rems (Residenza per le misure di sicurezza detentive) e ci fa capire come vivono i “rei folli” dimessi dagli ex Opg (Ospedali psichiatrici giudiziari).  Infine, un focus sul “mercato” delle fotocopie che un ddl prova a liberalizzare. Negli Esteri l’analisi del manuale del Terrore, La gestione della ferocia; la Spagna che si avvicina alle elezioni del 20 dicembre sempre più frammentata a sinistra e l’intolleranza della destra indiana che arriva a colpire le megastar di Bollywood.

La cultura apre con l’incontro con il premio Nobel Orhan Pamuk, lo scrittore turco racconta a Left il suo Paese martoriato ma svela anche i segreti dell’amore che attraversa il suo ultimo romanzo.  E ancora: Michela Murgia che parla del suo romanzo “politico” Chirù, mentre il regista Gianni Zanasi racconta il senso del suo film La felicità è un sistema complesso. Per la scienza, Pietro Greco ci racconta della ricerca sulle zanzare geneticamente modificate contro la malaria e Left lancia insieme all’associazione Amica un appello al ministro Lorenzin per la demedicalizzaizone dell’interruzione di gravidanza attraverso la corretta procedura della pillola abortiva Ru486

la nostra guerra contro la natura

siamo in guerra con la natura…

di Emilio Molinari

Molinari Emilio

L’ISIS ha dichiarato guerra all’occidente, rispondiamo senza pietà…
Eppure l’unanime grido: sono in gioco la nostra civiltà, i nostri valori, il nostro stile di vita, la nostra felicità e la nostra gioia…mi inquieta. Perché?
Perché sono convinto che siamo nel bel mezzo di una «Terza Guerra Mondiale a pezzi» di cui il terrorismo in nome di Dio è solo uno dei tanti pezzi. Che l’orrore parigino è solo una delle tante «rotture» con le quali il Pianeta ci segnala che non ci regge più… E non regge proprio il nostro stile di vita, la nostra felicità, la nostra gioia … e l’arroganza della nostra cultura.
Perché siamo in guerra con la natura, la quale proprio a Parigi, alla Cop 21 sul clima, ci presenta un conto salatissimo, tragico e ultimativo. E non sarà chiudendo la bocca agli ambientalisti in nome della sicurezza che risolveremo i problemi.
Siamo in guerra con gli emigranti che assediano le nostre frontiere.
Siamo in guerra con i beni comuni: l’acqua, la terra, l’aria, il fuoco.
Le guerre portano il segno dell’accaparramento dei combustibili fossili che scarseggiano. sono infinite e hanno provocato un milione di morti nella sola Iraq: dolore, torture e indicibili umiliazioni, inflitte a intere popolazioni dall’occidente, senza «dissociazione» alcuna da parte nostra. Ci scusiamo dopo, per gli errori commessi, mai per gli orrori e il dolore generati.
I mutamenti climatici provocano morte e dolore incalcolabili.
47 bambini ogni giorno muoiono affogati in Bangladesh, solo perché il paese va sott’acqua. E non per colpa dei poveri della terra, ma perché ogni ora il nostro mondo spara in atmosfera centinaia di milioni di tonnellate di CO2.
Siamo in guerra per l’acqua e con l’acqua e pensiamo di privatizzarla. I nostri governi e le nostre multinazionali negano l’accesso all’acqua potabile a un miliardo di persone e 5000 bambini muoiono ogni giorno per questa ragione.
Siamo, con l’accaparramento delle terre, in guerra con i contadini per prenderci le loro terre e cacciare uomini e donne che ci vivono da secoli.
La guerra agli emigranti è sotto i nostri occhi con muri, fili spinati, barche affondate e con il modo con il quale li trattiamo in occidente: sfruttati, umiliati, insultati, schiavizzati.
E siamo in guerra con i poveri delle favelas e con i poveri delle nostre stesse periferie cittadine
Ma non ci passa per la testa che al fondo c’è proprio il nostro stile di vita occidentale intoccabile e che sbandieriamo come una chimera a tutto il resto del mondo. Parliamo dei nostri valori mentre priviamo i nostri stessi cittadini europei dei diritti sociali fondamentali su cui si fondano le nostre costituzioni. Anzi, cancelliamo dalle costituzioni questi diritti e li sostituiamo con il pareggio di bilancio.
Circondati da povertà, da ingiustizia, da catastrofi ambientali, consideriamo le cose inutili indispensabili, e i nostri desideri diritti universali.
Vengono al pettine tutte le contraddizioni del «nostro sviluppo» e il mondo, come una locomotiva, corre inarrestabile verso la catastrofe, guidata da un impalpabile conduttore: il mercato, che guida la Casa comune senza «misericordia alcuna» ad una velocità infinitamente superiore alle nostre capacità di pensare.
Di pensare al dolore e all’odio che seminiamo in tutto il mondo e pensare a come rielaborare questo nostro dolore spettacolarizzato, per sentire quello ignorato, che provochiamo negli altri.
Il dolore universale è l’elemento da far emergere dai tragici fatti di Parigi.
Da decenni l’occidente genera indifferenti e conformisti. Incoscienti del grande dolore che il futuro prossimo ci riserva.
So che dire queste cose oggi con i morti di Parigi negli occhi, viene letto come tradire o giustificare l’orrore; è sottrarsi «all’arruolamento» nell’esercito occidentale.
In questo contesto, so di sottrarmi alle domande sul che fare per fermare l’ISIS, ma sento che la priorità è quella di generare un grande movimento per cambiare le coscienze e il nostro stile di vita. Sento che il Papa è l’unica autorità mondiale a parlare del «grido che sale dall’umanità e dalla Terra», Che è inascoltato.
Attaccato da destra e ignorato da una sinistra diffidente e in tutt’altre faccende affaccendata.
Attaccato da un laicismo ideologico che rischia di diventare una nuova forma di cecità che, mentre il mondo va a rotoli, sembra appassionarsi solo per i temi delle coppie gay o per l’eutanasia.
Mi è difficile come laico e di sinistra farmi capire su questo terreno.
Difficilissimo dire alla sinistra e ai laici di buona volontà, che oggi il Papa e l’Enciclica Laudato Si, sono forse l’unica chance che abbiamo. Che non è un tradimento delle nostre convinzioni «arruolarci» nelle file di un movimento che ha questo «manifesto per il XXI° secolo» come richiamo. Non piacerà se sento di dover lanciare un appello al mio mondo, laico e di sinistra.
E cioè che di fronte ai tamburi di guerra, all’imbarbarimento di quelli senza pietà e all’indifferenza dominante, occorre cogliere nel Giubileo della «misericordia» qualcosa anche di nostro, e nelle migliaia di iniziative e di mobilitazioni che determinerà, non un «fastidio». ma una occasione unica, anche nostra, di esserci, di partecipare e di mobilitazione. Un anno quello del Giubileo, in cui è doveroso costruire un ponte con i credenti, per dare vita assieme a un indispensabile grande movimento di resistenza alla Terza guerra mondiale, per la Pace con l’umanità e la natura e….per l’Egalitè e la Fraternitè sparite dai nostri «valori» laici e occidentali.

la guerra si può abolire

aboliamo insieme la guerra

un’utopia da realizzare adesso

di Gino Strada

Strada

in “Avvenire” del 1 dicembre 2015

è possibile un mondo senza guerra per garantire un futuro al genere umano? Molti potrebbero eccepire che le guerre sono sempre esistite. È vero, ma ciò non dimostra che il ricorso alla guerra sia inevitabile, né possiamo presumere che un mondo senza guerra sia un traguardo impossibile da raggiungere. Il fatto che la guerra abbia segnato il nostro passato non significa che debba essere parte anche del nostro futuro. Come le malattie, anche la guerra deve essere considerata un problema da risolvere e non un destino da abbracciare o apprezzare

Io sono un chirurgo. Ho visto i feriti (e i morti) di vari conflitti in Asia, Africa, Medio Oriente, America Latina e Europa. Ho operato migliaia di persone, ferite da proiettili, frammenti di bombe o missili. A Quetta, la città pakistana vicina al confine afgano, ho incontrato per la prima volta le vittime delle mine antiuomo. Ho operato molti bambini feriti dalle cosiddette ‘mine giocattolo’, piccoli pappagalli verdi di plastica grandi come un pacchetto di sigarette. Sparse nei campi, queste armi aspettano solo che un bambino curioso le prenda e ci giochi per un po’, fino a quando esplodono: una o due mani perse, ustioni su petto, viso e occhi. Bambini senza braccia e ciechi. Conservo ancora un vivido ricordo di quelle vittime e l’aver visto tali atrocità mi ha cambiato la vita. Mi è occorso del tempo per accettare l’idea che una ‘strategia di guerra’ possa includere prassi come quella di inserire, tra gli obiettivi, i bambini e la mutilazione dei bambini del ‘Paese nemico’. Armi progettate non per uccidere, ma per infliggere orribili sofferenze a bambini innocenti, ponendo a carico delle famiglie e della società un terribile peso. Ancora oggi quei bambini sono per me il simbolo vivente delle guerre contemporanee, una costante forma di terrorismo nei confronti dei civili. Alcuni anni fa, a Kabul, ho esaminato le cartelle cliniche di circa 1.200 pazienti per scoprire che meno del 10% erano presumibilmente dei militari. Il 90% delle vittime erano civili, un terzo dei quali bambini. È quindi questo ‘il nemico’? Chi paga il prezzo della guerra?

Strada1 Nel secolo scorso, la percentuale di civili morti aveva fatto registrare un forte incremento passando dal 15% circa nella prima guerra mondiale a oltre il 60% nella seconda. E nei 160 e più ‘conflitti rilevanti’ che il pianeta ha vissuto dopo la fine della seconda guerra mondiale, con un costo di oltre 25 milioni di vite umane, la percentuale di vittime civili si aggirava costantemente intorno al 90% del totale, livello del tutto simile a quello riscontrato nel conflitto afgano. Lavorando in regioni devastate dalle guerre da ormai più di 25 anni, ho potuto toccare con mano questa crudele e triste realtà e ho percepito l’entità di questa tragedia sociale, di questa carneficina di civili, che si consuma nella maggior parte dei casi in aree in cui le strutture sanitarie sono praticamente inesistenti. Negli anni, Emergency ha costruito e gestito ospedali con centri chirurgici per le vittime di guerra in Ruanda, Cambogia, Iraq, Afghanistan, Sierra Leone e in molti altri Paesi, ampliando in seguito le proprie attività in ambito medico con l’inclusione di centri pediatrici e reparti maternità, centri di riabilitazione, ambulatori e servizi di pronto soccorso. L’origine e la fondazione di Emergency, avvenuta nel 1994, non deriva da una serie di principi e dichiarazioni. È stata piuttosto concepita su tavoli operatori e in corsie d’ospedale. Curare i feriti non è né generoso né misericordioso, è semplicemente giusto. Lo si deve fare. In 21 anni di attività, Emergency ha fornito assistenza medico-chirurgica a oltre 6,5 milioni di persone. Una goccia nell’oceano, si potrebbe dire, ma quella goccia ha fatto la differenza per molti. In qualche modo ha anche cambiato la vita di coloro che, come me, hanno condiviso l’esperienza di Emergency. Ogni volta, nei vari conflitti nell’ambito dei quali abbiamo lavorato, indipendentemente da chi combattesse contro chi e per quale ragione, il risultato era sempre lo stesso: la guerra non significava altro che l’uccisione di civili, morte, distruzione. La tragedia delle vittime è la sola verità della guerra. Confrontandoci quotidianamente con questa terribile realtà, abbiamo concepito l’idea di una comunità in cui i rapporti umani fossero fondati sulla solidarietà e il rispetto reciproco. In realtà, questa era la speranza condivisa in tutto il mondo all’indomani della seconda guerra mondiale. Tale speranza ha condotto all’istituzione delle Nazioni Unite, come dichiarato nella Premessa dello Statuto dell’Onu: «Salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità, riaffermare la fede nei diritti  fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole».

Strada2 Il legame indissolubile tra diritti umani e pace e il rapporto di reciproca esclusione tra guerra e diritti erano stati inoltre sottolineati nella Dichiarazione universale dei diritti umani, sottoscritta nel 1948. «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti» e il «riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo». 70 anni dopo, quella Dichiarazione appare provocatoria, offensiva e chiaramente falsa. A oggi, non uno degli Stati firmatari ha applicato completamente i diritti universali che si è impegnato a rispettare: il diritto a una vita dignitosa, a un lavoro e a una casa, all’istruzione e alla sanità. In una parola, il diritto alla giustizia sociale. All’inizio del nuovo millennio non vi sono diritti per tutti, ma privilegi per pochi. La più aberrante in assoluto, diffusa e costante violazione dei diritti umani è la guerra, in tutte le sue forme. Cancellando il diritto di vivere, la guerra nega tutti i diritti umani. Vorrei sottolineare ancora una volta che, nella maggior parte dei Paesi sconvolti dalla violenza, coloro che pagano il prezzo più alto sono uomini e donne come noi, nove volte su dieci. Non dobbiamo mai dimenticarlo. Solo nel mese di novembre 2015, sono stati uccisi oltre 4mila civili in vari Paesi, tra cui Afghanistan, Egitto, Francia, Iraq, Libia, Mali, Nigeria, Siria e Somalia. Molte più persone sono state ferite e mutilate, o costrette a lasciare le loro case. In qualità di testimone delle atrocità della guerra, ho potuto vedere come la scelta della violenza abbia – nella maggior parte dei casi – portato con sé solo un incremento della violenza e delle sofferenze. La guerra è un atto di terrorismo e il terrorismo è un atto di guerra: il denominatore è comune, l’uso della violenza. Sessanta anni dopo, ci troviamo ancora davanti al dilemma posto nel 1955 dai più importanti scienziati del mondo nel cosiddetto Manifesto di Russel-Einstein: «Metteremo fine al genere umano o l’umanità saprà rinunciare alla guerra?». È possibile un mondo senza guerra per garantire un futuro al genere umano? Molti potrebbero eccepire che le guerre sono sempre esistite. È vero, ma ciò non dimostra che il ricorso alla guerra sia inevitabile, né possiamo presumere che un mondo senza guerra sia un traguardo impossibile da raggiungere. Il fatto che la guerra abbia segnato il nostro passato non significa che debba essere parte anche del nostro futuro. Come le malattie, anche la guerra deve essere considerata un problema da risolvere e non un destino da abbracciare o apprezzare. Come medico, potrei paragonare la guerra al cancro. Il cancro opprime l’umanità e miete molte vittime: significa forse che tutti gli sforzi compiuti dalla medicina sono inutili? Al contrario, è proprio il persistere di questa devastante malattia che ci spinge a moltiplicare gli sforzi per prevenirla e sconfiggerla.

gino-strada-3 Concepire un mondo senza guerra è il problema più stimolante al quale il genere umano debba far fronte. È anche il più urgente. Gli scienziati atomici, con il loro Orologio dell’apocalisse, stanno mettendo in guardia gli esseri umani: «L’orologio ora si trova ad appena tre minuti dalla mezzanotte perché i leader internazionali non stanno eseguendo il loro compito più importante: assicurare e preservare la salute e la vita della civiltà umana». L a maggiore sfida dei prossimi decenni consisterà nell’immaginare, progettare e implementare le condizioni che permettano di ridurre il ricorso alla forza e alla violenza di massa fino alla completa disapplicazione di questi metodi. La guerra, come le malattie letali, deve essere prevenuta e curata. La violenza non è la medicina giusta: non cura la malattia, uccide il paziente. L’abolizione della guerra è il primo e indispensabile passo in questa direzione. Possiamo chiamarla ‘utopia’, visto che non è mai accaduto prima. Tuttavia, il termine utopia non indica qualcosa di assurdo, ma piuttosto una possibilità non ancora esplorata e portata a compimento. Molti anni fa anche l’abolizione della schiavitù sembrava ‘utopistica’. Nel XVII secolo, ‘possedere degli schiavi’ era ritenuto ‘normale’, fisiologico. Un movimento di massa, che negli anni, nei decenni e nei secoli ha raccolto il consenso di centinaia di migliaia di cittadini, ha cambiato la percezione della schiavitù: oggi l’idea di esseri umani incatenati e ridotti in schiavitù ci repelle.
Quell’utopia è divenuta realtà. Un mondo senza guerra è un’altra utopia che non possiamo attendere oltre a vedere trasformata in realtà. Dobbiamo convincere milioni di persone del fatto che abolire la guerra è una necessità urgente e un obiettivo realizzabile. Questo concetto deve penetrare in profondità nelle nostre coscienze, fino a che l’idea della guerra divenga un tabù e sia eliminata dalla storia dell’umanità. Ricevere il Premio Right Livelihood Award incoraggia me personalmente ed Emergency nel suo insieme a moltiplicare gli sforzi: prendersi cura delle vittime e promuovere un movimento culturale per l’abolizione della guerra. Approfitto di questa occasione per fare appello a voi tutti, alla comunità dei colleghi vincitori del Premio, affinché uniamo le forze a sostegno di questa iniziativa. Lavorare insieme per un mondo senza guerra è la miglior cosa che possiamo fare per le generazioni future.

tempi brutti per il pacifismo

 

 pacifismo

facile bersaglio


NONVIOLENZA
 

presidente nazionale del Movimento Nonviolento

Valpiana

uno degli effetti collaterali dell’allarme terrorismo, è certamente la bocciatura definitiva del pacifismo da parte di una fetta consistente dell’opinione pubblica. Se ne è fatto portavoce l’editorialista Antonio Polito: con i terroristi non si può dialogare, ci vogliono le armi.
non voglio fare il difensore d’ufficio, poiché è del tutto evidente che un certo pacifismo che si limita a sventolare bandiere arcobaleno e a convocare marce periodiche, rituali, sempre uguali a se stesse, è del tutto superato. Lo abbiamo detto noi stessi già qualche decennio fa, a partire da un convegno dal titolo esplicativo “Crescere dal pacifismo alla nonviolenza” .
che differenza c’è tra pacifismo e nonviolenza? La stessa che c’è tra chi ha paura di morire, e chi ha paura di uccidere: volere la pace (nel senso di voler essere lasciati in pace), o cercare la pace (nel senso di costruirla insieme agli altri). Il dibattito non è nuovo. Lo affrontarono già Gandhi, che distingueva tra nonviolenza del debole e nonviolenza del forte, e Aldo Capitini, che differenziava il “pacifismo relativo” dal “pacifismo integrale”. La nonviolenza dunque è una forza costruttiva per opporsi alla distruttività della guerra.

Il centro di questa discussione sta proprio nei due termini “guerra” e “forza”. Essere contro la guerra non significa escludere la forza. Infatti, la nonviolenza si basa proprio sull’uso della forza per combattere la violenza: la verità contro la menzogna, la legge dell’amore contro la legge della giungla. Se la nonviolenza assoluta non è ancora possibile, diceva Gandhi, cerchiamo almeno di raggiungere il minor grado possibile di violenza; e faceva l’esempio, attualissimo, di un cecchino che spara sulla folla. Per fermarlo (se necessario, abbatterlo) bisogna usare una forza che servirà ad evitare una violenza maggiore.

La nonviolenza insiste su due punti chiave: la correlazione tra mezzi e fini e l’efficacia dell’azione. Nel caso dei bombardamenti in Siria non si realizza nessuna delle due condizioni. Le bombe non fermano Daesh (anzi enfatizzano il fanatismo dello Stato Islamico) e colpiscono anche la popolazione civile innocente. La prova è nei fatti: dall’inizio della guerra con l’intervento in Iraq nel 2003, il terrorismo internazionale è aumentato. Perciò il mezzo-guerra non ottiene il fine-pace, e dunque non è efficace.

Le vicende in atto, quanto accaduto in Iraq, in Libia, e ora in Siria con l’avanzata di Isis, sono ben più complesse di un manicheo “o con le bombe o con i terroristi”. Certo, la neutralità o l’ignavia in questo caso sarebbero peccati di omissione, perché lascerebbero popolazioni intere come gli yazidi o i curdi alla mercé dell’esercito di un criminale come il sedicente Califfo Abu Bakr al-Baghdadi, e dunque bisogna intervenire. Ma bisogna intervenire con strumenti che possano davvero fermare gli assassini, senza creare nuovi assassini.

La domanda di oggi è: bombardare Raqqa in Siria, serve a fermare i terroristi che tengono in scacco Parigi in Europa? La risposta è no. Da nonviolento, invece, sono favorevole ai bombardamenti sui pozzi di petrolio nei territori conquistati da Daesh, per tranciare la fonte di finanziamento del terrorismo: un sabotaggio. Non sarebbe una guerra, ma un’operazione militare, da fare sotto egida Onu, mirata a danneggiare economicamente i fuori legge, senza mirare a stroncare vite umane innocenti. Eppure in questi anni si è scelta una strategia diversa, con i bombardamenti sulle città. E nonostante tutta la potenza di fuoco a disposizione (America, Russia, Europa insieme) non si riesce a farla finita con qualche decina di migliaia di tagliagole. Come mai?

La convulsione storica che stiamo vivendo non è scoppiata improvvisamente, come un terremoto, ma è cresciuta per decenni, nei quali nulla si è fatto per evitarne l’esplosione, né per preparare una valida alternativa. È come trovarsi davanti ad un incendio devastatore senza aver mai fatto prevenzione e senza avere in mano neppure un secchio d’acqua per spegnerlo. Che si potrebbe fare? Nulla. Oggi le proposte della nonviolenza sembrano solo teoriche, perché per anni, per decenni, non hanno ottenuto nessun credito. Tutte le energie, tutti i finanziamenti, tutta la politica è stata indirizzata a preparare esclusivamente la macchina bellica, che infatti oggi è pronta e aggressiva, con portaerei, bombe, truppe, elicotteri, carri armati; tutto ben organizzato, costruito e finanziato in anni e anni. Ma non funziona! E dopo aver speso migliaia di miliardi nell’apparato tecnico-scientifico-militare e non aver mai investito nemmeno un euro nella preparazione nonviolenta, come si può chiedere agli amici della nonviolenza una possibile soluzione della tragedia in corso?

Come nonviolenti sappiamo ben vedere la differenza che c’è tra la guerra e un intervento armato, tra l’esercito e la polizia. Da anni siamo impegnati nella ricerca per la soluzione nonviolenta dei conflitti, sosteniamo il Tribunale Internazionale davanti al quale bisogna portare Bush, Blair e al-Baghdadi per crimini contro l’umanità, lavoriamo per l’istituzione di Corpi Civili di Pace, chiediamo di investire in intelligence, in diplomazia e favoriamo processi di pacificazione, riconciliazione, convivenza. Da sempre vogliamo la diminuzione dei bilanci militari e il sostegno finanziario alla creazione della Polizia Internazionale, che intervenga nei conflitti a tutela della parti lese, per disarmare l’aggressore. Contemporaneamente al sostegno di questi progetti, lavoriamo contro la preparazione della guerra, che è una forma di terrorismo su larga scala, per bloccare il commercio di armi e smantellare gli arsenali. È un lavoro, indispensabile e ineludibile, di prevenzione.

il no alla guerra di M.Ovadia

“fare la guerra rischia di legittimare l’Isis”

intervista a Moni Ovadia

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“Per fermare l’Isis non servono altre bombe né una guerra globale ma un’azione diplomatica seria. Altrimenti si rischia di fare proprio il loro gioco”

Ad affermarlo è Moni Ovadia, “ebreo agnostico di professione saltimbanco” come lui stesso si è definito in una lettera recente al papa. Ovadia è un grande conoscitore e protagonista della Cultura Ebraica, dal Mediterraneo all’Est Europa. “I criminali tagliagole dell’Isis – sottolinea al nostro giornale – si fanno esplodere perché non hanno aeroplani, bombardieri, F35… Per cui non c’è da stupirsi più di tanto se utilizzano il proprio corpo come bombe. Quello hanno, quello usano”.

La Francia ha subito reagito con bombardamenti in Siria. E gli altri paesi dell’Europa si stanno organizzando rapidamente per le missioni militari. E’ questa la strada giusta?
L’opzione militare secondo me è la peggiore che si possa intraprendere. L’Isis non lo combatti con gli aerei. Anche perché, per un terrorista che fai fuori ammazzi nove civili innocenti. Fare la guerra all’Isis significa legittimarlo. E’ esattamente quello che cercano. Quindi è a mio parere un errore madornale. Dall’appoggio dato dagli americani ai Mujaheddin e ad Al Qaeda contro i sovietici, in avanti, queste guerre hanno provocato solo catastrofi, morti e più terrorismo.

Se non è l’opzione militare quale altra strada bisogna intraprendere?
La prima cosa da chiarire è se si vuole combattere effettivamente l’Isis. Perché se questa è la vera volontà allora si dovrebbe chiedere al potente alleato turco di utilizzare i Peshmerga curdi (le forze armate del Kurdistan, ndr) che sono dei grandissimi combattenti. Ma la Turchia non lo fa perché non vuole che i curdi abbiano un loro stato. E poi gli americani devono decidere cosa fare con l’Arabia saudita che è il loro migliore alleato e che è stato il massimo finanziatore dell’estremismo islamico. L’occidente deve decidere, al di là delle chiacchiere e della retorica se è più interessato alla strada della democrazia o a quella del business e dell’egemonia. Se sceglie la seconda il terrorismo durerà ancora a lungo.

Come si evita una guerra globale?
Togliendo acqua nello stagno dove nuotano i terroristi, togliendo benzina al loro fuoco, e questo si fa costruendo accordi e inglobando tutti i paesi di quell’area in un dialogo diverso. E l’occidente deve smetterla di considerare il sangue in modo diverso. Le guerre occidentali nel medio oriente e in nord Africa hanno fatto negli anni milioni di morti. Questo sangue non è diverso da quello dei morti di Parigi.

L’ex premier britannico ha chiesto scusa per la guerra del Golfo ammettendo che quell’azione militare ha praticamente creato le basi per una nascita dell’Isis
Blair è un ipocrita, dopo aver fatto questa dichiarazione dovrebbe andare a seppellirsi in un convento per la vergogna. Lui e l’ex presidente Bush hanno scatenano una guerra sulla base di un cumulo di menzogne. Il loro è un crimine di guerra. Non basta chiedere scusa. E poi perché non c’è nessuno che voglia finalmente aprire gli occhi sul martirio del popolo palestinese?il no

L’Europa che politica deve attuare?
L’Europa deve innanzitutto diventare “politica”. E oggi non lo è e peraltro ha una classe dirigente antropologicamente di una mediocrità senza fine. E’ un’istituzione che si occupa di sostenere gli interessi dei potenti in Europa e del cosiddetto libero mercato che poi non è affatto libero. L’Europa deve decidere cosa vuole fare da grande. E’ indispensabile  un’Europa politica unita e con una sola difesa centrata sulla pace. L’Europa può diventare il continente di equilibrio che media tra gli uni e gli altri ma è difficile con questi “omuncoli” che la dirigono. Il tanto vituperato Prodi era l’uomo che voleva veramente questo processo di unità e gli hanno messo i bastoni tra le ruote in tutti i modi. E lo sapete chi è stato il vero avversario di Prodi? Proprio Tony Blair.

Fonte: “Il Radiocorriere Tv”

intellettuali francesi contro la guerra

contro la guerra non si può restare in silenzio

 «Quando furono scatenate le guerre in Afghanistan e Iraq sapevano che quei conflitti avrebbero seminato, alla cieca, caos e morte. Avevamo torto? La guerra di Hollande avrà le stesse conseguenze. Per questo non si può non reagire»

un appello di intellettuali francesi

Nessuna interpretazione monolitica, nessuna spiegazione meccanicistica può far luce sugli attentati. Ma possiamo forse rimanere in silenzio? Molte persone — e le comprendiamo — ritengono che davanti all’orrore di questi fatti, l’unico atto decente sia il raccoglimento. Eppure non possiamo tacere, quando altri parlano e agiscono in nostro nome: quando altri ci trascinano nella loro guerra. Dovremmo forse lasciarli fare, in nome dell’unità nazionale e dell’intimazione a pensare in sintonia con il governo?

Si dice che adesso siamo in guerra. E prima no? E in guerra perché? In nome dei diritti umani e della civiltà? La spirale in cui ci trascina lo Stato pompiere piromane è infernale. La Francia è continuamente in guerra. Esce da una guerra in Afghanistan, lorda di civili assassinati. I diritti delle donne continuano a essere negati, e i talebani guadagnano terreno ogni giorno di più. Esce da una guerra alla Libia che lascia il paese in rovine e saccheggiato, con migliaia di morti, e montagne di armi sul mercato, per rifornire ogni sorta di jihadisti. Esce da una guerra in Mali, e là i gruppi jihadisti di al Qaeda continuano ad avanzare e perpetrare massacri. A Bamako, la Francia protegge un regime corrotto fino al midollo, così come in Niger e in Gabon. E qualcuno pensa che gli oleodotti del Medioriente, l’uranio sfruttato in condizioni mostruose da Areva, gli interessi di Total e Bolloré non abbiano nulla a che vedere con questi interventi molto selettivi, che si lasciano dietro paesi distrutti? In Libia, in Centrafrica, in Mali, la Francia non ha varato alcun piano per aiutare le popolazioni a uscire dal caos. Eppure non basta somministrare lezioni di pretesa morale (occidentale). Quale speranza di futuro possono avere intere popolazioni condannate a vegetare in campi profughi o a sopravvivere nelle rovine?

La Francia vuole distruggere Daesh? Bombardando, moltiplica i jihadisti. I «Rafale» uccidono civili altrettanto innocenti di quelli del Bataclan. E, come avvenne in Iraq, alcuni civili finiranno per solidarizzare con i jihadisti: questi bombardamenti sono bombe a scoppio ritardato.

Daesh è uno dei nostri peggiori nemici: massacra, decapita, stupra, opprime le donne e indottrina i bambini, distrugge patrimoni dell’umanità. Al tempo stesso, la Francia vende al regime saudita, notoriamente sostenitore delle reti jihadiste, elicotteri da combattimento, navi da pattugliamento, centrali nucleari; l’Arabia saudita ha appena ordinato alla Francia tre miliardi di dollari di armamenti; ha pagato la fattura di due navi Mistral, vendute all’Egitto del maresciallo al Sisi che reprime i democratici della primavera araba. In Arabia saudita, non si decapita forse? Non si tagliano le mani? Le donne non vivono in semi-schiavitù? L’aviazione saudita, impegnata in Yemen a fianco del regime, bombarda le popolazioni civili, distruggendo anche tesori dell’architettura. Bombarderemo l’Arabia saudita? Oppure l’indignazione varia a seconda delle alleanze economiche?

La guerra alla jihad, si dice con tono marziale, si combatte anche in Francia. Ma come evitare che vi cadano dei giovani, soprattutto quelli provenienti da ceti non abbienti, se non cessano le discriminazioni nei loro confronti, a scuola, rispetto al lavoro, all’accesso all’abitazione, alla loro religione? Se finiscono continuamente in prigione, ancor più stigmatizzati? E se non si aprono per loro altre condizioni di vita? Se si continua a negare la dignità che rivendicano?

Ecco: l’unico modo per combattere concretamente, qui, i nostri nemici, in questo paese che è diventato il secondo venditore di armi a livello mondiale, è rifiutare un sistema che in nome di un miope profitto produce ovunque ingiustizia. Perché la violenza di un mondo che Bush junior ci prometteva, 14 anni fa, riconciliato, riappacificato, ordinato, non è nata dal cervello di bin Laden o di Daesh. Nasce e prospera sulla miseria e sulle diseguaglianze che crescono di anno in anno, fra i paesi del Nord e quelli del Sud, e all’interno degli stessi paesi ricchi, come indicano i rapporti dell’Onu. L’opulenza degli uni ha come contropartita lo sfruttamento e l’oppressione degli altri. Non si farà indietreggiare la violenza senza affrontarne le radici. Non ci sono scorciatoie magiche: le bombe non lo sono.

Quando furono scatenate le guerre dell’Afghanistan e dell’Iraq, le manifestazioni di protesta furono imponenti. Sostenevamo che questi interventi militari avrebbero seminato, alla cieca, caos e morte. Avevamo torto? La guerra di Hollande avrà le stesse conseguenze. Dobbiamo unirci con urgenza contro i bombardamenti francesi che accrescono le minacce, e contro le derive liberticide che non risolvono nulla, anzi evitano e negano le cause del disastro. Questa guerra non sarà in nostro nome.

primi firmatari:

Etienne Balibar, Ludivine Bantigny (storica), Emmanuel Barot (filosofo), Jacques Bidet (filosofo), Déborah Cohen (storica), François Cusset (storico delle idee), Laurence De Cock (storica), Christine Delphy (sociologa), Cédric Durand (economista), Fanny Gallot (storica), Eric Hazan (editore), Sabina Issehnane (economista), Razmig Keucheyan (sociologo), Marius Loris (storico e poeta), Marwan Mohammed (sociologo), Olivier Neveux (storico dell’arte), Willy Pelletier (sociologo), Irene Pereira (sociologa), Julien Théry-Astruc (storico), Rémy Toulouse (editore), Enzo Traverso (storico)

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