basta limitarsi a contare i morti!
A COLLOQUIO CON L’ARCIVESCOVO DI AGRIGENTO, IL CARD. FRANCESCO MONTENEGRO
“Non posso continuare a contare i morti”
Giovanni Ruggeri
Un ordine mondiale ingiusto ha saputo produrre oltre 200 milioni di esseri umani in fuga. I poveri si sono stancati di essere poveri. Quanto all’immigrazione, è il perdurare di una mentalità colonialista che sta alla base delle inadempienze dell’Europa. L’isola di Lampedusa e i suoi abitanti sono un pezzo di un mondo nuovo. Una Chiesa che guarda avanti.
Tra il gravoso assillo dell’emergenza e l’inderogabile necessità di governare un fenomeno strutturale, il tema dell’immigrazione si va imponendo agli organi di governo nazionali e internazionali con un’urgenza prima d’ora sconosciuta. Fronti di impatto locale e implicazioni di portata sovranazionale premono su un’Unione Europea finora latitante, urgendo più adeguate soluzioni – tra l’altro – nella gestione dei richiedenti asilo provenienti da paesi extraeuropei: obiettivo è la modifica delle disposizioni previste dal regolamento Dublino III, al fine di estendere oltre il paese d’arrivo il riconoscimento dello statuto di rifugiato e ridistribuire sull’intero territorio europeo quanti sbarcano sulle coste italiane (o arrivano per altre vie in Germania e Svezia, i tre paesi con la maggior concentrazione di rifugiati). Solo ultimamente, grazie all’impegno del presidente della Commissione europea J.C. Juncker e dell’Alto rappresentante della politica estera europea Federica Mogherini, si è arrivati ad approvare l’Agenda Immigrazione 2015-2020, che introduce la distribuzione obbligatoria dei profughi fra gli stati membri dell’UE, anche se taluni si mostrano riluttanti. Così, un peso e una responsabilità che finora sono stati quasi esclusivamente italiani, dovrebbero diventare europei.
Sui nodi di fondo e sulle prospettive più urgenti di questi temi si concentra l’intervista con il card. Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento – diocesi cui appartiene Lampedusa –, presidente della Commissione CEI per le migrazioni e membro del Pontificio consiglio per la pastorale dei migranti.
Eminenza, il fenomeno migratorio sta urlando quel che si è sempre saputo: il 20% del pianeta vive con l’80% delle risorse, lasciando il residuo 20% ad un 80% sempre più affamato. Nessun facile moralismo è però consentito, poiché l’intero sistema economico mondiale si regge su tale discrepanza, secondo alcuni tecnicamente non riformabile. Dobbiamo aspettarci una conflagrazione mondiale entro dieci-venti anni o è invece ipotizzabile una riforma globale?
Il fatto stesso che alcuni popoli si stiano spostando ci dice che il mondo sta cambiando: i poveri si sono stancati di essere poveri, di essere trattati da poveri e che si voglia che rimangano poveri. Vogliono riscattarsi, e questo tanto più se si considera che molte delle nazioni dalle quali partono sono quelle che ci assicurano tutte quelle materie prime (sopra o sotto terra) grazie alle quali esiste per noi il progresso ma per loro – che ne sono esclusi – il regresso. Io non ritengo possibile la fine di questo esodo: pare che nel mondo ci siano 230-250 milioni di emigranti, da qualcuno denominati «il sesto continente».
Le migrazioni non sono il male, bensì il segnale di un male più profondo: noi ci stiamo spaventando per il loro accadere, eppure avremmo dovuto esservi preparati, perché già dagli anni 50 si prevedeva un esodo di proporzioni bibliche, cui nessuno ha però voluto prestare attenzione.
Quale futuro ci si prospetta? Non possiamo affidarlo al destino: il futuro lo costruiamo noi, ma, se continuiamo a fare come lo struzzo, fingendo di non vedere, di sicuro andiamo verso il peggio. Se, invece, prendiamo coscienza delle grandi ingiustizie esistenti, se ci rendiamo conto che la nostra è solo una civiltà tra le altre e che l’incontro tra i popoli è una necessità, allora possiamo tentare di governare – insieme a questi popoli – un tale esodo, senza esserne travolti.
Al netto di ogni lodevole proposito, lei si rende conto che immaginare una riforma globale, specie del Nord del mondo, implica una rivoluzione sul piano dei sistemi di produzione, delle strutture economiche, del governo delle società e degli stili di vita?
Certo! Dovremmo abbandonare la mentalità da colonizzatori e smetterla di sfruttare questa gente! Una certa rivoluzione noi l’abbiamo già iniziata, ma ci rendiamo conto che non sta portando buoni risultati: parliamo di globalizzazione e del mondo come di un unico grande villaggio, però poi cadiamo in contraddizione perché, dopo aver messo il profitto al primo posto, stabiliamo che merci e denaro possiamo spostarli, in quanto rendono, mentre le persone debbono assolutamente rimanere a casa loro. Se il risultato di ciò sono 230 milioni di persone che si spostano, è evidente che tale rivoluzione non sta riuscendo.
Rivoluzione per rivoluzione, tentiamone un’altra: papa Benedetto XVI ha avuto il coraggio, nell’enciclica sociale Caritas in veritate, di inserire la parola gratuità. Per noi l’economia è sommare o sottrarre, non c’è posto per la gratuità: il papa, invece, la inserisce e questo indica che il sistema deve cambiare. È una rivoluzione, ci costerà, ma quel che avviene oggi non ci sta costando caro? È ormai evidente a tutti che l’egoismo è ciò che regna nella nostra Europa, dove la vera preoccupazione non concerne la solidarietà ma il profitto: l’altro è sempre sotto di me, io sempre nella posizione di chi deve guadagnare.
Questo giochetto Abbiamo bisogno di rileggere la storia e le nostre scelte. Si obietterà che, in questo modo, bisogna mettere tutto sottosopra: di fatto, ci troviamo già in un sottosopra che non riusciamo a governare.
Gli organismi di governo sovranazionali e nazionali sono consapevoli, attrezzati e disponibili in ordine a questo cambiamento radicale?
Attrezzati non credo, altrimenti avrebbero tirato fuori gli attrezzi; consapevoli, mi pare strano che possano non esserlo, visto quanto sta accadendo; disponibili, solo se la si smette di calcolare quanto ci si mette in tasca. Qualche tempo fa, il Fondo monetario internazionale ha detto che, nel mondo, ci sono un miliardo e 300 milioni di esuberi, quasi a lasciar intendere che, se tanta gente morisse, ci farebbe un favore. E, mentre l’ONU ha atteso tanto tempo prima di far sentire la sua voce, l’Europa – che si vanta di essere unita – è solo la somma di tanti egoismi messi insieme.
Sono andato sia a Strasburgo che a Bruxelles e mi è stato detto: se si parla di denaro, in qualche modo possiamo intenderci; ma se parliamo di uomini, allora dovremmo pensare in 27 alla stessa maniera, e lei comprende quanto tempo ci vorrà! Per ora stiamo solo contando i morti: ci emozioniamo davanti ai cadaveri, ma continuiamo la nostra storia passando su di loro. Che civiltà è quella in cui conta il più forte?
Dove sta sbagliando l’Europa e cosa è urgente fare?
L’Europa guarda ai poveri che migrano come se fosse un’altra storia, senza voler invece riconoscere che, alle radici di tale storia, ci siamo noi con le nostre colonizzazioni. Molti governi europei sostengono governi di paesi di partenza che non sono né legali né trasparenti: si interviene solo quando c’è qualcosa da guadagnarci (petrolio, diamanti…). L’Europa deve rendersi conto di essere immersa fino al collo nella storia passata e recente di questi popoli, anziché continuare a stare sugli spalti come duemila anni fa al Colosseo, con in campo uomini che combattono per sopravvivere. Occorre chiedersi quale futuro si vuole e che cosa significhino convivenza e solidarietà, perché dichiarazioni e fatti dei nostri giorni stanno causando solo una maggiore frantumazione di quella finta solidità che certe nazioni avevano.
Io non sono un tecnico e non sono in grado di indicare le soluzioni: i tecnici ci sono, hanno le competenze necessarie, che studino! Mio compito è ricordare una realtà che i tecnici non vogliono ma devono guardare, perché io non posso continuare a contare morti!
«Lampedusa è il simbolo della fallimentare politica in tema di immigrazione portata avanti nel nostro paese», ha dichiarato lei tempo fa. Come tradurre questa denuncia in una proposta ai dirigenti politici italiani?
Cerchiamo di comprendere cosa voglia dire accoglienza: ti salvo dal mare, ti metto sulla terraferma, e poi? Passata l’emergenza, viene il momento di riflettere sul “poi”. Certamente l’Italia non può gestire da sola questo flusso: se i confini europei sono unici, bisogna intervenire unitariamente. Ma ci sono errori grossolani che non si possono commettere, come invece ancora accade, ad esempio, con le lungaggini per il riconoscimento dello status di profugo: è ovvio che tutti quei giovani che stanno per mesi e mesi alloggiati in case e alberghi a far nulla, prima o poi si incattiviscono – vogliamo forse creare ad arte la sindrome della paura? E che dire dei ricongiungimenti, del problema dei minori e dei tanti che scompaiono?
«Caritas sine modo: amore senza limiti» è il motto che lei scelse all’inizio del suo episcopato. Dopo tanti anni di lavoro con poveri e migranti, come sente oggi quelle parole?
Ho tratto quel motto da un libro di mons. Tonino Bello – a coloro che la rimproveravano di portare un bambino in simili posti che, facendolo per il Signore, non mi sarebbe accaduto nulla di male.
Sin dai primi anni di sacerdozio, mi sono dovuto interessare di una casa di disabili e, da allora, mi sono sempre ritrovato – in servizio per i poveri, prima alla Caritas e poi ai migranti. Anche recentemente, quando sono stato fatto cardinale, la chiesa che mi è stata consegnata a Roma si trova dove ci sono suore di madre Teresa e monaci: carità e preghiera.
I poveri hanno dato un colpo d’ala al mio sacerdozio e la mia missione di vescovo ho sempre cercato di viverla come un servizio. Quando sono stato fatto cardinale, il papa al telefono mi ha detto: «Ti raccomando: il cardinalato è un servizio e va fatto in povertà». Ecco i miei binari: se volessi uscirne, non saprei proprio cosa fare.
A proposito del papa, la sua visita a Lampedusa, la prima del pontificato, è stata definita – la prima enciclica. Qual è stata l’emozione dominante di quel giorno e che cosa prova lei nel vedere quello che la sua gente fa per i tanti che sbarcano sull’isola?
Del papa mi ha colpito il modo in cui si è avvicinato a Lampedusa: ha detto di essere venuto a piangere i morti, il suo è stato un pellegrinaggio nel santuario dell’uomo, voleva essere dove l’uomo soffre. Io l’ho seguito con gli occhi e le parole che tante volte ha ripetuto quella mattinata erano: «Quanta sofferenza!». A volte sembrava estraniarsi da ciò che c’era attorno, come se fosse su un piano più alto. Mi ha colpito molto il suo sguardo su quella sterminata sofferenza: il papa si è voluto fermare a piangere e a interrogarsi in mezzo a quel mare diventato tomba liquida. Non ho dubbi che quel viaggio ci abbia dato le chiavi del suo pontificato.
Circa la mia gente, Francesco ha detto che a Lampedusa povertà e accoglienza si sono incontrate. Io ho sempre sostenuto che Lampedusa è un pezzo di mondo nuovo, una terra dove c’è gente povera che sa guardare in faccia l’altro povero. In alcuni momenti i lampedusani hanno avuto paura: l’avrei avuta anch’io se in un paese di 5 mila abitanti ti ritrovi 10 mila immigrati (tra l’altro, mi chiedo ancora perché siano stati lasciati sull’isola per così tanto tempo, così come non comprendo perché i mezzi di comunicazione abbiano voluto gonfiare un clima di terrore annunciando sbarchi sull’isola di dimensioni bibliche, che in realtà non ci sono stati).
Qualche volta, parlando con dei biblisti, suggerisco loro di fare una sinossi tra le prime pagine della Bibbia e quanto sta avvenendo a Lampedusa: troveremmo la stessa storia, completata con la venuta di “Mosè” Linguaggio, scelte, orizzonti: papa Francesco sta portando aria nuova nella Chiesa e le persone comuni, anche quelle lontane dalla pratica, lo capiscono e lo apprezzano. Che strade sta segnando per la Chiesa?
La nostra è una fede facile, che non ci costa niente, una specie di contabilità aperta con Dio ’inizio alla fine del Vangelo, senza gli sconti che abitualmente cerchiamo.
Papa Francesco non sta facendo niente di straordinario: ci sta rileggendo il Vangelo, sottolineando alcuni aspetti di cui c’eravamo dimenticati, tanto che ci meravigliamo di quel che ci sta dicendo, mentre avremmo dovuto trovarci nella condizione di dirgli: «Guarda che questo lo stiamo già facendo, dicci altro». Se rimaniamo a bocca aperta davanti alle sue parole, è perché abbiamo letto male il Vangelo. Noi cerchiamo un Dio che conforta, mentre il Signore ha detto che la sua parola è come spada: il nostro Dio ci mette sempre sottosopra.
Papa Francesco sta rimettendo in campo una Chiesa rimasta troppo chiusa: le nostre comunità sono spesso rifugi e talvolta ripostigli, mentre il papa ci dice di metterci per strada. Nella nostra Chiesa, che è una Chiesa di poveri, di fatto i poveri non trovano ancora posto. Le parole del papa valgono per tutti: fedeli, vescovi, cardinali, perché il Vangelo si rivolge a tutti.
Amore di sincerità ci obbliga a riconoscere che, al di là di reverenziali ossequi di facciata, vi sono ambienti ecclesiali dove lo “stile Francesco” è accolto con scarsa simpatia, e anche ad alto livello non mancano serie resistenze. Quali sono a suo parere le radici culturali e spirituali di tali divergenze?
Il papa ci sta proponendo il Vangelo e il Vangelo è una proposta di rischio. Fino ad oggi, noi ci siamo preoccupati di conservare quello che avevamo e ora troviamo le nostre chiese chiuse: abbiamo contato le nostre comunità a partire dai praticanti anziché dai credenti.
C’è, però, un modo diverso di vivere Chiesa e Vangelo: se la mia preoccupazione è salvare il passato senza guardare avanti, finirò per sbattere contro i pali che si trovano per strada, poiché così accade a chi guida guardando indietro.
Noi abbiamo paura di correre il rischio di lasciare la pecorella rimasta nell’ovile e cercare le novantanove che ne sono uscite, mentre il papa ci dice di guardare avanti, ci chiede di accelerare. La vita del mondo corre veloce, mentre noi procediamo ancora con il freno a mano tirato. Il Vangelo è parola che inquieta e provoca al cambiamento.