un bell’esempio di accoglienza e integrazione dei migranti

io faccio così #225 

i giovani migranti trovano accoglienza e lavoro negli Orti delle Case

offrire accoglienza, integrazione e lavoro partendo dalla cura della terra e delle relazioni, seguendo i principi della permacultura. A Pomino, in provincia di Firenze, è stato avviato il progetto Orti delle Case in cui l’agricoltura biologica è il campo di sperimentazione di un modello di accoglienza che mette al centro il futuro e dell’indipendenza dei giovani migranti

Zucchine, pomodori, cipolle, insalata… camminiamo tra i campi all’aperto e le serre seguendo i passi di alcuni ragazzi africani, l’entusiasmo e l’orgoglio di mostrare il frutto del proprio lavoro arriva attraverso i loro gesti e parole.

“Mi piace tutto ciò che c’è nella terra, senza la terra non si vive”, ci dirà più tardi Eddy. In questo piccolo progetto di grande qualità che ci apprestiamo a conoscere, terra, cibo e progetti di vita si intrecciano, creando qualcosa di bello (e buono) per tutti.

 

 

Siamo a Pomino nel comune di Rufina (FI), ospiti dell’associazione “Le C.A.S.E.” (Comunità per l’accoglienza e la solidarietà contro l’emarginazione) che è nata nella vicina Pelago una ventina di anni fa; un’associazione “ombrello” che unisce varie case famiglia sia nel territorio fiorentino che nel senese. Uno dei valori comuni che unisce le case è l’accoglienza, un’accoglienza di diverso tipo: donne sole con figli, bambini, migranti, che si realizza nel quotidiano, nella convivenza con il nucleo genitoriale simbolico che vive stabilmente nella casa.

La casa famiglia di Pomino, fondata da Silvano Venturin e sua moglie Graziella Pella, in particolare è nata come casa di accoglienza per madri con bambini soli nel 2001, solo nel 2008, dopo le grandi ondate migratorie, l’accoglienza si è estesa ai migranti, prima ai minori non accompagnati e poi agli adulti, prevalentemente giovani uomini provenienti dall’africa subsahariana, diventando un C.A.S., un Centro di Accoglienza Straordinaria.

“Qui l’accoglienza si realizza su piccoli numeri, per lavorare in qualità e garantire un’inclusività a tutto tondo ed effettiva – ci racconta Rachele Venturin, antropologa, figlia di Silvano e Graziella e responsabile della “scuola laboratorio” del progetto di accoglienza – offriamo strumenti di formazione, per poter pensare anche al futuro, alla costruzione di una vita in Italia”.

Tutti questi elementi si intrecciano nel progetto “Orti delle Case” in cui l’agricoltura biologica è il campo di sperimentazione di un modello di accoglienza che mette al centro il futuro e l’indipendenza dei giovani migranti.

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“Ci siamo chiesti quali potevano essere le realtà lavorative in cui inserirli all’interno di un contesto non cittadino come questo. Curare la terra è come prendersi cura di se stessi, in una situazione difficile come quella che vivono questi ragazzi, sradicati da tutto il loro mondo, ridà senso e futuro”.

Tutto è iniziato quattro anni fa con l’avvio dell’orto sociale su terreni di proprietà della diocesi prossimi alla casa famiglia, concessi in comodato d’uso. Oggi sono 5 i ragazzi a lavorare su quei campi producendo verdure biologiche che riforniscono una bottega del paese, un ristorante vicino e vengono vendute attraverso alcuni gruppi di acquisto solidale del territorio e direttamente a chi lo desidera.

Tutto questo è stato possibile grazie ad un importante lavoro sul gruppo e sulle relazioni, sia interne al gruppo che con il territorio. La “scuola laboratorio” infatti, non si limita all’insegnamento dell’italiano, essenziale per poter comunicare e conoscere, comprendere il mondo intorno.

“È un percorso di crescita personale e di gruppo. Con il contributo di Sauro Guarnieri, abbiamo introdotto il metodo permaculturale anche per curare le relazioni – prosegue Rachele – questo è importante anche per avere una buona cura degli orti. È importante per noi che i ragazzi accolti in questo percorso non siano solo degli esecutori ma che sia un processo condiviso, in cui le decisioni si prendono insieme. Oltre al lavoro nei campi abbiamo anche approfondito i temi connessi nella scuola laboratorio, facendo approfondimenti scientifici ma anche autobiografici per poter valorizzare le esperienze e le conoscenze di cui i ragazzi erano portatori”.


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La formazione sul campo è avvenuta con i contadini del luogo, un passaggio di saperi e conoscenze, relazioni che continuano a crescere e a preparare il terreno che possa permettere a questi ragazzi di prendere in mano questa piccola impresa totalmente. Già, perché l’obiettivo di questo progetto, piccolo ma di qualità, è permettere la costituzione di una cooperativa agricola autonoma attraverso la quale questi giovani uomini possano prendere in mano il proprio futuro. Intanto, non con difficoltà, l’associazione Le Case, è riuscita a far riconoscere legalmente il loro lavoro, dal 1 maggio hanno un regolare contratto, un passo verso un sogno più grande.

 

 

 

la spietata intolleranza dei comuni di Pisa e Cascina nei confronti di alcune famiglie rom

il grido di disagio di alcune famiglie rom che chiedono di poter mandare i loro bambini a scuola dopo essere cacciati dai loro terreni:

Noi Rom costretti ad essere nomadi

Ora non possiamo stare in pace, neanche dentro i nostri camper.”

Anni fa, abitavamo dentro il campo Rom, ed eravamo censiti nel Progetto “Città Sottili” del comune, poi ci ha chiesto di uscire dal campo e ci siamo sistemati in aree di nostra proprietà. Anche da lì il comune ci ha allontanato, confiscandoci l’area. Ben 4 terreni ci sono stati tolti. Per vivere ci è toccato prendere dei camper. Ma cosa dobbiamo fare?

Siamo circa 12 famiglie, una cinquantina di persone, con trenta minori. Stiamo vivendo nei camper da circa un anno, ma da mesi è una vera “odissea”, costretti a continui spostamenti, da un parcheggio all’altro tra Pisa e Cascina, in seguito ad ordinanze che l’amministrazione di Cascina e Pisa hanno emanato e che vietano l’uso dei camper al di fuori delle aree attrezzate…politicamente con colori diversi (Lega e PD), ma uguali nell’accanirsi con noi. Ordinanze mirate soprattutto a perseguire la presenza di noi Rom che viviamo nei camper, non certo per una nostra scelta, ma in seguito la chiusura dei nostri terreni e senza l’offerta di reali alternative.

Il motivo della confisca dei nostri spazi è perché abbiamo messo la ghiaia su terreni destinati ad uso agricolo, ma se lo abbiamo fatto era solo per rendere la nostra vita più decorosa, soprattutto per i nostri figli, che in tutti questi anni hanno frequentato le scuole, ottenendo tra l’altro i diplomi della elementare e medie e qualcuno frequenta la superiore. Una di queste famiglie ha tre bambini portatori di handicap, tra l’altro frequentavano pure loro la scuola con il sostegno di psicologi. In questi anni abbiamo lottato perché i nostri figli frequentassero la scuola e vorremmo che continuassero a farlo, ma nelle condizioni attuali ci è praticamente impossibile. Non passa giorno che i vigili ci invitano ad allontanarci dal parcheggio in cui siamo e di andare nel parcheggio riservato per i camperisti, a volte anche due o tre volte al giorno. L’assurdo è che noi di giorno, non possiamo usare il camper, perché i vigili ci allontanano e di notte per dormire, andando nelle aree riservate ai camperisti e ci tocca pagare 30 € per 24 ore di permanenza, questo noi non ce lo possiamo permettere. E’ una ordinanza assurda che penalizza solo noi Rom, noi siamo stati costretti dalle Amministrazioni a dover vivere nei camper, non siamo dei turisti occasionali che vengono a visitare la città di Pisa per qualche giorno l’anno.

Noi Rom siamo costretti a vivere come nomadi, è forse questa la strada dell’integrazione che tutti i comuni ci gridano sulle nostre teste ogni giorno? Siamo ritornati a fare la vita di 40 anni fa, esattamente quella dei nostri padri, anzi per loro era molto più facile, perché allora non esistevano queste ordinanze assurde, la gente si spostava liberamente e trovava con facilità un posto dove sostare.

Tanti dei nostri figli sono nati qui a Pisa, cresciuti insieme ai loro compagni sui banchi di scuola, si frequentavano e giocavano insieme, ma dopo il 28 Agosto del 2017 (giorno dell’ultima ordinanza anti accampamento e bivacco del comune di Pisa, la precedente era del giugno 2016), per loro non è più possibile, questa legge ci punisce troppo e non possiamo soddisfare il loro desiderio di frequentare i loro compagni di scuola. Tutto questo che ci sta capitando non è per una nostra scelta! In questi anni sono state tante le promesse che i servizi Sociali ci hanno fatto, ma il risultato è sotto gli occhi di tutti, cioè niente e tante parole al vento: come ora sono le nostre vite, siamo ritornati ad essere come nomadi al vento!

La nostra richiesta.

Noi non chiediamo e non vogliamo la casa, anche perché sappiamo che tanti italiani la stanno aspettando da anni e ne hanno più bisogno di noi, quello che chiediamo è che l’Amministrazione di Pisa ci dia la possibilità di stare nel nostro territorio, anche per far studiare i nostri bambini. Ci indichi un’area di sosta temporanea, per la durata dell’anno scolastico, dove stare anche con i camper senza dover pagare cifre troppo alte. Siamo sempre disposti a parlare con l’assessore del sociale, dott.ssa Capuzzi (finora non ha mai accettato un incontro con noi), perché con il dialogo e la mediazione è possibile risolvere tanti problemi, se c’è la volontà di capire e aiutarsi da entrambe le parti.

22 Settembre 2017

(da un parcheggio pubblico di Pisa)

Fam.Seferovic

Fam. Halilovic

Fam. Ahmetovic

solo l’inclusione sociale riuscirà a sconfiggere l’Isis

Bauman

che errore sovrapporre
il terrorismo all’immigrazione

lo studioso e filosofo polacco spiega che le prime armi dell’Occidente per sconfiggere Isis sono inclusione sociale e integrazione

«Solo la società nel suo insieme può farlo»

di Maria Serena Natale

Professor Bauman, nel dibattito europeo terrorismo e immigrazione si sovrappongono in una distorsione ottica che fa il gioco dei populisti e ostacola la percezione dei profughi come «vittime». Un meccanismo che sposta il discorso sul piano della sicurezza e legittima i governi a sbarrare le porte, come ha annunciato Varsavia subito dopo gli attentati di Bruxelles. Quali sono i rischi di questa operazione?

«Identificare il “problema immigrazione” con quello della sicurezza nazionale e personale, subordinando il primo al secondo e infine fondendoli nella prassi come nel linguaggio, significa aiutare i terroristi a raggiungere i loro obiettivi. Prima di tutto, secondo la logica della profezia che si auto-avvera, infiammare sentimenti anti-islamici in Europa, facendo sì che siano gli stessi europei a convincere i giovani musulmani dell’esistenza di una distanza insormontabile tra loro. Questo rende molto più facile convogliare i conflitti connaturati alle relazioni sociali nell’idea di una guerra santa tra due modi di vivere inconciliabili, tra la sola vera fede e un insieme di false credenze. In Francia, per esempio, malgrado non siano più di un migliaio i giovani musulmani sospettati di legami con il terrorismo, per l’opinione pubblica tutti i musulmani, e in particolare i giovani, sono “complici”, colpevoli ancor prima che il crimine sia stato commesso. Così una comunità diventa la comoda valvola di sfogo per il risentimento della società, a prescindere dai valori dei singoli, da quanto impegno e onestà questi mettano in gioco per diventare cittadini».

Mantenere una connessione vitale tra «società ospite» e immigrati è sempre più difficile in questo clima di sospetto reciproco. In Paesi che si scoprono inermi, come oggi il Belgio, è saltato il patto sociale sul quale si fondava la speranza dell’integrazione? 

«Dal punto di vista dei terroristi, quanto peggiori sono le condizioni dei giovani musulmani nelle nostre società, tanto più forti sono le possibilità di reclutamento. Se cade del tutto la prospettiva di una comunicazione trans-culturale e di un’interazione autentica tra etnie e religioni, si riduce al minimo anche la possibilità di un incontro diretto, del “faccia a faccia” con l’altro, di una reciproca comprensione. A questo si aggiunge la stigmatizzazione di interi gruppi in base a caratteristiche ritenute non sradicabili che li rendono diversi da “noi, i normali”. Ne consegue l’alienazione forzata di persone marchiate come anomale, bandite dal consesso al quale, apertamente o nella profondità dei loro cuori, vorrebbero aderire ma dal quale sono state ostracizzate senza diritto al ritorno, dopo essere state per di più costrette ad accettare il comune verdetto sulla loro inferiorità. Come se fossero loro a non aver saputo raggiungere lo standard richiesto per entrare nel club. Chi viene così stigmatizzato subisce un doloroso colpo al rispetto di sé, che porta senso di colpa e umiliazione. Lo stigma può essere anche percepito come un oltraggio immeritato, che richiede e giustifica una vendetta tanto forte da ribaltare il giudizio della società e re-impossessarsi del rispetto rubato».

Come ristabilire il contatto con questa parte della comunità, cosa può fare la politica?

«I governi non hanno interesse a placare le paure dei cittadini, piuttosto alimentano l’ansia che deriva dall’incertezza del futuro spostando la fonte d’angoscia dai problemi che non sanno risolvere a quelli con soluzioni più “mediatiche”. Nel primo genere rientrano elementi cruciali della condizione umana come lavoro dignitoso e stabilità della posizione sociale. Nel secondo, la lotta al terrore. Non c’è dubbio sul ruolo che la comunità musulmana deve giocare per combattere la radicalizzazione, dobbiamo comprendere però che solo la società nel suo insieme può sradicare la minaccia comune. Le prime armi dell’Occidente nella lotta contro il terrorismo sono inclusione sociale e integrazione».

la vera integrazione è ‘annusare’ e ‘lasciarsi annusare’

immigrati

integrazione cosa è?

migranti

c’è un solo modo per far comprendere all’altro che non ho troppa paura di lui: andargli incontro, parlargli, annusarlo (con tutto rispetto per gli animali) e lasciarsi annusare. Avvicinarsi a lui, ma consentire anche a lui di avvicinarsi a noi, perché possa farci sentire la sua paura e la sua rabbia. La rabbia e l’invidia che inevitabilmente gli provengono dal vederci vivere in un mondo di pace, magari con agio e in un’indubbia posizione di superiorità. È bene non dimenticare che se loro sono ‘stranieri’ per noi, anche noi siamo ‘stranieri’ per loro…

 

Che il linguaggio moderno si avvii progressivamente verso la sintesi e rifugga dall’analisi è realtà anche troppo nota. Ma che cosa questo produca è un po’ meno noto. Un processo conoscitivo ‘analitico’ conduce a differenziare i termini di un problema, a coglierne i significati in profondità fino alle aree inconsce della mente. Un processo conoscitivo ‘sintetico’ accelera sicuramente la ‘presa’ sulla situazione, ma ne ostacola l’approfondimento e quindi ne compromette sia la diagnosi che la cura. Invale il binomio immigrazione/integrazione sino a stabilirli come termini pressoché equivalenti.

un problema secolare

In realtà l’immigrazione è fenomeno che appartiene a una realtà secolare e ora più che mai attuale, mentre l’integrazione è una categoria che appartiene al sociale e all’emotivo, più attuale che mai: basti questa considerazione per comprendere che ci troviamo su livelli molto distanti fra loro. Tuttavia il pensiero ‘sintetico’ li unifica, li semplifica, vorrei dire li banalizza. Questo conduce a non vedere le differenze sostanziali fra queste due realtà per cui, di fronte a un fenomeno di così vasta portata e complessità, subentrano confusione e sensazione di impotenza. Non è difficile comprendere che di qui a considerazioni massimaliste e dicotomiche il passo è breve. Ne discende la formazione dei due partiti: i favorevoli e i contrari. Ovvero chi apre indiscriminatamente le frontiere a chiunque, chi eleva muri e fili spinati. Se è vero che la realtà integrazione è strettamente interconnessa con la realtà immigrazione, allora sarà bene partire dal dato fondante di base, «integrazione», che costituisce il tessuto emotivo-sociale sul quale si poggia il dato fenomenico esterno, «immigrazione». Ma allora occorre un discernimento chiaro fra le due realtà e soprattutto una conoscenza reale, analitica di «integrazione». Quando avrò capito che cosa significa «integrazione» (diagnosi), solo allora sarò in grado di comprendere in quale misura e con quali strumenti (cura) potrò affrontare l’«immigrazione». Le posizioni non saranno più del ‘favorevole’ o del ‘contrario’, ma del ‘possibile’ o del ‘non possibile’. Mi pare facile vedere che questa è la via per ridurre posizioni partitiche o, ancor più, conflittuali, che logorano, usurpano energie e soprattutto difficilmente aiutano a risolvere. Allora: che cosa significa integrazione? Di che cosa è fatta? Che cosa si vuole integrare? Perché si presenta così difficile da realizzare?

che cosa significa?

L’integrazione, nella relazione umana, significa in primis avvicinare e ritrovare una nuova modalità di essere del razionale con l’irrazionale. Quando due creature iniziano un processo di condivisione, più o meno estesa, il primo problema che si pone è l’accostamento del loro reciproco cognitivo e dei loro reciproci comportamenti (il razionale). E appresso si presenta la difficoltà di far convivere il reciproco emotivo, affettivo, pulsionale (l’irrazionale). La vita di ogni persona si intesse ogni giorno di questa combinazione interna. Impresa non facile, per ognuno di noi. Per la realtà che stiamo osservando, si tratta di trovare una convivenza che dall’individuo si estende al gruppo e alle istituzioni. Impresa ancor più ardua. Andiamo oltre: integrazione del noto, del conosciuto con l’ignoto, con lo sconosciuto. Se già è sconosciuto il vicino di casa, ancor più è facile pensare che lo sia il vicino di continente. L’irrazionale fa paura, l’ignoto fa paura. Se il sentimento della paura è il più diffuso nel mondo umano e animale, possiamo ben comprendere che ogni movimento di integrazione smuove, inizialmente a livelli subliminali, questo scomodo stato di essere con il quale, è molto importante saperlo, occorre fare i conti. Senza arretrare, ma anche senza atteggiamenti di non curanza e men che mai di sfida.

di che cosa è fatta?

Sembra assurdo dirlo, ma prima di tutto di separazione. Si possono integrare parti ben distinte e separate fra loro. Pena la confusione e, per conseguenza inevitabile, il conflitto. Questo modo di procedere è il più disatteso, perché la diversità fa paura. E torniamo al punto di prima. Niente più allontana che il vedere il diverso come uguale. Non potrò mai capirlo, né aiutarlo, perché non vedo in che cosa lui si distingue da me e in che cosa io mi distinguo da lui. Nel tentativo di vederlo, illusoriamente, speculare a me stesso.

che cosa si vuole integrare?

Nel 1967 Christiaan Barnard tentò il primo trapianto di cuore: il paziente morì diciotto giorni dopo. Il chirurgo non aveva tenuto sufficientemente conto dell’azione di rigetto. Ci vollero otto anni di studi per arrivare al nuovo, riuscito trapianto. Accostare un ‘sistema’ umano a un altro ‘sistema’ umano, per di più non solo individuale, ma sociale e istituzionale, è operazione ancor più complessa che inserire un organo in un corpo. In un processo di integrazione, per il fenomeno che stiamo studiando, si vogliono integrare: – modalità di ‘sentire’ emozioni e affetti, che possono essere profondamente diversi da cultura a cultura; – modalità di gestire le pulsioni di base (sessualità e aggressività), che trovano espressioni talora antitetiche; – sistemi valoriali, sia civili che religiosi, che provengono da storie talora millenarie molto lontane fra loro temporalmente e geograficamente e che possono essersi anche combattuti; – sistemi abitativi: la capanna, la baracca, il condominio, il grattacielo.

perché è così difficile?

E qui veniamo al grande capitolo delle resistenze. Un percorso psicoterapeutico, chiunque lo sa, è un processo di cambiamento. Quando un paziente si presenta a me per la prima volta, esaurita la doverosa parte psicodiagnostica, il primo aspetto cui presto attenzione è la resistenza che questa persona opporrà al nostro lavoro. Si pensa che questo non dovrebbe esistere, visto che la persona sta male e desidera stare bene. Il fatto è che cambiare significa allontanarsi da un terreno di sofferenza, ma conosciuto e relativamente sicuro, per avviarsi verso un mondo non conosciuto e non ancora sperimentato come sicuro. Se ben si pensa, non è strano che al desiderio di cambiamento si opponga, ancora una volta, la paura. A chi spetta il compito di affrontarla e trattarla? In psicoterapia ovviamente al terapeuta: il paziente lo spia a ogni istante per vedere se e come la affronta. Perché così potrà fare anche lui.

e nei fenomeni migratori?

Ovviamente questo compito appartiene, prima di tutti, a chi ospita. E il comportamento dei Paesi europei, in quest’ultimo paio d’anni, ci ha mostrato con molta chiarezza chi è capace di trattare questo scomodo sentimento, chi si è aperto e chi si è chiuso. E c’è un solo modo per far comprendere all’altro che non ho troppa paura di lui: andargli incontro, parlargli, annusarlo (con tutto rispetto per gli animali) e lasciarsi annusare. Avvicinarsi a lui, ma consentire anche a lui di avvicinarsi a noi, perché possa farci sentire la sua paura e la sua rabbia. La rabbia e l’invidia che inevitabilmente gli provengono dal vederci vivere in un mondo di pace, magari con agio e in un’indubbia posizione di superiorità. È bene non dimenticare che se loro sono ‘stranieri’ per noi, anche noi siamo ‘stranieri’ per loro… Dove si vede che la testa è di scarso aiuto, mentre le emozioni possono contribuire a farci comprendere la realtà dei fatti assai più che tanti ragionamenti. E l’altro, il migrante, il rifugiato politico, lo ‘straniero’, se si realizzano queste condizioni, impiegherà poco tempo a ‘sentire’, perché l’apparato emozionale è universale e, tanto meno sarà acculturato, tanto più i suoi sensori emotivi, non ostacolati dalle infrastrutture intellettive, gli permetteranno di capire se il terreno su cui si sta poggiando è sicuro o infido.

qualche esempio

A Gioiosa Jonica, in provincia di Reggio Calabria, sono stati avviati quindici tirocini formativi presso aziende private (imprese artigiane, vivai, pizzerie…) per imparare mestieri fruibili in aree che non risentano in modo importante della crisi dell’occupazione. In Alto Adige, in occasioni di festeggiamenti locali, uomini e donne di colore sono stati invitati a preparare cibi dei loro paesi, serviti contemporaneamente ai piatti altoatesini. In provincia di Verona, a Buttapietra, il Sindaco ha organizzato tornei giovanili di calcio per ragazzi del Comune e giovani del Ghana, della Costa d’Avorio, della Nigeria. Gli stessi ragazzi, il sabato, si ritrovano per pulire le strade del paese e curare il verde cittadino. Di singolare interesse l’iniziativa di una Scuola di Treviso dove una maestra in pensione insegna a cinesi, magrebini, albanesi il dialetto locale. Intervistata ha detto: «Va bene insegnare l’italiano, ma qui quasi tutti i ragazzi, in Parrocchia e al bar, parlano in dialetto… Prima che la lingua, a questi ragazzi che arrivano dall’Africa o dal Medio Oriente, bisogna insegnare il nostro linguaggio, perché possano capirci».

Piero Ferrero

una ‘integrazione’ dei rom solo promessa

Rom, l’integrazione è in salita

Ilaria Sesana
Non è cambiato nulla, l’Italia resta il paese dei campi rom. A oltre 30 mesi dall’avvio della Strategia nazionale per l’inclusione dei rom presentata dal governo alla Commissione europea «permane un approccio emergenziale, continuano gli sgomberi e va avanti la politica dei campi». La denuncia proviene dall’Associazione 21 luglio che ieri, a Milano, ha presentato il rapporto “La tela di Penelope”, monitoraggio della società civile sull’inclusione dei rom. Tema attualissimo. Pochi giorni fa a Borgaro, cintura torinese, gli atti di teppismo sul bus dei ragazzi del grande campo dell’Aeroporto hanno spinto il sindaco del Pd a chiedere all’azienda trasporti un autobus solo per loro, suscitando polemiche.

All’indomani dell’approvazione, il 24 febbraio 2012, la Strategia era stata accolta positivamente da diversi attori della società civile perché segnava un’importante discontinuità rispetto al passato. In primo luogo, si esprimeva per il superamento della prospettiva emergenziale, dell’approccio assistenzialista, e della soluzione dei “campi nomadi”, e si proponeva di promuovere la partecipazione. Ma il bilancio tratteggiato dalla “21 luglio” presenta molte ombre. «La Strategia – spiega il presidente Carlo Stasolla – si percepisce come una meta irraggiungibile, simile alla tela di Penelope: nei propositi mattutini si cuce, nelle azioni concrete si disfa».

A parole si prospetta la fine dei campi, nella pratica «sono stati costruiti, progettati o sono in fase di realizzazione 20 nuovi campi rom in tutta Italia», sottolinea Stasolla. Tra questi il progetto approvato il 15 maggio scorso dal Comune di Napoli a Scampia, da finanziare con 7 milioni di euro. In base al rapporto, la situazione segregante degli insediamenti formali e informali riguarda circa 40mila rom e sinti ed essa «continua a caratterizzare la geografia di molte aree urbane».

A Milano i campi autorizzati sono passati da sette a cinque (chiuso via Novara, in via di chiusura quello di via Martirano) mentre una quindicina di accampamenti abusivi sono stati sgomberati in città e aree limitrofe. «Aree e campi che esistevano da molto tempo, sono stati chiusi e non più occupati – sottolinea l’assessore alla sicurezza, Marco Granelli – e a tutti gli occupanti offriamo la possibilità di avviare un percorso all’interno dei due centri di emergenza sociale, senza separare le famiglie». Nelle strutture di via Lombroso e via Barzaghi i rom hanno la possibilità di restare sei mesi: gli adulti seguono un percorso di integrazione, i bambini vanno a scuola. «In questi due anni abbiamo accolto 733 persone, circa 500 sono usciti – spiega Granelli – e, di questi, 225 hanno iniziato percorsi di integrazione mentre gli altri, purtroppo, hanno avuto esiti negativi».

Il rapporto evidenzia come sia continuato l’approccio emergenziale al fenomeno: malgrado le promesse, gli sgomberi non si sono mai fermati e restano i megacampi. A Roma, sotto la giunta di Ignazio Marino, ci sono stati ben 37 sgomberi, con un costo medio di 1.250 euro a persona. Mentre per la gestione degli 11 insediamenti capitolini si sono spesi 24 milioni di euro nel 2013. «Programmi e attività – si legge nel rapporto – registrano un ritardo generalizzato e l’assenza di indicazioni per la traduzione in chiave operativa degli indirizzi della Strategia». Altro elemento critico: la partecipazione dei rom risulta solo formale a livello nazionale ed è scarsa a livello locale.

Le conclusioni avanzano diverse richieste al premier Matteo Renzi. Su tutte il riconoscimento dei rom come minoranza nazionale, la promozione di politiche abitative non discriminatorie per superare i grandi campi monoetnici delle periferie. «È urgente affrontare questa tematica – sottolinea don Virginio Colmegna, presidente della Casa della Carità – la situazione è sempre più difficile e bisogna agire presto per evitare che i rom diventino capro espiatorio di tanti problemi».

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