l’incanto è indispensabile per «costruire un mondo diverso che deve prima abitare negli occhi»
cercando in ogni giorno l’incanto del Regno
di Lucia Capuzzi
in “Avvenire”
Angelo Casati, L’alfabeto di Dio, Il Saggiatore
Max Weber, il padre della sociologia, definiva la modernità come l’epoca del «disincantamento del mondo», in cui la scienza aveva esautorato dalla natura il magico, lo spirituale, il sacro. Eppure, adesso più che mai, l’incanto è indispensabile per «costruire un mondo diverso che deve prima abitare negli occhi». Perché «se ti incanti davanti a un volto non ti accadrà di sfigurarlo; se ti incanti davanti a un’anima, non ti accadrà di occuparla; se ti incanti davanti a una terra, non ti accadrà di sfruttarla».
L’autore di queste parole, Angelo Casati, è un esperto sul tema. Nei suoi oltre sessant’anni di ministero sacerdotale, si è esercitato nell’arte di incantarsi, accogliendo il suggerimento di Isacco di Ninive. Don Casati si incanta di fronte ai visi degli uomini e delle donne, ai fiori che si ostinano a spuntare sui marciapiedi della ‘sua’ Milano, al mattino, al vento, ai bambini, ai vecchi. In una parola, alla vita. Quella che comincia ogni giorno «quando sgusci dalle coperte e termina quando vi rientri la notte». Perché lì, nella carne, nella storia «bistrattata» degli umani, Dio scrive, col suo alfabeto, il sogno del Regno.
Il recente libro di don Casati, L’alfabeto di Dio è un elogio dei piccoli, degli ordinari, degli esclusi: i preferiti di Gesù, secondo il Vangelo
Il saggio si ‘srotola’ come un piccolo dizionario di suggestioni e riflessioni bibliche, intorno ad alcune parole-chiave. E a soffermarsi sull’elenco dei 38 termini scelti, s’intravede, in controluce, il filo rosso che li unisce. È la ricerca estenuante e gioiosa del volto di Dio nel mondo. Pur sapendo che, scrive don Angelo, nessuno sguardo né parola umana, pur gloriosa, può contenere «l’incandescenza della sua luce o della luce della verità». Per questo, da poeta qual è, l’autore preferisce «scrutare il cielo e la terra a tutto campo», non intristito «dall’arroganza del possesso della verità», per «sorprenderne i segni», «innamorarsi delle tracce». Solo così, il sacerdote può davvero entrare nella casa dell’altro. A cui non si accede sfondando la porta bensì come fa Dio «bussando al silenzio e alla libertà». Questa è la mitezza evangelica. Non debolezza di fronte al male. «Proprio perché la mitezza nasce dalla carezza del volto dell’altro, dalla sua difesa, nei veri miti, e si pensi a Gesù, trovi questa mescola sorprendente di mitezza e di fortezza». Certo, non è facile familiarizzare con l’alfabeto di Dio sparso nei granelli di sabbia dei nostri giorni e delle nostre notti. Ci vuole un’esistenza intera e nemmeno questa basta. Come scolaretti, però, non possiamo sottrarci al fascino di provare a catturare qualche lettera, fosse anche uno scarabocchio. Magari gli occhi si sono fatti opachi, per la «cataratta dello spirito» «incapaci di sorprendere il mistero che abita le cose». Allora non resta che fermarsi, «indugiare alla soglia delle cose». Se la fretta ci fa predatori e l’effimero ci imprigiona nel qui e ora, l’antidoto alla disumanizzazione in questo tempo del consumo vorace e spietato è, ancora una volta, l’incanto.