immigrati
integrazione cosa è?
c’è un solo modo per far comprendere all’altro che non ho troppa paura di lui: andargli incontro, parlargli, annusarlo (con tutto rispetto per gli animali) e lasciarsi annusare. Avvicinarsi a lui, ma consentire anche a lui di avvicinarsi a noi, perché possa farci sentire la sua paura e la sua rabbia. La rabbia e l’invidia che inevitabilmente gli provengono dal vederci vivere in un mondo di pace, magari con agio e in un’indubbia posizione di superiorità. È bene non dimenticare che se loro sono ‘stranieri’ per noi, anche noi siamo ‘stranieri’ per loro…
Che il linguaggio moderno si avvii progressivamente verso la sintesi e rifugga dall’analisi è realtà anche troppo nota. Ma che cosa questo produca è un po’ meno noto. Un processo conoscitivo ‘analitico’ conduce a differenziare i termini di un problema, a coglierne i significati in profondità fino alle aree inconsce della mente. Un processo conoscitivo ‘sintetico’ accelera sicuramente la ‘presa’ sulla situazione, ma ne ostacola l’approfondimento e quindi ne compromette sia la diagnosi che la cura. Invale il binomio immigrazione/integrazione sino a stabilirli come termini pressoché equivalenti.
un problema secolare
In realtà l’immigrazione è fenomeno che appartiene a una realtà secolare e ora più che mai attuale, mentre l’integrazione è una categoria che appartiene al sociale e all’emotivo, più attuale che mai: basti questa considerazione per comprendere che ci troviamo su livelli molto distanti fra loro. Tuttavia il pensiero ‘sintetico’ li unifica, li semplifica, vorrei dire li banalizza. Questo conduce a non vedere le differenze sostanziali fra queste due realtà per cui, di fronte a un fenomeno di così vasta portata e complessità, subentrano confusione e sensazione di impotenza. Non è difficile comprendere che di qui a considerazioni massimaliste e dicotomiche il passo è breve. Ne discende la formazione dei due partiti: i favorevoli e i contrari. Ovvero chi apre indiscriminatamente le frontiere a chiunque, chi eleva muri e fili spinati. Se è vero che la realtà integrazione è strettamente interconnessa con la realtà immigrazione, allora sarà bene partire dal dato fondante di base, «integrazione», che costituisce il tessuto emotivo-sociale sul quale si poggia il dato fenomenico esterno, «immigrazione». Ma allora occorre un discernimento chiaro fra le due realtà e soprattutto una conoscenza reale, analitica di «integrazione». Quando avrò capito che cosa significa «integrazione» (diagnosi), solo allora sarò in grado di comprendere in quale misura e con quali strumenti (cura) potrò affrontare l’«immigrazione». Le posizioni non saranno più del ‘favorevole’ o del ‘contrario’, ma del ‘possibile’ o del ‘non possibile’. Mi pare facile vedere che questa è la via per ridurre posizioni partitiche o, ancor più, conflittuali, che logorano, usurpano energie e soprattutto difficilmente aiutano a risolvere. Allora: che cosa significa integrazione? Di che cosa è fatta? Che cosa si vuole integrare? Perché si presenta così difficile da realizzare?
che cosa significa?
L’integrazione, nella relazione umana, significa in primis avvicinare e ritrovare una nuova modalità di essere del razionale con l’irrazionale. Quando due creature iniziano un processo di condivisione, più o meno estesa, il primo problema che si pone è l’accostamento del loro reciproco cognitivo e dei loro reciproci comportamenti (il razionale). E appresso si presenta la difficoltà di far convivere il reciproco emotivo, affettivo, pulsionale (l’irrazionale). La vita di ogni persona si intesse ogni giorno di questa combinazione interna. Impresa non facile, per ognuno di noi. Per la realtà che stiamo osservando, si tratta di trovare una convivenza che dall’individuo si estende al gruppo e alle istituzioni. Impresa ancor più ardua. Andiamo oltre: integrazione del noto, del conosciuto con l’ignoto, con lo sconosciuto. Se già è sconosciuto il vicino di casa, ancor più è facile pensare che lo sia il vicino di continente. L’irrazionale fa paura, l’ignoto fa paura. Se il sentimento della paura è il più diffuso nel mondo umano e animale, possiamo ben comprendere che ogni movimento di integrazione smuove, inizialmente a livelli subliminali, questo scomodo stato di essere con il quale, è molto importante saperlo, occorre fare i conti. Senza arretrare, ma anche senza atteggiamenti di non curanza e men che mai di sfida.
di che cosa è fatta?
Sembra assurdo dirlo, ma prima di tutto di separazione. Si possono integrare parti ben distinte e separate fra loro. Pena la confusione e, per conseguenza inevitabile, il conflitto. Questo modo di procedere è il più disatteso, perché la diversità fa paura. E torniamo al punto di prima. Niente più allontana che il vedere il diverso come uguale. Non potrò mai capirlo, né aiutarlo, perché non vedo in che cosa lui si distingue da me e in che cosa io mi distinguo da lui. Nel tentativo di vederlo, illusoriamente, speculare a me stesso.
che cosa si vuole integrare?
Nel 1967 Christiaan Barnard tentò il primo trapianto di cuore: il paziente morì diciotto giorni dopo. Il chirurgo non aveva tenuto sufficientemente conto dell’azione di rigetto. Ci vollero otto anni di studi per arrivare al nuovo, riuscito trapianto. Accostare un ‘sistema’ umano a un altro ‘sistema’ umano, per di più non solo individuale, ma sociale e istituzionale, è operazione ancor più complessa che inserire un organo in un corpo. In un processo di integrazione, per il fenomeno che stiamo studiando, si vogliono integrare: – modalità di ‘sentire’ emozioni e affetti, che possono essere profondamente diversi da cultura a cultura; – modalità di gestire le pulsioni di base (sessualità e aggressività), che trovano espressioni talora antitetiche; – sistemi valoriali, sia civili che religiosi, che provengono da storie talora millenarie molto lontane fra loro temporalmente e geograficamente e che possono essersi anche combattuti; – sistemi abitativi: la capanna, la baracca, il condominio, il grattacielo.
perché è così difficile?
E qui veniamo al grande capitolo delle resistenze. Un percorso psicoterapeutico, chiunque lo sa, è un processo di cambiamento. Quando un paziente si presenta a me per la prima volta, esaurita la doverosa parte psicodiagnostica, il primo aspetto cui presto attenzione è la resistenza che questa persona opporrà al nostro lavoro. Si pensa che questo non dovrebbe esistere, visto che la persona sta male e desidera stare bene. Il fatto è che cambiare significa allontanarsi da un terreno di sofferenza, ma conosciuto e relativamente sicuro, per avviarsi verso un mondo non conosciuto e non ancora sperimentato come sicuro. Se ben si pensa, non è strano che al desiderio di cambiamento si opponga, ancora una volta, la paura. A chi spetta il compito di affrontarla e trattarla? In psicoterapia ovviamente al terapeuta: il paziente lo spia a ogni istante per vedere se e come la affronta. Perché così potrà fare anche lui.
e nei fenomeni migratori?
Ovviamente questo compito appartiene, prima di tutti, a chi ospita. E il comportamento dei Paesi europei, in quest’ultimo paio d’anni, ci ha mostrato con molta chiarezza chi è capace di trattare questo scomodo sentimento, chi si è aperto e chi si è chiuso. E c’è un solo modo per far comprendere all’altro che non ho troppa paura di lui: andargli incontro, parlargli, annusarlo (con tutto rispetto per gli animali) e lasciarsi annusare. Avvicinarsi a lui, ma consentire anche a lui di avvicinarsi a noi, perché possa farci sentire la sua paura e la sua rabbia. La rabbia e l’invidia che inevitabilmente gli provengono dal vederci vivere in un mondo di pace, magari con agio e in un’indubbia posizione di superiorità. È bene non dimenticare che se loro sono ‘stranieri’ per noi, anche noi siamo ‘stranieri’ per loro… Dove si vede che la testa è di scarso aiuto, mentre le emozioni possono contribuire a farci comprendere la realtà dei fatti assai più che tanti ragionamenti. E l’altro, il migrante, il rifugiato politico, lo ‘straniero’, se si realizzano queste condizioni, impiegherà poco tempo a ‘sentire’, perché l’apparato emozionale è universale e, tanto meno sarà acculturato, tanto più i suoi sensori emotivi, non ostacolati dalle infrastrutture intellettive, gli permetteranno di capire se il terreno su cui si sta poggiando è sicuro o infido.
qualche esempio
A Gioiosa Jonica, in provincia di Reggio Calabria, sono stati avviati quindici tirocini formativi presso aziende private (imprese artigiane, vivai, pizzerie…) per imparare mestieri fruibili in aree che non risentano in modo importante della crisi dell’occupazione. In Alto Adige, in occasioni di festeggiamenti locali, uomini e donne di colore sono stati invitati a preparare cibi dei loro paesi, serviti contemporaneamente ai piatti altoatesini. In provincia di Verona, a Buttapietra, il Sindaco ha organizzato tornei giovanili di calcio per ragazzi del Comune e giovani del Ghana, della Costa d’Avorio, della Nigeria. Gli stessi ragazzi, il sabato, si ritrovano per pulire le strade del paese e curare il verde cittadino. Di singolare interesse l’iniziativa di una Scuola di Treviso dove una maestra in pensione insegna a cinesi, magrebini, albanesi il dialetto locale. Intervistata ha detto: «Va bene insegnare l’italiano, ma qui quasi tutti i ragazzi, in Parrocchia e al bar, parlano in dialetto… Prima che la lingua, a questi ragazzi che arrivano dall’Africa o dal Medio Oriente, bisogna insegnare il nostro linguaggio, perché possano capirci».
Piero Ferrero