per ‘il Foglio’ papa Francesco vuole addirittura distruggere la chiesa

‘il Foglio’ contro Papa Francesco

“Bergoglio sta distruggendo la Chiesa”

PAPA

 

 il Foglio contro Papa Francesco, dapprima in modo un po’ più incerto, ora nel modo più deciso e radicale

Il quotidiano diretto da Claudio Cerasa rilancia un articolo scritto da Damian Thompson sul settimanale britannico The Spectator – che alla guerra del “Papa contro la Chiesa” ha dedicato la copertina del suo ultimo numero – e titola in prima pagina “Il Papa sta distruggendo la Chiesa”.

“Sono passati due anni e mezzo dall’inizio del pontificato, ma è solo nell’ultimo mese che i semplici cattolici conservatori, e non i tradizionalisti più irriducibili, hanno cominciato a sostenere che papa Francesco è fuori controllo”.

The Spectator chiarisce che Bergoglio è “fuori controllo”, nel senso che “non sta perdendo il controllo”.

“Nessun Pontefice a memoria d’uomo ha lasciato spazio alla paura che ora sta avvolgendo la chiesa: che il magistero conferito a Pietro da Gesù non è sicuro nelle sue mani. I media non cattolici non hanno ancora colto il pericolo mortale insito nella sfida che si trova ad affrontare il papa argentino. Dal modo rilassato e audace con cui si comporta in pubblico e dai suoi commenti improvvisati, concludono che si è di fronte a un papa liberale (sempre secondo gli standard papali) attorno alle tematiche più sensibili, relative alla morale sessuale, e invece guardano ai vescovi conservatori dal cuore duro come a degli ipocriti”.

Non c’è leggerezza, secondo il settimanale, nel modo in cui Francesco esercita il suo potere.

“Francesco esercita il potere con una sicurezza di sé degna di san Giovanni Paolo II, il Papa polacco la cui guerra santa contro il comunismo si concluse con il crollo del blocco sovietico. Ma è qui che finiscono le somiglianze. Giovanni Paolo non ha mai nascosto la natura della sua missione. Era deciso a chiarire e consolidare gli insegnamenti della chiesa. Francesco, al contrario, vuole muoversi verso una chiesa più compassionevole, meno legata alle regole. Ma si rifiuta di dire fino a che punto è disposto ad andare. A volte sembra un automobilista che guida a tutta velocità senza una mappa o uno specchietto retrovisore. E quando si impantana, come accaduto al Sinodo di ottobre sulla famiglia, si mette a colpire il cofano con un bastone”.

Il timore sollevato da The Spectator è che la Chiesa possa non riprendersi dalla gestione di Papa Francesco.

“I cattolici fedeli credono che l’ufficio di Pietro sopravviverà a prescindere da chi lo detiene. Gesù l’ha promesso. Ma dopo il caos dell’ultimo mese, la loro fede è messa alla prova fino al punto di rottura. Jorge Bergoglio sembra rivelarsi l’uomo che ha ereditato il papato e l’ha distrutto”.

come sintetizzare in modo brillante il pensiero di un grande filosofo senza capirne la sostanza

contro Severino, l’iperfilosofo

una superficiale  ancorché brillante e con buona capacità di sintesi del pensiero di un grande pensatore (tanto di cappello!) questa di A. Berardinelli (su ‘il Foglio’): non ne coglie affatto il senso di fondo e lo trasforma in caricatura; un pizzico di senso della misura non sciuperebbe pur nella legittima libertà di dissenso!

questa la tesi caricaturale di A. Berardinelli nei confronti del pensiero di Severino:

perseguita da quarant’anni i lettori italiani con la favola antica dell’Essere e del Divenire che gli permette di dire tutto non dicendo niente. Perfino di sostenere che lui è migliore di tutti, anche di Leopardi

di Alfonso Berardinelli

Emanuele Severino

Mi ero distratto, avevo dimenticato per un momento (durato un paio d’anni) di dedicarmi a Emanuele Severino, il nostro più tipico e puro iperfilosofo, specializzato nella pretesa di superare ogni altro filosofo dell’intera tradizione occidentale. Dall’alto podio delle edizioni Adelphi, Severino perseguita da quarant’anni i lettori filo-filosofici italiani con la favola antica dell’Essere e del Divenire. Dopo aver distinto nettamente e assolutamente questi due verbi, Severino ha aggiunto, in una cinquantina di libri, che l’essere non è il divenire poiché il divenire non è l’essere. Chi crede il contrario e azzarda anche momentanee e parziali concomitanze fra i due verbi, cade secondo lui nella Follia dell’occidente, cioè è pazzo. Due verbi come quelli, trasformati in realtà metafisica, offrono materia per un eterno conflitto metafisico, di cui Severino è il massimo specialista e arbitro. Mi fermo qui perché dopo poche righe ne ho già abbastanza. Severino invece non si sazia mai di giocare sempre la stessa partita a esito garantito, perché in conclusione lui vince sempre, con l’essere che è la sola realtà mentre il divenire è tutto una bugia.

Potrebbe bastare, ma mi accorgo che nel maggio scorso l’iperfilosofo che batte tutti, ha pubblicato un terzo libro su Leopardi: “In viaggio con Leopardi. La partita sul destino dell’uomo” (Rizzoli, 220 pp., 16 euro). Avendo saputo che due anni fa il nostro grande poeta, dopo la traduzione in inglese dello “Zibaldone”, è stato scoperto in Inghilterra e in America come grande filosofo (naturalmente antimetafisico…), Severino non poteva tacere. Il giudizio finale spetta a lui e immancabilmente lo rivendica.

  Secondo l’iperfilosofo tutti, prima di lui, si sono sbagliati: i greci che hanno messo in giro quella storia fasulla del divenire e dello sparire delle cose, poi il cristianesimo, poi l’umanesimo, poi Hegel, Nietzsche e infine Leopardi, precursore di Nietzsche. Ecco l’occasione da non perdere. Con Leopardi, su Leopardi si poteva fare un nuovo libro, approfittando del suo successo filosofico, per giocare e vincere con lui e contro di lui la solita partita. Per farlo era anzitutto necessario dire che Leopardi sta con il suo pensiero “al culmine della storia del pensiero”. Se Severino scrive su Leopardi è dunque per una sola ragione: perché al culmine in verità non c’è Leopardi, o meglio: c’era. Poi è arrivato Severino e ora al culmine c’è lui.

Senza dubbio una cosa è vera: con Severino la megalomania filosofica, o filosofia del culmine, ha raggiunto il suo culmine. Il “destino della verità” conduce a lui e solo a lui, dopo secoli di errori e di follia. Il culmine è che dove c’è essere non può esserci divenire, perché A è A e B è B. Non può essere dunque che A sia B. Dove non c’è essere c’è il nulla e il nulla non è.

Meravigliosa facoltà di sintesi. Che permette di dire tutto non dicendo niente e di filosofare su qualunque cosa, dal conflitto America-Russia alla tecnica e dalla tecnica all’embrione, dicendo sempre una cosa saputa in anticipo: che l’essere non diviene e il divenire non ha essere. E’ così che Severino vertiginosamente svetta e prende quota su tutti coloro che non si sono impegnati a dire la sola cosa che lui dice. Tutti poco filosofici, tutti incoerenti, deboli, sentimentali. Tutti e Leopardi fra questi.

Dopo qualche citazione (poteva farne altre e poteva anche citare altri autori: era lo stesso) Severino si sente giunto al suo scopo. Leopardi si addolora e piange sulle cose perdute e sulle esistenze sparite. Ma si sbaglia. Eh sì, si sbaglia. Niente sparisce, dice Severino, niente precipita nel nulla, perché il nulla non è, mentre ciò che ha essere non è attaccabile dal nulla.

L’iperfilosofo, per non farsi mancare materia filosofica, non ha voluto capire che dire “nulla” è solo un modo di dire. Indica l’entrare e l’uscire di qualcosa o di qualcuno dall’orizzonte della nostra esperienza. E’ questo che ci fa gioire o piangere. Fosse anche che qualcuno va in paradiso o all’inferno, per noi non c’è più. Il nulla non c’entra niente. 

 Arrivati al capitolo conclusivo, per chi non l’avesse già previsto, Severino viene allo scoperto. Smette di fare inchini al pensiero culminante di Leopardi e con un colpo solo gli scippa il culmine. Se Leopardi aveva superato tutta la tradizione occidentale, chi supera Leopardi supera tutto e tutti. Nemico del nichilismo come dice di essere, quando si tratta di celebrare il proprio pensiero, Severino diventa il peggiore dei nichilisti. Riduce l’intera cultura occidentale a un pugno di polvere e invece di provocare in noi lo sgomento, pretende di ispirarci un infrangibile stato di gioia. L’essere è invulnerabile, basta saperlo. Tutto ciò che è, contiene l’essere. Dunque tutto ciò che è, sarà sempre. Perché immalinconirsi? Essere è un verbo all’infinito. Perciò siamo al sicuro, infinitamente, per il solo fatto che siamo. Per la cinquantesima volta Severino conclude così il suo cinquantesimo libro.

la ‘parresia’ del card. Maradiaga, elogiata da Mancuso, criticata da ‘il Foglio’

mutare la dottrina, si può e si deve, dice Mancuso alle orecchie scandalizzate de ‘il Foglio’, quando tale dottrina non è più capace di parlare e annunciare il vangelo all’uomo contemporaneo:  qualcuno potrebbe parlare di “tattica del camaleonte, ma sbaglierebbe. Perché è solo un modo per dire che l’insegnamento di Gesù è sempre attuale”. “Se la chiesa non muta – aggiunge Mancuso – non vive. Vogliamo qualcosa di immutabile? Bene, prendiamo una pietra. Se la chiesa vuole vivere, deve mutare”

questa la ricostruzione delle dichiarazioni di Mancuso a ‘il Foglio’ fatta da M. Matzuzzi:

Nelle parole del teologo novatore Mancuso, ecco la posta in gioco

“Se non entrerà in gioco il concetto di famiglia, non so a cosa possa servire il Sinodo. La questione di fondo è proprio questa, l’ha detto anche Maradiaga nella recente intervista concessa al quotidiano tedesco Kölner Stadt-Anzeiger”. Il teologo Vito Mancuso è rimasto impressionato dalle parole del porporato honduregno, “mi ha colpito la libertà della mente che il suo incedere aveva, e di questo c’è molto bisogno, soprattutto nella chiesa”, dice al Foglio. “Serve parresìa, franchezza nel dire le cose, pur avendo sempre rispetto verso la persona verso cui le si dice. C’è necessità di dire le cose in maniera netta, franca. Cosa che oggi non si vede più troppo spesso”. Maradiaga parla di nuova èra, si richiama al Vaticano II, “quasi ci fosse bisogno di riprendere quella musica dopo l’ouverture interrotta. E’ penetrante quell’immagine dell’aria fresca”, aggiunge Mancuso. Il cuore della faccenda è che “il genere di famiglia descritto dalla Familiaris Consortio, l’esortazione giovanpaolina del 1983, non esiste quasi più. Ci sono altre situazioni, oggi, che ambiscono ad avere la qualifica di famiglia, e ciò sarebbe opportuno e giusto”. Maradiaga, nell’intervista, parla di genitori separati, famiglie allargate, genitori single. Cita il fenomeno della maternità surrogata, i matrimoni senza figli, le unioni tra persone dello stesso sesso. “Più queste forme di unione vengono stabilizzate, più gli individui interessati ne trarranno del bene. Ricordiamo che il compito ultimo della chiesa è proprio quello, il bene. Ecco perché – aggiunge il teologo – il concetto di famiglia deve entrare nel dibattito sinodale. E questo senza paura di aprirsi troppo né di mostrarsi sempre necessariamente accondiscendenti verso la realtà”.

Quanto al confronto sul riaccostamento dei divorziati risposati ai sacramenti, con il custode dell’ortodossia cattolica, Gerhard Müller che dalle pagine dell’Osservatore Romano invita a non banalizzare la misericordia divina e Maradiaga che ricorda come le parole di Cristo possano essere interpretate, Mancuso non ha dubbi: “Le parole di Cristo si sono sempre interpretate. Se non si vuole cadere nel fondamentalismo delle sette, è inevitabile esporsi al rischio (che è anche fascino) dell’interpretazione. Si è sempre fatto così. Basti pensare che le parole di Cristo già sono consegnate a noi come interpretazione, le ipsissima verba Iesu quasi non esistono, Gesù parla in modo molto diverso nei vari vangeli. Direi quindi che l’interpretazione non è certo un pericolo ma è specifico dell’identità cristiana”. Nel mondo della vita spirituale, aggiunge il nostro interlocutore, “nulla si fa senza il rischio di interpretazione”. E’ inevitabile, poi, che – come dice Maradiaga – si pensi più alla pastorale che alla dottrina: “Nel discorso d’apertura del Concilio, Giovanni XXIII distinse tra la dottrina certa e immutabile e il modo per renderla comunicabile all’altezza delle esigenze contemporanee. La pastorale è proprio questo, è il tentativo di rendere comunicabile la dottrina all’uomo contemporaneo”, spiega Mancuso. Certo, “ho dei dubbi che questo possa avvenire senza toccare la dottrina, anche se i vescovi non ammetteranno mai un mutamento dottrinale, diranno che si tratta semmai di normale evoluzione”, aggiunge. “Ma è inevitabile che ci debba essere un cambiamento di prospettiva, anche clamoroso. Se si è fedeli all’esigenza dei tempi, questo è inevitabile”. Niente di totalmente inedito però: “Anche in passato si è fatto così. E’ già successo – spiega il teologo –, solo che la chiesa ha negato che si trattava di rottura, parlando di naturale evoluzione”. Un esempio? “La questione della libertà religiosa. Aveva ragione Marcel Lefebvre nel dire che c’è stato un effettivo disconoscimento del Sillabo e della Mirari Vos di Gregorio XVI e, più in generale, di tutto un magistero secolare della chiesa. Non ci sono dubbi che la Dignitatis Humanae ha compiuto una svolta mettendo l’accento sulla libertà di coscienza del singolo e non sulla verità oggettiva”. Qualcuno potrebbe parlare di “tattica del camaleonte, ma sbaglierebbe. Perché è solo un modo per dire che l’insegnamento di Gesù è sempre attuale”. “Se la chiesa non muta – aggiunge Mancuso – non vive. Vogliamo qualcosa di immutabile? Bene, prendiamo una pietra. Se la chiesa vuole vivere, deve mutare”.

Quanto alle frasi del prefetto Müller sulla misericordia che deve andare sempre di pari passo con la giustizia – “al mistero di Dio appartengono, oltre alla misericordia, anche la santità e la giustizia; se non si prende sul serio la realtà del peccato, non si può nemmeno mediare alle persone la sua misericordia”, scriveva sull’Osservatore Romano – Vito Mancuso dice che “la misericordia vera sa, conosce le ferite delle persone”. La strada, aggiunge, “è quella che porta al primato della misericordia. O vogliamo dire che chi ha un matrimonio fallito ha commesso un peccato? Semmai è un errore, ma non ci sono i presupposti per parlare di peccato”. A ogni modo, sottolinea il nostro interlocutore, “ciò non significa che si debba avere un’idea troppo sbarazzina della misericordia. Questa non va contrapposta alla giustizia, ma non può esserci giustizia senza misericordia. Altrimenti si cade nel giustizialismo, nel terrore, nel giacobinismo freddo e spietato. Troppo spesso, oggi, appare solo la parte fredda e oggettiva”. Ma qualcosa, dice, sta cambiando. Con l’ascesa al Soglio pontificio di Francesco, sta venendo meno l’idea di una dottrina “troppo canonistica e legalistica.  L’idea di un’etica cristiana che si traduceva in una serie di no”. Il prossimo passo sarà quello di far entrare il principio della libertà anche nella lettura del corpo, “come è già avvenuto a livello di ideologia morale e sociale, generando una dottrina capace di parlare all’uomo contemporaneo”. In assenza di questo passaggio, la dottrina morale prodotta rimane incomprensibile.

 

la misericordia e la rigidità ortodossa in Vaticano: due linee inconciliabili

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 ‘il Foglio’ esulta per la presa di posizione molto dura del prefetto’ per la dottrina della fede’ il supertradizionalista – voluto da papa Benedetto xiv –  card. Muller che boccia le ‘aperture’ della conferenza episcopale tedesca nella persona in particolare del suo presidente mons. Zollitsch che, ancorché vicino alla conclusione del suo mandato, non demorde e cerca di far passare una linea più in sintonia con la ‘misericordia’ evangelica e ‘francescana’:

 

Allegria del vangelo va bene, ma senza esagerare, dice il tedesco custode della fede ai tedeschi in rivolta

di Matteo Matzuzzi
in “Il Foglio” del 29 novembre 2013

Sarà pure in scadenza di mandato, ma Robert Zollitsch, il presidente uscente della Conferenza episcopale tedesca, non ha alcuna intenzione di prepararsi al pensionamento chiudendosi in un meditabondo silenzio. Tutt’altro. Prima dell’addio alla presidenza dei vescovi di Germania, ultima carica che ancora ricopre – a settembre, appena un mese dopo aver compiuto i settantacinque anni canonici, è stato sollevato dalla guida della diocesi di Friburgo, rimanendovi come amministratore apostolico – vuole accelerare sulla riammissione dei divorziati risposati al sacramento dell’eucaristia. E pazienza se il prefetto della congregazione per la Dottrina della fede – anche ieri ricevuto in udienza da Francesco – da Roma, ha detto che non se ne parla: “Noi andiamo avanti”, ha risposto Zollitsch durante il Consiglio diocesano autunnale del 15-16 novembre. A riportarlo è il Konradsblatt, il settimanale online della diocesi di Friburgo. A inizio ottobre, molto rumore aveva fatto il documento diffuso dall’ufficio preposto alla cura delle anime della diocesi tedesca, in cui si invitava “a rendere visibile l’atteggiamento umano e rispettoso di Gesù nel contatto con le persone divorziate e con chi ha deciso di risposarsi con rito civile”. Tradotto, via libera alla comunione ai divorziati risposati, giustificando il tutto con la misericordia che perdona ogni peccato. A riportare a terra chi s’era già librato in voli pindarici arrivava il custode dell’ortodossia, Gerhard Ludwig Müller, che dall’ex Sant’Uffizio ammoniva sul rischio di “banalizzare la misericordia”, dando l’immagine sbagliata secondo la quale “Dio non potrebbe far altro che perdonare”. Ecco perché il prefetto aveva chiesto alla diocesi di Friburgo di ritirare il testo, in quanto utilizzava “terminologia non chiara” e perché “contrastante con l’insegnamento della chiesa”. Müller invitava infine a “non creare smarrimento tra i fedeli relativamente al magistero della chiesa sull’indissolubilità delle nozze”. Ma Zollitsch non ne vuole sapere: quel documento rientra tra i contributi in vista del Sinodo sulla famiglia in programma a Roma nell’ottobre del 2014. Bisogna dare spazio a tutti gli “impulsi costruttivi” che provengono dalla base e si dirigono ai vertici episcopali. Il primo a sposare la linea del capo dei vescovi tedeschi è stato il cardinale Reinhard Marx, pastore della diocesi di Monaco e Frisinga che lasciando perdere il diplomaticamente corretto, sfidava apertamente Müller. “Il prefetto della congregazione per la Dottrina della fede non può fermare il dibattito”, diceva in occasione di una conferenza in cui erano riuniti tutti i vescovi bavaresi. Se la prendeva con la lectio sulla pastorale del matrimonio tenuta dal titolare dell’ex Sant’Uffizio e pubblicata sull’Osservatore Romano a fine ottobre: “Parlare del divorzio come di fallimento morale è del tutto inadeguato”, tuonava Marx, ribadendo che di tutte quelle questioni “necessarie e urgenti” sulla famiglia si sarebbe discusso al Sinodo “in modo ampio e con risultati al momento non prevedibili”. Pazienza, dunque, se Müller chiariva che l’insegnamento dottrinale della chiesa non può essere cambiato da un vescovo diocesano o da una conferenza episcopale. L’insegnamento della chiesa può essere certamente aggiornato, “ma questo è un compito che spetta al Papa, in pieno accordo con i vescovi”. In Germania, però, non ci sentono. Anche il vescovo di Stoccarda, monsignor Gebhard Fürst, chiede di far presto e di arrivare ad approvare “le nuove regole sulla comunione ai divorziati risposati entro il marzo del 2014”, quando si terrà la riunione primaverile della Conferenza episcopale tedesca. Il caso vuole che quell’appuntamento sarà l’ultimo con Robert Zollitsch in veste di presidente. Il presule di Stoccarda non bada molto ai paletti posti da Roma, guarda con fiducia l’esortazione apostolica “Evangelii Gaudium” di Francesco in cui si sottolinea la necessità di potenziare il ruolo delle chiese locali “anche in alcune questioni dottrinali”, e spiega che loro, vescovi di Germania, altro non fanno che “rispondere alle domande dei fedeli”. Dopotutto, “le aspettative sono sì grandi, ma grande è anche l’impazienza”. Insomma, non bisogna perdere tempo in troppe discussioni polverose impregnate di teologia e dottrina. La chiesa tedesca vuole agire subito, anticipando e, possibilmente, orientando il grande dibattito sinodale del prossimo autunno.

papa Francesco telefona al giornalista cui non piace questo papa

Francesco ha telefonato a Mario Palmaro

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M. Palmaro è uno dei due giornalisti che su ‘il Foglio’ di G. Ferrara non molto tempo fa hanno pubblicato un articolo in cui esprimevano forti critiche nei confronti del nuovo indirizzo innovativo di papa Francesco:

 

Roberto Beretta
in “VinoNuovo” (www.vinonuovo.it) del 16 novembre 2013

Sono sicuro che nessuno dei due interessati vorrebbe che si sapesse, e per nobili ragioni che rispetto. Epperò io faccio il giornalista… e le notizie – se le ho – le devo pur dare. Soprattutto quando sono notizie che fanno onore ad ambedue i protagonisti. Papa Bergoglio ha telefonato a Mario Palmaro. Si sa che papa Francesco ama fare di queste sorprese telefoniche. Ma stavolta l’evento ha un sapore un po’ diverso, perché Palmaro (insieme al co-autore Alessandro Gnocchi con cui fa coppia fissa) è anche il firmatario dell’articolo «Questo Papa non ci piace» che a partire dalla prima pagina del «Foglio» di qualche settimana fa ha suscitato una ridda di reazioni un po’ dappertutto – Vino Nuovo compreso. Dunque il Papa che telefona a uno dei suoi critici è di per sé una bella cosa, molto evangelica; e alcuni testimoni assicurano che Palmaro – il quale è persona molto retta e devota, al di là dei toni che talvolta usa (come chi scrive, del resto…) – ha accusato il touché. Sono poi certo che né all’un capo del filo né all’altro in quel momento si è pensato di fare o di subire una sorta di atto «mediatico», ed immediatamente è stata scacciata la tentazione di pensare che si trattasse di un tentativo strumentale per rintuzzare la critica subìta ovvero ribaltare l’attacco, e i due interlocutori hanno potuto invece assaporare il gesto per quel che era: un atto paterno e fraterno di affetto, vicinanza, sollecitudine cristiana. Perché Palmaro purtroppo è anche malato: lo si può dire, in quanto egli stesso lo ha rivelato in una recente e lucida intervista rilasciata al periodico dehoniano «Settimana»; malato seriamente. Giovane, con 4 figli piccoli, da sempre difensore della vita in tutte le sue forme, tanto da dedicare proprio alla bioetica gran parte della sua attività di studioso e scrittore: si può dunque ben immaginare quali rovelli passino per la sua mente, al di là della serenità e della fede che – mi dicono – grazie a Dio continuano a presiedere alla sua esistenza. La telefonata del Papa non era dunque l’occasione per tentare un dibattito pur sempre intellettuale tra le ragioni dell’uno e dell’altro. Non era nemmeno soltanto la dimostrazione pratica dell’evangelico «se amate solo quelli che vi amano, che merito ne avrete?» – che pure sarebbe già un bell’esempio. Era anche l’attenzione a una persona in quanto tale, nella sua difficoltà e oltre ogni differenza d’opinione. La distanza è rimasta, perché c’è rispetto delle posizioni altrui; ma ci si è parlati, ci si è scambiata una reciproca stima; siamo sinceri: quante volte vorremmo che la Chiesa fosse così? E il paradosso – molto cattolico – è che Mario Palmaro ha avuto la consolazione di provarne la rara carezza proprio grazie a quell’invettiva. Siamo davvero contenti che sia toccata a lui.

‘il foglio’ e il ‘questionario’

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aspre e ingenerose le critiche che il quotidiano di G. Ferrara, ‘il Foglio’, continua a rivolgere alla nuova conduzione ecclesiale di papa Francesco

questa volta, per la penna di Pietro di Alessandro Gnocchi e di Mario Palmaro, viene duramente criticato il ‘questionario’ che papa Francesco vuole vuole diffuso a tutto il popolo dei cattolici perché ciacuno abbia la possibilità di esprimere in prima persona la propria posizione in merito ai problemi morali e antropologici riguardanti la famiglia, in vista del sinodo straordinario dell’anno prossimo dedicato appunto alle famiglie:

 

Il questionario

di Pietro di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro
in “Il Foglio” del 14 novembre 2013

Anche quando dovrebbe essere al servizio di Nostro Signore, la burocrazia ecclesiale finisce sempre per provvedere soprattutto a se stessa, proprio come quella mondana. Non fa che parlare di sé, avocare ogni atto a sé e vedere chiesa e mondo a immagine di sé. Il questionario di preparazione per il Sinodo straordinario sulla famiglia recentemente diramato da Roma ne è solo l’ultima conferma. Riesce difficile vederne l’utilità, se si vuole veramente comprendere che cosa crede e che cosa pensa, quindi che cosa prega e che cosa è, il gregge affidato a Pietro. Fino a qualche decennio fa, sarebbe bastato molto meno per avere contezza della situazione: qualsiasi prete che dicesse messa santamente, dopo il “Salve Regina” finale, avrebbe saputo riferire immediatamente al vescovo, e poi questi al Papa, senza dimenticare un volto e un’anima. Ma era un’altra messa ed era un modo di “sentire cum Ecclesia” che non va più di moda. La domenica mattina, dopo l’esile e orante “Asperges me…” intonato dal sacerdote, il popolo proseguiva vigoroso e sicuro sulla melodia gregoriana nell’implorare “Domine hyssopo et mundabor, lavabis me et super nivem dealbabor…”. Sulle parole del Salmo 50, ciascuno chiedeva per sé e per i fratelli di essere mondato nel sentore sacro dell’issopo e nel lavacro divino che lo avrebbero reso più bianco della neve. Intanto, racchiuso nel piviale sorretto dai chierichetti, il celebrante si era avviato lungo la navata ad aspergere e mondare con acqua benedetta coloro che, ancora una volta, accorrevano al sacrificio del Golgota. Per ognuno aveva uno sguardo e un’attenzione speciali, a ciascuno secondo il suo bisogno, poiché ne conosceva le virtù e i peccati. Era Cristo che passava ancora tra le folle della Galilea e della Giudea: “Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam…”, e chi sentiva il gregoriano risuonare da fuori si affrettava per toccare il lembo del mantello di Colui che li conosceva e li amava uno per uno. “Il padre Smith”, racconta Bruce Marshall nel romanzo della lotta di questo sacerdote con la carne e il mondo, “percorse le file dei fedeli, mentre Patrik O’Shea lo precedeva con secchiello dell’acqua benedetta, e spruzzò di gocce d’argento i facchini ferroviari, gli scaricatori del porto, i marinai, le maestre di scuola, le commesse e le servette, che si segnarono. Sui capelli, sugli scialli, sulle zucche pelate, il prete spargeva l’acqua santa, lavando tutti, simbolicamente, dai pensieri e dalle ambizioni dei giorni feriali. Arrivò alle vecchine degli ultimi banchi che avevano in testa il berretto del marito appuntato con un grosso spillo perché se san Paolo aveva detto che la gloria della donna è la sua capigliatura, aveva detto anche che quando andava in casa del Signore doveva tenerla coperta. Alle tre girls del varietà, coi capelli che parevano trucioli, il padre Smith dette una spruzzatina speciale, perché quei loro visi gialli gli fecero un effetto così tremendo, e lo stesso fece per il professor Bordie Ferguson, in terza fila, perché pensava che questo metafisico soffrisse di orgoglio intellettuale”. Padre Smith, come ogni altro sacerdote dei suoi tempi e della sua pasta, non avrebbe avuto bisogno di un questionario arrivato da Roma e anticipato dai giornali per sapere che cosa pensassero le sue pecorelle della fede, della dottrina, della morale e delle follie del mondo e della carne. Parlava al suo gregge con le parole di Dio e riferiva a Dio con le parole del suo gregge, che nulla avevano di mondano: mediatore sull’altare, lo era anche in canonica e lungo le strade della sua città. Ora, la chiesa di Roma si appresta al Sinodo sulla famiglia e avvia un’indagine conoscitiva in ogni diocesi per sapere che cosa frulla nella testa dei fedeli. C’è chi ha gridato al sondaggio e se, formalmente, si può anche eccepire, materialmente non si può ignorare la deriva mondana che concede molto, forse troppo, all’ansia sondaggistica. A cominciare dal linguaggio dolciastro e pedestre che ricorda tanto le preghiere dei fedeli delle messe di oggigiorno: “Quali sono le richieste che le persone divorziate e risposate rivolgono alla chiesa a proposito dei sacramenti dell’Eucaristia e della Riconciliazione? (…) Esiste una pastorale per venire incontro a questi casi? Come si svolge tale attività pastorale? Esistono programmi al riguardo a livello nazionale e diocesano? Come viene annunciata a separati e divorziati risposati la misericordia di Dio e come viene messo in atto il sostegno della chiesa al loro cammino di fede?”. E’ sempre la liturgia a dettare la metrica e il linguaggio della chiesa e se, in un ospedale da campo, viene celebrata la messa inventata a furor di Concilio da monsignor Achille Bugnini non ci si può attendere altro: una specie di questionario da accettazione per un pronto soccorso, ma meno preciso. Non potrebbe essere adottato strumento migliore per dare corpo a quella contiguità con il mondo che piace tanto ai fan del pontificato di Papa Francesco. Gilbert Keith Chesterton, con piena ragione, amava ripetere che ogni secolo ha bisogno di santi che lo contraddicano, ma oggi è difficile sentir dire da un pastore che, per esempio, nella chiesa si entra in ginocchio lasciando il secolo sulla soglia. “Eppure”, diceva in un’intervista Marshall McLuhan a proposito della sua conversione, “quando le persone iniziano a pregare hanno bisogno di verità. Tu non arrivi alla chiesa per idee e concetti, e non puoi abbandonarla per un mero disaccordo. Ciò avviene per una perdita di fede, una perdita di partecipazione. Quando le persone lasciano la chiesa possiamo dire che hanno smesso di pregare. Il relazionarsi attivamente alla preghiera e ai sacramenti della chiesa non avviene per mezzo delle idee. Oggi un cattolico che è in disaccordo intellettuale con la chiesa, vive un’illusione. Non si può essere in disaccordo intellettuale con la chiesa: non ha senso. La chiesa non è un’istituzione intellettuale, è un’istituzione sovrumana”. Laddove rimanga un minimo di rigore liturgico e razionale, risuona patetica la rincorsa al dissidente per offrirgli qualcosa di meno invece che qualcosa in più. Il questionario di preparazione per il Sinodo sulla famiglia è un repertorio di suggerimenti al ribasso, ricco di perle che possono solo inquietare. “Lo snellimento della prassi canonica in ordine al riconoscimento della dichiarazione di nullità del vincolo matrimoniale” vi si dice per esempio “potrebbe offrire un reale contributo positivo alla soluzione delle problematiche delle persone coinvolte? Se sì, in quali”. Sembra che la chiesa abbia scoperto oggi il territorio prima del tutto ignoto del dolore e della sofferenza abitato dalle famiglie distrutte e dalle coppie ricostruite che non possono accedere alla Comunione. Finalmente, nell’ospedale da campo di Papa Francesco, dopo secoli di indifferenza e di distrazione, si troverà la medicina giusta. Ma sui divorziati risposati, e ai divorziati risposati, la chiesa dice da sempre tutto quello che c’era, c’è e ci sarà da dire: “Ci sono nella vita situazioni coniugali che chiedono comprensione e destano compassione senza fine (…). Questi casi veramente pietosi di donne tradite, disprezzate, abbandonate, ovvero di mariti umiliati dal contegno della propria moglie rappresentano, per la chiesa e per il cristiano, casi meritevoli di molto rispetto e di sofferta considerazione”. Parole scritte nel febbraio 1967 da monsignor Pietro Fiordelli, vescovo di Prato che assurse agli onori delle cronache per la sua battaglia antidivorzista. E’ del 14 settembre 1994, festa dell’Esaltazione della Santa Croce, il documento firmato dal prefetto della congregazione per la Dottrina della fede Joseph Ratzinger e rivolto a tutti i vescovi del mondo “circa la recezione della comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati”. Stiamo parlando di 19 anni fa. Il Sant’Uffizio, citando la “Familiaris consortio” di Giovanni Paolo II, Anno Domini 1982, parte dalla considerazione che “speciale attenzione meritano le difficoltà e le sofferenze di quei fedeli che si trovano in situazioni matrimoniali irregolari”. E poi scrive che “i pastori sono chiamati a far  sentire la carità di Cristo e la materna vicinanza della chiesa” accogliendo con amore queste persone, “esortandoli a confidare nella misericordia di Dio e suggerendo loro con prudenza e rispetto concreti cammini di conversione. Il Sant’Uffizio del “pastore tedesco” conosceva già la misericordia di Dio e la sofferenza bisognosa e, proprio per questo, nel capoverso successivo, citando la “Humanae vitae” di Paolo VI, concludeva: “Consapevoli però che l’autentica comprensione e la genuina misericordia non sono mai disgiunti dalla verità, i pastori hanno il dovere di richiamare a questi fedeli la dottrina della chiesa riguardante la celebrazione dei sacramenti e in particolare la recezione dell’eucarestia”. La pastoralità non può mangiarsi la dottrina e il documento del 1994 ribadisce che la chiesa “fedele alla parola di Gesù Cristo non può riconoscere come valida una nuova unione, se era valido il precedente matrimonio”. Questo concetto si chiama indissolubilità, è un vincolo di diritto divino e nessuna autorità, nemmeno un Papa, potrebbe arbitrariamente rinnegarlo. Da Enrico all’ultima pecorella di padre Smith, nessuno può cancellare quel vincolo, se esiste ed è valido. “Perciò”, conclude in modo euclideo il Sant’Uffizio, “se i divorziati si sono risposati civilmente, si trovano in una condizione che contrasta oggettivamente con la legge di Dio e perciò non possono accedere alla Comunione eucaristica per tutto il tempo in cui perdura tale situazione”. La chiesa è, innanzi tutto, custode dell’eucarestia e non può venire a patti sul monito paolino che mette in guardia dal comunicarsi senza essere il grazia di Dio per non mangiare la propria condanna. Se un’anima è in peccato mortale, nessun atto formale che sia ingiusto potrebbe cancellare una verità di fatto, anche se reca la firma di un uomo di chiesa. Non è possibile nessuna “amnistia”, neanche per i divorziati risposati, perché essa non cambierebbe in alcun modo la loro condizione reale davanti a Dio. Ma oggi, dentro la chiesa, si è smarrito il senso del peccato e ciò che inquieta nel questionario inviato a tutte le diocesi dell’Orbe è l’implicita rassegnazione a tale fenomeno. Questa sorta di tensione anagogica al contrario turba sempre meno anime, come scriveva Cristina Campo in una lettera del 1965 a Maria Zambrano: “Come mai si celebra ancora la festa dogmatica dell’Unica Immacolata, mentre implicitamente si nega, in mille modi, la maculazione di tutti gli altri? In un mondo dove non è più riconosciuto non dico il sacrilegio, l’eresia, la blasfemia, la predestinazione al male – ma il puro e semplice concetto di peccato? Padre Mayer mi disse un giorno di scrivergli tutte le cose che mi turbano nello svolgersi del Concilio; e io gli riposi: ‘Ma non sono che due, sempre le stesse: la negazione della Comunione dei Santi (potenza della preghiera, ruolo sovrano della contemplazione, reversibilità e trasferimento delle colpe e delle pene) e il rifiuto della croce (l’uomo ‘non deve più soffrire’, restare un’ora sola inchiodato alla croce della propria coscienza o alla porta chiusa di un irrevocabile ‘non licet’)”. Quel “non licet” oggi spaventa soprattutto la chiesa, anche se è stato meritoriamente ribadito dal prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, Gerhard Ludwig Müller, subito rimbrottato dal confratello Reinhard Marx. Sarebbe segno di ingenuità sottovalutare il sommovimento teso ad ammorbidire la posizione della chiesa. Il dibattito avviato negli ultimi tempi non è altro che lo sbocco in superficie di un fiume carsico presente nel mondo cattolico da decenni. Un’acqua torbida e tumultuosa che vorrebbe spazzare via il muro dottrinale che protegge l’indissolubilità matrimoniale. Per motivazioni di ordine pastorale, per realismo e apertura al mondo e alle sue esigenze pratiche. Non si contano i parroci, i moralisti, i docenti di seminario, i vescovi che su questa faccenda hanno abbandonato da tempo quanto insegnato dalla chiesa. C’è chi pensa al modello ortodosso, che consente un bonus, una sorta di carta jolly per validare il secondo matrimonio dopo il fallimento del primo. C’è chi studia l’idea della “benedizione” delle seconde nozze, come succedaneo del sacramento vero e proprio. Dal Concilio Vaticano II in poi, la chiesa ha preso a concepirsi e presentarsi come problema invece che come soluzione per la salvezza degli uomini. Anche quando parla del mondo, in realtà lascia trasparire o dice palesemente la propria inadeguatezza e promette solennemente di porvi rimedio recuperando il terreno perso dall’avvento dell’illuminismo in poi. La portata di tale mutamento di prospettiva la si può paragonare a quanto avvenne in filosofia con il criticismo di Kant. Con l’avvento della filosofia kantiana, l’uomo non è più ritenuto capace di conoscere il mondo nella sua intima realtà poiché la ragione non viene più ritenuta in grado di raggiungere il noumeno, la cosa in sé, il vero nucleo dell’esistente. Di conseguenza, essendo considerata incapace di conoscere veramente il reale, la ragione viene anche considerata incapace di definirlo e si ripiega su stessa, non parla che di se stessa e finisce inevitabilmente per concepirsi come un problema. Oggi la chiesa appare intimidita davanti al mondo al pari dell’uomo kantiano davanti al noumeno. Dubita dei propri fondamenti intellettuali e pertanto, pur proclamando di aprirsi al mondo, in realtà si considera incapace di conoscerlo, di definirlo e, quindi, rinuncia a insegnare e a convertire: tenta solo di interpretare. Se tutto diviene oggetto di interpretazione, è normale che sorgano le torri di Babele di documenti nei quali ogni minimo aspetto dello scibile viene preso in esame fin nei dettagli. Ma è ancora più naturale che i documenti non sortiscano alcun effetto sulla realtà per il semplice fatto che, in fondo, non se ne curano. Del resto, un organismo costretto a dubitare della propria capacità di conoscere e intervenire sul mondo non può che rifugiarsi in un universo fittizio creato sulla carta. Il questionario di preparazione per il Sinodo sulla famiglia conferma tale deriva. E ora ne seguiranno altri, molti altri, moltiplicheranno le domande suggerendo un ancor maggiore numero di risposte. Se la chiesa aveva affascinato Chesterton come “luogo dove tutte le verità si danno appuntamento”, oggi sembra diventata il luogo dove si danno appuntamento le opinioni. In un luogo simile si sarebbe trovata a disagio una santa anima sacerdotale come il Curato d’Ars. A un confratello che gli confidava le pene per la condotta immorale dei suoi parrocchiani, quella creatura naturaliter antikantiana non consigliò di far circolare un questionario, chiese semplicemente: “Ha provato a flagellarsi?”.

in tilt i tradizionalisti a proposito di papa Francesco

 

 Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

La “conversione” dei tradizionalisti a proposito della figura di papa Francesco

di Sergio Paronetto*
in “Adista” – Segni Nuovi -n. 32 del 2 novembre 2013

Il Foglio di Giuliano Ferrara, già organo degli “atei devoti”, diventato ora l’avanguardia del movimento anti-Francesco, si sta muovendo in tre direzioni: dare spazio agli attacchi frontali del mondo cattolico più reazionario e anticonciliare verso un papa ritenuto traditore della dottrina cattolica; raccogliere ogni forma di contrarierà, compresa quella giudicata “ultra liberal”, un tempo considerata cattiva maestra ma ora utile per evidenziare le contraddizioni dell’attuale pontificato; minimizzare il “disagio”, come scrive Massimo Introvigne, e mediare per evitare i rischi di uno scisma. Lo scopo complessivo è quello di mettere in risalto l’inaffidabilità di un papa pericoloso per l’unità della Chiesa. Il giornale più papista diventa apertamente antipapista. Chi ha fatto per anni apologia (ideologica) di papa Ratzinger a sostegno di Berlusconi, di Bush e della superiorità dell’“Occidente”, ora denuncia papa Bergoglio avvertito come scomodo innovatore troppo francescano o, semplicemente, troppo cristiano (la seria riflessione di Andrea Monda del 9 ottobre, collocata all’interno, appare un’ardita eccezione, vista «la teologia da strapazzo» che il giornale, come osserva Eugenio Scalfari su la Repubblica del 13 ottobre, sta sostenendo). Il 9 ottobre viene concessa grande evidenza al lungo intervento, “Questo Papa non ci piace”, firmato da Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, presentati come «espressione autorevole del mondo tradizionalista cattolico». Il loro ragionamento attacca, in ordine: l’«imponente esibizione di povertà» nella visita ad Assisi; il dialogo con Scalfari e con i non credenti fondato sulla centralità della coscienza; la rottura di tutta la tradizione ecclesiastica; la dichiarazione della irreversibilità del Concilio; la vicinanza all’amico gesuita Carlo Maria Martini; la deformazione del Vangelo sottomesso al «mondo»; le espressioni «io credo in Dio, non in un Dio cattolico», «il proselitismo è una solenne sciocchezza», «la Chiesa ospedale da campo», «i poveri sono la carne di Cristo»; l’insistenza sulla misericordia e sul perdono. Inutile parlare di contesto da interpretare, dicono: «L’errore, quando c’è, si riconosce ad occhio nudo», «i sei mesi di papa Francesco hanno cambiato un’epoca». Sono stati «un campionario di relativismo». Costituiscono «un’inversione di rotta». Siamo al «rovesciamento del passato». Il papa si è fatto complice del gioco mediatico tendente a esaltare episodi marginali ma cari alle folle. Viene scomodato anche Mc Luhan che nel 1969 ha definito i mass media «facsimile del Corpo mistico, assordante manifestazione dell’anticristo». In estrema sintesi, papa Francesco è gesuitico, sconcertante, inquietante, relativista, modernista, permissivo, amorale, populista, pauperista, esibizionista, seminatore di dubbi, anticristiano. Ancora più dura la posizione di Mattia Rossi (Il Foglio, 11 ottobre) intitolata “Francesco sta fondando una nuova religione opposta al Magistero cattolico”. Il papa starebbe dissolvendo la dottrina cattolica attraverso un «erosivo magistero liquido», un «antropocentrismo spinto» (più grave di quello espresso nel n. 22 della Gaudium et spes), sentimenti umanitaristi che «rasentano fortemente l’eresia» e negano il valore redentivo dell’incarnazione. Le sue parole, con il loro «stillicidio disgregante», si basano su «un inganno molto sottile e intollerabile per un cattolico». Da parte mia, tre opinioni. Osservo, anzitutto, che i tradizionalisti (che preferisco chiamare reazionari perché la tradizione è una cosa seria), da sempre cultori del primato assoluto di Pietro e infallibilisti a tutto campo, diventano subito relativisti rispetto a gesti e parole che non condividono e che valutano come pareri slegati da alcun magistero. Vedo, poi, che denunciano la presunta falsa umiltà del papa proponendosi con molta presunzione come possessori della verità cattolica, come inquisitori di un papa ritenuto deviato. Noto, in terzo luogo, un’altra contraddizione: proprio chi intende la verità in modo dottrinario e immutabile, a sostegno di una politica reazionaria e di un modello di sviluppo ritenuto altrettanto immutabile o naturale, dominato dal “dio denaro”, predica una fede alternativa al mondo cattivo-peccatore. In questa ideologia sadomasochista, tipica di “un cristianismo senza Cristo”, sta forse il nucleo dell’attacco al papa. Probabilmente, ciò che dà fastidio
è la denuncia del mondo ingiusto, dell’«idolatria del denaro», della «cultura dello scarto», della follia delle guerre. Ciò che disturba è la centralità di Cristo, l’invito alla spoliazione, «l’amore ai poveri e l’imitazione di Cristo povero». Un’esagerazione demagogica per i tradizionalisti. Un’ardua sfida per tutti, anche per i “progressisti”, come osserva Vito Mancuso nell’intervento sulla necessità di una fondazione etica del bene e della giustizia grazie all’esercizio di un “pensiero femminile” (la Repubblica,  4 ottobre 2013). Certo, le tematiche sollevate sono difficili, esposte alla verifica di un’avventura comune, ma una cosa è la critica argomentata, altra cosa è l’ipercritica pregiudiziale e ideologizzata. È sempre improprio definire il papa secondo categorie fisse di conservazione, tradizione, progresso, riforma, rottura, rivoluzione o altro. Non è nemmeno necessario. Siamo dentro un evento da curare e accompagnare con lucida attiva responsabilità. Siamo forse davanti a un’innovazione basata sull’interconnessione nonviolenta tra mezzi e fine. Il cambiamento di stile, infatti, è parte integrante della verità che è sempre “relazionale”. I cattolici sono convocati a una rigenerazione, a un rinnovato cammino di fede. Ne sono conferma la grande veglia per la pace del 7 settembre, iniziata con la “benedizione originaria” sul creato e sull’umanità («Dio vide che era cosa buona») e il progetto di spoliazione presentato ad Assisi con le parole di Matteo 11,25: «Ti rendo lode, Padre, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli». Ha inizio la rivoluzione dei piccoli? In ogni caso, le Beatitudini e il capitolo 25 del Vangelo di Matteo (“il protocollo con il quale saremo giudicati”) costituiscono per il papa “il piano d’azione” dei credenti (discorso ai giovani argentini in Brasile). I detrattori più aspri di papa Francesco mi fanno venire in mente l’auspicio di Tonino Bello, rivolto in forma orante a Oscar Romero, a liberare il mondo da tutti «gli aspiranti al ruolo di Dio».
* Vicepresidente nazionale di Pax Christi

un papa che ci converte

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anche ‘il Foglio’, dopo articoli tendenti a suscitare preoccupazione per certe espressioni di papa Francesco e per le sue aperture verso chi è lontano o diverso o marginale o impoverito o non credente fino a balenare pericoli di soggettivismo, relativismo, tradimento della tradizione … anche ‘il Foglio’ talvolta è costretto ad ospitare articoli positivi nei confronti del nuovo pontefice. Questo di Costanza Miriano ne è un bel esempio:

 Costanza Miriano

   da Il Foglio

Una si trova con anni di trincea sulle spalle, veterana, piena di stellette in onore al merito di avere difeso Benedetto XVI a spada tratta in riunioni di redazione, cene di amici, raduni di parenti e assemblee condominiali, a volte anche con i passanti; si è letta di notte i suoi libri meravigliosi ma densissimi, lottando eroicamente contro il sonno e contro Nora Ephron che ammiccava dallo scaffale; ha elogiato la coscienza, si è introdotta allo spirito della liturgia, ha sfoderato sant’Agostino per tenere testa al collega colto; ha vegliato e pregato in piazza san Pietro per far sentire tutto l’affetto possibile al vicario di Cristo martire mediatico, e poi, così, a un certo punto, di botto, stanca e piena di cicatrici ma con ancora la scimitarra tra i denti, in un giorno solo, si ritrova senza preavviso pericolosamente circondata da amici.

Ma come? Dove sono finiti quelli che dovevo convincere? Dove sono finiti quelli che insultavano il mite Papa dandogli del nazista, e la Chiesa retrograda e ricca (dir male della Chiesa si porta sempre)? Rivoglio il mio mondo rassicurante, diviso in due, i vicini e i lontani. Certo, si sapeva sempre ben distinguere tra errore ed errante, tra carità e verità, tra amore per il fratello e chiarezza di giudizio, ma insomma uno schema era fatto. Io sto dalla parte della ragione, tu del torto, ma ti voglio bene lo stesso.

Adesso che è questo coro di consensi al Papa? Tutti in visibilio per croci di ferro e scarponi e metropolitane e case semplici. Che nervi la folla osannante. È molto meglio sentirsi tra i pochi che hanno capito. Anzi, meglio ancora sentirsi sulla soglia, sempre a un pelo dall’entrare tra i pochi, i felici (perché anche io come Groucho non vorrei mai far parte di un club che accettasse tra i suoi soci una come me).

Insomma, che piccolo fastidio all’inizio il coro forse un po’ superficiale di consensi. E insieme che dispiacere scoprire di non provare lo stesso slancio per certi atteggiamenti e parole del Papa, che pure riconoscevo evangelici.

In questa mancata adesione mi sono trovata in compagnia di tanti cattolici, che pure stimo, e di cui condivido le idee. Il loro dissenso ha cominciato ad essere ampio, e anche sostanziale. Di fronte ai dubbi rispettosi e riservati mi si è stretto il cuore, di fronte a certe loro durezze contro il Papa, invece, ho provato un grande disagio soprattutto se ad esprimerle erano miei amici.

Nel tentativo di trovare il bandolo, proverei invece a capovolgere la questione, non solo perché il Catechismo dice che i fedeli devono aderire al successore di Pietro “col religioso ossequio dello spirito” credendo che lui è assistito da Dio, non solo perché un cattolico non si sceglie in cosa credere, si prende il pacchetto completo, ma perché trovo molto più interessante il punto di vista opposto, almeno sul piano spirituale (mentre mi dichiaro ampiamente priva di strumenti e inadeguata a valutare un pontificato dal punto di vista storico, che è probabilmente, legittimamente, l’aspetto che più interessa gli atei devoti e questo giornale).

Se alcune scelte del Papa danno fastidio a molte persone, tra cui diverse che stimo moltissimo, e se a volte anche io, lo ammetto, non ho condiviso lo slancio entusiastico che sembra avere contagiato tutti, mi sembra fondamentale chiedermi il perché. Quando qualcosa ci dà fastidio, può anche succedere che invece il problema siamo noi. Quindi: che problema ho io?

È come quando ai miei figli non torna qualcosa in un compito: la loro primissima ipotesi è sempre che sia il libro ad essere sbagliato, anche se si astengono dall’esprimere la loro intima convinzione, perché la filippica  che si beccherebbero li allontanerebbe dall’unico vero obiettivo della loro dedizione al sapere: la merenda.

Cosa ci dà fastidio, dunque, e perché? Il problema è il nostro?giornata_con_papa_francesco_645

Perché fatico a capire che quando il Papa dice che il bene è una relazione non sta affatto facendo concessioni al relativismo, ma mettendo l’accento sulla carità? Perché dimentico che quando un Papa dice che bisogna obbedire alla coscienza non parla di assecondare pensieri ed emozioni spontanei ma intende certo tendere una mano ai lontani, sapendo che per la nostra dottrina è la coscienza il luogo nel quale “l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi”, (Catechismo della Chiesa Cattolica, niente di meno), e che la coscienza va sempre rettamente formata?

Io credo che a volte mi capiti di dimenticare tutte queste cose fondamentalmente perché una figura di Papa sacrale e lontana permette a noi “vicini” di sentirci un po’ migliori degli altri. A noi piace essere figli di Dio, certo. Significa che siamo di stirpe regale, e lo siamo davvero; ma non ci piace, invece, essere fratelli – siamo tutti figli, ma io un po’ più figlia degli altri – perché dei fratelli vediamo tutti i limiti, le meschinità, le scarpe sporche, la puzza, la goffaggine, l’inadeguatezza. Quello che vediamo ci dà fastidio perché ci ricorda esattamente come siamo noi, è come vedere noi stessi in uno specchio: dei tipi sgangherati. Creature. E creature in cui “il mistero dell’iniquità è in atto”.

Il fatto è che la fede nasce da un incontro, mentre il modo in cui tendiamo a intenderla è piuttosto una religiosità naturale che è segno della nostra immaturità, una religiosità che serve a confermarci e non a convertirci.

Ci sono delle persone che hanno fatto l’incontro che cambia davvero la vita, quello con Gesù Cristo. Loro oltre a sapersi figli amatissimi – sgangherati ma amatissimi – si scoprono anche fratelli, e il male degli altri piano piano cominciano a non vederlo più. È perché non risuona in loro. Non rispondono alle calunnie, non si accorgono degli sgomitamenti e delle cattiverie, sembrano quasi scemi. Ma non è così: è che stando vicino a Gesù, anche per poco, anche a tratti, si vedono tutte le proprie magagne, faticosamente mascherate in pubblico.

La fede è sostanzialmente diffidare di sé, aderire a Gesù Cristo, spegnere il nostro ego cialtrone, chiacchierone e millantatore, e anche la nostra bontà da quattro soldi. Fare spazio a Dio. Quando uno ha incontrato davvero Gesù diventa credibile, e il cristianesimo allora non è più una dottrina ma una somiglianza. È così, solo così che è possibile una vera evangelizzazione: per inseguimento. Lasciarci inseguire per la nostra bellezza, pienezza e ricchezza è esattamente il contrario del proselitismo. Quando i nostri mosci inviti a portare la gente a raduni parrocchiali cadono nel vuoto, è perché non siamo attraenti (quando, peggio, non facciamo da tappo: non lasciamo entrare, ma non lasciamo neanche uscire, come se Gesù fosse nostra proprietà, e la religione qualcosa per giudicare gli altri).

Come è potuto succedere che Gesù, uno che camminava per le strade persino prima del catechismo di san Pio X, convertendo con la sua autorevolezza e innamorando con la sua misericordia, sia stato trasformato in uno schema che giudica chi non ci rientra dentro?foto

È ovvio che sia necessario il Magistero, la Tradizione, cioè la trasmissione del deposito che attraverso i santi e i martiri ci è stato lasciato nei secoli, il Catechismo, il Papa: solo tutto questo ci conferma nella nostra fede e ci garantisce che quello in cui crediamo non è un parto della nostra fantasia, né una nostra proiezione. È anche chiaro che siamo in un momento storico in cui i cristiani sono da soli, chiamati a difendere, insieme a pochi uomini di buona volontà, l’idea stessa di uomo, maschio e femmina, la vita, soprattutto quando è più fragile, alcuni fondamentali dell’umanità tutta che per la prima volta da parecchi secoli sembrano messi in discussione. Perché poi ci sono anche sacerdoti che spendono la loro vita in confessionale, e che costretti a negare l’assoluzione, si sentono chiedere “ma come, non vi siete ancora aggiornati, col nuovo Papa?”, e devono fare un paziente, eroico lavoro per spiegare che  la dottrina non è cambiata di una virgola, né pare in procinto di, visto che le regole che questa Chiesa retrograda insiste a proporre sono perché l’uomo viva.

Ma è altrettanto vero che un rapporto vivo e vero con Gesù ti scomoda in continuazione. È bellissimo, ma è una relazione, e l’unico equilibrio possibile è quello della bicicletta: ci si regge solo in movimento, mentre avere a che fare con delle regole rigide e rassicuranti è sicuramente più facile. Basta fare quello che fa la maggioranza dei cosiddetti credenti: mettiamo al posto di Dio il nostro superIo. In una sorta di sconfinamento nei confronti di Dio, lo mettiamo su quel tasto della nostra coscienza sul quale i genitori quando eravamo piccoli hanno posizionato le regole base, il senso di colpa e della punizione che servono a evitare che i bambini facciano troppi danni, a se stessi e agli altri. L’uomo è anarchico e disordinato, e il superIo che i genitori cercano di costruire serve a mettere ordine. Ma in un rapporto maturo con Dio la dinamica è tutta un’altra, si diventa figli, figli del re, si è davvero, davvero liberi, entra la misericordia e la creatività e lo Spirito Santo, senza la cui forza “nulla è nell’uomo, nulla senza colpa”. Allora, pur da sgangherati, si diventa anche fecondi, padri e madri (non solo biologicamente): se non si è fecondi, come anche tanti credenti, si perde il contatto con la realtà, e la religione diventa un modo per alimentare e confermare le nostre stramberie o nevrosi o chiamiamole come vogliamo.

Signore abbi pietà di me, delle mie fisse. Signore, perdona me e perdona gli altri che sono proprio come me, questa è la preghiera di chi vuole diventare davvero figlio. Tutti i litigi e le polemiche, le riunioni e i convegni e i seminari inutili vengono dal non avere un rapporto personale e diretto con Dio, un rapporto che nasce dall’incontro con Cristo, molto più pericoloso e avvincente dell’incontro con i cattoliconi che tanto mi piacciono. L’amore di Cristo stringe e assedia da ogni parte. Da assediati si sta un po’ scomodi. Ma “occhio non vide né orecchio udì né mai salì in cuore d’uomo quello che Dio tiene preparato per quelli che lo amano”.

Io credo che il Papa voglia ricordarcelo in un modo potentissimo, e che se a volte qualche stonatura – anche lui è una creatura – ci va contropelo non sia poi così importante.

da Il Foglio

i ‘teologi papisti’ e gli ‘atei devoti’ secondo ‘il foglio’

Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

dopo le bordate a papa Francesco, il Foglio oggi corregge un po’ il tiro:

La difesa dopo le critiche a Francesco: “Non è un  rivoluzionario, parla solo un linguaggio nuovo”

Poche, irritate, parole, rispondendo a un lettore, sono state la replica di Giuliano Ferrara all’omelìa di papa Francesco «scatenato» contro ciò che considera le «false ideologie cristiane». «Invita a pregare dal profondo della coscienza cristiana e fedele, in un modo che sembra implicare la rinuncia al pensare, al dubitare o di converso all’ottemperare a un pensiero codificato nei secoli da filosofia e teologia», ha scritto l’Elefantino sul Foglio.

 

«Pensa così di salvare la Chiesa come libera associazione di moltitudini credenti, che non interferisce con l’uomo contemporaneo e ne rispetta le scelte di coscienza. Molti cari auguri».

Dopo settimane di articolesse di aperta contestazione, durante la messa nella Casa Santa Marta Bergoglio aveva parlato dei cristiani nei quali «la fede passa, per così dire, per un alambicco e diventa ideologia. E l’ideologia non convoca. Nelle ideologie non c’è Gesù: la sua tenerezza, amore, mitezza… Quando un cristiano diventa discepolo dell’ideologia, ha perso la fede: non è più discepolo di Gesù, è discepolo di questo atteggiamento di pensiero», aveva continuato Francesco. Concludendo: «La conoscenza di Gesù è trasformata in una conoscenza ideologica e anche moralistica, perché questi chiudevano la porta con tante prescrizioni».

Citando l’articolo di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, intitolato appunto Questo Papa non ci piace, Salvatore Abbruzzese, sociologo delle religioni con cattedra all’università di Trento, esordisce dicendo: «Questa polemica non mi piace. Non mi piace questa sorta di disputa verbale dove ciascuno tira il mantello del Papa non facendo i conti con ciò che è. Non il capo di un partito, o il CEO di una multinazionale, ma il vicario del falegname di Nazareth che ha sulle spalle il peso delle speranze di un’intera umanità credente (e anche di tutta quella non credente che è in ricerca). Non si può ascoltare un Papa parlare della “coscienza” e pensare che la stia riducendo alle semplici opinioni personali, come se il vero non esistesse, come se Dio non ci fosse e non ci parlasse attraverso la ragione. Solo la nostra ragione riduttiva crede che in fondo al nostro cuore non ci siano che opinioni, che il bene non parli e non ci dica la verità». Federico Pichetto, docente di Patrologia e Cristologia all’Istituto di scienze religiose di Genova condivide l’espressione “iteologia” coniata ieri dal Giornale, «ma forse parlerei di ideo-teologia». Tuttavia, continua Pichetto, autore di alcuni interventi sul Sussidiario.net sull’accoglienza di papa Francesco tra gli atei devoti, «vengo incontro a queste persone che, non avendo chiaro che il cristianesimo non nasce da un magistero ma da un avvenimento, hanno paura che, cambiando il magistero scompaia il ruolo della Chiesa come tutela della civiltà». Certo, per chi vive la fede come «cortigiana di un’idea di società che deve affermarsi, Francesco è un innovatore eccessivo. Ma il cristianesimo è sempre stata un’esperienza di pluralità. Francesco non sta certo dicendo che i matrimoni gay vanno bene. Cambia solo il linguaggio della stessa missione. Si sente meno parlare di ragione e relativismo e più di coscienza, misericordia e povertà che pure appartengono alla tradizione cristiana». Assai critico sulla predicazione di Bergoglio si mostra invece Sandro Magister, vaticanista dell’Espresso e titolare del seguitissimo blog Settimo cielo. Se l’obiettivo dell’omelìa di Bergoglio «era colpire quelle sistematizzazioni del pensiero cristiano che lui vede come una sorta di gabbia che imprigiona il nucleo vivo e infuocato del pensiero cristiano stesso, a mio giudizio questa preoccupazione è senza fondamento perché il problema della Chiesa negli ultimi decenni è stato opposto. Ovvero quello di essere smarrita, disancorata dai suoi fondamenti. Proprio per cercare di rispondere a questa crisi ci sono stati i pontificati di Giovanni Paolo II e più ancora di Benedetto XVI. In particolare Ratzinger ha cercato di dare un’architettura organica al pensiero cristiano. L’annuncio del vangelo non è innanzitutto l’annuncio della misericordia di Dio, ma anche il prologo del vangelo di Giovanni dove si parla del Logos che si fa carne. Purtroppo – conclude Magister – leggere il vangelo di Giovanni non è come ascoltare le prediche di Bergoglio. Sono molto diffidente della solidità di questo consenso che avvolge il Papa.

Perché mi pare costruito con una predicazione che ha sempre schivato i punti contestabili». Di giudizio opposto è padre Livio Fanzaga, il direttore di Radio Maria che non vuole tornare sulla sospensione di Gnocchi e Palmaro: «Nella meditazione a Santa Marta c’è l’impostazione spirituale di fondo di Francesco, che è poi l’unica cristiana. La fede è l’incontro con la persona di Cristo risorto, e quindi con la sua tenerezza, il suo amore, la sua mitezza. Questo incontro trasforma la vita. La persona di Cristo è al centro e la dottrina cristiana deve sempre portarci a questo centro irradiatore di vita. Se manca questo il cristianesimo scade a ideologia e moralismo.

Questo succede quando gli intellettuali cattolici smettono di incontrare Dio nella preghiera. Francesco fa quello che Gesù ha detto a Pietro: “Pasci le mie pecorelle”. Credo che Benedetto XVI, il Papa emerito, sia lui per primo felicissimo del dono che Dio ha fatto alla chiesa con papa Francesco».

 
 
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