il modo in cui accogliamo i migranti, la negazione dei loro diritti più elementari secondo le riflessioni di due persone di cultura e sensibili a queste problematiche sociali: C. Saraceno e L. Manconi:
diritti ignorati dei migranti
di Chiara Saraceno
in “la Repubblica” del 27 dicembre 2013
Miracolo natalizio. Ciò che non è stato possibile per mesi, è diventato possibile nel giro di
ventiquattr’ore. Tutte le persone trattenute nel centro di prima accoglienza di Lampedusa, salvo,
assurdamente, i diciassette sopravvissuti al naufragio di ottobre, sono state trasferite in altri centri
sulla terra ferma.
Non erano bastate le foto dei materassi gettati per terra, i resoconti giornalistici di povera gente,
inclusi molti sopravvissuti del naufragio di ottobre, ammassata in condizioni disumane. La
commozione dei politici nel giorno dei funerali era servita solo per consentire loro un’ennesima
passerella sui telegiornali. Poi l’attenzione dei politici e dei responsabili si è spostata altrove.
Forse non sarebbe bastato neppure il video delle docce antiscabbia a chiudere una struttura che
dovrebbe funzionare solo come tappa di transito veloce. Infatti, la prima reazione del ministro degli
Interni è stata di scaricare la colpa esclusivamente sui gestori, non anche sul suo proprio ministero,
che trattiene lì a tempo indeterminato chi arriva su quelle coste, al di fuori di ogni legge (inclusa la
Bossi-Fini) e ragionevolezza, facendo finta di ignorare le condizioni in cui vivono i profughi lì
ammassati e in cui opera chi ci lavora. Una cinica indifferenza che avalla l’idea che i profughi siano
persone senza diritti, che possono essere trattate come animali, anzi peggio. Salvo indignarsi
ipocritamente quando qualcuno denuncia e rende pubblico l’orrore.
Perché l’indignazione, questa volta, avesse un seguito pratico per i profughi c’è voluto il gesto di un
politico che ha preso sul serio il proprio mandato, che non ha sofferto di amnesia, soprattutto che
non si è limitato a una visita rituale di solidarietà, e neppure a denunciare, ma è andato a
condividere l’intollerabile. Onore quindi a Khalid Chaouki, “nuovo cittadino” che ha preso sul serio
la responsabilità di difendere le condizioni di civiltà che il nostro paese dovrebbe garantire a tutti.
Speriamo solo che non debba correre a cucirsi anche lui le labbra perché gli immigrati che si
trovano nei vari Cie sparsi per l’Italia cessino di essere trattenuti persino oltre i termini lunghissimi
previsti dalla Bossi-Fini, senza alcun diritto, neppure quello a mantenere le proprie relazioni
famigliari, alla mercé non solo di una burocrazia lentissima, ma della discrezionalità dei
sorveglianti. O che qualche deputata non debba condividere la sorte delle ragazzine costrette a
prostituirsi per pochi soldi nei Cie o nei Cara, per attirare l’attenzione su un fenomeno tanto noto,
quanto ignorato (quando non sfruttato dagli stessi sorveglianti).
È davvero intollerabile che in Italia solo i gesti eclatanti riescano a far attivare quelli che sarebbero
diritti umani e civili fondamentali, mettere in moto procedure che dovrebbero essere normali, che
sono addirittura previste per legge. Una situazione che incentiva una sorta di corsa al gesto estremo,
cui fa da pendant l’insofferenza, o il cinismo rassegnato, di chi assiste. Non succede solo con imigranti e i profughi. Ma nel loro caso sembra che l’eccezionalità non basti mai. Lo testimonial’esperienza dei diciassette sopravvissuti al naufragio di Lampedusa, gli unici ancora trattenuti lì, “a disposizione dei magistrati” (che per altro operano al tribunale di Agrigento), forse per farli maledire di non essere morti anche loro il 3 ottobre.
Ora si parla di abolire la Bossi-Fini. Bene. Non vorrei tuttavia che, insieme all’indignazione a
corrente alternata, questa tipica via di fuga della politica italiana — il cantiere sempre aperto delle
riforme annunciate — fosse un modo per continuare a ignorare la mancata applicazione delle norme
esistenti, specie di quelle a garanzia dei migranti e profughi. E continuare a chiudere gli occhi su
quella che ormai è diventata un’industria dell’accoglienza, a favore di chi la fa, molto meno di chi
dovrebbe beneficiarne
Porre rimedio alla vergogna dei Cie si può, ecco come
di Luigi Manconi
in “l’Unità” del 24 dicembre 2013
Ma è possibile abolirli, questi Cie? Penso seriamente, ragionevolmente e persino pacatamente di sì.
I Centri di identificazione e di espulsione possono essere aboliti. Svuotandoli delle loro motivazioni
costitutive, mostrandone l’inadeguatezza e l’inefficienza, rivelandone la miseria. Ovvero
argomentandone la totale insensatezza. Quelle bocche cucite dei trattenuti di Ponte Galeria, a Roma,
ci costringono a parlarne. Quel silenzio auto inflitto con gli aghi ricavati in maniera rudimentale
dagli strumenti della vita quotidiana ci forza a dire ciò che finora sembrava indicibile. I Cie non
rispondono a nessuna ragione né di sicurezza né di umanità; peggio: deridono la sicurezza e
oltraggiano l’umanità. Sono «non luoghi» sprofondati in un non tempo: un tempo totalmente vuoto,
privo di qualunque attività che non sia quella meramente fisiologica. Ma, accertato tutto ciò, torna
la domanda: possono essere aboliti i Cie?
In questi centri, allo stato di migrante irregolare, magari disconosciuto dal proprio paese d’origine,
o in fuga da esso, si aggiunge talvolta il marchio di una condanna penale, seppure per fatti di
minimo disvalore sociale. Ecco, questi sono gli «ultimi», cui si offre un rifugio provvisorio, senza
possibilità di uscirne, fino a quando qualcuno non decida che fine fargli fare, se rimandarli in un
qualche luogo d’origine o magari, beffardamente, nel paese d’origine della famiglia. Come quel
21enne nato e vissuto sempre ad Aversa, incontrato nel Cie di Roma, che sta per essere espulso in
Serbia perché da lì verrebbero i suoi genitori, e che mi dice: «Ma io il viaggio più lungo l’ho fatto
per andare a Milano», e non conosce alcuno che abiti in Serbia, non ne parla la lingua, non ne ha
mai visto il paesaggio. Inevitabilmente quindi i Cie sono luoghi inospitali, destinati ad accogliere
persone che non ci vogliono stare (e che spesso non capiscono perché vi siano costretti) in nome e
per conto di una legislazione che non ha alcuna intenzione di «ospitarli», ma vorrebbe solo
rimandarli a casa nel più breve tempo possibile.
Un’ospitalità senza desiderio (senza il desiderio di ospitare degli uni e senza il desiderio di essere
ospitati degli altri) si risolve così necessariamente in un limbo in cui uomini e donne sono costretti a
sopravvivere al minor costo possibile per il tempo necessario al disbrigo di pratiche burocratiche.
Queste condizioni che attengono al loro stesso mandato istituzionale fanno dei Cie luoghi in
qualche modo irriformabili, di cui è necessario perseguire il superamento attraverso il loro
svuotamento di funzioni e di persone. Per questo è importante il primo passo compiuto dal Governo
con il nuovo decreto-legge voluto dal Ministro Cancellieri. In esso è prevista l’identificazione dei
detenuti stranieri passibili di espulsione sin dal loro ingresso in carcere. In questo modo finirebbe
l’inutile trasferimento dal carcere ai Cie di tantissimi stranieri che hanno appena finito di scontare la
propria pena: se devono e possono essere espulsi ciò avverrebbe direttamente dal carcere; se vi sono
ragioni per cui non debbano o non possano essere espulsi, tornerebbero legittimamente in libertà,
avendo saldato i propri debiti con la giustizia italiana.
Alcune stime valutano in un 30-40% gli ex detenuti trattenuti nei Cie. L’ultima indagine di Medici
per i diritti umani (maggio 2013) ci dice, invece, che quasi il 57% dei 924 stranieri trattenuti nei Cie
proveniva dalle carceri. Basterebbe una buona applicazione della recente norma del governo Letta
per dimezzare lo scandalo che è sotto i nostri occhi. Resterebbe, certo, l’altra metà degli «ospiti» dei
Cie da liberare, ma anche qui si può fare qualcosa, fin quasi allo svuotamento dei Centri. È un
pregiudizio ingiustificato quello che raffigura qualsiasi irregolare come un fuggitivo di fronte alle
autorità italiane. Un pregiudizio alimentato dal cattivo uso della lingua italiana, per cui ogni
«irregolare» è «clandestino» (parola oscena e violenta che impazza a destra come a sinistra) e tale
intende rimanere. Al contrario, come sappiamo, molti degli «ospiti» dei Cie hanno o hanno avuto
relazioni significative con le loro comunità nazionali presenti nel nostro paese, con le realtà
territoriali (fatte di italiani e stranieri) in cui hanno vissuto e lavorato, con le stesse istituzioni,
quando vi hanno avuto a che fare (per un permesso di soggiorno scaduto, per i contributi versati, per
le cure mediche ricevute). Non è un caso se solo il 40% scarso dei trattenuti nei Cie nel 2012 sono
stati effettivamente rimpatriati, e probabilmente molti di questi provenivano dalla cella.
Insomma, se ci si liberasse dal pregiudizio secondo cui ogni straniero irregolare è un clandestino in
fuga e che minaccia la nostra incolumità, si potrebbero adottare altri mezzi per l’accertamento della
loro permanenza in Italia e per la loro eventuale espulsione.
Non c’è nulla da inventare: basterebbe un obbligo di firma o un obbligo di dimora, vincoli e limiti
ai movimenti (peraltro si tratta di misure già previste ma applicate solo in casi eccezionali) per
verificare che l’irregolare soggetto a identificazione, o che ha contestato un provvedimento di
espulsione, sia reperibile dalle forze di polizia. E così i Cie sarebbero ridotti a pochi locali,
necessari a ospitare per qualche notte chi sia in attesa del rimpatrio ormai esecutivo. È l’unico modo
affinché quelle bocche cucite riprendano a nutrirsi e le nostre voci afone possano riacquistare un po’
di credibilità.